Perché l’Italia ha un debito pubblico che ormai sembra inarrestabile? Credo di non essere ovviamente l’unico che si pone, da tempo, questa domanda. La risposta è difficile, complessa, così come a volte sono presentate in forma fumosa le cause di questo enorme “pozzo di S. Patrizio”, a seconda del colore politico, dell’ideologia, della…convenienza. Ho cercato allora studi su questo problema.
Tanti quelli che – troppo tecnici – rischiano di far perdere la bussola. Tanti anche quelli che prendono in considerazione solo elementi parziali. Mi ha invece molto colpito la tesi presentata pochi anni fa (anno accademico 2014-2015) da Gianalberto Mele del dipartimento di economia e management (cattedra di storia dell’economia e dell’impresa) della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali “Luiss” Guido Carli. Titolo: Storia del debito pubblico italiano dall’unità ai giorni nostri
Ne propongo ampi stralci. (cornelio galas)
di Gianalberto Mele
Il debito pubblico in Italia è un problema antico, dall’unità a oggi solo in 43 anni il rapporto debito/PIL è stato sotto il 60% ovvero quella quota che l’Unione Europea richiede e suggerisce nel patto di stabilità e crescita stipulato nel 1997 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1999 con l’adozione dell’euro.
Quindi come riscontrabile dai dati, alcuni un po’ più incerti come quelli dei primi anni dell’Italia unita, il debito pubblico e la sua sostenibilità è, da praticamente il 1861 un problema, che investe periodicamente e intensamente ogni questione economica del nostro Paese con esclusione quasi unica, ovvero con maggiore tranquillità, quasi esclusivamente nel periodo che va dal secondo dopo guerra ai primi anni ottanta; per poi riesplodere più vigorosamente che mai negli anni appena successivi a detto periodo.
I motivi del debito in questo lungo asse di tempo sono svariati , partendo dai costi sostenuti per iniziare, sostenere e mantenere quella unità nazionale fortemente voluta dagli stati Sardi, continuando con il cercare di costruire quelle infrastrutture fisiche e sociali tali da costruire quell’unità nella realtà e non solo nelle cartine geografiche, continuando per i tentativi di reazione alle varie crisi nazionali e internazionali che hanno sottoposto le casse del nostro Stato a dura prova , lo sforzo e l’esborso bellico soprattutto nei due conflitti mondiali , e infine l’aumento a volte sicuramente non meditato delle spese nel welfare state a cavallo degli ultimi anni della prima repubblica e i primi della seconda.
Le soluzioni dateci dai governi prima del Regno d’Italia e dal 1946 da quella che è la Repubblica italiana sono svariate, agendo su tagli della spesa, sostegno all’economia reale, oppure agendo direttamente su pratiche monetariste, svalutando la lira cosa al giorno d’oggi non più possibile perché orfani di quella sovranità monetaria a lungo sfruttata e non più utilizzabile dall’adozione della moneta unica.
Questa analisi storica arriva fino ai giorni nostri nei quali a differenza del passato non vi è assoluta certezza sulle cause all’origine dell’innalzamento del debito pubblico e ricondurre queste cause all’aumento delle spese non permette di avere soluzioni chiare. Inoltre il pagamento degli interessi è un meccanismo di sottrazione inter-generazionale delle risorse e questo meccanismo è stato ampiamente sfruttato dalla generazione precedente, senza troppi rimorsi, ricadendo sulle generazioni attuali che sono quelle che più di tutte dovranno caricarsi di questo peso.2
La questione della credibilità internazionale e un’altra questione che si è aggiunta alle già preesistenti e di certo non meno ostici questioni che il debito pubblico comporta per uno Stato. Dal 1992 con l’adesione al Trattato di Maastricht il nostro Paese si è impegnato a rifarsi a quei parametri che stabiliscono il livello ottimale del rapporto debito/PIL a un valore non superiore del 60% e a un disavanzo annuale che non superi il 3% di questo rapporto.
Quindi il debito pubblico oggi più che mai, è un elemento di centrale interesse, per il nostro Stato, per i nostri governi, per la credibilità internazionale di questi, ma soprattutto per i cittadini di questo Stato in quanto pagare meno interessi ogni anno, vorrebbe dire avere più risorse disponibili e non solamente un “lavorare per pagare debiti”.
L’analisi storica potrà quindi chiarire ed analizzare cause, effetti e soluzioni che han caratterizzato questo oramai superato cento cinquantenario di unità nazionale e che in questa era di austerity dilagante pone il debito pubblico e la sua sostenibilità sicuramente come un problema tra i più interessanti e attuali , come una sfida che la nostra Italia dovrà superare per tornare a essere credibili e competitivi in ambito internazionale, per avere la possibilità che ad esempio una parte di quei 1650 miliardi di euro spesi dal ’93, siano spesi sul territorio, siano spesi per creare ricchezza e non solamente per pagare interessi.
Definire il settore pubblico è centrale in questa analisi in quanto, la definizione è variata nelle varie analisi fatte nel corso degli anni; sicuramente è preferibile rifarsi alla definizione odierna di settore pubblico, ovvero comprendente l’amministrazione centrale, gli enti locali e gli enti previdenziali, questi ultimi esistenti solamente dagli anni successivi alla I Guerra Mondiale.
Più che lo stock di debito pubblico verrà analizzato il rapporto debito/PIL, in quanto è un dato che può essere più indicativo circa la sostenibilità e l’incidenza del debito. Questo rapporto dipende da tre fattori: il saldo primario, l’onere reale del debito e il tasso di crescita reale del PIL.
Il saldo primario altro non è che la differenza fra entrate e spese al netto degli interessi, l’onere reale del debito è quanto si spende rispetto alla consistenza del debito, al netto della perdita di valore reale di quest’ultimo provocata dall’inflazione e il tasso di crescita reale del PIL è invece una variabile che figura al numeratore del rapporto.
