a cura di Cornelio Galas

Hitler e Mussolini a Villa Gaggia di Feltre
Quali i rapporti, oggi, 2017, tra Italia e Germania? A parte le polemiche, in ambito Ue, con la Merkel, di certo sono migliori del 1945, alla fine della seconda guerra mondiale. Quando nazismo e fascismo crollarono, con l'”anomalia” – per l’Italia – dell’8 settembre 1943. Filippo Triola, in una tesi di laurea all’Università di Bologna, ha affrontato proprio questo tema: la costruzione delle relazioni politiche ed economiche tra l’Italia e la Germania occidentale dopo la seconda guerra mondiale (1945-1951).
Di cosa si tratta? Della costruzione delle relazioni politiche ed economiche tra l’Italia e la Germania occidentale nel periodo compreso tra la fine della seconda guerra mondiale e la ripresa ufficiale dei rapporti diplomatici nella primavera del 1951. Un ambito di ricerca che non è stato oggetto di molte trattazioni complessive e molti dei suoi aspetti sono stati poco studiati.

Mussolini e Hitler
Ben diversa appare la situazione se si prende in esame la storiografia sulle relazioni politiche e diplomatiche italo-tedesche nella prima metà del Novecento che può vantare una ricca tradizione di studi. L’alleanza tra Hitler e Mussolini ha attirato l’attenzione degli storici fin dai primi anni del secondo dopoguerra.

Visita ufficiale di Hitler a Roma nel 1938; sul palco in prima fila da sinistra: Benito Mussolini, Adolf Hitler, Vittorio Emanuele III, Elena del Montenegro; in seconda fila, da sinistra: Joachim von Ribbentrop, Joseph Goebbels, Rudolf Hess, Heinrich Himmler
La politica estera del fascismo, la costruzione dell’Asse nel 1936 e la firma del Patto d’Acciaio nel 1939, così come la comune condotta bellica durante la prima parte del secondo conflitto mondiale, rappresentano temi ampiamente indagati dalla storiografia tedesca ed italiana.
Disfatta e tragedia: la fine della seconda guerra mondiale in Italia e Germania
“Con molto sbalordimento abbiamo saputo dello sbarco di truppe americane e canadesi sulla costa sud-orientale della Sicilia, la caduta di Siracusa, di Catania, di Messina e Taormina, e con un misto di spavento e d’invidia, col penetrante sentimento che noi non saremmo capaci di tanto, né in bene né in male, abbiamo appreso come un paese, le cui condizioni di spirito e la cui solita freddezza ancora gli consentono di tirare le conseguenze da una serie di scandalose perdite e sconfitte, si sia sbarazzato del suo grand’uomo per concedere poco dopo al mondo ciò che si pretende anche da noi e che la profonda miseria ci renderebbe troppo caro concedere: cioè la resa incondizionata.
Noi siamo, infatti, un popolo tutto diverso, un popolo dall’anima potentemente tragica, contrario alle cose prosaiche e consuete, e tutto il nostro amore va al destino, un destino pur che sia, magari la rovina che infiamma il cielo con la rossa vampa d’un crepuscolo degli Dei!”
Thomas Mann, Doctor Faustus
Ma cerchiamo di capire meglio da dove si parte …
GLI ULTIMI ANNI DI GUERRA E LA ROTTURA DELL’ASSE
Gli ultimi anni della seconda guerra mondiale costituirono una fase densa di mutamenti per la storia delle relazioni politico-diplomatiche italo-tedesche. Nella seconda metà del 1943, come è noto, la caduta del fascismo e la sostituzione di Mussolini con il maresciallo Pietro Badoglio, attuata il 25 luglio da parte del re Vittorio Emanuele III, avviarono e garantirono sul piano della politica interna italiana quella continuità dello stato e del governo che le continue disfatte militari a fianco della Germania nazionalsocialista nella guerra contro gli alleati sembravano precludere.
Tra il 25 luglio e il 13 ottobre 1943 quegli stessi sviluppi sul piano internazionale e sul piano della politica estera italiana contribuirono a consumare definitivamente l’alleanza tra l’Italia fascista e la Germania nazista, così come essa era maturata nel corso della seconda metà degli anni Trenta.

Badoglio e Mussolini
La notizia della caduta di Mussolini e della formazione del governo Badoglio ebbe l’effetto di un «colpo di fulmine» presso il quartier generale del Führer nella Prussia orientale. La presenza di Mussolini alla guida dell’Italia era considerata dai vertici del Terzo Reich indispensabile.
Fin dal 1936 la costruzione dell’Asse tra i due sistemi ideologicamente affini era stata condizionata da riserve e ostilità recondite che rappresentavano il risultato di reali contrasti di interesse tra i due paesi. Tuttavia gli iniziali successi in politica estera e la stabilità della dittatura di Mussolini erano riusciti ad arginare ed indebolire quei blocchi di potere poco inclini ad una stretta alleanza italo-tedesca.
A partire dalla seconda metà del 1942 la crisi militare dell’Italia su tutti i fronti, specialmente in Russia, i bombardamenti alleati a tappeto sulle città italiane e la scarsità dei generi alimentari coagularono i diversi orientamenti del paese contrari al proseguimento della guerra al fianco della Germania.
Per i tedeschi, quindi, divenne sempre più evidente che la stabilità di Mussolini rappresentava un fattore essenziale per la sopravvivenza dell’Asse. Per tale motivo gli eventi del 25 luglio non furono interpretati da Hitler e dai suoi più stretti collaboratori alla stregua di un semplice mutamento di politica interna, ma rappresentarono una radicale trasformazione dell’intera alleanza, destinata a privare l’Asse italo-tedesco di ogni significato politico.

Mario Luciolli
Il timore di un possibile colpo di stato messo in atto dai tedeschi, allarmati dalla caduta di Mussolini, per liquidare il governo Badoglio fu avvertito da diversi diplomatici italiani. L’allora giovane console Mario Luciolli, futuro ambasciatore a Bonn dal 1964 al 1976, ricordando i giorni successivi al 25 luglio ha scritto in un libro di memorie:
«Il 25 luglio credetti che i tedeschi non avrebbero atteso più di qualche ora per rovesciare il Governo regio e occupare l’Italia intera. Ricordavo la rapidità con la quale avevano reagito al colpo di Stato jugoslavo dell’aprile del 1941 e pensavo non si facessero illusioni sul significato della caduta di Mussolini».
Fu proprio intorno alla fine di luglio che Hitler iniziò a parlare di “tradimento” dell’Italia e degli italiani anche se i rapporti provenienti dai rappresentanti tedeschi a Roma, l’ambasciatore von Mackensen e l’addetto militare von Rintelen, non pronosticavano ancora alcun rovesciamento dell’alleanza.
Tuttavia, così come si sospettava a Berlino, il compito più delicato e importante del governo Badoglio era quello di sganciare il suo paese dall’ormai scomodo alleato tedesco. Il nuovo governo italiano, contrariamente a quanto aveva affermato ancora alla fine di luglio, quando aveva tentato di rassicurare i vertici del Terzo Reich circa la volontà di continuare la guerra a fianco della Germania, avviò delle trattative diplomatiche segrete con gli alleati per porre termine allo stato di guerra fra l’Italia e gli eserciti delle Nazioni Unite.
Da un punto di vista politico e diplomatico, l’epilogo dell’Asse Roma-Berlino e del Patto d’Acciaio fu contraddistinto da doppi giochi, equivoci e sospetti da entrambe le parti, allo stesso tempo diede avvio ad una delle fasi più drammatiche della storia dei rapporti italo-tedeschi. Come ha scritto Gerhard Schreiber: «in fin dei conti si può constatare che nell’inverno 1942-43 l’asse Berlino-Roma era già spezzato. Oramai quest’alleanza attendeva solo la sua liquidazione ufficiale. La quale avvenne l’8 settembre 1943 quando l’Italia uscì dalla guerra. Da quel momento, dal punto di vista tedesco il Paese era tanto “traditore badogliano” quanto “amico sottomesso”».
Da parte tedesca, dei gerarchi nazisti e di Hitler, l’uscita dell’Italia dalla guerra attestava il fallimento dell’opera di Mussolini sul popolo italiano e confermava l’immagine, non nuova, di nazione inaffidabile (unzuverlässig), capace da un punto di vista politico di organizzare solo tradimenti (Verrat). L’inaffidabilità militare degli italiani risaliva, da parte tedesca, alla prima alleanza tra la Prussia di Bismarck e il Regno d’Italia nel 1866 contro l’impero Austro-Ungarico, quando l’esercito regio diede deludenti prove per terra e per mare nelle battaglie di Custoza e Lissa.
Anche il “cambio di fronte” politico maturato nell’estate del 1943 si inseriva, nell’ottica dei dirigenti tedeschi, in una linea di continuità che trovava l’“eclatante” precedente nell’atteggiamento del governo italiano durante la prima guerra mondiale, con l’abbandono della Triplice e l’alleanza con le potenze dell’Intesa.
La tesi di un tradimento italiano rappresenta, come è noto, una semplificazione che in genere la storiografia di entrambi i paesi ha finito per respingere. In merito all’8 settembre Aga-Rossi ha sostenuto che:
«[…] l’idea del tradimento distorce la realtà storica. La Germania considerava da tempo l’Italia un paese satellite che doveva servire gli interessi tedeschi e non quelli nazionali […] ci si deve domandare non se il governo Badoglio agì correttamente decidendo di arrendersi ma perché si perse tanto tempo prezioso, perché non si reagì quando venne violata l’integrità territoriale e si tardò fino a quando l’Italia era un paese occupato».
Intorno allo stesso tema Rudolf Lill, Jens Petersen, Gerhard Schreiber e Lutz Klinkhammer concordano nel giudicare del tutto infondati i giudizi denigratori verso l’Italia formulati in Germania tra il 1943 e il 1945. In particolare Klinkhammer ha scritto che:
«[…] dopo la capitolazione, nella loro stragrande maggioranza i soldati italiani avevano rifiutato di collaborare con l’ex alleato. Questo comportamento venne considerato da Hitler come un “tradimento”. E anche se tale accusa all’indirizzo degli italiani non trova alcuna giustificazione sul piano né giuridico né morale, dal punto di vista di Hitler appare perfettamente chiara: il “Führer” carismatico, sottratto com’è sia alla critica sia al controllo, non ammette che ci si distacchi da lui.
Egli pretende obbedienza assoluta. Se questa gli viene negata, egli interpreta tale comportamento come un “tradimento”. E la capitolazione italiana costituì un’aggravante di tale rifiuto[…] – Più avanti sostiene ancora Klinkhammer – […] vista dalla prospettiva odierna, non è giustificata l’accusa mossa al governo italiano di aver “tradito” l’“alleato”.
L’8 settembre, poco dopo l’annuncio alla radio dell’armistizio, firmato il 3 settembre a Cassibile nella Sicilia già occupata dagli angloamericani49, l’esercito tedesco mise in atto il piano «Asse» (Achse). Quest’ultimo era stato preparato e perfezionato dal comando tedesco nel corso dell’estate e prevedeva in caso di capitolazione dell’Italia, considerata oramai scontata, la chiusura dei confini settentrionali, il controllo delle più importanti installazioni militari e dei principali snodi del sistema dei trasporti, nonché il disarmo e l’allontanamento dal teatro di guerra dell’esercito italiano.
Si trattava di una vera e propria occupazione militare, il cui scopo principale era di mantenere contemporaneamente il possesso e la difesa delle basi di approvvigionamento nell’Italia settentrionale. Dopo l’8 settembre la mancata difesa di Roma e soprattutto la fuga del re, della corte, del governo e dei capi militari nella notte del 9 settembre prima a Pescara e poi a sud verso Brindisi determinarono la polverizzazione dell’esercito italiano su tutto il territorio della penisola.
Per gli alleati la campagna d’Italia era stata messa a punto principalmente con lo scopo di tenere impegnato un certo numero di forze tedesche. Questa tattica militare contribuì a trasformare il paese in uno dei tanti teatri di guerra europei e a prolungare per molto tempo la divisione dell’Italia cominciata con la lenta risalita dal sud degli angloamericani. Pertanto il mezzogiorno, a differenza del resto della penisola, fu quasi subito occupato dall’esercito alleato; le regioni dell’Italia centrale, invece, rimasero sotto il controllo tedesco fino all’estate del 1944, mentre il nord divenne fino all’aprile del 1945 teatro di guerra dei partigiani contro tedeschi e fascisti di Salò.
Il meridione, tuttavia, fu la parte di territorio che subì alcune delle più devastanti distruzioni previste dal programma tedesco per ritardare l’avanzata alleata. Infatti, mentre in Lucania, Calabria, e Puglia a causa della critica situazione militare i tedeschi non riuscirono a mettere in atto il programma di distruzioni e spoliazioni fissato, nella zona di Napoli la Wehrmacht ebbe più tempo a disposizione per trasformare in terra bruciata il territorio da cedere.
Il 23 settembre l’esercito tedesco distrusse gli impianti industriali della città di Napoli, in particolare le officine Ansaldo di Pozzuoli e l’Ilva di Bagnoli. La storiografia ha oggi opportunamente sottolineato l’importanza di questi episodi, rilevando il profondo impatto che tali distruzioni produssero su molti dirigenti industriali del resto del paese. Si intuì che per tentare di conservare intatto il potenziale industriale italiano fino alla fine della guerra bisognasse in qualche modo collaborare con la potenza occupante.
Sul piano politico e amministrativo la presenza all’interno del territorio italiano di due eserciti, quello tedesco e quello alleato, si tradusse nella compresenza di due diversi governi italiani. Infatti, mentre al sud continuava nella forma e nella sostanza l’esperienza istituzionale monarchica con il governo Badoglio, nel nord del paese i tedeschi, dopo aver liberato Mussolini, che era tenuto prigioniero sul Gran Sasso, decisero di far rivivere il fascismo e di ripristinare un governo fascista.
Il 23 settembre Mussolini annunciò a Salò la costituzione della Repubblica sociale italiana57. Il nuovo governo fascista si estendeva formalmente su tutta l’Italia in mano ai tedeschi, ma la sua attività amministrativa cessava nelle «zone d’operazione», quelle a ridosso del fronte di guerra, dove le autorità fasciste erano controllate da «alti commissari» tedeschi.
Le province della Venezia Tridentina, della Venezia Giulia e dell’Alto Adige furono incluse nella categoria di «zone d’operazione», sottratte, quindi, all’amministrazione della Repubblica sociale e affidate al controllo di Gauleiter di origine austriaca. Tale opzione politica si rivelò di particolare importanza per le conseguenze che ebbe sui rapporti italo-tedeschi dopo l’istituzione della Repubblica federale Tedesca.
Queste province, infatti, nella percezione dei diplomatici e dei funzionari del ministero degli affari Esteri del governo Badoglio, furono annesse direttamente al Reich e per tale motivo durante i primi anni Cinquanta la diplomazia italiana si dimostrò sempre molto sensibile a qualsiasi tipo di presenza tedesca all’interno di questi territori.
Dall’altra parte del paese i diversi governi provvisori italiani, fin dalla composizione del Regno del Sud nel 1943, svolsero una tenace azione diplomatica volta a dare risalto al distacco dell’Italia dall’alleanza con la Germania e al graduale passaggio nell’ambito della coalizione delle potenze antinaziste e – più specificamente – nell’area delle potenze occidentali.
A partire dall’8 settembre 1943, e soprattutto alla fine della seconda guerra mondiale, i governi provvisori italiani puntarono molto sulla cobelligeranza (formalizzata il 13 ottobre 1943) e sul contributo dato dai partigiani nella guerra contro il nazismo per dimostrare agli alleati il totale distacco dall’ex alleato tedesco.
La Germania nazionalsocialista non riconobbe mai il Regio Governo, ma unicamente la Repubblica sociale italiana e solo il governo di Salò fu considerato dai tedeschi legittimo in Italia. Per tale motivo per il Terzo Reich non esistette mai né formalmente, né diplomaticamente, uno stato di guerra tra la Germania e l’Italia o un qualsiasi governo italiano.
La dichiarazione di guerra del governo Badoglio alla Germania (13 ottobre), presentata attraverso l’Ambasciata italiana a Madrid a quella tedesca presente nella stessa città, con la quale si voleva dare sostanza al concetto ancora vago di cobelligeranza dell’Italia associata agli angloamericani nella lotta contro il nazifascismo, fu praticamente ignorata a Berlino. Questo aspetto in apparenza marginale provocò all’inizio degli anni Cinquanta non pochi problemi giuridico-diplomatici.

