ITALIA, STORIA DEL DEBITO PUBBLICO – 2

a cura di Cornelio Galas

di Gianalberto Mele

La seconda guerra mondiale

Dopo l’anschluss dell’Austria da parte della Germania nazista, e dopo la capitolazione della Cecoslovacchia il 21 settembre 1938 sempre da parte dei tedeschi era ormai sempre più chiaro lo scoppio di quella che sarebbe stata la seconda guerra mondiale.

Le alleanze già erano chiare e decise: l’asse da una parte con principali nazioni quali Germania, Italia e Giappone; dall’altra gli alleati con Gran Bretagna, Francia e in un momento appena successivo gli Stati Uniti, U.R.S.S. dopo il patto Molotov – Ribbentrop affianco della Germania dal 1941 contro. La guerra inizia ufficialmente con l’invasione della Polonia da parte della Germania il primo settembre 1939; il 10 giugno dell’anno successivo entrerà anche l’Italia in questo conflitto.

Questa guerra costò molto in termini di bilancio all’Italia anche se per alcune vicende, questo sforzo di finanziamento non costerà caro all’Italia nel secondo dopoguerra. Le spese di guerra arrivarono a toccare il 40% del PIL in corrispondenza con l’anno 1943; il governo ricominciò ad emettere titolo di debito a breve termine e si fece un larghissimo ricorso all’istituti di emissione.

Tuttavia il rapporto deficit/PIL raggiunse “solamente” il 108% ovvero molto meno rispetto al periodo della prima guerra mondiale; ma va considerato che essendo in questo caso esclusivamente debito interno, si può rilevare che fu molto più gravoso il finanziamento di questa guerra. Nel 1943, il 25 luglio cade il fascismo e l’8 settembre viene firmato l’armistizio, ma i travagli per il popolo italiano non terminarono in questa data. Infatti l’Italia rimarrà divisa in due fino al 1945 in un susseguirsi di lotte intestine e occupazioni militari; la lira non è più sotto controllo ed esplode l’inflazione, l’ordine monetario infatti sarà ristabilito solamente nel 1947 a guerra conclusa.

Secondo dopoguerra, ripresa e boom economico
(1946-1977)

Il 25 aprile 1945 viene liberata Milano, il 28 aprile viene ammazzato Benito Mussolini, finalmente l’Italia può tornare alla pace. La ricostruzione di una nazione distrutta, da un punto di vista morale, da un punto di vista delle infrastrutture e delle città bombardate, da un punto di vista della quasi totale perdita di una generazione con quasi 500000 morti, non fu facile, ma almeno il debito pubblico non fu di ostacolo.

Infatti nonostante le ingenti spese, il gran costo economico della guerra, il debito raggiunse già nel 1946 quello che rispetto al rapporto degli altri anni è veramente poca roba, ovvero il rapporto debito/PIL si assestava nel 1946 al 40%; questo dovuto all’elevatezza del livello inflattivo dopo la caduta del regime.

Dal 1946 al 1967 dopo che tramite proprio la forte inflazione, il debito dopo la guerra era stato abbattuto, l’Italia potrà godere di un trentennio in cui per la prima volta e fino ad ora probabilmente unica nella nostra storia nazionale, la questione del debito pubblico come stock ingente per le finanze statali, diverrà secondario.

La tabula rasa sul debito pubblico dovuta all’incredibile inflazione che ci fu più nel biennio 1946-1947 che nel travagliato periodo dalla caduta del regime a fine guerra; fu permessa perché lo Stato, che il 2 giugno del 1946 con un referendum divenne una repubblica, aveva apertamente contrastato il regime fascista ora sovvertito. Va annotato da un’altra parte che la Repubblica italiana non ripudiò il debito che aveva perché si considerò successore, senza soluzione di continuità, del Regno d’Italia.

L’imperativo risultava dunque quello di ripartire, far ripartire l’industria, dare un indirizzo allo sviluppo industriale di questo Paese. L’industria non era stata particolarmente danneggiata, infatti i danni di guerra ammontavano all’8% del capitale esistente rispetto al 1938, con alcune differenze settoriali, il settore metallurgico aveva subito danni per il 25% del totale rispetto all’anteguerra.

