a cura di Cornelio Galas
“Sordo (Carlin Tàparo) Remigio fu Pietro e Maria Moranduzzo, coniugato con Sordo (Vena) Marianna. Fu ucciso sulla via Gambaron sotto l’Ospedale mentre si recava al maso. Una pallottola lo colpì al fianco destro e gli uscì dalla spalla sinistra vicino al collo. Morì all’istante. Ricevette subito l’Estrema Unzione sub conditione dall’arciprete sac. Cristofolini Silvio. Fu sepolto a S. Polo il 13 agosto 1944 alle ore 16. La constatazione di morte effettuata dal dott. Mario Tommasini” (Archivio parrocchiale di Castello Tesino. Registro “Morti XI, 1935 – 1955”, 12 agosto 1944).
Remigio Sordo (nato nel 1877) si recava a tagliare il “cordo”, secondo taglio dell’erba, assieme al figlio Severino. Il luccichio della falce in spalla al contadino fu scambiato per un pericoloso fucile da una pattuglia di tedeschi che sostava in piazza Molizza davanti alla caserma del Cst. Intimarono l’alt, ma Remigio non sentì o pensò di non essere il destinatario di quell’ordine e proseguì per la sua strada.
I tedeschi fecero fuoco. Il figlio si salvò buttandosi a terra dietro un muretto. Da notare che l’anziano contadino era a un tiro di fionda dai tedeschi, i quali videro sicuramente che in spalla non aveva un fucile, altrimenti avrebbero sparato senza avvertimento alcuno. E’ impensabile poi che una persona girasse a quel tempo in pieno giorno con un fucile in spalla.
Remigio fu il primo caduto civile di Castello Tesino. Questo prima che la compagnia “Gherlenda” si insediasse a Costabrunella e quindi senza che ci fossero state “provocazioni”. Non risulta che il Commissario Prefetto de Bertolini abbia richiesto intervento alcuno contro i responsabili.
Più efferato fu l’assassinio di Luciano Montibeller di Roncegno, trovato morto il 16 ottobre 1944 in un campo di granoturco, in località Agnedo, allora facente parte del comune di Strigno. Il ragazzo era un minorano ventunenne ed era stato affidato dalla madre alla “Piccola Casa della Divina Provvidenza” di don Giuseppe Cottolengo a Torino. Quando iniziarono i primi bombardamenti sulla città fu restituito alla famiglia.
Secondo la testimonianza di Riccardo Montibeller, in paese c’era chi, a volte, gli offriva da bere nei vari locali per poi divertirsi ai suo gesti. Vitaliano Modena scrive che fu ucciso da un colpo d’arma da fuoco, mentre i Carabinieri di Borgo Valsugana. Nella loro relazione a de Bertolini, parlano di due colpi.
“Luciano Montibeller del maso Postai (soprannominato Martorelo), un giovane minorato di ventuno anni, dalle campagne poste in località Casòti dei Cùveli, si mise a urlare invettive contro i tedeschi. Quando stava facendosi notte, ai Cadenzi si videreo passare a passo svelto militari tedeschi, diretti sul colle sovrastante.
Altri, si seppe poi, erano saliti dal ponte della Maria. Il Montibeller fu condotto a Roncegno; non cessava di sbraitare mentre sull’auto attraversava la via centrale del paese diretto al comando militare. Il giorno seguente fu trovato morto, ucciso con un colpo d’arma da fuoco, nelle campagne di Agnedo.
Fu sepolto in quel cimitero”. Anche in questo caso non risulta siano stati perseguiti i responsabili, nonostante fose intervenuta l’autorità giudiziaria e molti testimoni avessero visto portar via il giovane dai tedeschi.
Un altro fatto raccapricciante accadde a Lamon. Luigi Campigotto di Arina (frazione di Lamon) era sul monte Grappa con il figlio Adamo Giacomo di 14 anni. Che lo aiutava a governare il gregge. Il 3 settembre 1944 Luigi inviò il figlio ad avvertire la famiglia, la madre con altro cinque fratelli, che presto sarebbe rientrato anche lui. Adamo partì con il suo cane ma, giunto a Ponte Serra, sul Cismon, nei pressi del bivio per la strada del Primiero per Sovramonte e per Lamon, fu fermato a un posto di blocco.
Ai tedeschi, che lo bersagliarono di domande, il ragazzo, di carattere un po’ chiuso, parlò della sua permanenza sulla montagna e degli incontri con i partigiani. Venne allora portato presso le scuole elementari “Jacopo Facen”, in località Tollard a Lamon, sede del comando SS, per proseguire gli interrogatori. Adamo, impaurito, si chiuse però in un ostinato silenzio.
Non essendo probabilmente riusciti a strappare al giovane alcuna importante notizia, i tedeschi, cinque giorni dopo, lo portarono con il suo cane lupo, lungo una rampa del cortile della scuola e spararono ad entrambi facendoli cadere nella fossa già approntata. Una donna, che vide la scena da casa sua, poco lontano, preparò una croce rudimentale e, qualche giorno dopo, la piantò nella terra appena smossa perché in futuro si potesse ritrovare il luogo della sepoltura.