PIETRO BADOGLIO
La dichiarazione di guerra alla Germania costituì negli anni seguenti uno degli aspetti più controversi della normalizzazione giuridica dei rapporti bilaterali italo-tedeschi. Infatti, ancora nell’estate del 1951 i rappresentanti italiani constatarono, non senza sorpresa, che gran parte dell’entourage governativo della Repubblica federale e la stessa popolazione tedesca ignoravano quasi del tutto l’atto ufficiale della dichiarazione di guerra e della sussistenza di uno stato di guerra in vigore fin dal 1943 e mai formalmente venuto meno.
Con l’inizio della cobelligeranza, pertanto, cessarono tutti i contatti diplomatici tra Terzo Reich e Regno del Sud. Già subito dopo la caduta di Mussolini i rapporti erano diventati molto tesi e gli incontri con i rappresentanti tedeschi, che erano ancora molto frequenti prima di luglio, diminuirono quasi del tutto.
Dopo il 25 luglio 1943 l’ambasciatore Raffaele Guariglia, diplomatico di provata fede monarchica e non molto entusiasta dell’alleanza con la Germania, fu richiamato dalla sede di Ankara e fu nominato ministro degli Esteri del governo Badoglio, carica che mantenne fino all’11 febbraio 1944. La scelta del nuovo ministro degli Esteri, il primo dell’era post-fascista, avrebbe dovuto significare un primo timido segnale di discontinuità rispetto al fascismo, anche se finì per insospettire i tedeschi e non convincere gli alleati.

Raffaele Guariglia
Infatti, come i documenti d’archivio sembrano suggerire, il ministero degli Esteri svolse in seguito un ruolo marginale nel corso delle trattative per l’armistizio. Il ministro degli Esteri Guariglia e molti diplomatici presenti a Roma nel settembre del 1943 non furono avvisati dal governo della scelta di abbandonare la capitale dopo l’annuncio dell’armistizio.
Tra i più importanti funzionari del ministero degli Esteri quelli probabilmente al corrente dell’azione diplomatica condotta dal governo Badoglio con gli alleati erano solo Renato Prunas (all’epoca ambasciatore a Lisbona) e qualche suo collaboratore, i quali avevano seguito la missione del generale Castellano nella capitale portoghese.
I primi funzionari del dicastero degli Esteri riuscirono a raggiungere Brindisi soltanto il 23 settembre. Il comportamento dei diplomatici italiani, contestualmente alla formazione del governo di Salò, fu nella stragrande maggioranza dei casi orientato all’adesione e alla fedeltà al governo monarchico, tanto nei paesi neutrali quanto in Germania e nei paesi aderenti al Tripartito (Bulgaria, Romania, Ungheria). Tra i paesi neutrali, infatti, nessun governo riconobbe la Repubblica di Salò e il Regno del Sud continuò ad essere considerato l’unico governo italiano legittimo.
L’Italia rappresentò, quindi, un caso molto particolare fra i paesi dell’Europa occidentale occupati dai tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale. Teoricamente l’Italia continuava ad essere l’alleata del Reich nella lotta contro gli alleati. Anche il «Patto d’Acciaio», che l’Italia fascista aveva stipulato con la Germania nazionalsocialista nel maggio del 1939, rimase in vigore e, senza tener conto dell’occupazione, non venne mai denunziato.
La peculiarità della situazione italiana è stata efficacemente riassunta da Klinkhammer nella formula dell’“alleato occupato”: fino alla fine della guerra la Germania, nonostante la progressiva severità dell’occupazione che aumentava in modo direttamente proporzionale alle sconfitte subite dall’esercito tedesco su tutti i fronti, considerò sempre l’Italia un paese alleato sia formalmente che diplomaticamente.
Tuttavia l’ambiguità dello status della Repubblica sociale italiana – stato alleato o paese occupato? – e la sensazione del crescente rigore rappresentato dalle continue ingerenze tedesche nella gestione dello stato fascista traspare in maniera netta da molti documenti. La storiografia ha fortemente sottolineato questo aspetto, secondo Ganapini:
«I tedeschi: la loro presenza e la loro politica segnano in modo pesante non solo i limiti dell’azione diplomatica, ma anche tutto il tragitto di questo ceto, diplomatici o funzionari di carriera di qualsivoglia amministrazione dello Stato; e condizionano gli esiti delle sue azioni, pongono in dubbio ai suoi stessi occhi la validità delle scelte compiute».