Nell’industria meccanica ad esempio la capacità produttiva al netto delle distruzioni era aumentata del 50%, considerando anche però la produzione inconvertibile. Però se a questa situazione si aggiunge quella del settore metallurgico, con la perdita dell’impianto di Cornigliano e i gravi danneggiamenti subiti a Bagnoli, e la distruzione fra 1/3 e 1/2 di praticamente tutti le comunicazioni e i trasporti, la difficoltà nel reperimento della materie prime, ed infine ancora le difficoltà politiche nel gestire un Paese appena uscito da una guerra civile, l’ espressione del primo presidente del Consiglio dei ministri dell’Italia liberata, Ferruccio Parri, “ sbarcare il lunario”, caratterizza alla perfezioni il biennio 1945-1946.

Ferruccio Parri

Quando divenne De Gasperi primo ministro, l’Italia ebbe definitivamente il suo indirizzo neo-liberista, caldeggiato anche dal ministro del Tesoro Corbino e dal governo della Banca d’Italia e poi successivamente ministro del bilancio Einaudi. Sotto De Gasperi venne costituito il Consiglio Industriale Alta Italia, vennero prodotti i “piani di primo aiuto” e nel marzo del 1946 si fece una parziale liberalizzazione del cambio per favorire le esportazioni ma questo diede vita ancora di più a fattori speculativi e spinte inflazionistiche.

Inflazione dovuta anche dalla libertà di azione al mercato azionario e delle banche, all’emissione delle “AM-lire” concordate con il governo americano per la paga dei soldati USA, ma inflazione che fu spinta anche dal pesante deficit di bilancio, infatti la coperture delle spese risultava solamente del 26% nel biennio 1946-47 e del 41% in quello successivo.
Il biennio 1945-46 fu probabilmente il più duro di tutti, calarono le razione medie in 1/3 rispetto ai livelli prebellici e la povertà era un fattore che toccava grande parte della popolazione.

Questa situazione spinse De Gasperi a recarsi nel gennaio del 1947 negli Stati Uniti a chiedere un aiuto finanziario che però non portò i risultati sperati, infatti concluse un prestito di soli 100 milioni di dollari da parte dell’Import-Export Bank. Questo viaggio permise di capire però che vi era la volontà di aiuto del governo americano nei confronti degli Stati europei, a patto dell’esclusione delle sinistre dai governi; questo avvenne nel maggio del 1947 quando De Gasperi formò il primo governo senza la presenza della sinistra.

Questo portò il governo degli Stati Uniti il 5 giugno 1947 a concedere quel piano di appoggio alla ricostruzione europea, ben conosciuto come “Piano Marshall”. Questo, era un piano multilaterale di aiuti che durò dal 1948 al 1952, volto al riequilibrio della bilancia dei pagamenti e alla reintegrazione dell’economia tedesca in un clima di inedita cooperazione fra gli stati europei. Consisteva in un piano di trasferimento gratuito di beni da parte degli USA, formulato in base una lista di richieste compilate annualmente dagli Stati europei secondo il loro piano di sviluppo.

Si occupò di tale piano per l’Italia il direttore del Centro di studi e piani tecnico economici dell’IRI Pasquale Saraceno. Questo piano fu attaccato perché non coincideva né con politiche keynesiane di sostegno alla domanda e né andò direttamente ad intaccare la piaga della disoccupazione, ma la filosofia di tale piano era quella di forzare gli investimenti produttivi nel campo delle infrastrutture e dei beni capitali in modo da riassestare in un orizzonte duraturo la bilancia dei pagamenti.

Questo modo di utilizzo degli aiuti americani collegato alla “Linea Einaudi” che tra il luglio e il novembre del 1947,portò all’aumento delle riserve bancarie, al passaggio del tasso di sconto dal 4% al 5,5% e al passaggio del cambio ufficiale della lira con il dollaro nel novembre del 1947 a 589; tutte manovre che permisero il blocco della spinta inflazionistica; tutti questi elementi collegati alla “linea Saraceno” sulla gestione degli aiuti, risulteranno le basi portanti della rinascita economica che si avrà dagli anni cinquanta in poi.