Inoltre centrale in questa analisi è vedere da cosa sia effettivamente composta la spesa dello Stato, ovvero in che modo le varie voci abbiamo contribuito all’uscita di denaro dalle casse dello stato. Spesa in opere pubbliche, istruzione, spesa redistributiva, spesa militare, spesa per interessi: come hanno influito sul nostro bilancio, in che modo abbiamo influenzato le nostre spese e come siano cambiati i giochi-forza, sono tutte questioni fondamentali per l’analisi storica del debito pubblico.
PRE-UNITÀ, POST UNITÀ, DESTRA E SINISTRA STORICA (1861-1896)
Debiti Stati preunitari, costituzione del debito unico e primi anni del Regno
All’alba dell’unificazione viene preso un primo provvedimento dal nascente Regno con la l. 10.7.1861 n. 86, che risulterà centrale nell’analisi delle finanze di questo nuovo stato, ovvero la costituzione del Gran Libro del Debito pubblico. Questo ”Gran Libro” consiste in un insieme di registri dove sono riportati singolarmente i debiti dello Stato, e nel quale successivamente attraverso la Legge di unificazione dei Debiti pubblici d’Italia confluirono tutti i debiti degli Stati annessi nel nascente Regno.
I debiti dei vari Stati che furono inglobati nel debito pubblico italiano risultavano aventi pesi ed entità particolarmente variegati. Il più consistente senza ombra di dubbio risulta quello del Regno di Sardegna che costituiva il 57% del totale, mentre quello del Regno di Napoli risultava il 29,40% e a seguire per importanza gli altri risultavano essere quelli di Toscana, Lombardia, ducati di Parma, Modena e Romagna.
La consistenza del debito sabaudo è spiegabile attraverso l’indebitamento a cui questo stato ricorse per finanziare tutte quelle guerre e quel processo che porterà nel 1861 all’unità d’Italia. L’unificazione del debito pubblico fu tra le principali cause dell’insostenibilità del debito italiano fra il 1862-1873.
Ad alimentare questa situazione di insostenibilità accorsero in quegli anni numerose altre cause, quali l’aumento della spesa pubblica dovuta alla creazione di infrastrutture su tutto il territorio nazionale, alle spese militari straordinarie connesse specialmente con la guerra con l’impero Austriaco del 1866, all’emissione della Rendita Italiana al 5% del 1861 e al ritardo nei provvedimenti di riassetto fiscale che incominciarono solamente nella seconda metà degli anni settanta.
Dall’unità fino a quando nel 1876 il governo Minghetti fu messo in minoranza, il Regno fu governato dalla cosiddetta “Destra storica”. Sotto questi primi governi unitari e sotto l’impellente necessità di reperimento di risorse negli anni che intercorsero fra il 1861 e il 1870 il debito pubblico italiano ebbe una notevole impennata sia in termini di valore assoluto in quanto il debito passò da 3.107 a 8.148 milioni di lire sia in termini di rapporto debito pubblico / PIL passando dal 35,8% del 1861 al 80,8% del 1870.
Nel 1861 le entrate coprivano poco più della metà delle spese statali che erano costituite per lo più da spese militari e dal servizio del debito, le soluzioni che si presentarono ai governi italiani furono di emissione di titoli di Stato e il tentativo di aumento delle entrate attraverso la vendita straordinaria di beni demaniali e beni della Cassa ecclesiastica promossa dal neo ministro delle finanze, Quintino Sella.
I prestiti emessi dal nuovo regno furono più di uno ed andarono ad aumentare quel debito pubblico che già constava di una certa rilevanza. Nel 1861 il ministro delle finanze Bastogi fece emettere un prestito di 500 milioni al prezzo di 70 lire effettive per un valore nominale di 100 lire, raccogliendo circa 715 milioni. Successivamente dati anche gli scarsi risultati raggiunti dalla vendita dettata da Sella, Minghetti nel marzo del 1863, effettuò un nuovo prestito di 700 milioni netti al prezzo di 71 lire.
Queste emissioni di Rendita Italiana vennero collocate perlopiù nei mercati esteri, Londra e in special modo Parigi, dove si costituì anche una delegazione del Tesoro Italiano. Sella che fu ministro delle finanze in più occasioni e al quale dobbiamo la perseveranza nel cercare il pareggio di bilancio, fu tra i politici, probabilmente il più sensibile al tema di tutta la Destra storica.
Quando tornò al ruolo di ministro delle finanze nel 1864, stipulò una convenzione con la Società Anonima per la vendita dei beni demaniali, secondo cui quest’ultima avrebbe dovuto versare anticipatamente 150 milioni al Governo, piazzando sul mercato proprie obbligazioni, in cambio di ciò, la Società Anonima avrebbe ricevuto obbligazioni statali non negoziabili che sarebbero state pagate con i ricavi della vendita demaniale.
Questo provvedimento fermò momentaneamente l’esplosione del debito pubblico ma non fu sufficiente in quanto nel 1865 fu necessaria l’emissione di un nuovo prestito per 425 milioni netti e l’alienazione delle ferrovie statali. Queste mosse del 1865 portarono effettivi miglioramenti, resi vani però dalle spese che sosterrà lo Stato italiano nel 1866, spese straordinarie dovute alla crisi finanziaria internazionale e alla guerra con l’Austria.
La crisi finanziaria fece crollare le quotazioni della Rendita Italiana all’estero e il ministro delle finanze Scialoja obbligò la Banca Nazionale a concedere un mutuo al Tesoro di 250 milioni di euro con interesse dell’1,5 %, aprendo le porte all’opportunità, successivamente largamente adottata, di monetizzare il prestito. In seguito all’inizio della guerra con l’Austria nel giugno del 1866 fu necessaria l’emissione di un nuovo prestito redimibile forzoso di 350 milioni effettivi al valore nominale di 400 milioni emesso al tasso d’interesse del 5%, interamente collocato in Italia e che grazie al fervente patriottismo, scaturito in quella guerra, fu facilmente interamente collocato.