Domenico Pellegrini Giampietro
Sono soprattutto le fonti di carattere economico e finanziario ad evidenziare la consapevolezza da parte degli organi della Repubblica sociale di un’assoluta impotenza circa l’imposizione di una qualsiasi forma di sovranità. In un appunto per Mussolini del 12 dicembre 1944 redatto dal ministro delle Finanze di Salò, Domenico Pellegrini Giampietro, si legge:
«[…] a causa delle ingerenze germaniche, il nostro controllo doganale alle frontiere è in pratica quasi inesistente, ciò costituisce non solo una umiliante menomazione del nostro diritto di sovranità, ma anche conseguenze materiali di vastissima portata».
Il documento illustrava a Mussolini altri importanti punti critici della difficile alleanza con i tedeschi; un’alleanza che aveva finito per esautorare le autorità della Repubblica sociale anche nei settori non connessi direttamente con le operazioni belliche:
«[…] È poi da rilevare che molto spesso le truppe germaniche effettuano asportazioni di materiali e di cose senza lasciare alcuna ricevuta, procedimento che, mentre pone i danneggiati nella situazione di non poter documentare né di far fronte alle Autorità tedesche né a quelle italiane il danno subito ai fini di ottenere il risarcimento, determina condizioni di disagio. […]
Diversamente da come dovrebbe avvenire, le nostre esportazioni verso la Germania si svolgono senza la regolare licenza […] Da ciò consegue che le competenti Autorità italiane non hanno alcuna possibilità di controllare ed efficacemente regolare le nostre correnti di esportazione, né di evitare l’abuso che spesso si verifica di merci italiane che vengono avviate in Germania per essere poi riesportate in terzi Paesi senza alcuna contropartita per noi, inoltre la mancanza di un nostro efficace controllo sulle esportazioni toglie ogni possibilità di garantirci che le merci esportate vengano effettivamente pagate o compensate con altre merci e toglie anche il modo di riscuotere i diritti e le tasse che normalmente gravano la esportazione […]».
La fine dell’Asse e i successivi sviluppi politico-militari crearono delle pesanti ipoteche sul futuro dei rapporti italo-tedeschi. Le traumatiche fratture degli anni 1943-1945 incisero il loro segno in ambito politico, economico, sociale e culturale80. In questa sede risulta indispensabile esporre alcuni complessi nodi problematici lasciati irrisolti dalla fine del conflitto, e che a partire dai primi anni del dopoguerra assunsero un peso non irrilevante nell’agenda diplomatica italiana sulla Germania: in primo luogo il problema rappresentato dagli oltre 600.000 membri dell’esercito italiano che caddero nella prigionia di guerra tedesca dopo l’8 settembre.
A questi bisogna aggiungere un numero non ben precisato di altri soldati e civili caduti in mano tedesca in seguito ai rastrellamenti. Nell’autunno del 1943 Hitler ordinò di trasformare lo status dei prigionieri di guerra italiani in «Internati Militari Italiani» (IMI). Il nuovo status ebbe grandi conseguenze per gli italiani rinchiusi nei campi di prigionia; a partire dal quel momento, infatti, tutti gli IMI non ebbero più alcun diritto al rifornimento di viveri attraverso l’assistenza della Croce Rossa.
Questa enorme massa di forza lavoro risultò particolarmente utile all’economia di guerra tedesca che proprio a partire dal 1943 cominciava a soffrire di un deficit di manodopera. Pertanto al momento della resa incondizionata della Germania dell’8 maggio 1945 più di mezzo milione di cittadini italiani si trovavano in territorio tedesco in attesa di essere rimpatriati.
Un altro aspetto reso ancora più complesso dalla scomparsa in Germania di qualsiasi autorità tedesca sovrana e legittima in seguito alla sconfitta fu la regolamentazione della posizione dei lavoratori italiani in Germania, il cui flusso migratorio era stato regolato fino al 1943 da accordi bilaterali italo-tedeschi.
Tra il 1938 e il 1943 circa 500.000 italiani erano emigrati nel Reich sulla base di accordi economici intercorsi tra Roma e Berlino. Negli anni precedenti lo scoppio della seconda guerra mondiale grazie a questo tipo di accordi l’Italia cercò di puntare sulla crescente domanda di forza lavoro da parte della Germania per scaricarvi quote di disoccupazione interna e ricavarne poi degli utili attraverso l’invio delle rimesse degli emigranti.
Queste ultime costituivano, insieme al turismo, la parte quantitativamente più rilevante delle famose partite invisibili grazie alle quali l’Italia riusciva a mantenere in equilibrio la bilancia dei pagamenti con la Germania nel corso degli anni Trenta. Dopo lo scoppio della guerra e soprattutto dopo l’inizio dell’operazione Barbarossa (giugno 1941) le rimesse dei lavoratori italiani in Germania superarono il valore delle importazioni di carbone, materia prima indispensabile per il funzionamento dell’industria italiana e che costituiva una delle voci più importanti delle importazioni italiane dalla Germania.
Il peggioramento della campagna di Russia contribuì a far accumulare un consistente credito a favore dell’Italia, rendendo il pagamento sempre più difficile per la Germania. Per questo motivo tra il 1942 e il 1943 l’Italia sollecitò delle operazioni di rimpatrio che tuttavia si interruppero l’8 settembre, lasciando in Germania circa 100.000 lavoratori italiani. Il nodo problematico del caso dei lavoratori italiani in Germania era rappresentato dal mancato pagamento.
Tra il settembre 1943 e il maggio 1945, infatti, la Germania decise di sospendere il trasferimento dei risparmi dei lavoratori italiani. Le somme accumulate furono depositate dalle autorità tedesche su conti bloccati presso la Deutsche Bank e la Deutsche Verrechnungskasse.
Infine, la radicalità della sconfitta tedesca e le conseguenze del Trattato di pace dell’Italia (febbraio 1947) procrastinarono la soluzione dei pagamenti per diversi anni: solo nel momento in cui la Repubblica federale agli inizi degli anni Cinquanta cominciò gradualmente ad acquisire margini di sovranità in politica estera fu possibile intavolare discussioni diplomatiche bilaterali anche su questo particolare aspetto legato alle eredità lasciate in sospeso dalla rottura dell’Asse e dalla fine della seconda guerra mondiale.
L’intera vicenda relativa alle asportazioni effettuate dai tedeschi dopo la firma dell’armistizio dell’Italia e l’inizio della cobelligeranza rientra tra le dirette conseguenze della confusa situazione italiana durante il periodo 1943-1945, situazione che vedeva l’Italia come paese formalmente alleato della Germania nazista, ma allo stesso tempo occupato militarmente.
Dalla documentazione conservata presso l’Archivio Storico del ministero degli affari Esteri si evince che la diplomazia italiana fin dai primi mesi del 1944 assunse in tale materia un atteggiamento caratterizzato dall’aspettativa di un pieno recupero dei vari beni. Gli alleati, tuttavia, solo nei primi mesi del 1945 palesarono la loro intenzione di procedere subito dopo la fine della guerra all’individuazione e alla restituzione ai vari paesi europei dei beni sottratti dai tedeschi durante le occupazioni militari. Infatti, solamente nel marzo del 1945 le autorità alleate si dichiararono disponibili a soddisfare le richieste italiane di recupero dei beni.
Per l’Italia, in particolare, si trattava di recuperare l’oro della Banca d’Italia, alcune opere d’arte91 e un numero difficilmente calcolabile di attrezzature industriali. Le riserve auree italiane erano entrate in possesso delle autorità tedesche nel febbraio del 1944 attraverso un accordo firmato da Mazzolini, Segretario generale del ministero degli Esteri di Salò, e dall’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, plenipotenziario del Reich in Italia dopo il richiamo di von Mackensen (quest’ultimo rimosso anche perché secondo Hitler non aveva saputo bene prevedere gli eventi del 25 luglio).
Sul piano giuridico l’accordo configurava una libera cessione di oro da parte del governo di Salò come corrispettivo della fornitura, da parte tedesca, di un servizio preciso: la difesa dell’Italia dal comune nemico angloamericano. Anche in questo caso il peculiare contesto dell’alleato occupato consentì ai tedeschi di procacciarsi il metallo prezioso italiano: sul piano teorico e formale tale acquisizione non avvenne in conseguenza di un’occupazione militare e quindi di preda bellica, ma in virtù di un libero trattato tra due governi sovrani.
Nella sostanza si trattò di una requisizione forzata consentita solo grazie ai rapporti di forza del tutto squilibrati esistenti tra il Terzo Reich e la Repubblica sociale italiana. Dopo la fine della guerra gli alleati non riuscirono a recuperare tutto l’oro depredato dai tedeschi nei diversi paesi europei. Pertanto, per assicurare la massima equità di trattamento a tutte le nazioni vittime delle asportazioni di oro fu messo a punto un meccanismo per la restituzione che prevedeva l’accentramento di tutto l’oro recuperato in un unico deposito per poi distribuirlo in quote diverse a tutti gli aventi diritto.
Per quanto riguarda l’oro italiano fu soprattutto la Banca d’Italia ad impegnarsi nel dopoguerra a fornire i tecnici e a coadiuvare il governo e il ministero degli Esteri nel corso dei non sempre facili negoziati con gli alleati per l’ammissione del paese al gruppo delle nazioni aventi il diritto di restituzione. Non si deve trascurare, infatti, che nel contesto degli accordi internazionali del dopoguerra per le restituzioni dei beni l’Italia si trovò spesso in condizioni di debolezza contrattuale per via dell’imposizione del Trattato di pace e soprattutto a causa della precedente alleanza con la Germania.
La vicenda relativa al trafugamento delle opere d’arte risulta, invece, molto più difficile da ricostruire: l’insufficienza di una buona letteratura sull’argomento non consente una dettagliata e allo stesso tempo complessiva ricomposizione della vicenda, la quale non si concluse nei primi anni del dopoguerra ma richiese diversi decenni di ricerche. Nella primavera del 1945, a guerra in corso, fu costituito presso il ministero della Pubblica Istruzione un Ufficio Recuperi diretto da Rodolfo Siviero con lo scopo di rintracciare le opere d’arte prelevate dai tedeschi durante il conflitto.

Rodolfo Siviero
Nell’autunno del 1946 il ministero degli Esteri e il ministero dell’Istruzione organizzarono una missione per il recupero in Germania delle opere d’arte trafugate dai tedeschi dopo l’8 settembre. L’operazione fu guidata da Siviero in collaborazione con un gruppo di esperti di belle arti e, tra il 1947 e il 1948, la missione riuscì a rintracciare diverse opere d’arte. L’ufficio Recuperi rimase in vigore, dopo ripetute proroghe, fino a tutto il 1954; nel 1955 fu creata presso il ministero degli Esteri una Delegazione per le Restituzioni (guidata sempre da Siviero) che mantenne la carica fino alla fine degli anni Settanta.
All’interno del più generale rapporto tra industria italiana e occupante tedesco la storia delle asportazioni dei macchinari industriali è quella che consente di sviluppare maggiori spunti di riflessione ed è quella che nel corso degli anni ha interessato maggiormente gli storici101. In primo luogo dopo l’assestamento della linea del fronte nel sud dell’Italia i tedeschi decisero di mantenere in piena attività la produzione nel nord del paese per fornire alle truppe in Italia settentrionale armi e attrezzature belliche.
Lo sfruttamento in loco del potenziale industriale italiano del nord fu in linea di massima preferito all’opzione del completo saccheggio accompagnato da distruzioni (diversamente da quanto era stato deciso per il sud Italia). Secondo Collotti l’occupazione tedesca fu per gli industriali italiani un fenomeno secondario e limitato nel tempo. Con le forze di occupazione si cercò di giungere ai compromessi necessari per non subire grosse perdite fino alla fine della guerra.
Nessun industriale credeva più alla vittoria dei tedeschi, e quindi la prospettiva di una vittoria angloamericana fu determinante per il comportamento cauto nei confronti delle forze di occupazione e in secondo piano con i fascisti. L’obiettivo degli imprenditori, in vista di una futura ricostruzione dell’Italia, fu rappresentato dalla volontà di non compromettersi prendendo posizione per la parte perdente.
Gli studi e le ricerche di storia economica sul periodo della ricostruzione in Italia hanno indirettamente confermato le tesi incentrate sullo scarso valore degli smantellamenti industriali effettuati dai tedeschi. Gli studi di Rolf Petri, ad esempio, hanno appurato che le distruzioni belliche e il trasferimento di macchinari industriali durante l’occupazione tedesca furono tutto sommato limitati.
Diversi autori hanno individuato, infatti, le maggiori difficoltà di ripristinare i normali ritmi di produzione nel dopoguerra nelle strozzature relative all’accesso alle materie prime, in particolare nel rifornimento del carbone. Nel 1946 il ministero degli Esteri, in collegamento con il ministero dell’Industria e Commercio, istituì una missione per il recupero dei beni industriali asportati dai tedeschi: un gruppo di ingegneri ebbe il compito molto difficile di individuare e recuperare le poche attrezzature trasferite in Germania.
Nella maggior parte dei casi i prelevamenti dei macchinari erano avvenuti senza lasciare documentazione. A causa delle difficoltà oggettive inerenti l’individuazione e l’identificazione dei materiali industriali, pertanto, la missione terminò la sua attività alla fine del 1948.
Infine, le fratture degli anni 1943-1945 lasciarono in sospeso il futuro degli istituti scientifici di proprietà tedesca in Italia. In nessun altro paese d’Europa la Germania possedeva un numero così elevato di istituti culturali. Nella città di Roma erano presenti l’Istituto Archeologico Germanico, l’Istituto Storico Germanico e la Biblioteca Hertziana (Max Planck Gesellschaft), mentre a Firenze si trovava l’Istituto Germanico di Storia dell’Arte. Gli istituti scientifici tedeschi di Roma e Firenze non erano stati istituiti durante gli anni dell’Asse ma risalivano quasi tutti al XIX secolo.
Già dopo la prima guerra mondiale erano sorte delle controversie bilaterali sul destino delle prestigiose biblioteche. Nel 1919 l’Italia aveva confiscato tutto il patrimonio librario degli istituti; successivamente grazie all’interessamento di Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica Istruzione nel governo Giolitti (giugno 1920 – luglio 1921), e di Carlo Sforza, ministro degli Esteri, furono avviati dei negoziati bilaterali.