Miracolo economico italiano e anni ‘70

Terminato il piano di aiuti americani nel 1952, l’Italia che in questo poteva non occuparsi della questione debito pubblico che dal 1952 al 1971 non superò mai il 42% del rapporto debito/PIL come questione principale, ebbe tutte le carte in regola per avere una crescita sostenuta, crescita che grazie alle occasioni colte da parte dei governi e degli industriali effettivamente ci fu. Vi fu in Italia un aumento del reddito che sfiorò il 6% annuo fino al 1963, con addirittura picchi del 6,8% nel 1961.

I motivi di tale impressionante crescita sono sia interni che dovuti a contingenze internazionali; ma concatenazione di cause a parte, questa grande crescita permise davvero all’Italia di vivere dal punto di vista del bilancio di anni felici, condizioni e numeri impensabili ai nostri giorni.

In tutti gli anni sessanta vi furono solo il 1964 e il 1965 che videro il saldo della finanza pubblica italiana negativo; vi fu sostanzialmente un rientro fiscale, con il saldo corrente che copriva ed eccedeva il saldo in conto capitale fino al 1964 quando il debito pubblico raggiunse il suo punto più basso in tutta la nostra storia in termini di rapporto deficit/PIL, solamente il 27%.

Le cause di questa crescita di reddito, dovuta soprattutto alla crescita industriale che ebbe un tasso fino al 1963 di crescita fra il 9% e l’11%, possono essere analizzate da un punto di vista interno, infatti fondamentale è il livello di disoccupazione in questo periodo, l’offerta di manodopera risultava eccessiva rispetto alla domanda che permise all’industrie di pescare facilmente e senza grossi sforzi economici nel mercato del lavoro.

Dal punto di vista delle contingenze internazionali esse risultano positive perché sia vi è l’inizio di costanti e crescenti scambi con l’estero, ma rifacendosi a situazioni più specifiche nel 1950-53 vi fu la guerra di Corea, il cui fabbisogno di metallo ed altre materie lavorate fu un ulteriore stimolo alla crescita dell’industria pesante italiana, Italia che nel frattempo aveva costituito la CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’acciaio), mettendo in comune la produzione di queste due materie prime con gli altri cinque Paesi membri: Francia, Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi e Germania occidentale.

Dal punto di vista monetario, sotto il governatore della Banca d’Italia Menichella, che governò fino al 1960, fu perseguita la già citata “Linea Einaudi”, ovvero sostegno del cambio, fissato nel 1949 dopo una lieve svalutazione a 625 lire per dollaro, e controllo delle spinte inflazionistiche.

Sempre sotto la guida di Carli la politica monetaria divenne più permissiva nel 1964, e vi fu in questi anni, il tentativo riuscito da parte della Banca d’Italia di offrire al Tesoro una fonte di finanziamento alternativa, attraverso il sostegno dei corsi dei titoli pubblici. Tentativo che portò a raccogliere nel biennio 1966-67 un flusso doppio di risparmi privati nell’acquisto di questi titoli rispetto al biennio precedente.

Ma ciò non poteva proseguire senza limite di tempo in condizione di una congettura altamente inflazionistica, infatti la Banca d’Italia nel 1969 dovette abbandonare questo sostegno portando come contraccolpo un notevole aumento della base monetaria. Tale politica monetaria venne perseguita anche dopo “l’autunno caldo”, quando le condizioni interne ed esterne mutarono radicalmente, attuando strette creditizie.

Al contempo la politica monetaria era indirizzata a ricostruire attraverso l’inflazione i margini di profitto e di autofinanziamento per le imprese che erano stati persi a causa della salita dei costi, e allo stesso tempo doveva finanziare le sempre più ingenti necessità di finanziamento da parte del Tesoro.

Il processo inflazionistico dovuto ai motivi appena elencati fu tenuto sotto controllo fin quando l’Italia obbediva ad un regime di fissità del cambio, ma quando questa venne a mancare, l’inflazione e le sue conseguenze scoppiarono inesorabilmente, ripercuotendosi su tutto il decennio a venire con un tasso di inflazione praticamente mai al di sotto del 10%.

Il bilancio come detto in questo periodo fu tutt’altro che un problema, ma dalla seconda metà degli anni sessanta, esso riprese a crescere. Questo fu dovuto specialmente al fatto che l’avanzo in conto corrente degli anni precedenti risultava azzerato e non riusciva più a coprire il disavanzo dovuto agli investimenti pubblici.