Nel 1867 di grande importanza fu la liquidazione dell’asse ecclesiastico che fu legata al debito pubblico. L’operazione che constava di un totale di 500 milioni nominali di obbligazioni in due tranches che sarebbero servite all’accettazione per il pagamento dell’acquisto dei beni dell’asse ecclesiastico da privati. Ma questa non si rilevò un’operazione di successo in quanto già l’anno successivo, 150 milioni della prima tranche furono dati a garanzia alla Banca Nazionale per un anticipo di 100 milioni al Tesoro.
Sempre nel 1867 venne istituita una Regìa alla quale fu venduto il monopolio sul tabacco per quindici anni, per un canone annuo da versare all’Erario e mediante un anticipo di 180 milioni in oro attraverso l’emissione di obbligazioni. Negli anni a venire il Governo puntò a ridurre la spesa per interessi riducendo il deficit di bilancio facendo ricorso ad operazioni di credito con la Banca Nazionale, emettendo una rendita sulla quale, lo Stato pagava degli interessi che gli venivano però restituiti in cambio di denaro contante al sessanta per cento del costo. Nel 1872 fu stipulata una nuova convenzione da parte della Banca Nazionale che concesse allo Stato italiano un prestito di 300 milioni allo 0,5% di interesse.
Pareggio del bilancio e fine destra storica
Mentre nel primo decennio dell’unità nazionale, per troppi motivi è sfuggito di mano e si è gonfiato il bilancio, dopo la presa di Roma nel 1870, e quindi finito il processo unitario, il Regno e i suoi governanti si sono potuti finalmente concentrare su quel problema che troppo a lungo si è dovuto rimandare, il bilancio e il raggiungimento di quell’obiettivo tanto agognato, quanto pagato caro della Destra storica, ovvero il pareggio di bilancio.
Il 16 marzo 1876, il primo ministro Marco Minghetti, dichiarò al parlamento che finalmente era stato raggiunto l’obiettivo del pareggio di bilancio, due giorni dopo però Minghetti fu battuto in parlamento e si diede vita al periodo che va sotto il nome di Sinistra storica che durerà fino al 1896.
Il pareggio di bilancio fu raggiunto soprattutto grazie all’aumento che si riuscì ad avere, tramite le politiche della Destra storica, nell’entrate dello Stato. Le spese da sostenere dallo Stato furono immense, dovute alla costruzione dell’apparato statale, delle infrastrutture, in special modo nel settore delle rotaie e tutti quei costi che il nascente Regno si fece carico per le necessità esplicate dall’allora ministro dei lavori pubblici Stefano Jacini in questa relazione:
“Negli anni ora decorsi si dovette con urgenza, e diremmo quasi a precipizio, riparare all’inerzia dei passati governi rispetto ai pubblici lavori: aprire nuove vie, estendere e fortificare le difese contro i fiumi, condurre le acque a raddoppiare la fecondità di vasti terreni, far giungere fino alle più remote parti della penisola quel mirabile strumento di civiltà, di progresso e di potenza che è la vaporiera, far sparire le distanze congiungendo con fili telegrafici le mille città d’Italia, perfezionare, ampliare e rendere più rapido e ad un tempo semplice il servizio delle poste, creare una marina a vapore nazionale…
E tutte queste opere, che avrebbero in altri tempi alimentata per lunghi anni l’attività di una grande nazione, l’Italia le ha dovute compiere, si può dire, in pochi mesi, non tanto per favorire l’incremento delle operosità e della ricchezza nazionale, quanto per assicurare la sua indipendenza, … per cancellare rapidamente le tracce delle antiche divisioni, e fondare sopra salde basi la sua unità e la potenza del suo governo”.
Per questi motivi e per questa scelta “quasi obbligata” di Stato attivo in vari settori dell’economia e delle infrastrutture non si poterono applicare per risollevare il bilancio politiche di tagli. L’altra soluzione, che fu quella scelta, dagli esponenti della Destra storica, fu quella di agire sul lato del prelievo fiscale. Il nuovo sistema fiscale che fu adottato dall’unità fu molto più simile al sistema fiscale preunitario del Piemonte e della Lombardia, ma vi furono anche grosse novità.
Le imposte che furono adottate erano di tre tipi: le imposte sui redditi, ovvero l’imposta sui terreni, l’imposta sui fabbricati e l’imposta di ricchezza mobile. La prima già era preesistente in tutti gli Stati preunitari, e l’unica difficoltà fu l’unificazione del sistema catastale. L’imposta sui fabbricati invece risultava separata da quella sui terreni soltanto in Piemonte e Lombardia, fu applicata a tutto il territorio con aliquota del 16,25%. Mentre l’imposta di ricchezza mobile fu una novità per tutti gli ex stati preunitari e andò a colpire ogni tipo di reddito esclusi quelli da terreni e fabbricati. Altro gruppo di imposte fu quello sugli affari.
Terzo e ultimo gruppo furono le imposte sui consumi, tra cui i dazi doganali e anche le imposte di fabbricazione, tra cui la più famosa e discussa tassa del macinato introdotta con la legge 7 luglio 1868 e abrogata nel 1884. Questa risistemazione del sistema fiscale dovuta soprattutto agli onorevoli Quintino Sella e Marco Minghetti, permise di raggiungere non senza sacrifici il pareggio di bilancio del 1876.10
1876-1896 Gli anni della sinistra storica
Il 25 marzo 1876 per la prima volta nella storia del regno viene incaricato dal Re Vittorio Emanuele II, Agostino Depretis, esponente della sinistra, di formare il governo. Depretis con qualche interruzione dovuta ai governi Cairoli, fu primo ministro fino al 29 luglio 1887 quando gli succedette Francesco Crispi, l’altra figura centrale di questo ventennio italiano. Il debito pubblico italiano almeno fino alla scandalo della Banca Romana che termino con la liquidazione fallimentare di quest’ultima e con l’affermarsi della Banca D’Italia come banca di emissione nel 1893, ebbe un periodo alquanto felice.