Due settimane dopo il padre arrivò ad Arina e per prima cosa chiese di Adamo. Saputo che non era ancora arrivato, decise di recarsi a Lamon, presso il comando tedesco, a cercarlo, nonostante il gesto gli fosse stato sconsigliato sia dal podestà che dal parroco. Alle scuole, dove si era recato per avere informazioni, fu sottoposto a tortura e venne poi impiccato ad Arten (Fonzaso) presso il cancello della Villa Tonello Zampiero. Gli applicarono un cartello con scritto: “Questa è la fine di tutti i partigiani”.
A quel cancello ne saranno impiccati altri e una lapide oggi li sta a ricordare. Su quella pietra c’è anche inciso un “N. N.”. Raccontò Giovanni Nicoletto, residente ad Arten, allora quattordicenne e costretto a lavorare per la Todt, che quel “N. N.” si dibatté per lunghe ore prima di morire, senza che nessuno potesse avvicinarsi: gli avevano messo il cappio troppo largo. Non si è mai saputo chi fosse quel martire; si sa solo che, prima del patibolo, la spia fascista Arturo Bolzonella provvedeva all’interrogatorio, conducendolo in modo tale che alla fine la morte era una liberazione.
Camillo Andriollo, ex alpino di Olle di Borgo Valsugana, aveva evitato la partenza per la Russia ma fu spedito in Jugoslavia e al rientro dovette presentarsi in servizio a Borgo per la Todt. Questa la sua testimonianza:
“Durante l’ultima guerra noi contadini dovevamo portare delle derrate alimentari all’ammasso e la quantità veniva stabilita dal Commissario Prefettizio. Il granoturco veniva consegnato ai mulini Spagolla e Romani. La lana e le patate venivano portate alle Aziende Agrarie e l’addetta, Vittoria Capra, rilasciava ricevuta da consegnare in Municipio. Le uova e il burro andavano al Negozio Schmid.
Ogni contadino doveva inoltre consegnare quindici uova per ogni gallina posseduta. La carne era distribuita dalle macellerie Eampanelli e Wassermann e la legna da Decimo Costa. Per quasi tutto c’era la tessera annonaria, tranne che per gli alimenti di cui i contadini disponevano.
I tedeschi, dopo l’8 settembre 1943, iniziarono le requisizioni per il loro fabbisogno. Io ero stato incorporato nella Todt e prendevo 75 lire al giorno tutto compreso; a mangiare avevo il tempo di andare a casa mia. In caso di allarme una convenzione con Marco Battisti, impresario edile di Borgo Valsugana, ci consentiva di usare il rifugio situato nel suo orto. Interprete della Todt era Piero Joris e impiegata mia cugina Clementina Andriollo.
Venivano macellate quindici manze ogni quindici giorni per le forze armate tedesche: erano regolarmente requisite nel Veneto e trasportate su camion a Borgo Valsugana nottetempo. Il frigorifero era prsso il mulino Romani, da dove poi i quarti partivano per le varie cucine, non solo locali. Il deposito alimentare dei tedeschi era in casa Rampanelli; vino, birra e liquori erano in casa Galvan.
Andavamo con camion a Rovereto a prendere pane e pagnotte e spesso a Ora, dove c’era un enorme deposito con ogni ben di Dio: farina, riso, pasta, olio, scatolame, vini e liquori. Qualche volta siamo stati a Merano e a Bolzano. Per evitare i bombardamenti si partiva alle due o alle tre di notte: stessa ora anche per il ritorno.
Il burro e il formaggio venivano requisiti nel Tesino da Eugenio Veronesi, accompagnato da alcuni militari. Nel febbraio del 1945 io, con altri sei operai della Todt, andai in trasferta per sei giorni con un furgone a Lonigo (Vicenza) a requisire paglia e fieno. Guidava un tedesco di nome Lino, in divisa kaki: era una pasta d’uomo e conosceva bene l’italiano.
Il maresciallo André era davanti con la sua macchina e, al seguito, su un’altra, due sergenti della Wehrmacht. Fieno e paglia requisiti li caricavamo sul treno merci alla stazione di Lonigo. La notte, noi operai, dormivamo in una grande stalla. Al mattino André ci distribuiva una pagnotta e una scatoletta di carne che serviva per tutto il giorno, ma qualche cosa mangiavamo per conto nostro all’osteria.
Al ritorno assistemmo a una brutta scena. André era partito con la sua macchina. Seguivano i due sergenti, uno si chiamava Hermann e l’altro Luis, che erano già stati in precedenza in quella zona, in un paesino che non ricordo. A un certo punto i comandanti tedeschi diedero ordine di fermarci e scendemmo.
Il sergente Luis, che era di carattere irascibile, entrò in una casa lungo la strada e noi fuori udimmo delle urla. Uscirono una ragazza in lacrime e suo padre con puntata la rivoltella del sergente: questi voleva restituita la bicicletta che aveva regalato alla giovane con la quale aveva avuto una relazione. I due non volevano rivelare il nascondiglio del prezioso velocipede, ma alla fine dovettero cedere. Luis mise la rivoltella nella fondina, prese la bicicletta e la sistemò nel bagagliaio”.