Mentre le entrate risultavano proporzionalmente costanti fino al 1975, dal 1971 comincia a comparire un disavanzo anche in conto corrente che risulta del 2% nel 1971 ma sale in tutti gli anni successivi diventando del 7% nel 1975, a questi disavanzi corrisponde anche un balzo del rapporto deficit/PIL che se in tutti gli anni sessanta si era aggirato intorno al 30%, e non aveva praticamente mai superato il 40% dal secondo dopoguerra, arriva a risultare del 55% nel 1975.

Questo rapido aumento della spesa pubblica, questa fine del periodo virtuoso dell’Italia dal punto di vista fiscale, è riconducibile in special modo all’espansione delle spese sociali che vi furono dopo le riforme concesse in seguito a “l’autunno caldo”, prima fra tutti l’introduzione dello statuto del lavoro, che in parte non permise più di sfruttare la manodopera a basso costo, che permise un grosso sviluppo dell’industria negli anni precedenti.

Spese sociali che passarono dall’occupare il 13% del PIL al 16%, ma altro motivo del peggioramento delle finanze statali furono gli interessi sul debito che crebbero dal 2% al 4% del PIL, ed infine incise anche il notevole allargamento del pubblico impiego che però non fu influenzante come gli altri fattori per via della caduta del salario reale.

Una riforma fiscale diventava quindi non più rimandabile e fu fatta nel 1973-74 e fu la riforma che introdusse l’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), l’imposta sul reddito delle persone giuridiche (IRPEG), l’imposta locale sui redditi (ILOR), l’imposta sull’incremento del valori degli immobili (INVIM) ed infine l’imposta sul valore aggiunto (IVA). Questa riforma fiscale però non diede gli esiti desiderati almeno fino al 1976, per colpa dell’annata molto negativa che risulta essere il 1975, ma anche dopo riuscì solamente ad evitare una crescita di disavanzo senza sanare i reali problemi di bilancio.

Esplosione del debito dagli anni ottanta ad oggi (1978-2015)

Anni di piombo e anni ottanta

Terminata oramai la felice stagione delle virtuose gestioni del bilancio statale, ci si avvicina al termine degli anni settanta, e agli anni ottanta, in cui probabilmente per una serie di concause e non per l’ultimo per colpa di una a dir poco disattenta gestione finanziaria da parte della nostra classe politica, ci sarà un vera e propria esplosione del debito pubblico.

Questi sono gli anni in cui si viene a formare quello stock di debito che ancora oggi è causa di grosse preoccupazioni da parte di chi ci governa, e che probabilmente ancora a lungo intaccherà i pensieri e la scelte dei nostri governi.

L’ultimo lustro degli anni settanta è caratterizzato da un saldo delle spese correnti sempre negativo almeno di cinque punti percentuali che unite al disavanzo degli investimenti pubblici che si assesta in questo periodo sui 4 punti percentuali annui, porta all’alba degli anni ottanta l’Italia ad un rapporto deficit/PIL del 65 % ovvero quasi il 20% in più rispetto al 1975 e quasi il doppio se si guardano gli anni a cavallo con il 1970.

Nel 1975 Guido Carli lascia la direzione della Banca d’Italia e viene sostituito da Pietro Baffi che nel 1979 dopo un attacco della magistratura nei suoi confronti fu sostituito da Carlo Azelio Ciampi. Le politiche che però attuarono Baffi e Ciampi, seguirono un certo filo comune, infatti entrambi attuarono una politica monetaria più morbida volta a limitare l’influenza della Banca d’Italia e responsabilizzare le parti sociali.

Due furono le decisioni principali riguardo la politica monetaria e la Banca d’Italia in questo periodo: la prima è quella di entrare nello SME (Sistema monetario Europeo) nel 1979 che era un accordo per il mantenimento di una parità di cambio prefissata che poteva oscillare tra il ± 2,25% che però per Italia, Spagna, Gran Bretagna e Portogallo questo parametro risultava più elastico ovvero del ±6%. L’altra fu la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia nel 1981 grazie alla quale la banca centrale divenne autonoma dalla politica a seguito della cancellazione dell’obbligo di acquisto del debito, ovvero venne meno il finanziamento automatico del debito da parte della banca centrale.