Benedetto Croce
Le trattative si conclusero nel 1921 con la restituzione delle biblioteche da parte dell’Italia alla Germania, che in cambio si impegnò a non trasferirle mai dal territorio italiano e a concederne la possibilità di consultazione a tutti gli studiosi italiani. Nella primavera del 1944, poco prima dell’ingresso delle truppe alleate nella città di Roma (avvenuto il 4 giugno 1944), Hitler decise di trasferire le biblioteche degli istituti tedeschi di Firenze e Roma in Austria, respingendo la proposta del Papa Pio XII di prenderle temporaneamente in custodia in Vaticano.
Dopo la fine della guerra gli alleati recuperarono le biblioteche e le riportarono in Italia; tuttavia la sistemazione politico-giuridica delle stesse richiese diversi anni e soprattutto si dimostrò necessario attendere il ripristino e la formazione di un nuovo governo tedesco.
L’enorme disequilibrio dei rapporti di forza esistente tra la Germania e la Repubblica sociale fu consapevolmente sfruttato dall’occupante tedesco per avvantaggiarsi a spese dell’impotente alleato italiano in tutti i diversi casi precedentemente analizzati. Contemporaneamente, nel centro-sud dell’Italia, il corpo dei funzionari e dei diplomatici del ministero degli affari Esteri interpretò sovente la situazione politica e il particolare tipo di alleanza in vigore tra la Repubblica di Salò e la Germania come la rivelazione e lo smascheramento di quella che sarebbe potuta diventare una condizione estesa a tutta l’Italia in caso di vittoria del Terzo Reich.
Gli ultimi due anni di guerra per alcuni dei più importanti diplomatici come Pietro Quaroni, Umberto Grazzi, Alberto Tarchiani, Francesco Malfatti e Vittorio Zoppi (tutti destinati tra la seconda metà degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta a ricoprire importanti incarichi diplomatici e a coadiuvare i primi governi democristiani nell’elaborazione della politica estera italiana) concorsero a rinsaldare in modo concreto l’idea della necessità per l’Italia di contribuire a ripristinare in Europa un equilibrio fra le diverse potenze.

Pietro Quaroni
L’idea dell’equilibrio, non del tutto nuova per la diplomazia italiana119, rappresentava anche un’implicita modalità di rigetto della politica estera fascista della seconda metà degli anni Trenta, che tanto aveva contribuito a distruggere il precario equilibrio europeo. I documenti a disposizione non consentono di attestare la volontà da parte della politica e della diplomazia italiana di intraprendere una complessiva analisi retrospettiva sull’alleanza tra fascismo e nazismo.
Spesso le fonti diplomatiche della seconda metà degli anni Quaranta, nel momento in cui descrivono retrospettivamente gli sviluppi politici relativi al periodo della seconda guerra mondiale, sembrano restituire l’immagine di un’alleanza tra Italia e Germania esistita solo dopo l’8 settembre e solo tra il cosiddetto «pseudo» governo di Salò e il regime di Hitler; quasi una perversa e funesta amicizia personale dei due dittatori che non avrebbe coinvolto lo stato nel suo vasto insieme fatto di istituzioni, di esercito e soprattutto di diplomazia.
Un atteggiamento che trova non poche analogie con l’immagine pubblica della «storia dell’Asse» elaborata dalle forze politiche antifasciste durante la fase finale della guerra e nei primi anni di vita della Repubblica italiana. Come ha osservato Filippo Focardi, infatti:
«Sulla scorta della raffigurazione avanzata a suo tempo dalla propaganda alleata, poi ripresa dal governo Badoglio e dalla stampa clandestina antifascista, l’alleanza fra l’Italia in camicia nera e la Germania nazionalsocialista fu descritta come un “affare personale” fra Hitler e Mussolini, come una scelta voluta dal duce contro i fervidi sentimenti antitedeschi del paese e contro le più genuine tradizioni nazionali di ascendenza risorgimentale […] tale interpretazione fu per così dire canonizzata dai governi di unità nazionale seguiti alla liberazione di Roma e da tutta la stampa e la pubblicistica antifasciste, fu sostenuta dagli ambienti militari rimasti con Badoglio, fu difesa e promossa dai vertici del ministero degli Esteri corresponsabili con Mussolini della rovinosa alleanza, fu condivisa anche da settori della piccola e media borghesia […]».
La volontà di delegittimare la Repubblica sociale italiana fu sempre molto forte: nelle fonti diplomatiche e governative italiane comprese tra il 1944 e il 1953 il governo di Salò è sempre preceduto dalla parola «pseudo» per rimarcare l’assoluta falsità ed enfatizzarne il valore spregiativo.
Quando la Repubblica di Salò non viene citata nemmeno attraverso la formula dello «pseudo governo» è la realtà dell’occupazione tedesca ad essere sempre sottolineata dalle fonti: «[…] nell’Italia settentrionale – si legge in una relazione della Direzione affari politici della primavera del 1945 – le sole realtà determinanti non sono né le persone di Mussolini né il fascismo repubblicano, ma l’occupazione tedesca […]».
Durante la prima fase della ripresa delle relazioni italo-tedesche la storia dell’Asse e soprattutto la storia della fine dell’Asse nel 1943 rappresentarono uno spettro sempre latente e come tale, pertanto, non fu quasi mai affrontato in occasione degli incontri bilaterali tra le diplomazie dei due paesi.
LA FINE DELLA GUERRA IN ITALIA E IN GERMANIA
Per comprendere in modo più adeguato il contesto storico entro cui, fra gli anni 1945 – 1953, si svolse la storia della ripresa delle relazioni tra Italia e Germania, è opportuno rievocare le diverse dimensioni della disfatta all’interno dei due paesi. Al termine della seconda guerra mondiale le due realtà, quella tedesca e quella italiana, presentavano notevoli differenze.
L’Italia, nonostante l’occupazione nazista e la cobelligeranza, fu considerata dalle potenze vincitrici una nazione sconfitta. La sensazione dei contemporanei e delle principali componenti politiche fu quella di subire un trattamento profondamente “ingiusto” e umiliante. Infatti il contributo dell’Italia alla sconfitta del nazismo non era consistito soltanto nella cobelligeranza ma comprendeva anche l’azione delle forze politiche emerse dopo la caduta del fascismo: azionisti, comunisti, socialisti e democristiani.
Queste ultime nel settembre del 1943 avevano dato vita ai Comitati di Liberazione Nazionale (CLN) che per quasi 18 mesi (fino al maggio 1945) coordinarono l’attività della Resistenza per la lotta di liberazione nazionale. Nell’immediato dopoguerra il ruolo svolto dal movimento partigiano durante l’occupazione godeva di grande autorevolezza nel paese e il prestigio della Resistenza fu da questo momento utilizzato anche dalla diplomazia italiana nelle varie istanze agli alleati.
Infatti, nel luglio del 1945 il ministero degli Esteri iniziò la preparazione del volume già citato sul contributo dell’Italia nella guerra contro la Germania per tentare di mitigare l’opinione degli alleati sull’Italia in vista delle future trattative per il Trattato di pace. Per la prima volta il ruolo svolto dal movimento della Resistenza fu minuziosamente adoperato dai funzionari degli Esteri nella compilazione del rapporto e il termine adottato per citare i partigiani fu quello di «patrioti».
Per gli alleati tuttavia lo status dell’Italia non fu oggetto di mutamento dal momento della firma dell’armistizio nel 1943 fino alla stipulazione del Trattato di pace nel febbraio del 1947. Diversamente da quanto accadde nel caso della Germania, però, in Italia non si verificò alcuna interruzione o sospensione della continuità istituzionale.
Tra il 1943 e il 1945 la politica estera costituì uno dei motori della continuità dello stato nazionale. Una prima dimostrazione di ciò fu raggiunta il 14 marzo del 1944 quando l’Unione Sovietica, dopo una serie di trattative intercorse tra l’inviato sovietico Vyšinskij e l’allora Segretario Generale degli Esteri Renato Prunas, riconobbe in modo ufficiale il Regno del Sud.