Le entrate statali coprirono più del 100% delle spese fino al 1889 anno dello scandalo e della grave crisi bancaria italiana. Infatti nel 1876 la copertura era del 107%, nel 1880 del 109% e addirittura nel 1886 del 119%, avendo addirittura in questi due ultimi anni citati a riferimento un avanzo nel bilancio del settore pubblico complessivo sul PIL di 1,1% nel 1880 e dello 0,5% nel 1886.
Questa discordanza di risultati fra entrate statali e deficit o avanzo in percentuale sul PIL del settore pubblico complessivo si riscontra nel fatto che il bilancio degli enti locali fu costantemente in rosso, restando sempre la copertura spese al di sotto dell’80% almeno fino al 1900. Agli enti comunali gli unici modi che gli erano concessi per riscuotere e rimpinguare le proprie casse erano i dazi sui consumi e alcuni tributi propri.
Con la legge 20 marzo 1865 fu data la possibilità ai comuni di introdurre sovraimposte sulle imposte sui redditi; ma questa facoltà fu pesantemente limitata dalla legge 11 marzo 1970, con cui si preferì aiutare la finanza statale rispetto a quella locale. Così facendo fu impedito agli enti locali, almeno fino alla riforma delle finanze locali del 1931, di avere un bilancio sano, essendo anche incaricati di compiti prettamente statali quali le spese per l’istruzione e per le strade provinciali e comunali.
Le entrate aumentarono e questo permise anche un notevole innalzamento delle spese che nonostante la grossa percentuale di interessi sulla spesa complessiva dello Stato, in tutto l’ottocento dall’unità quasi sempre superiore al 30% del totale delle spese pubbliche, non bloccò l’innalzamento da parte dei governi della Sinistra storica delle spese per istruzione e infrastrutture.
Per quanto riguarda l’istruzione seppure era ritenuta importante dai governi della Destra storica occupò solamente dal 2,3% nel 1866 al 3,5% del 1872 della spesa pubblica anni in cui vigeva la legge Casati del 1859, con soli due anni obbligatori di istruzione elementare. La Sinistra quando salì al potere da parte sua raddoppiò lo sforzo nell’istruzione, raddoppiandone gli anni con la legge Coppino nel 1877 e aumentando costantemente il peso della spesa per l’istruzione sulla spesa pubblica, Infatti si nota il 5% nel 1880 e il 5,6% nel 1890 di percentuali sulla spesa pubblica complessiva.
Altra componente importante nell’ingrossamento della spesa pubblica fu il rafforzato impegno della sinistra nelle spese per infrastrutture infatti, in quest’ultimo quarto di secolo furono raddoppiati i chilometri di ferrovia e di rete telegrafica e aumentati i chilometri di rete stradale e il numero di uffici postali. La politica estera con l’abbandono del purismo libero-scambista e le prime imprese coloniali italiani, fu altro elemento che influì sul bilancio statale.
Da una parte va registrato che per tentare il catching up verso i first comers lo stato italiano che con la Sinistra divenne particolarmente interventista in economia, si impegnò non senza sforzi di natura economia in difesa e per la promozione dell’economia italiana. Tra il 1875 e il 1880 furono aumentati i dazi medi, sia a scopo fiscale ma anche e soprattutto per proteggere taluni settori ritenuti meritevoli di protezione quali su tutti il tessile.
In seguito con legge 14 luglio 1887 furono ancora aumentati lievemente i dazi ma fu attuato anche protezionismo sui prodotti agricoli. Dazi accompagnati da sussidi e spinta imprenditoriale statale come il celebre caso dell’acciaieria di Terni, furono tra gli sforzi che impegnarono maggiormente economicamente e non i governi della Sinistra storica. La spesa militare fu un altro elemento che aumentò sotto la Sinistra storica e questo aumento fu dovuto sostanzialmente alle prime spedizioni e conquiste coloniali che iniziarono sostanzialmente dal 1882 con l’acquisto della Baia di Assab, raggiungendo il massimo del peso sul totale delle spese pubbliche del 15,9% nel 1890.
Questa situazione del bilancio alquanto positiva che si ebbe nel primo decennio della sinistra storica, dovuta alla crescita del PIL, alla crescita costante delle entrate e alla ciclo economico favorevole in generale ebbe una brusca sterzata nel periodo che va dal 1889 al 1894 definiti “gli anni più neri dell’economia del Regno”. La crisi di questo lustro in cui anche la copertura delle spese statali scese al di sotto del 100% e il rapporto debito/PIL stabilmente sopra il 100% fu soprattutto una crisi bancaria.
Il processo di crescita dell’economia italiana dopo l’esaurirsi del boom 1870-1874 e dopo che la Sinistra storica riuscì a concedere più protezione alle nostre industrie (1878) fu guidata in maggior modo dalle banche ordinarie, fra tutte dal Credito Mobiliare e dalla Banca Generale, le due più importanti. Queste si lanciarono dapprima nel collocamento di prestiti pubblici, di obbligazioni ferroviarie, di azioni bancarie ed industriali. Successivamente si dedicarono anche alle attività mobiliari soprattutto in Torino, Roma e Napoli.
Successe che la congiuntura economica generale europea peggiorò, la bilancia dei pagamenti peggiorò e anche per l’edilizia sorsero le prime difficoltà. Incominciarono le prime difficoltà per diversi banchi che sotto sollecitazione governativa furono salvati dalla Banca Nazionale con la partecipazione di tutti gli istituti di emissione. Il governo concesse un aumento della circolazione alle banche di emissione, ma la Banca Romana aveva già superato illegalmente i limiti di circolazione stampando duplicati dei biglietti già emessi.