Anche queste furono scelte che contribuirono all’aumento del deficit pubblico infatti con la difesa della lira vi è un’impennata dei tassi di interesse che a questo punto superano la pur alta inflazione, e così i tassi reali altamente positivi vanno a contribuire in modo più pesante al deficit pubblico con il servizio del debito.

Così il servizio del debito diventa il primo fattore di creazione di debito pubblico in Italia, infatti il disavanzo primario se pur notevole rimane praticamente costante in tutti gli anni ottanta all’incirca sull’8%, lo stesso abbassamento dell’inflazione non aiuta il livello dei tassi reali, anche con la diminuzione di quelli nominali, e il servizio del debito raggiunge a fine decennio il 10% del PIL dal 5% iniziale.

Quindi analizzando e confrontando la situazione fiscale italiana degli anni ottanta con quella di altri Paesi europei, si nota come la spesa pubblica italiana e spesa corrente (al netto degli interessi) risulti il 39% del PIL mentre in Francia risulta del 47% e in Germania dl 45%, quindi dato che questi Paesi avevano dei rapporti debito/PIL ragionevolmente più bassi, sarebbe illogico accollare la colpa del nostro debito alla spesa pubblica eccessiva.

Infatti il dato che appare eclatante è che le entrate fiscali in Italia nello stesso periodo si assestavano sul 34% del PIL ovvero circa dieci punti in meno rispetto a Germania e Francia, e tutto questo nonostante il livello di tassazione non fosse inferiore agli altri due Paesi presi in considerazione. L’eccezione tutta italiana quindi dipende dalla diffusione del fenomeno dell’evasione che si caratterizza in immense somme non recepite dallo Stato.

Quindi le cause principali dell’esplosione del debito pubblico italiano negli anni ottanta possono essere ascrivibili soprattutto all’evasione fiscale e gli oneri sugli interessi. Infatti l’Italia dovette offrire tassi d’interesse superiori rispetto agli altri paesi europei. L’offerta di tassi di interesse nominali più elevata rispetto ad esempio Francia e Germania, non può essere considerato casuale, infatti per via dell’importazioni che per motivi strutturali, dovuti soprattutto alle importazioni energetiche, superavano costantemente le esportazioni, l’Italia si trovò costretta a raddrizzare i conti con l’estero convogliando a sé capitali, offrendo tassi più alti che avevano il compito di remunerare i finanziatori esteri, sia per il rischio di svalutazione competitiva a cui spesso l’Italia ricorse, sia del rischio dovuto alla forte instabilità politica.

Quindi dal termine della golden age dell’economia italiana, legata anche alla crisi petrolifera del 1973 e successivamente quella del 1979 che rallentarono decisamente la crescita, e che influenzarono notevolmente tutti i processi inflazionistici sviluppati negli anni successivi, il debito pubblico crebbe fino ad arrivare al 121,8% nel 1994.

Andando nello specifico, aumentarono negli anni ottanta praticamente tutte le voci che compongono il debito; le spese sociali, dovute alla formazione di quel welfare state di cui l’Italia non era ancora ben fornita, aumentarono di 3 punti percentuali sul PIL nel periodo 1980-85, nello stesso periodo anche le spese per interessi ebbero la stessa crescita in percentuale sul PIL, mentre anche tutte le altre voci salirono marginalmente.

Le spese correnti arrivarono al 53% del PIL nel 1985, con un saldo negativo rispetto alle entrate di 7,7 punti percentuali sul PIL, tutto questo in vortice che pareva non finire mai. L’altro aspetto caratterizzante degli anni ottanta è che, questa crescita del debito pubblico, tendeva a provocare un eccesso di offerta di attività finanziarie con gravi rischi di inflazione e di deterioramento della bilancia dei pagamenti.

Ma data la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia il controllo del credito risultava indiretto e non era più possibile ricorrere a vincoli amministrativi come strumento di allocazione burocratica delle risorse finanziarie e tantomeno ad un forte finanziamento con base monetaria del fabbisogno del Tesoro. Quindi bisognava utilizzare i mercati, e da ora in avanti il modo di agire della politica monetaria si sposterà inesorabilmente dall’azione sulla quantità di moneta e credito ai tassi di interesse.