Renato Prunas
Secondo una parte della storiografia italiana il riconoscimento del governo Badoglio da parte dell’Unione Sovietica deve essere letto come un primo vero e proprio “successo diplomatico” dell’Italia dopo le pesanti limitazioni politiche previste dal lungo armistizio del 29 settembre 1943. Infatti, il riconoscimento da parte di uno stato importante, quale era l’Unione Sovietica, rappresentò una prova di confermata sovranità e continuità.
In secondo luogo, al momento della resa incondizionata della Germania il governo Bonomi diede ad una commissione composta da funzionari del ministero degli Esteri e da tecnici del ministero della Marina l’incarico di studiare le condizioni di resa imposte alla Germania.
Il compito era quello di comparare il testo della resa tedesca con gli armistizi italiani con l’obiettivo di riscontrare nuove prove a sostegno della tesi della continuità del governo in Italia.
La relazione finale dell’11 giugno evidenziò rilevanti differenze tra i testi alleati destinati alle due ex potenze dell’Asse: difformità che furono attribuite alla consapevolezza e alla volontà degli alleati di conservare un governo italiano. Infatti:
«[…] Da un riscontro di questo documento [quello della resa della Germania firmato il 7 maggio dal feldmaresciallo Wilhelm Keitel] con gli armistizi italiani, si rileva che in ambedue i casi si trattava di resa incondizionata ma ben più duro è il modo con cui questa resa è stata imposta alla Germania. Così mentre per l’Italia nel documento stesso nel quale si pone la resa incondizionata si stabiliscono le norme in cui si concreta tale resa, ammettendo i plenipotenziari alla firma dei relativi strumenti, per la Germania i rappresentanti firmano solo l’atto di resa; le condizioni di questa sono imposte dai vincitori senza alcuna partecipazione del vinto. Negli armistizi italiani si presuppone l’esistenza di un governo italiano il quale esercita il potere […]. Per la Germania invece si parte dal principio della scomparsa in Germania di ogni autorità governativa ed alla conseguente assunzione da parte degli alleati di ogni supremo potere».
La relazione mise in risalto, inoltre, che la dichiarazione alleata del 5 giugno, con la quale gli alleati assunsero i pieni poteri in Germania, conteneva l’affermazione della responsabilità tedesca per lo scoppio della guerra, mentre una dichiarazione simile non era presente nei testi degli armistizi italiani.
Il tema della colpa della guerra non era di poco conto, infatti già nel primo dopoguerra i paesi vincitori avevano impostato il Trattato di Versailles sul principio della responsabilità della Germania. Gli autori della relazione sottolinearono questo aspetto poiché essi, così come il resto del governo e della diplomazia italiana, non erano ancora in grado di prevedere quali sarebbero state le premesse per i negoziati del Trattato di pace dell’Italia.
Secondo il rapporto, quindi, la continuità istituzionale era pienamente riconfermata e le modalità stesse della capitolazione tedesca ne costituivano una prova:
«Riassumendo i vincitori nel dettare le norme sul trattamento da farsi all’Italia e alla Germania, pur partendo dal principio della resa incondizionata stabilito a Casablanca nel gennaio del 1943, hanno tenuto conto, né poteva essere altrimenti, della diversa situazione di fatto e della diversa “pericolosità” che rappresentavano per essi i due vinti. Per quanto possa essere duro il trattamento fatto all’Italia, è indubbio che nel campo pratico gli alleati non si sono attenuti a quella rigidezza che la lettera dell’accordo consentiva. Né si può disconoscere che la sopravvivenza di un Governo nazionale, per quanto sotto tutela, ha consentito al popolo italiano di avere una propria rappresentanza, di continuare a mantenere rapporti con gli Stati neutrali, di riallacciarli con la maggior parte degli ex nemici e, quel che più conta, di poter svolgere opera presso i vincitori per la rinascita del Paese e per la tutela degli interessi di questo».
È possibile rintracciare in tali documenti la volontà di marcare la diversità tra il caso italiano e il caso tedesco. Un atteggiamento che era condiviso da tutte le forze antifasciste e sul piano dei rapporti internazionali era concepito per dimostrare alle potenze alleate l’incomparabilità tra la Germania e l’Italia.
Tra il 1945 e il 1948, la dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre, il «contributo di sangue» (come era spesso definita la lotta partigiana), la «disumanità» dell’occupazione nazista, costituirono le principali argomentazioni di natura politica e morale che i governi provvisori italiani utilizzarono con gli alleati tanto nei tentativi di sminuire la severità del trattato di pace italiano, quanto nelle richieste di ammissione al gruppo delle nazioni autorizzate all’elaborazione del trattato di pace della Germania.
Pochi mesi dopo la fine della guerra gli alleati occidentali concessero ai governi italiani un progressivo e completo recupero di gestione politico-amministrativa del territorio nazionale. Infatti, già alla fine del 1945 gli angloamericani consegnarono al primo governo De Gasperi (10 dicembre 1945 – 14 luglio 1946) il controllo sull’amministrazione delle province del nord Italia (concessione che era stata negata al precedente governo Parri, 21 giugno 1945 – 8 dicembre 1945).
Sul piano internazionale, invece, l’Italia tornò nuovamente e formalmente uno stato sovrano dopo la firma del Trattato di pace del 10 febbraio 1947; con la firma e la ratifica del Trattato cessò il regime di occupazione alleato e alla fine dello stesso anno fu abolita la Commissione alleata di controllo (14 dicembre). Nell’immediato dopoguerra era chiaro, quindi, che il cammino verso la riabilitazione internazionale sarebbe stato per gli italiani notevolmente più breve e lineare di quello che attendeva i tedeschi.
In Germania, la capitolazione incondizionata dell’8 maggio 1945 creava uno scenario del tutto differente. La sconfitta del Terzo Reich assumeva i caratteri della tragedia, la catastrofe finale aveva precluso la possibilità di una continuità dello stato. Come recitava la nota direttiva delle forze d’occupazione americane, la JCS, la «Germania non era occupata allo scopo di liberarla, ma quale stato nemico sconfitto».
Con la dichiarazione del 5 giugno 1945 le autorità d’occupazione alleate, a nome dei rispettivi governi (americano, inglese e sovietico), annunciarono di assumere la suprema autorità nei confronti del territorio tedesco, ivi inclusi tutti i poteri posseduti dal governo nazionalsocialista, dall’alto comando e da ogni altra fonte di potere di governo municipale o locale.
Unione Sovietica, Inghilterra, Stati Uniti e Francia assunsero, inoltre, il diritto di ridefinire i confini della Germania rinunciando però a qualsiasi annessione della stessa ad altre potenze. In questo modo le potenze alleate avocavano a sé tutti quei poteri normalmente riconosciuti ad uno stato sovrano.

Durante la guerra gli alleati discussero diversi piani sul futuro assetto da dare alla Germania. Alla conferenza di Mosca, svoltasi dal 18 al 30 ottobre 1943, le potenze alleate avevano istituito la Commissione consultiva europea (European Advisory Commission), un organo consultivo per lo studio e la discussione di progetti politici sulla sistemazione postbellica della Germania.
Fino agli ultimi mesi del 1944 le tesi più discusse riguardarono lo spezzettamento della Germania in diversi stati, progetti ritenuti in quella fase storica gli unici in grado di impedire future prove di forza da parte dello stato tedesco contro altri paesi140. Il più noto di questi piani drastici e radicali fu quello avanzato nella seconda metà del 1944 dal sottosegretario al Tesoro degli Stati Uniti Henry Morgenthau.