Questo fu già scoperto nel 1889 ma rimase segreto fino al 1892; il governo si dovette dichiarare garante della circolazione e decretò con legge il 10 agosto 1893, la fusione della Banca Nazionale del Regno d’Italia, la Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di credito, affidandogli la liquidazione della Banca Romana. Restavano solo altri due banche di emissione, quelli meridionali, ma la preminenza della appena nata Banca d’Italia si sarebbe affermata coi fatti. Nel 1893 inoltre fallirono Il Credito Mobiliare e la Banca Generale; questa situazione portò il governo italiano a proclamare l’inconvertibilità della moneta italiana il 21 febbraio 1894.
Tutto questo portò dei risentimenti dal punto di vista del bilancio portando ad esempio ad un meno 2,8% di deficit del PIL nel 1890, a una diminuzione delle entrate delle entrate per almeno 20 milioni dal 1886 al 1890 e ad un peggioramento generale del bilancio statale.
FINE SECOLO, ETÀ GIOLLITTIANA E PRIMA GUERRA MONDIALE (1896-1918) La fine del secolo
Superata la grave crisi bancaria e riassestato come già visto il sistema bancario e finanziario italiano, con la caduta del IV Governo di Crispi, dovuta alla sconfitta in campo coloniale conclusasi con la disfatta di Adua il primo marzo 1896, il 10 marzo 1896 finisce il ventennio di governo praticamente ininterrotto della Sinistra Storica. Il debito raggiunse il punto più alto fino ad allora mai raggiunto del 117% del PIL nel 1897, per un totale di oltre 14 miliardi.
Questo aumento è in piccola parte attribuibile alle spese di guerra che pur aumentarono, ma fu dovuto soprattutto alle opere pubbliche romane, al risanamento di Napoli, alle costruzioni ferroviarie e alla statalizzazione degli impianti fissi delle reti ferroviarie (che rimasero fino al 1905 a gestione privata)e infine all’abolizione del corso forzoso realizzata dal ministro delle finanze Magliani tramite un prestito internazionale in oro che serviva alla copertura di 600 dei 940 milioni di banconote più altri 44 milioni di prestiti in oro.
In seguito, dopo il picco del 1897, il debito italiano di stabilizzò in valori assoluti e diminuì invece il rapporto debito/PIL costantemente fino al 1906. Gli ultimi quattro anni dell’ottocento furono anni di molteplici disordini, di un susseguirsi di governi in un clima di crescente instabilità politica e scontri di piazza che terminarono con la repressione violenta dei moti del 1898 e con il regicidio di Re Umberto I il 29 luglio 1900 in una manifestazione pubblica a Monza da parte dell’anarchico Gaetano Bresci.
Il 4 febbraio 1901 Giovanni Giolitti con discorso alla camera si staccò definitivamente dal Governo Saracco, diventando prima ministro dell’interno nel governo Zanardelli e poi successivamente primo ministro nel 1903, dando così via a quella che è ricordata come età giolittiana.
L’età giolittiana
In questo primo quindicennio di secolo, l’Italia, con soli piccoli intervalli fu governata direttamente o indirettamente da questa figura centrale nella storia e nella politica italiana che risponde al nome di Giovanni Giolitti. Economicamente fu un periodo prospero, la congiuntura economica internazionale era altamente positiva, l’industria era in rapida crescita anche in Italia e sembrava che questa periodo abbastanza spensierato e felice per le popolazioni europee non avrebbe potuto conoscere fine; questo periodo viene definito Belle Époque.
La spesa statale non diminuì affatto, ma se il debito in valore assoluto rimase quasi sostanzialmente invariato dal 1896 al 1906, mentre il rapporto deficit/PIL scese all’87,9% del 1906 dal 117% del 1897, questo lo si deve quasi esclusivamente alla crescita del PIL. Questi sono gli anni del così detto decollo industriale italiano: tra il 1896-1890 e il 1911-1914 il reddito nazionale pro capite aumentò del 28% e le condizioni sociali ed economiche migliorarono nettamente almeno nel così detto “triangolo industriale”.
Nei primi anni del novecento i consistenti avanzi di bilancio non solo resero inutili altre emissioni di titoli di Stato ma permisero l’abbassamento del tasso di rendimento dal 5% al 3,5% al lordo delle tasse del consolidato, alleggerendo il peso del debito sulla spesa pubblica corrente. Questa operazione conosciuta come “conversione della rendita”, venne effettuata il primo luglio 1906. Questa operazione portò al netto abbassamento dell’incidenza della spesa per interessi che passò in percentuale dal 33,5% del 1900 al 25% del 1906.
Questo trend estremamente positivo, in cui la finanza pubblica statale con il bilancio in pareggio, i titoli del debito collocati all’estero al minimo storico e l’incidenza degli interessi diminuita sembrava non conoscere scogli; ma invece arrivò la crisi internazionale del 1907 che ruppe questo felice equilibrio a cui l’Italia sembrava in quegli anni destinata. Questa crisi di natura internazionale, la prima vera crisi finanziaria internazionale, non ci colse impreparati.
Sebbene rallentò la crescita lanciatissima del nostro Paese in quegli anni e sebbene portò ad un aumento di 5 punti percentuali del rapporto debito / PIL dall’anno 1907 all’anno 1908, l’Italia grazie al riassestamento avvenuto dopo la crisi della Banca Romana, trovò una Banca d’Italia che seppe gestire questa crisi. La Banca d’Italia, allora diretta da Bonaldo Stringher, intervenne per conto del governo italiano costituendo due comitati.
La crisi infatti si ripercosse soprattutto sulla Borsa e su una delle più importanti banche dell’epoca, ovvero la Società Bancaria Italiana (SBI), quindi la Banca d’Italia costituì questi due comitati, a cui non partecipò direttamente, ma che sostenne attraverso il risconto, uno per sostenere la SBI, l’altro per la difesa dei valori azionari. I provvedimenti adottati dalla Banca d’Italia sono riscontrabili in una legge approvata il 31 dicembre 1907, di cui fu promotrice, che rese più flessibili i limiti alla circolazione, più vasta la gamma di operazioni consentite agi istituti di emissione e più leggero l’onere di questi.