Altre cause ascrivibili alle grosse uscite dalle casse dello Stato Italiano posso ricondursi a scelte politiche di questo periodo mal calibrate: una gestione politicizzata e fallimentare del sistema previdenziale , in special modo per gli impiegati pubblici, un massiccio sostegno alle imprese, la crescente burocratizzazione della società, il mantenimento di società ed enti ai soli fini clientelari, l’eccesso di occupazione diretta nel settore pubblico e ultimo ma non per importanza la grande corruzione.

Nel 1987 il rapporto debito/PIL raggiunge il 92% ma va considerato che dal 1986 viene utilizzato un metodo per la valutazione del PIL differente, infatti con il vecchio metodo questo rapporto risulterebbe del 100%. Questa situazione non fu mai affrontata almeno fino al 1992 sul piano politico, ma fu affrontata solamente dal punto di vista tecnico, non andando mai a scovare quei meccanismi che erano fonte integrante di debito, ovvero tutto quel sistema clientelare volto ad acquistare consenso da parte della classe politica dominate. Questo trend di espansione del debito dovuto a tutte le cause appena analizzate continuò senza particolari cambiamenti almeno fino al 1992.

Fine Prima Repubblica

Nel 1989 nonostante questo grande buco di bilancio che si stava allargando, le prospettive per l’Italia sembravano ancora rosee, anzi più rosee che mai. Negli anni ottanta l’Italia crebbe, crebbe il reddito, crebbe l’industria tutti a ritmi elevati, facendo qualcuno parlare addirittura di un “secondo miracolo economico.”  Ma nel 1989 quando il debito era pari al 93% del PIL, incominciarono a salire le preoccupazione per come si sarebbe arrivati all’incontro di Maastricht del 1992, dove bisognava presentare conti in ordine per non rischiare di rimanere esclusi dal processo di unificazione della monetaria.

Nel 1989 l’unico che pareva comprendere la gravità della situazione del bilancio italiana era l’allora ministro del Tesoro Guido Carli, che raccolse gli inviti al rigore e soprattutto diede il via alla privatizzazione di grosse imprese pubbliche che terminerà nel 1992 con la dissoluzione dell’IRI.

Guido Carli

Con il passare del tempo, l’allarme sul debito pubblico crebbe ancora, nel 1991 il rapporto debito/PIL superò il 98% e fu calcolato che su ogni singolo italiano pesava un debito di 23 milioni di lire; nel frattempo per via della crescente perdita di fiducia della popolazione nel sistema, ci fu un’ancora più ampia voragine nel fisco, dovuta all’evasione. Fu proprio grazie a Guido Carli e Mario Draghi, a cui dobbiamo l’articolo 104c del Trattato di Maastricht stipulato nel febbraio del 1992, che permetteva di entrare a far dell’euro anche gli Stati con rapporto debito/PIL superiore al 60% purché intraprendano un percorso di convergenza verso questo vincolo.

Il 17 febbraio del 1992 scoppia tangentopoli, ministri, deputati, senatori, imprenditori e persino ex Presidenti del Consiglio furono indagati e molti condannati, per i reati più vari, corruzione, concussione, finanziamento illecito di partiti ecc. L’Italia nel 1992 firma il trattato di Maastricht, è scossa da tangentopoli, sulla scena compaiono nuovi partiti e nel frattempo era già caduto il Muro di Berlino e l’URSS si era appena dissolta, era una fine di un epoca nel mondo intero, e in Italia la “Prima Repubblica” stava volgendo al termine.

Nel periodo che va dal 1992 al 1994 si susseguirono governi tecnici e il debito pubblico salì ancora fino a raggiungere il picco del quasi 122% del 1994. In questa situazione di crisi al contempo politica ed economica risultò difficile tagliare le spese sociali, anche se furono chiesti sacrifici a partire dal 1992, ad esempio Amato, Presidente del Consiglio di un governo tecnico a partire dal giugno del 1992, riuscì a convincere i sindacati a rinunciare alla “scala mobile”.

I governi per trovare risorse dal 1992 al 2005 procedettero ad una trasformazione di banche ed enti pubblici in società per azione, per poi privatizzarle riuscendo a incassare da queste operazioni in totale 140 miliardi di euro. Altro evento che infierì contro la già precaria situazione italiana, fu la crisi valutaria che nel settembre del 1992 costrinse L’Italia e la Gran Bretagna ad uscire dallo SME.