Riguardo alle requisizioni, alla fine della guerra, nel deposito degli occupanti in via Cesare Battisti a Borgo furono trovati due quintali di burro rancido con il quale si dovette fare sapone: lo ricorda Albino Sordo “Nina”. La popolazione dovette escogitare sempre nuove astuzie per sottrarre all’ammasso, alle requisizioni o alle ruberie il necessario per sopravvivere.
Nel Bellunese e in Friuli venne reintrodotta l’usanza di nascondere il formaggio sotto le vinacce, sottraendolo al suo destino: si ottenne così un ottimo formaggio, sia in bianco che in rosso, soprannominato “ubriaco”. Spesso alle requisizioni dei due eserciti contrapposti si aggiungevano, specie in pianura, le ruberie di gruppi di renitenti o disertori non schierati.
Un’altra testimonianza di quel periodo è quella di Silvio Cavalieri.
“L’8 settembre 1943 avevo appena 15 anni e lavoravo già da diversi mesi in una tintoria della mia città. Facevo “el bocia”, ossia il garzone, e il mio lavoro consisteva nel prelevare i capi di vestiario lasciati presso i vari recapiti della Ditta e poi portarli puliti negli stessi punti in cui i clienti successivamente venivano a ritirarli.
La guerra, iniziata già tre anni prima, aveva portato al razionamento di tutto quello che si trovava in commercio e gli acquisti, pane compreso, si effettuavano tramite la tessera che proporzionava la quantità alla consistenza del nucleo familiare. Quello che ricordo è che avevo sempre fame, come tutti del resto, ma a quella età forse si ha bisogno di maggior nutrimento.
All’epoca a Rovereto c’erano già diverse fabbriche e tutte avevano una sirena che suonava ogni qualvolta si sospettava un’incursione: praticamente suonavano tutti i giorni, ma per nostra fortuna inizialmente non succedeva mai niente, così la gente si era abituata e non dava più grande importanza agli allarmi.
Molte fabbriche erano state riconvertite per scopi militari: ricordo che la Radi al posto di scaldabagni costruiva pezzi di ricambio per sommergibili. Purtroppo, un pomeriggio fra l’agosto e il settembre 1944, suonò per l’ennesima volta l’allarme e, convinti che non succedesse ancora nulla, si continuò a lavorare: di lì a poco scoppiò l’inferno. La città subì un terribile bombardamento; la tintoria dove lavoravo fu uno fra i tanti edifici abbattuti e così rimasi senza lavoro.
Dopo esserci abituati ai falsi allarmi ci dovemmo abituare a quelli veri, con le corse per riparare nei rifugi con le sirene che suonavano ovunque. La paura ti assaliva ogni volta che udivi il boato dello scoppio delle bombe e si attenuava soltanto quando ci si trovava al sicuro. Noi ragazzi ci divertivamo perché in quelle occasioni ci si trovava con tante ragazze che a quella età erano tutte carine, come si dice: “una meglio dell’altra”.
Un giorno però, mentre eravamo al rifugio, una decina di tedeschi fermò tutti gli uomini presenti, compresi i ragazzi della mia età. Ci portarono nelle loro caserme e ci trasferirono in varie zone del Trentino a lavorare per la Todt. Io, con altri cinque compaesani, venni mandato nei pressi di Al a scavare buche per poi fortificarle con gettate di cemento: seppi che si chiamavano “Buker” e “Tobruq”.
Rimasi a far quel lavoro per circa cinque mesi. Un sabato sera mi trovavo a casa in permesso, incontrai degli amici e uno mi confidò che lui era militarizzato con la Speer e guadagnava cinquecento lire (del periodo di occupazione) al giorno.
Mi convinse ad andare con lui che mi presentò al comandante, venni subito assunto e così indossai la divisa kaki della Speer. Il lavoro non era molto diverso da quello che facevo al mio paese: dovevo portare ai vari reparti tedeschi viveri e medicinali con dei camion guidati sempre da militari tedeschi.
In realtà io non ho mai saputo cosa caricavo o scaricavo perché sui sacchi non c’era nessuna indicazione ed eravamo sempre controllati. Una volta ho visto un carico di armi ed esplosivo trasportati con la Croce Rossa.
Nel marzo del ’45 dovevamo portare un carico in Val di Non e la colonna, formata da cinque camion, venne fatta bersaglio da colpi di mitraglia sparati da una squadriglia di “picchiatelli”, aerei da caccia. Venne colpito il camion che seguiva il mio, saltò in aria e le esplosioni continuarono a lungo: ci accorgemmo così che stavamo trasportando proiettili per contraerea. Lo spavento è ben immaginabile e invece di proseguire ritornammo al luogo di partenza.
In quella occasione decidemmo di organizzare la fuga e due notti più tardi fuggimmo da uno scantinato assieme ad alcuni del Cst. Camminammo tutta una notte finché raggiungemmo un casolare in mezzo alla montagna. Pochi giorno dopo la guerra ebbe finalmente fine”.