Grazie a questi interventi, l’Italia riuscì a ripartire e nonostante riuscì a raggiungere i tassi di crescita precedenti a detta crisi, non si può dire che resto ferma in quanto i tassi di crescita industriale dal 1907 al 1914 risultano sempre nell’ordine dell’1,5-2% annui. Il secondo settennio giolittiano sebbene accompagnato da una crescita più lenta del PIL nazionale risulta egualmente virtuoso dal punto di vista del bilancio, infatti si toccò nel 1913 il 71,5% del rapporto debito / PIL che risulta essere il minimo addirittura dal 1874 come riporta la figura 1.
In evidenza in questo periodo vi è la diminuzione ancora dell’incidenza della percentuale degli interessi sulla spesa dello stato che scende al 16,6% nel 1913 (livelli così bassi vi erano solamente nel 1861 con il 15,5%), e la crescente influenza delle spese militari sul bilancio del Regno. La spesa militare infatti costituiva nel 1906 solamente il 14,3% della spesa totale, dato che salì al 21,1% nel 1912 e al 22,1% nel 1913.
Questa costante crescita della spesa militare fu dovuta sia alla ripresa dell’avventura coloniale italiana, sia alla corsa alle armi che vi fu in tutta Europa prima di quella che stava diventando sempre più inevitabile guerra, per le troppe tensioni create e che puntualmente scoppierà nel 1914 dopo l’omicidio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo Este principe ereditario dell’Impero Austro-Ungarico da parte di un nazionalista serbo. L’avventura coloniale venne ripresa con la guerra Italo-Turca del 1911-1912 che si concluse con la conquista da parte italiana della Tripolitania, della Cirenaica e del Dodecaneso, non senza dispendio economico e di vite.
Questa guerra fu per l’Italia solo un piccolo assaggio del dispendio che dovrà affrontare nella ormai imminente prima guerra mondiale.
Prima guerra mondiale e immediato dopo-guerra
Una guerra richiede un grosso sforzo economico, questa che fu la più grande e totale guerra che ci fu fino ad allora e richiese uno sforzo ancora maggiore di tutte le altre guerre conosciute fino ad allora, tanto per l’Italia quanto per ogni altra nazione che vi partecipò. Le fonti di finanziamento adottate dal Regno d’Italia furono sostanzialmente tre, per ordine d’importanza: debito pubblico, circolazione monetaria e tributi. Mentre l’Inghilterra aveva quasi quintuplicato il carico fiscale e Francia e Germania l’avevano nello stesso periodo aumentato del 50%, l’Italia a prezzi costanti, lo lasciò praticamente immutato.
Questo probabilmente avvenne perché i nostri governi non volevano deprimere ulteriormente la produzione con un prelievo fiscale troppo elevato. I primi veri provvedimenti di carattere fiscale avvennero nel 1919 e nel 1920 quando furono varate un’imposta sul patrimonio e un’imposta di avocazione dei profitti di guerra; che tuttavia inasprirono solo di due punti percentuali la pressione fiscale sui contribuenti. D’altro canto fu largamente sfruttata la circolazione cartacea, infatti essa crebbe di quattro volte durante il conflitto e continuò a crescere nel 1919 e nel 1920.
Questo uso così massiccio di questa politica monetario portò inevitabilmente ad un’elevata inflazione e a un deprezzamento del cambio. Dopo questa breve analisi degli altri fattori con cui fu finanziato questo conflitto, in cui le spese militari giunsero a coprire addirittura 1/3 del totale della spesa pubblica nel 1917 e nel 1918, si può analizzare lo strumento più importante che permise di finanziare lo sforzo bellico, il debito pubblico. Il debito pubblico aumentò di più di 100 miliardi, il rapporto deficit/PIL salì dall’81% del 1914 al 125% del 1920 che però se vi include anche il debito estero risulta del 160% nel 1920. Questa infatti è una particolarità del finanziamento di questo guerra, che fu finanziata largamente tramite debito estero.
Infatti nonostante l’emissione di cinque Prestiti Nazionali, redimibili i primi tre e consolidati gli ultimi due, questo dovuto al fatto che siccome il risparmio si assottigliava e l’inflazione cresceva era sempre più difficile fare ricorso a prestito a lungo termine, si fece sempre più ricorso al debito fluttuante che raggiunse 1/3 del debito totale nel 1918 ma che ebbe modo di crescere ancora negli anni successivi. La principale fonte di sostegno finanziario fu il debito estero che l’Italia dovette sottoscrivere soprattutto con Gran Bretagna e Stati Uniti con contratti lire-oro che subirono un grosso sbalzo dovuto alla svalutazione della lira.
Il debito estero raggiunse i 22 miliardi nel 1919 e quasi 33 miliardi nel 1922, ma questo, dopo una serie di lunghi negoziati che incominciarono nel dopoguerra, fu in gran parte condonato e la parte restante entrò in compensazione con le riparazioni tedesche. Successivamente con la moratoria decretata da Hoover nel 1931 si giunse al completo cancellamento del debito e delle riparazioni. Queste sono le motivazioni che fan scomparire quasi completamente il debito estero dalle serie storiche nel passaggio dal 1925 al 1926, lasciando solamente un piccolo debito con gli Stati Uniti conosciuto come Prestito Morgan che sarà successivamente onorato dal governo fascista.
Il Fascismo e la seconda guerra mondiale
(1919-1945)
Avvento del fascismo, politiche economiche e ritorno al gold standard
Gli anni appena precedenti la salita al potere di nell’ottobre del 1922 da parte di Mussolini, leader del Partito Nazionale Fascista, sono caratterizzati da gravi problemi economici dovuti soprattutto al dover tornare alla normalità dopo il gran conflitto. La spinta inflazionistica nell’immediato dopoguerra è dovuta come si è già visto al costante ricorso all’emissione di moneta da parte dello Stato per finanziare il proprio debito e non ultimo ai molteplici interventi che fece la Banca d’Italia per salvare aziende in difficoltà come il caso dell’Ansaldo.