Sempre dal governo Amato fu varata la nuova legge finanziaria del 1993, che avrebbe dovuto tagliare soprattutto nei settori dove la spesa appariva più incontrollabile. La situazione del bilancio in termini di debito/PIL rimase praticamente stabile fino al 1995 e subì miglioramenti dagli anni successivi, scendendo costantemente fino al 2004 al 103%. Fondamentale in questi anni per riuscire ad adottare l’euro fu la maxi finanziaria ideata da Prodi e dal suo ministro del Tesoro Ciampi, che varata nel settembre del 1997, incluse al suo interno anche l’eurotassa, e alzò di due punti la pressione fiscale italiana rispetto al PIL.

Questa mossa permise il rientro due mesi dopo all’interno dello SME e l’avvicinamento al 3% annuo di debito che sembrava oramai a portata di mano. Il lustro che va dal 1996 al 2001 mostrano, o sembrano mostrare una piccola inversione di tendenza, presentando tassi di sviluppo di nuovo accettabili e la forte riduzione dei tassi d’interesse dovuti sia dalla politica degli Stati Uniti, sia dalla nostra adesione al trattato di Maastricht.Tutto ciò ha portato a una riduzione del rapporto debito/PIL che risulterà del 109% e che scenderà ancora fino al 2004.

Diminuì dal 1994 al 2001 anche l’indebitamento delle amministrazioni pubbliche di circa 8 punti percentuali, per via della riduzione delle spese diverse da quelle degli interessi di 2 punti percentuali, di una diminuzione della spesa per interessi di circa il 5 e anche per un lieve aumento delle entrate dello 0,7%.

Dall’entrata nell’euro ai giorni nostri

L’euro entra in vigore per la prima volta il primo gennaio del 1999 per tutte le forme di pagamento non fisiche, successivamente entrerà in circolazione sotto forma di monete e banconote il primo gennaio 2002, in Italia e in altri 11 Paesi europei. Attraverso l’adozione dell’Euro e con l’adozione del D.lgs 10 marzo 1998, la Banca d’Italia viene sottratta alla dipendenza del governo italiano entrando a far parte del sistema europeo delle banche centrali e da questo momento la quantità di moneta circolante verrà decisa direttamente dalla Banca Centrale Europea.

L’introduzione dell’euro porta sicuramente nel nostro paese una stabilizzazione dei cambi e una riduzione dei tassi di interesse, che mantenendo semplicemente le spese costanti a livelli pre-euro avrebbero permesso un deciso abbattimento del debito, come ha esattamente fatto il Belgio che era in una situazione simile a quella italiana al momento della adozione dell’euro.

Ma questo non avvenne perché le spese aumentarono di praticamente di pari passo con il reddito, che aumentò fino al momento in cui scoppiò con tutte le conseguenze la crisi internazionale nel 2008-2009, di 1-1,2 punti percentuali annui. Il rapporto debito/PIL rimase sostanzialmente stabile fino al 2008 aggirandosi intorno al 105%, in seguito allo scoppio della crisi economica internazionale, nata dal crollo dei mutui subprime negli Stati Uniti, esplose nuovamente.

Dai 1600 miliardi del 2007 si passò ai 1900 miliardi del 2011, ovvero in termini deficit/PIL dal 103% al 120%50, per poi arrivare al 2014 in cui si è sforato il muro dei 2 miliardi, per l’esattezza 2134 miliardi, con un rapporto deficit/PIL pari al 132%. La situazione del debito pubblico al giorno d’oggi è questa, e nemmeno le politiche di austerità applicate negli ultimi anni sono riuscite a modificare questo trend di espansione del debito; debito che congiunto ad una spesa per interessi sul debito che nel 2014 è stata pari a 69.386 milioni ovvero al 4,2% del PIL52, e alla mancanza anche di una reale crescita economica negli ultimi anni, non lascia prospettare una soluzione rapida ed indolore, ma sicuramente è una situazione che dovrà impegnare i governi e i cittadini italiani ancora a lungo.