Henry Morgenthau
Il progetto Morgenthau prevedeva il disarmo totale della Germania, la distruzione dell’industria bellica, il drastico ridimensionamento dell’apparato industriale non bellico e l’internazionalizzazione della regione della Ruhr. Erano inoltre previste una serie di amputazioni territoriali e la divisione della Germania in due stati: uno meridionale comprendente Baviera, Württemberg e Baden ed uno stato tedesco settentrionale di cui avrebbero dovuto far parte Prussia, Sassonia e Turingia.
Le tesi di Morgenthau, pienamente attuate, avrebbero portato la Germania ad un livello preindustriale con un’economia prevalentemente agricola e pastorizia. Queste drastiche opzioni non trovarono mai l’unanimità dei Tre Grandi uniti nella lotta contro il nazismo: Stalin, Churchill e Roosevelt.
È importante sottolineare l’esistenza di questi differenti progetti di divisione della Germania, perché essi testimoniano la convinzione molto diffusa tra i governi alleati nel corso della guerra di trovare una soluzione definitiva al problema dello stato tedesco, di individuare un modo per controllare la potenza di una nazione che in meno di quarant’anni aveva tentato due volte l’“assalto al potere mondiale”.
Tuttavia, né il piano Morgenthau, né altri simili progetti ottennero il pieno consenso di Stalin, Churchill e Roosevelt. Alla vigilia della fine della guerra soltanto il principio di procedere al controllo del territorio tedesco attraverso l’istituzione delle zone di occupazione trovò concordi i governi alleati. Pertanto le direttive di massima sulla Germania furono definite nei particolari nel corso della conferenza di Potsdam nel centro della Prussia, che si svolse dal 17 luglio al 2 agosto 1945.
Si trattò di un momento di cruciale importanza poiché gli accordi di Potsdam costituirono una tappa fondamentale della storia tedesca del dopoguerra. I Tre Grandi (Stati Uniti, Inghilterra ed Unione Sovietica) raggiunsero delle decisioni che determinarono uno status quo rimasto inalterato nella sostanza fino al 1947.
Rispetto ai precedenti vertici del periodo bellico (Teheran, 28 novembre – 1° dicembre 1943; Jalta, 4 – 11 febbraio 1945) a Potsdam parteciparono per la prima volta il nuovo presidente degli Stati Uniti, Truman (succeduto a Roosevelt deceduto nell’aprile del 1945), e dal 28 luglio, nel pieno dei lavori, il leader laburista Clement Attlee, che subentrava al posto di Winston Churchill sconfitto alle elezioni.
Le decisioni più importanti riguardarono in primo luogo la suddivisione del territorio tedesco in quattro zone d’occupazione, affidate all’amministrazione militare delle potenze vincitrici che tuttavia avrebbero dovuto governarle come un’unica entità economica. La città di Berlino, situata geograficamente nella zona sovietica, fu sottoposta all’autorità interalleata (Kommandantur), e suddivisa in quattro settori: britannico, americano, francese e sovietico.
Molto controversa si rivelò la determinazione dei confini della Germania. Dal momento della sua unificazione nel 1871 la Germania aveva sperimentato diversi confini nazionali e solo dopo non facili mediazioni tra le potenze alleate fu individuato il 1937 come anno di riferimento per le discussioni relative alle questioni territoriali. Nacque così la nota formula di considerare la «Germania nei confini del 31 dicembre 1937».
Gli accordi di Potsdam provocarono la perdita, a favore di Unione Sovietica e Polonia, dei territori orientali dell’ex Reich tedesco. L’antica città di Königsberg, patria del filosofo Immanuel Kant, nonché una delle città tedesche più importanti per il profilo culturale, fu assegnata direttamente all’Unione Sovietica. In particolare, le regioni perse dalla Germania furono: la Pomerania, la Bassa Slesia e la Prussia orientale, per una superficie totale di 180.000 kmq.
Questa disposizione ufficializzò quanto stava già accadendo di fatto in quei territori a partire dagli ultimi mesi di guerra: il trasferimento coatto dei tedeschi che vi risiedevano. Uno spostamento di popolazione condotto fino a quel momento in modo violento e caotico; per tale motivo l’art. XIII del testo finale del Protocollo di Potsdam specificò di proseguire le operazioni di trasferimento “con ordine e umanità”.
Per le riparazioni di guerra l’Unione Sovietica, la potenza che più di tutte aveva subito gli effetti devastanti dell’aggressione tedesca e poi combattuto contro il Terzo Reich, ottenne dagli alleati occidentali la possibilità di prelevare ingenti quantità di macchinari e di impianti industriali dalla propria zona di occupazione, più una quota pari al 15% del capitale industriale tedesco delle zone occidentali, capitale ritenuto non utile in tempo di pace.
Gli smantellamenti industriali furono controbilanciati solo dalla raccomandazione di lasciare al popolo tedesco sufficienti risorse per sostenersi senza ricorrere all’aiuto esterno.
A Potsdam furono enunciati, inoltre, gli obiettivi generali dell’occupazione. In particolare, furono decretate le misure per procedere al disarmo e alla smilitarizzazione della Germania, alla riduzione della produzione industriale attraverso il controllo delle principali industrie, alla decartellizzazione, alla liquidazione del partito nazista (NSDAP) e delle organizzazioni da esso controllate (con annesse disposizioni per prevenirne la rinascita).
Le potenze alleate si impegnarono a individuare, arrestare e processare tutti i criminali di guerra, prescrivendo, inoltre, di arrestare e internare non solo i principali sostenitori dell’ex regime, in particolare gli alti gerarchi delle istituzioni e delle organizzazioni naziste, ma anche tutti coloro che avrebbero potuto costituire un pericolo per le forze di occupazione o un impedimento per l’attuazione degli obiettivi prefissati.
Un obiettivo non secondario era costituito dalla necessità di rendere consapevole il popolo tedesco della sconfitta militare e pertanto dell’ineluttabilità per i tedeschi di sottrarsi alle responsabilità derivanti dall’aver intrapreso la guerra. Infine, l’obiettivo, non corredato da precise e dettagliate disposizioni, di avviare una ricostruzione radicalmente democratica della vita politica tedesca in previsione di una sua collaborazione pacifica nelle relazioni internazionali.
Per quanto riguarda la gestione complessiva della Germania da parte degli alleati, una delle riforme più rilevanti della conferenza di Potsdam, fu la sostituzione della Commissione consultiva europea con due nuovi organismi politico-amministrativi collegiali: il Consiglio di controllo e il Consiglio dei ministri degli Esteri.
Il Consiglio di controllo era composto dai comandanti in capo delle quattro forze di occupazione ed aveva competenza nelle questioni relative all’intero territorio tedesco, in particolare era destinato a coordinare l’attività amministrativa dei quattro diversi governi militari e prevedeva la norma del principio dell’unanimità per l’approvazione delle decisioni.
Il Consiglio dei ministri degli Esteri delle grandi potenze (oltre alla Francia fu inclusa anche la Cina non ancora comunista), invece, fu istituito per assolvere un compito particolarmente complesso: trovare una soluzione alla sistemazione postbellica della Germania.
Pertanto, se il Consiglio di controllo fu ideato con l’intento di gestire globalmente la quotidianità dell’occupazione, il Consiglio dei ministri degli Esteri fu progettato per superare la fase stessa dell’occupazione e per studiare e definire l’assetto futuro di una nuova Germania. Per quest’arduo compito si pensò di stabilire delle periodiche Conferenze dei ministri degli Esteri delle quattro potenze occupanti.
Il tentativo di concordare una politica quadripartita sulla Germania fallì e gli incontri a partire dal 1946 iniziarono ad evidenziare la progressiva disgregazione della vecchia coalizione antinazista, accentuando la graduale composizione di un blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti e di uno orientale diretto dall’Unione Sovietica.
Dopo la Conferenza di Potsdam la condizione della Germania era quella di un paese sconfitto, mutilato, diviso in quattro zone di occupazione e con numerose città completamente devastate dai bombardamenti alleati e dai combattimenti degli ultimi mesi di guerra. Alla fine della guerra, l’Unione Sovietica non era l’unica potenza fortemente ostile nei confronti della Germania: tra le potenze occidentali l’atteggiamento della Francia, rispetto ad Inghilterra e Stati Uniti, era quello caratterizzato dalla maggiore volontà di imporre un trattamento severo alla Germania.
Non molto diversamente dall’Unione Sovietica, la Francia aveva subito la diretta aggressione e occupazione tedesca: si trattava del terzo assalto a partire dal 1870154. Il governo di Parigi, sebbene fosse stato ammesso a partecipare all’occupazione, non prese parte alla Conferenza di Potsdam sugli esiti della quale formulò diverse obiezioni.
Nello specifico, le posizioni francesi in merito alla questione tedesca si basavano sulla volontà di internazionalizzare l’importante regione mineraria e industriale della Ruhr, di staccare la Renania dal resto della Germania con l’obiettivo di fondare in seguito uno o più piccoli stati indipendenti, e di annettersi tutto il territorio della regione del Saarland (il quale era già all’interno della zona d’occupazione assegnata alla Francia).
Durante questa fase la politica francese nei confronti della Germania puntava ad impedire un futuro ritorno di una forza tedesca in Europa. Tuttavia, nel 1945 i rapporti di forza giocavano a sfavore di Parigi e i diversi progetti francesi si rivelarono superiori alle concrete possibilità di forza contrattuale. Soltanto sul territorio del Saarland il governo francese ottenne, con l’appoggio decisivo di Inghilterra e Stati Uniti, di procedere al distacco e all’annessione economica in via temporanea alla Francia.
Gli obiettivi punitivi di Mosca, la parallela – ma differente nei contenuti – politica di rivalsa di Parigi e la volontà di Stati Uniti e Gran Bretagna di non impegnare oltremisura mezzi e risorse per il sostentamento della popolazione tedesca contribuirono a paralizzare nel breve periodo e fino al 1947 la situazione tedesca così come essa era stata definita dalla conferenza di Potsdam.
È importante rilevare che già prima dell’inizio della guerra fredda il contrasto tra le potenze circa la sistemazione da dare al problema tedesco si rivelò particolarmente accentuato. Pertanto, nell’immediato dopoguerra la diversità di interessi tra le potenze occupanti determinò un effetto centrifugo rispetto ai principi di unità ancora previsti dagli accordi di Potsdam.
In breve tempo la difficoltà nel deliberare provvedimenti di carattere generale attraverso il principio dell’unanimità approfondì il divario politico-amministrativo fra le quattro zone di occupazione, che cominciarono ad essere governate ognuna in modo diverso e ciascuna secondo il punto di vista della singola potenza occupante.
La Germania nella concezione di politica estera dell’Italia (1945-1947)
OBIETTIVI DELLA POLITICA ESTERA ITALIANA DOPO LA GUERRA
La sconfitta della Germania e la fine della seconda guerra mondiale provocarono complesse e radicali trasformazioni nel sistema delle relazioni internazionali. La guerra distrusse gran parte dell’equilibrio europeo preesistente e sconvolse i ruoli che le diverse potenze avevano avuto fino ad allora.
Dopo la seconda guerra mondiale il sistema internazionale passò in breve tempo da multipolare ed eurocentrico a bipolare ed extraeuropeo. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica divennero le uniche superpotenze, sostituendo in Europa il sistema delle “grandi potenze” degli stati nazionali, formatosi nella seconda metà dell’Ottocento. Contemporaneamente l’Europa da centro del sistema internazionale divenne terra di confine tra due diversi spazi economici e politici.
Dopo il 1945 le ripercussioni degli eventi internazionali ebbero un ruolo importante nel determinare la storia della politica italiana sia estera che interna. Il nesso politico nazionale-internazionale e in generale i rapporti tra stati presentavano caratteri notevolmente differenti da quelli del primo dopoguerra.
Nel 1950, Federico Chabod, in qualità di storico e contemporaneo degli eventi, espose lucidamente il problema che si presentava ai governi italiani ed europei nei primi anni del secondo dopoguerra:
«[…] ciò che inasprisce la situazione interna sono i rapporti internazionali. A questo punto la situazione internazionale diviene fattore decisivo nella lotta interna fra i partiti. In ogni tempo la politica estera ha influito entro certi limiti, sulla politica interna, e viceversa. La vita di un paese non può essere suddivisa in due settori indipendenti l’uno dall’altro. Ma esistono gradi diversi d’influenza.
La caratteristica del nostro tempo è appunto che i problemi dei rapporti internazionali diventano problemi “decisivi” anche per la politica interna. Al fondo di tutte le opposizioni interne (e forse non soltanto in Italia), si trova un contrasto, del resto nettamente precisato ed estremamente acuto, di fronte ai grandi problemi generali: che atteggiamento prendere fra gli USA e l’URSS? […]».
Come è noto, la presenza delle forze militari anglo-americane nel territorio italiano poneva l’Italia nella zona d’influenza occidentale. Fino alla fine della guerra la Gran Bretagna fu la potenza che aveva maggiore peso negli affari italiani; a partire dall’estate del 1945 tale ruolo fu assunto dagli Stati Uniti che accrebbero progressivamente la loro influenza in Italia.
Nondimeno è importante rilevare che nel periodo 1945-1947 le variabili internazionali non erano ancora del tutto stabilite e determinate con sicurezza. Nella percezione dei contemporanei, infatti, la “situazione” rimaneva aperta a diversi possibili esiti. Alla fine della seconda guerra mondiale le forze politiche antifasciste alla guida dell’Italia si trovarono ad affrontare una serie di problemi interni ed internazionali molto complessi e spesso tra loro intrecciati.
Il regime fascista aveva lasciato ai partiti politici antifascisti uniti nei governi di coalizione una pesante eredità, difficile da gestire e da governare. L’economia nazionale stentava a ritrovare adeguati ritmi di produzione; l’interruzione del commercio estero a causa della guerra e delle fragili condizioni in cui si trovavano i paesi europei nel 1945 dopo quasi sei anni di conflitto, oltre ad aggravare la condizione dei settori produttivi orientati all’esportazione, aveva determinato una critica penuria di materie prime indispensabili per la ripresa.
Tutto ciò alimentava, inoltre, una grave crisi occupazionale e l’aumento parallelo dei relativi disagi sociali. Il rapporto fra i sei partiti della coalizione antifascista (Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Comunista Italiano, Partito d’Azione, Partito Liberale Italiano, Democrazia del Lavoro) non era privo di tensioni soprattutto perché dopo la liberazione dell’Italia dal nazifascismo i principali leader politici vedevano avvicinarsi il momento in cui prendere importanti decisioni politiche.
L’equilibrio fra le diverse componenti dei governi provvisori italiani iniziò a diventare progressivamente più difficile; infatti, a differenza del periodo 1943-1945, quando l’obiettivo primario era la lotta comune contro ciò che restava delle forze dell’Asse, non era più possibile procrastinare in politica interna e in politica estera determinati indirizzi politici di fondo inevitabilmente divergenti.
In politica estera la sconfitta e l’imposizione della resa incondizionata avevano vanificato le ambizioni dell’Italia fascista di svolgere un ruolo da grande potenza, contemporaneamente il nuovo assetto internazionale in fase di formazione non garantiva al paese nemmeno più una posizione da media potenza.
La continuità dello stato, a differenza della Germania, era stata conservata, ma lo status dell’Italia all’interno del quadro internazionale era debolissimo. In primo luogo si imponeva una ridefinizione del rapporto con le potenze alleate e una ricollocazione dell’Italia nel sistema delle relazioni internazionali con la riapertura delle relazioni diplomatiche in tutte le direzioni, interrotte dalla guerra e dall’armistizio.
Infine, bisognava ridefinire il ruolo che l’Italia avrebbe dovuto assumere nell’ambito della sfera occidentale dove gli sviluppi della guerra e gli accordi fra gli Alleati sembravano destinarla. Il leader politico che riuscì ad imporsi e ad assumere un ruolo rilevante in tutti questi aspetti fu l’esponente della Democrazia Cristiana Alcide De Gasperi.
Come è noto, il leader democristiano divenne ministro degli Esteri il 12 dicembre 1944 nel secondo governo Bonomi. In un primo momento la carica di ministro sembrava dover essere attribuita al repubblicano Carlo Sforza, ma su quest’ultimo pesò il veto degli inglesi più inclini al mantenimento in Italia della forma istituzionale monarchica e per questo contrari ad affidare cariche con poteri concreti ad una personalità politica già pubblicamente nota per l’orientamento antimonarchico.
Dopo aver ricevuto l’incarico di ministro degli Esteri, De Gasperi avviò la ripresa delle relazioni diplomatiche con le potenze alleate. I rapporti diplomatici con la Francia furono ripristinati il 28 febbraio 1945 con la nomina del socialista Giuseppe Saragat alla carica di ambasciatore a Parigi e di Couve de Murville a Palazzo Farnese (sede dell’ambasciata francese a Roma).
L’ambasciatore italiano a Mosca era Pietro Quaroni, designato il 14 maggio 1944 al momento dell’instaurazione di nuove relazioni dirette tra Italia e Unione Sovietica. Nella difficile sede di Londra De Gasperi inviò l’esponente del partito liberale Nicolò Carandini, mentre nella sede chiave di Washington la scelta cadde sull’azionista Alberto Tarchiani.
Ad eccezione del caso di Quaroni, diplomatico di professione, per queste prime importanti nomine si scelse di puntare su rappresentanti politici e non di carriera. Il motivo principale risiedeva nella convinzione che la presenza di esponenti del movimento antifascista nelle capitali delle potenze vincitrici avrebbe consentito all’Italia di guadagnare una nuova immagine in ambito internazionale, sottolineando la forte volontà di discontinuità rispetto alla politica estera fascista.
De Gasperi scelse, inoltre, di non inviare, in linea di principio, alcun diplomatico lì dove aveva svolto incarichi durante il fascismo. La nomine politiche non furono prive di difficoltà e di tensioni. La principale complessità riguardava la necessità di evitare possibili attriti fra i partiti della coalizione di governo, e di garantire un costante equilibrio selezionando i nuovi ambasciatori fra tutte le forze politiche antifasciste.
Nell’aprile del 1946 De Gasperi confidò a Sturzo le complicazioni derivanti da quella condizione:
«Provvederò per il Messico (Ambasciatore), ma ognuno di questi posti è un calvario! Voi vedete un lato solo: le ragioni negative che si oppongono alla carriera; ma non sapete i punti deboli dei politici [degli ambasciatori non di carriera] e soprattutto la concorrenza gelosa dei partiti. Il principio di non mandare funzionari là dove furono l’ho seguito in genere. Ma poi non si è mai sicuri. Appena fatto il nome di Scialoia, c’è stato subito chi è insorto a dire: fascista! Vedi come è difficile».
La storiografia ha ampiamente evidenziato la capacità del leader democristiano di intuire e di comprendere lucidamente il ruolo fondamentale della politica estera nel secondo dopoguerra, la quale cominciava a rivestire un’influenza decisiva sia per la politica interna che per la politica economica. Ancora prima della fine della guerra De Gasperi era riuscito quindi a rivestire una carica cruciale.
Il ministero degli affari Esteri rappresentava, infatti, un centro istituzionale di grande importanza poiché offriva la possibilità di gestire e di comprendere il funzionamento dell’apparato di rappresentanza esterna dello stato e allo stesso tempo permetteva di conoscere e instaurare relazioni con i rappresentanti delle potenze vincitrici, le quali costituivano la chiave politica del futuro del paese.
In qualità di ministro degli Esteri De Gasperi comprese che solo gli Stati Uniti erano in grado, ma anche e soprattutto più disposti rispetto alle altre potenze alleate, di assicurare quegli aiuti economici di cui il paese aveva un disperato bisogno.
Durante questa prima fase del secondo dopoguerra l’impronta di De Gasperi nella conduzione della politica estera italiana deve essere rintracciata nell’opposizione ad una linea politica abbastanza diffusa e adottata da una buona parte della diplomazia italiana, soprattutto dall’allora Segretario Generale del ministero degli Esteri Renato Prunas, impostata sulla volontà di approfittare dei contrasti fra le grandi potenze per ottenere vantaggi immediati.
Uno stile politico-diplomatico già sperimentato in passato dall’Italia e che nel particolare contesto storico del secondo dopoguerra intendeva sfruttare il carattere “innaturale” della coalizione alleata composta da capitalisti e comunisti, puntando sulla rivalità fra queste grandi potenze per ottenere improbabili canali di dialogo privilegiato ora con gli uni e ora con gli altri.
Al contempo tale tendenza deve essere letta ed interpretata come una spia di quanto fosse ancora diffusa in buona parte del corpo diplomatico italiano dell’epoca l’opinione secondo cui l’Italia aveva ancora diverse possibilità di svolgere un “ruolo autonomo” all’interno dello scacchiere internazionale. De Gasperi, in veste di ministro degli Esteri, iniziò gradualmente a rivedere tale linea politico-diplomatica, paventando il rischio di un possibile isolamento internazionale dell’Italia e inaugurando un progressivo avvicinamento agli Stati Uniti.
Tra il 1943 e il 1945 una delle relazioni più interessanti sul futuro assetto dell’Europa e sulla futura collocazione internazionale dell’Italia non fu scritta nell’ambito del dicastero degli Esteri. Ancora prima della fine della guerra nel centro studi dell’Iri Sud per agevolare un non lontano governo italiano nel compito della ricostruzione economica del paese furono studiate le varie possibilità che si potevano presentare all’Italia alla fine del conflitto.
L’8 agosto del 1944 le analisi sviluppate furono riportate in una lunga relazione intitolata «Appunto per un “Piano di ricostruzione economica” dell’Italia». Le relazioni coeve del ministero degli Esteri dedicate agli scenari postbellici testimoniano una profonda sensazione di timore per le sorti dell’Italia.
La principale fonte di preoccupazione era rappresentata dalla possibilità di un accordo fra le grandi potenze al termine della guerra per prostrare l’Italia e gli altri paesi sconfitti. Tale eventualità costituì il pensiero dominante dei non molti documenti messi a punto intorno a questi temi all’interno delle varie direzioni generali del ministero degli Esteri. Secondo questi studi, la precedente alleanza con la Germania nazionalsocialista, la sostanziale sconfitta militare dell’Italia e la caduta del regime fascista rappresentavano eventi sfavorevoli che avevano compromesso gravemente le possibilità di rinascita politica ed economica del paese.
A differenza degli studi realizzati nello stesso periodo dai funzionari degli Esteri, il documento dell’Iri Sud presentava, invece, valutazioni ottimistiche sulla ripresa economico-politica del paese. Così come stava contemporaneamente avvenendo nelle riflessioni delle più acute personalità politiche antifasciste, l’autore o gli autori della relazione (purtroppo non firmata) dell’Iri Sud diagnosticavano una probabile inclusione dell’Italia all’interno della sfera occidentale guidata dagli Stati Uniti.
L’appunto dedicava, infatti, ampio spazio al possibile scenario internazionale del dopoguerra poiché:
«[…] vi è una subordinazione dei problemi interni ai problemi internazionali, ma anche e soprattutto perché l’economia di domani presenterà sicuramente un grado di internazionalità molto più accentuato di quello prebellico».
Le premesse di politica estera sulla futura collocazione internazionale dell’Italia erano il segno di un approccio metodologico non limitato esclusivamente agli aspetti tecnici (pur presenti) della ricostruzione. Le possibilità che si offrivano al paese venivano desunte da un ampliamento di prospettiva non limitato al classico contesto delle potenze europee, ma includente lo spazio occupato dall’Italia e dall’Europa come parte dell’intero assetto mondiale in via di formazione con l’approssimarsi della sconfitta della Germania e la fine della guerra.
L’autore o gli autori del documento pensavano ad un mondo postbellico in cui le interdipendenze tra politica estera, politica interna e politica economica avrebbero raggiunto un elevato grado di complessità. In primo luogo l’appunto considerava verosimile la divisione del mondo in due enormi spazi economico-politici influenzati da Stati Uniti e Unione Sovietica:
«Vasti spazi economici esistevano già prima della guerra. E’ probabile che questa tendenza riceva un ulteriore impulso con la conclusione di questa guerra e che gli stati di grandezza media (come l’Italia) e di grandezza piccola finiscano coll’essere inclusi nell’ambito di spazi economici più vasti. […] uno spazio a condominio anglo statunitense ed uno spazio russo: lo ritengo molto probabile» .
Tra questi due spazi l’Italia rientrava nella sfera d’influenza degli Stati Uniti. Presumibilmente, proseguiva il documento, nel dopoguerra il paese avrebbe beneficiato di aiuti economici esteri per accelerare il non facile compito della ricostruzione:
«[…] si può calcolare grosso modo che l’opera di ricostruzione economica del paese, basata sulle sole forze del nostro paese, richieda una decina d’anni. Tale periodo può essere accorciato se, come è probabile, il risparmio interno verrà integrato da apporti stranieri o se, come è probabile, si potrà comprimere ulteriormente i consumi interni.
Si tratta di prevedere in quale spazio sarà inclusa l’Italia. E’ probabile che gli interessi economici statunitensi ed inglesi abbiano preminenza nel nostro paese rispetto a quelli russi. La nostra struttura economica [quella dell’Italia] tenderà perciò ad integrarsi nelle strutture di quei paesi».
Anche l’autore dell’Iri Sud, tuttavia, suggeriva di utilizzare la tradizionale tattica d’attesa per sfruttare a proprio vantaggio ogni contrasto fra le potenze vincitrici. Scriveva infatti:
«E siccome è possibile che tra interessi inglesi ed interessi statunitensi (e forsanche tra interessi russi) sorgano attriti così dovremo essere vigili per approfittarne al fine di avvantaggiare nel più ampio senso della parola gli interessi italiani».
Molto acute erano, infine, le considerazioni relative alla consapevolezza della posizione geografica di confine propria dell’Italia:
«[…] il nostro paese per la sua posizione geografica verrà anche a trovarsi al confine dei due grandi spazi che interessano l’Europa, cioè l’anglo-statunitense ed il russo; inoltre è proteso verso l’Africa, campo aperto dove si incontreranno o si scontreranno gli imperialismi di tali spazi».
L’abilità nel riuscire a tracciare e a immaginare un futuro quadro internazionale coerente e ragionato all’interno di un contesto storico molto fluido come quello della guerra testimonia la presenza di una sensazione abbastanza diffusa negli ambienti statali più informati e preparati circa la configurazione degli scenari politici ed economici del dopoguerra.
Per questi ambienti il contesto internazionale entro cui l’Italia dovette agire dopo il 1945 non rappresentò un’assoluta sorpresa. Pertanto l’effettivo futuro inserimento nel campo occidentale e la successiva stretta alleanza con gli Stati Uniti non furono percepiti come sviluppi politici contrastanti con gli interessi del paese.
Tuttavia, non bisogna dimenticare che tali orientamenti coesistevano al fianco di altri più inclini nel prevedere, invece, un nuovo isolazionismo statunitense, paragonabile a quello successivo al termine della prima guerra mondiale, e quindi al ritorno di una rinnovata centralità europea dove le tradizionali grandi potenze avrebbero condizionato da sole la politica internazionale.
Diversa la logica alla base degli indirizzi di politica estera dei principali partiti politici del dopoguerra. In questo caso le linee politiche vennero elaborate anche in funzione dei referenti internazionali: l’Unione Sovietica per il Partito Comunista e gradualmente, attraverso la prudente regia di De Gasperi, gli Stati Uniti per la Democrazia Cristiana.
Il partito socialista guidato da Pietro Nenni immaginava un’Italia indipendente da ogni blocco ed era promotore della costituzione in Europa di una «terza via» tra quella capitalista e quella comunista di stampo sovietico. L’elemento comune fra questi diversi orientamenti era rappresentato dalla necessità di provvedere al ristabilimento della dissestata economia nazionale, operazione preliminare ad ogni futuro progetto politico.
Nell’immediato i problemi più impellenti in politica estera erano rappresentati da una probabile ridefinizione dei confini settentrionali italiani. Come è noto, la Francia, l’Austria e soprattutto la Jugoslavia di Tito rivendicavano diverse rettifiche di confine a loro favore.
Al contempo erano in gioco il futuro delle colonie italiane e l’entità delle riparazioni che l’Italia doveva fornire ai paesi aggrediti durante la prima fase della guerra. Tali problemi di politica estera erano riconducibili alla questione del trattato di pace dell’Italia che negli anni 1945-46 era in fase di elaborazione da parte degli alleati.
Il trattato di pace costituiva una tappa obbligata e necessaria per il ripristino della piena sovranità internazionale dell’Italia, e di tale imprescindibilità anche le forze politiche antifasciste erano a conoscenza. In politica estera uno dei compiti di De Gasperi – ministro degli Esteri e a partire dal 10 dicembre 1945, dopo la caduta del governo Parri (21 giugno 1945-8 dicembre 1945), anche Presidente del Consiglio dei ministri – e della diplomazia divenne quindi quello di “limitare i danni” delle clausole del trattato.
Negli stessi mesi la scelta della forma istituzionale dello stato, gravitante intorno all’opzione repubblicana, rivendicata soprattutto da socialisti e azionisti, o conservazione della forma istituzionale monarchica, rappresentava la questione più delicata nell’ambito della politica intera.