Questa alta inflazione è andata tutta a discapito dei percettori di reddito fisso: ceto medio e salariati. Tutto ciò fu la causa dei gravi disordini che ci furono in tutto il Paese soprattutto nel biennio 1919-1920. Al governo nel 1920 era tornato per quella che sarà l’ultima vola Giolitti, ma le sue posizioni furono percepite troppo morbide nei confronti degli scioperanti da parte degli industriali e proprietari agricoli, cosicché i fascisti sembrarono gli unici che potevano tenere questa situazione sotto controllo, cimentandosi non di rado anche in vere e proprie azioni di rappresaglia fatte dagli squadristi.
Questa fu la situazione che spianò la strada alla prese di potere da parte Mussolini, che avverrà il 30 ottobre 1922 quando Sua Maestà Vittorio Emanuele III gli diede l’incarico di formare il governo, governo che rimase saldamente nelle mani di Mussolini fino al 1943; era l’alba del ventennio fascista. La politica economica del regime non è sempre coerente e segue da una parte gli orientamenti dei vari ministri delle finanze, da un’altra alcuni suggerimenti che derivano da contingenze nazionali e internazionali e infine da un’altra parte ancora le convinzioni ideologiche fasciste tramutate in economia.
Dal 1922 al 1925 fu ministro delle finanze, ministero a cui fu accorpato in quell’anno anche il dicastero del tesoro, Alberto De’ Stefani. De’ Stefani persegui sostanzialmente le politiche dei sui predecessori che stavano lentamente riportando il bilancio statale in ordine con l’eliminazione delle spese straordinarie e l’aumento delle entrate ordinarie. Il governo fascista volle solamente accelerare questo processo di risanamento dei bilanci e più che agire sull’entrate, tagliò drasticamente alcuni campi della spesa pubblica.
Circa l’aspetto contributivo, De’ Stefani allargò la base contributiva, inglobando numerose categorie sociali fino ad allora escluse e abbassò delle aliquote specialmente per le categorie che riteneva più inclini all’investimento, portando a una lieve flessione della pressione fiscale.
Fu proprio questa sua volontà di riattivazione dell’iniziativa privata che portò al taglio della spesa pubblica “improduttiva” licenziando 65.000 impiegati pubblici non di ruolo e circa 27.000 ferrovieri19, aprendo ai privati le categorie di assicurazione sulla vita, i telefoni e riorganizzando la gestione di alcuni servizi mediante la creazione di alcuni enti autonomi.
Se da un punto di vista del bilancio la gestione di De’ Stefani si può definire felice in quanto riportò il bilancio in pari (quello statale, perché se si considera anche quello degli enti locali, il fascismo non riuscì mai a raggiungere questo obbiettivo), e felice si può giudicare la sua gestione anche per la ripresa della crescita a livello nazionale, lo stesso non si può dire per le implicazioni monetarie che portarono le sue politiche.
Dallo scoppio del primo conflitto e dalla costituzione del CSVI (Consorzio per sovvenzioni industriali), la Banca d’Italia attraverso per l’appunto il CSVI e la sua sezione autonoma, si era impegnata fortemente nel sostegno delle imprese e banche immobilizzate dalla crisi postbellica di riconversione.
Questo continuò con il governo fascista con risultati che dal 1922 al 1925 ci fu un grosso aumento di liquidità che portò a grosse tensioni inflazionistiche dovute anche ad un peggioramento della bilancia dei pagamenti. De’ Stefani provò a migliore tale situazione con alcuni provvedimenti soprattutto nell’anno 1925, che però risultarono inadeguati e portarono a un tracollo di borsa e vari fallimenti.
Questa situazione e la grande pressione degli industriali di cui Mussolini non voleva perdere il supporto lo persuasero a sostituire De’ Stefani con il veneziano Giuseppe Volpi come ministro delle finanze. Volpi fu ministro dal luglio del 1925 al luglio del 1928, periodo breve, ma decisivo per le sorti economiche e di bilancio dell’Italia. La spinta inflazionista non poteva essere gestita con i soli provvedimenti di De’ Stefano e nel 1925, dopo che nel 1924 con il piano Dawes si era risolta la questione delle riparazioni tedesche, si potette finalmente discutere i termini per il ritorno delle nazioni al gold standard come deciso durante il trattato di Versailles per stabilizzare le monete.
La situazione con cui Volpi dovette intavolare trattative con gli americani non erano delle più favorevoli data la forte svalutazione della lira connessa al peggioramento della bilancia commerciale e dei fattori speculativi. Infatti la restrizione creditizia fu resa molto difficile dal fatto che il debito risultava in gran parte fluttuante a breve termine e dal fallimento di rinnovo dei BOT venticinquennali nel 1924 dovuta al volere di banche e privati di ottenere liquidità che inoltre metteva in seria difficoltà i finanziamenti per il governo.
Quindi Volpi agì in concomitanza con la Banca d’Italia che sostenne il cambio e riuscì a giungere ad una risoluzione nel 1925 con gli americani che risultò la più favorevole in termini assoluti ma considerando la situazione economica dell’Italia, fu probabilmente la risoluzione meno morbida di tutte quelle che ottennero gli altri alleati europei. Nel dicembre del 1925 venne varato un piccolo prestito intergovernativo per il sostegno della lira, tra il governo USA e il governo italiano che prese il nome di prestito Morgan.