Conclusioni

L’obiettivo di questo studio, è stato quello di ripercorrere l’evoluzione del debito pubblico italiano nei 150 anni di storia unitaria, evidenziando come, nonostante siano radicalmente mutate le situazioni, il debito pubblico, il ricorso a questo e il modo di onorarlo e tentare di tenerlo sotto controllo e magari abbatterlo, abbia costantemente segnato la vita economica e non solo del nostro Paese.

Si inizia dai primi anni di storia unitaria, in cui il ricorso al debito avveniva soprattutto per sostenere spese “straordinarie” dovute come abbiamo visto all’accollarsi del debito degli stati preunitari, dalle guerre sostenute per raggiungere e terminare il processo unitario e dai grossi investimenti per tentare il “catching-up” con le nazioni più avanzate.

Si è visto come con il passare del tempo il debito sia stato sempre più influenzato da fattori di mercato, come per la prima volta delle crisi economiche dovute e nate in altri Paesi abbiamo influenzato la nostra economia e abbiamo costretto l’Italia a fare ricorso al debito. Si è analizzato come la gestione della politica monetaria abbia manovrato in un senso o nell’altro lo stock di debito.

Questa analisi storica evidenzia come nonostante siano mutate alcune dinamiche, l’attenzione verso questa tema resta praticamente invariato. Se si escludono gli anni che vanno dal secondo dopoguerra agli anni settanta, che per i motivi già evidenziati in questa analisi risultano più tranquilli sotto questo punto di vista, la questione del debito pubblico risulta sempre un argomento di primaria rilevanza per lo Stato italiano.

Il debito pubblico in aprile del 2015 ha raggiunto la cifra record di 2.194,5 miliardi di euro, questa analisi ha cercato di comprendere come si sia arrivati a questa cifra e quali siano le strade percorribili per abbattere questo debito, analizzando le scelte fatte nel passato. Senza dubbio l’Italia risulta avere qualche deficit strutturale che porta ad avere un bilancio in stato peggiore rispetto ad alcuni Stati simili e per dimensione, e per popolazione e per economia.

Tutta l’economia non “osservata” ovvero quella sommersa e quella che deriva da attività criminali come riportato da osservazioni dell’ISTAT risulta ad esempio nel quadriennio 2005-2008 il 27,4% del PIL scomponibile nel 16,5% per quella derivante da evasione, e il restante per 10,9% derivante dalle attività illegali.

Questo ad esempio, costituisce un grande ostacolo per avere un bilancio statale in equilibrio, colpire questo fenomeno, sarebbe una misura che andrebbe a giovare rapidamente sulle casse dello Stato e sull’economia italiana in generale. Ora l’Italia non è più libera di attuare alcune politiche che in passato sono state attuate con successo per via dall’adesione alla moneta unica e per aver delegato alla BCE la propria sovranità monetaria.

Quindi anche per non incorrere nelle sanzioni che deriverebbero da gestioni poco virtuose del bilancio in seguito all’inasprimento della procedura sul deficit dei parametri di Maastricht; la gestione del debito sarà di fondamentale importanza, per l’economia e il futuro dell’Italia. Scelte difficili in ambito di bilancio quindi attendo i governi italiani nell’immediato futuro, dato che il nostro Stato non è più nella congiuntura politica ed economica favorevole come qualche decennio addietro.

Per concludere si può dire che si, il debito italiano è pesante, e peserà inesorabilmente sui cittadini italiani nei prossimi anni, ma è sicuramente sostenibile da parte di una grande economia come la nostra, certo, come già detto, non si possono più fare scelte sbagliate, non si potranno più sostenere le spese folli da parte dello Stato che ci sono state negli ultimi anni e né si può permettere ancora questo elevatissimo grado di evasione fiscale.

Come si è visto il debito è salito ed è sceso negli anni, sicuramente con le politiche adatte e con una ripresa economica, il debito potrà scendere nei prossimi anni, ma ciò non toglie che resterà un argomento di vitale importanza sia per i nostri governanti che per tutto lo Stato italiano, ma come visto da questa analisi storica i problemi legati al deficit si possono superare e il debito pubblico potrà essere di nuovo abbassato, magari con politiche diverse da quelle esercitate nel passato e in un’analisi futura si potranno analizzare diverse soluzioni da quelle già viste; l’unica cosa certa è che il debito pubblico anche nei prossimi anni resterà un tema cardine per tutta la vita economica e non dell’Italia.

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