1948: il presidente del Consiglio Alcide Degasperi alla costruenda diga di Cles
Il trattato di pace dell’Italia, la crisi economica e occupazionale, l’assetto istituzionale da dare allo stato, il problema della piena adesione al campo occidentale sempre più guidato dagli USA o la scelta di assumere una forma di neutralità tra i due blocchi in formazione formavano un complesso intreccio di questioni interne e internazionali da cui non era possibile prescindere e di cui in sede di ricostruzione e riflessione storica risulta fondamentale sottolineare gli aspetti salienti, indispensabili anche per uno studio della storia della ripresa delle relazioni fra Italia e Germania.
Le prime riflessioni del governo italiano intorno alla situazione tedesca, così come essa si presentava alla fine della guerra, trovarono, infatti, parte del loro fondamento in determinati problemi contingenti relativi alla politica interna ed estera dell’Italia. Il problema in questo caso non è stabilire il primato della politica interna o estera per l’Italia dei primi governi De Gasperi, ma sottolineare la presenza dell’intreccio tra ricostruzione economica, stabilizzazione politica interna e formazione degli obiettivi di politica estera.
DIPLOMAZIA ITALIANA DOPO LA SECONDA GUERRA MONDIALE:
POLITICHE DI EPURAZIONE E CONTINUITÀ
“Eravamo partiti che volevamo la rivoluzione mondiale, poi ci siamo accontentati della rivoluzione in Italia, e poi di alcune riforme, e poi di partecipare al Governo, e poi di non esserne cacciati. […] Siamo stati sconfitti, per molte ragioni che non dipendono da noi, ma anche per colpa nostra, che non sapevamo quello che si dovesse volere, e giocavamo a fare i Machiavelli, e abbiamo preteso di fare le riforme di struttura conservando o restaurando proprio quella struttura che volevamo riformare; accarezzando e facendo rinascere proprio quella burocrazia che volevamo distruggere, per affidarle la propria soppressione: stupiti che non accogliesse la nostra preghiera di suicidarsi per farci piacere”.
Carlo Levi, L’Orologio
Prima di analizzare l’elaborazione del ruolo della Germania per la politica estera dell’Italia tra la fine della guerra e la firma del Trattato di pace e per una migliore comprensione della stessa, è necessario contestualizzare quel particolare corpo operante come strumento dello stato, la diplomazia, delineandone il profilo che presentava alla fine della guerra. In questo caso, con il termine diplomazia, si intende riferirsi al personale di carriera all’interno del ministero: al complesso dei funzionari preposti all’instaurazione e al mantenimento dei rapporti con gli altri stati.
Non sono molti gli studi e le monografie dedicati alla diplomazia italiana tra la crisi del regime fascista e la ricostruzione della politica estera da parte dell’Italia repubblicana. Il tema riveste un’importanza tutt’altro che secondaria, poiché attiene al principale complesso di funzionari al servizio dello stato per quanto riguarda i rapporti internazionali, un insieme di attività indispensabili per instaurare e intrattenere relazioni con i governi dei paesi esteri.
La diplomazia rappresenta un tipo di burocrazia che ha il compito di coadiuvare il governo nelle scelte di politica estera attraverso la preparazione di studi, relazioni e l’invio di rapporti dalle varie sedi diplomatiche, punti d’osservazione privilegiati per reperire una quantità di contatti e di informazioni altrimenti poco raggiungibili.
La letteratura scientifica sulla storia delle relazioni politico-diplomatiche fra Italia e Germania ha sempre evitato l’analisi e la riflessione sulla fase di transizione dal fascismo alla repubblica attraversata dalla diplomazia italiana. La ricerca di Maddalena Guiotto, che rappresenta il primo importante contributo pubblicato in Italia sull’argomento, non affronta questo aspetto centrale della storia del riavvicinamento italo-tedesco dopo il 1945.
Un approccio simile, incentrato direttamente sulla ripresa delle relazioni diplomatiche fra Italia e Repubblica federale, e quindi privo di riferimenti circa la storia istituzionale del ministero degli Esteri tra fascismo, epurazione e democrazia, è riscontrabile nel recente volume di Federico Niglia. Un’indagine sul personale diplomatico impegnato nella ricostruzione delle relazioni con la Germania è assente anche nella letteratura tedesca sulla storia dei rapporti fra Italia e Repubblica federale.
Il volume di Maximiliane Rieder per la ricostruzione delle prime missioni italiane nella Bizona si affida alla ricerca di Guiotto, e in generale non si sofferma sui diplomatici inviati in Germania. La chiave di lettura della ricerca è rappresentata dall’analisi delle continuità e delle rotture all’interno delle relazioni economiche italo-tedesche. In questo senso lascia perplessi il non utilizzo di tale chiave per il personale di uno ministeri maggiormente coinvolti nella gestione dei rapporti economici con l’estero.
Fa eccezione in parte il contributo di Christian Vordemann: Deutschland-Italien, 1949-1961. Die diplomatischen Beziehungen, non tradotto in Italia. Vordemann presenta sottoforma di excursus una veduta d’insieme dei processi di epurazione e di denazificazione all’interno dei due paesi.
I ministeri degli Esteri tedesco (Auswärtiges Amt) e italiano non vengono analizzati in modo particolare e non sono esaminati nemmeno i singoli diplomatici coinvolti nelle relazioni fra i due paesi, ma è presente la consapevolezza del ruolo di queste due istituzioni per la storia delle relazioni politiche fra Italia e Germania e l’invito ad indagare più da vicino lo sviluppo dei due corpi diplomatici fra dittatura e democrazia per acquisire una lettura più articolata di quel rapporto.
La storia della diplomazia italiana durante il ventennio fascista è stata oggetto di ricerche soprattutto da parte di Grassi Orsini che ha distinto tre diverse fasi, coincidenti con i diversi tentativi compiuti dal regime di fascistizzare il ministero degli Esteri: dalla fascistizzazione “morbida” degli anni Venti al “governo personale della diplomazia” degli anni Trenta.