Nel gennaio 1926 fu trovato l’accordo sul debito estero con l’Inghilterra e attraverso l’afflusso delle riparazioni tedesche, gestite per mezzo della Cassa autonoma di ammortamento dei debiti di guerra, costituita il 3 marzo 1926, permisero la compensazione delle entrate ed uscite, andando praticamente a cancellare il debito estero ad eccezione del piccolo prestito Morgan. Il problema che si dovettero affrontare in seguito furono le pressioni svalutative della lira, che anche per colpa delle svalutazione che subirono nel 1926 il franco e francese e belga, non si riuscirono a contrastare.
Tra il maggio e l’agosto del 1926 la lira si svalutò ulteriormente del 17-18% seguendo praticamente le oscillazioni dei due franchi, la situazione stava diventando insostenibile. Mussolini temeva questa situazione ed aveva paura di perdere credibilità a livello internazionale, questo portò a decretare la Banca d’Italia come unico ente di emissione, ma la decisione più importante fu quella esternata il 18 agosto 1926 nel celebre discorso di Pesaro, ovvero di intraprendere “la battaglia della lira”, per portarla a quota 90 (lira per sterlina).
Questa fu vista come una decisione sorprendente, infatti la lira viaggiava a quota 153 ma anche prima della svalutazione estiva essa era a 120, quota ritenuta soddisfacente da Volpi. Ma Mussolini sia per motivi di prestigio interno che internazionale, sia per difendere la classe media spaventata dall’inflazione e sia per rendere meno cara l’importazione di materie prime optò per questa celebre quota 90.
Quello che risultò sorprendente è che la lira realmente si assestò a quota 90 e si apprezzò anche maggiormente, questo però più che risultare da un’effettiva politica restrittiva, può rifarsi alle aspettative che il governo totalitario fascista riuscì a mutare in questa “battaglia”. Fu così che il 21 dicembre 1927 fu introdotto il gold exchange standard, con la lira nuovamente ancorata all’oro a 92,46 lire per sterlina.
Crisi del ’29, guerra di Etiopia e autarchia
Dopo aver introdotto il gold exchange standard, furono necessarie delle manovre di aggiustamento dei prezzi e dei salari interni, nonché della bilancia dei pagamenti al nuovo livello di cambio che non risultarono indolori. Keynes disse: “la lira non obbedisce nemmeno ad un dittatore né si può dare per questo l’olio di ricino”. In realtà Mussolini ci dimostrò attraverso i tagli salariali del 1927-1928, i tagli degli affitti e i tagli degli stipendi pubblici, attuati non senza malcontento, che la lira poteva “obbedire all’olio di ricino”.
Superati gli effetti della crisi di rivalutazione della lira, l’Italia poteva finalmente ripartire, ma sopraggiunse quella che probabilmente fino ad allora fu la più grande crisi economica internazionale, che esplose dapprima negli Stati Uniti e Germania e poi si allargò a tutto il mondo, la grande crisi del ’29.
Questa ed alcune implicazioni che questa crisi portò, incisero notevolmente sul debito pubblico italiano, infatti il rapporto debito/PIL passo dal 58% del 1929 al 88% del 1934. Ciò fu dovuto però anche al modo in cui il governo italiano reagì a questa crisi, infatti il sottovalutare questa crisi almeno fino al 1931, e il non staccarsi dal gold exchange standard nemmeno quando lo fece la Gran Bretagna nel 1931 e gli Stati Uniti nel 1933 portò a una decisa rivalutazione della lira che peggiorò ancora le esportazioni e la bilancia dei pagamenti.
Questa crisi quando finalmente, e questo avviene soprattutto dal 1931, non fu più sottovalutata e se ne recepirono gli effetti e le dimensioni sull’economia italiana, fu affrontata con l’emissione di nuovo titoli di debito a lungo termine che finanziarono le opere pubbliche. Il regime fascista infatti cerco di rispondere a questa crisi finanziando numerose e colossali opere pubbliche che come voce arrivò a occupare il 12,6% del totale delle spese nel 1932.
Inoltre si impegnò ad un colossale salvataggio industriale e bancario che andò a costituire nel 1933 l’Istituto per la ricostruzione industriale, più conosciuto come IRI, che fu un ente pubblico centrale nell’economia italiana fino alla sua liquidazione nel 1992. Tutte queste manovre però, non riuscirono a far ripartire davvero l’economia italiana a causa, come abbiamo già detto della forte deflazione di quegli anni. La vera ripresa si ebbe quando l’Italia si lanciò nuovamente nell’avventura coloniale, nel 1935-1936, questa volta in Etiopia.
Anche la spesa pubblica subì un notevole incremento e la spesa militare arrivò al 20,9% del totale delle spese nel 1936. Tale incremento di speso fu finanziato mediante quello che fu un vero ribaltamento di politica fiscale attuata dal fascismo. Infatti furono elaborate una serie di imposte straordinarie come quelle sui dividendi delle società commerciali, sugli immobili, sul patrimonio e sul capitale delle società per azioni e delle altre aziende industriali e commerciali; in più furono anche aumentante le imposte dirette.
Infine anche le imposte sugli affari vennero alzate e si sostituì alla precedente imposta sugli scambi, quella che risulterà un imposta fondamentale nel sistema tributario italiano anche nel dopoguerra ovvero, l’IGE (Imposta Generale sull’Entrate). Tutto ciò non solo portò malcontento nella popolazione e fece venire meno un po’ alla volta il consenso fra la classe media che era la fascia di società, su cui il fascismo aveva creato maggior consenso e dalla quale ebbe il maggior appoggio, ma queste manovre non bastarono a coprire le spese.
Il regime allora ricorse a manovre straordinarie quali la nazionalizzazione degli investimenti esteri nel 1935 o la giornata della “fede” nel 1936 che fruttò circa 400 milioni di lire; ma nemmeno queste operazioni bastarono in quanto il debito del 1935-1936 venne finanziato per il 30% attraverso stampo di moneta. Questo portò ad un innalzamento dei prezzi che costrinse l’Italia ad abbandonare il gold exchange standard nel 1936, anche se si volle e si riuscì ad allineare la lira al dollaro, cosa che resistette fino a guerra inoltrata.