SEMINARIO “DIPLOMAZIA MULTILATERALE E INTERESSE NAZIONALE
DAL CONGRESSO DI VIENNA (1815) ALL’ATTO FINALE DI HELSINKI (1975) E OLTRE
LA TRADIZIONE DIPLOMATICA ITALIANA”
Sebbene alcuni diplomatici avessero rassegnato le dimissioni quando Mussolini giunse al potere, la gran parte dei funzionari si adattò alla nuova realtà politica44. La progressiva professionalizzazione della diplomazia, iniziata alla fine dell’Ottocento e proseguita anche durante il fascismo45, comportava un maggiore distacco tra il diplomatico e la politica estera portata avanti da governi mutevoli.
Come già aveva rilevato Gramsci, la tendenza alla specializzazione della professione diplomatica implicava una maggiore subalternità al potere esecutivo, ma anche il possibile asservimento ad una volontà potenzialmente estranea alle convinzioni particolari del diplomatico.
Gli storici concordano nel considerare piuttosto tiepida l’adesione del ministero degli Esteri alla politica estera fascista durante i primi anni del regime. Per tale motivo vennero introdotte alcune riforme tendenti alla fascistizzazione degli Esteri. Come è noto, il provvedimento più importante fu una legge del 2 giugno 1927 per l’abolizione della rendita (che fino ad allora limitava l’appartenenza al corpo diplomatico a un privilegio di censo), l’unificazione dei ruoli consolari e diplomatici ai gradi iniziali della carriera, e soprattutto la possibilità per il ministro di immettere a sua discrezione un gruppo di funzionari nei ruoli del ministero senza concorso (i funzionari entrati attraverso quest’ultima riforma furono definiti «ventottisti»).
Negli anni Trenta si assistette ad una progressiva fascistizzazione della diplomazia attraverso una serie di promozioni riservate ai funzionari più zelanti ed entusiasti della nuova linea bellicosa della politica estera dell’Italia fascista. Inoltre i ricambi generazionali di carattere fisiologico andavano ad ingrossare le fila di quanti si erano formati durante il regime a scapito di quelli entrati in servizio prima del 1922.
Sul risultato della fascistizzazione non c’è pieno accordo tra gli storici. Grassi Orsini ritiene che «la diplomazia non fu completamente fascistizzata in quanto lo spirito di corpo riuscì in parte ad opporre una resistenza corporativa alla sua omologazione al regime e che nonostante ciò, sino alla non cobelligeranza, pur con tutte le cautele sul piano tecnico, seguì la politica di Mussolini e non riuscì ad impedire l’intervento in guerra, a fianco della Germania nazista».
Ad un’interpretazione diametralmente opposta giungono, invece, le ricerche di Woller e Diomede secondo i quali il ministero degli affari Esteri fu uno dei più compromessi con il regime fascista.
I momenti di svolta per la diplomazia italiana furono rappresentati dal crollo del fascismo e dall’armistizio. Come è stato scritto, la scelta della maggioranza dei diplomatici fu quella di aderire al Regno del Sud.
Le ragioni alla base di questa scelta furono varie e in parte convergenti: motivazioni di carattere ideologico, convinzioni personali, lealtà dinastica, e spesso una realistica interpretazione delle svolte verificatesi tra il 25 luglio e l’8 settembre influirono, separatamente o insieme, nell’orientare la decisione dei funzionari. In generale, dopo la formazione della Repubblica Sociale, la scelta di obbedire ad uno dei due stati italiani allora esistenti si rivelò in ogni caso problematica per non pochi dirigenti.
Secondo la condivisibile valutazione di Ganapini, “la dialettica tra «carriera», tradizione di corpo, falsa coscienza della neutralità del ruolo pubblico o anche privato fu molto complessa non solo in tutti i settori dell’amministrazione dello Stato ma nell’intera società italiana”.
Dopo la liberazione di Roma iniziò la verifica della condotta del personale di carriera ai fini della conferma del mantenimento in servizio o dell’eventuale epurazione. Non si trattò solamente di un’esigenza avvertita dalle forze politiche antifasciste: l’avvio dell’epurazione rappresentava anche l’adempimento di precise disposizioni alleate.
L’organo al quale furono affidati i compiti di individuare i responsabili dei crimini del passato regime e di comminare le relative sanzioni fu l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo, istituito il 27 luglio 1944 attraverso il decreto legislativo luogotenenziale n. 15954. Il decreto era articolato in cinque Titoli.
Il primo definiva il reato di fascismo, mentre il quinto istituiva l’Alto Commissariato. L’articolo 2 del Titolo I enunciava che:
«[…] i membri del governo fascista ed i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver annullato le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista e compromesse e tradite le sorti del Paese condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con l’ergastolo e, nei casi di più grave responsabilità, con la morte».
Gli altri articoli del Titolo I erano formulati per epurare quanti all’interno dello stato aveva sfruttato il regime per favorire la carriera personale. E’ importante, inoltre, distinguere l’epurazione condotta dai partigiani, quella portata avanti dal governo militare alleato nella zone del fronte e quella condotta dai governi provvisori italiani nelle zone liberate. Nel presente paragrafo si fa riferimento a quest’ultimo tipo di epurazione e si citeranno soprattutto i casi di quei diplomatici che hanno avuto un ruolo nelle relazioni italo-tedesche.
Il conte Carlo Sforza fu nominato Alto Commissario e fu lo stesso esponente antimonarchico, in seguito, a decidere di scegliere tra i partiti del CLN altri due commissari aggiunti per essere assistito nell’attività di epurazione. La scelta, come è noto, ricadde su Mario Berlinguer, esponente del partito d’azione, e su Mauro Scoccimarro, appartenente al partito comunista.
Il loro compito fu quello di stabilire le pene dei delitti fascisti e di operare l’epurazione dell’apparato statale e governativo59. Alla data del 15 gennaio 1945 i funzionari collocati a riposo dalla commissione preposta all’epurazione del ministero degli Esteri erano 84. Dei restanti 406, 135 erano considerati così compromessi che furono deferiti a giudizio; 51 fra questi furono prosciolti, 7 furono quelli rimossi da ogni incarico, 10 furono retrocessi, ammoniti o dovettero subire sanzioni disciplinari di altro tipo.
Gli atti della commissione appositamente istituita per gli Esteri dimostrano l’elevato numero di procedimenti nei confronti del personale appartenente alla carriera diplomatico-consolare. Tra il 1944 e la fine del 1945 la carriera di circa 219 funzionari su 490 fu passata al setaccio dalla Commissione di epurazione. Tra questi figuravano importanti nomi della diplomazia italiana. Tra i diplomatici più noti erano compresi Raffaele Guariglia, Renato Prunas e Augusto Rosso (quest’ultimo era stato, insieme a Prunas, tra i primi Segretari Generali del ministero dopo il 25 luglio 1943), tutti deferiti al giudizio di epurazione.

Francesco Babuscio Rizzo
Francesco Babuscio Rizzo, entrato in carriera nel 1925 e primo ambasciatore italiano nella Repubblica federale tedesca, risultava in possesso della qualifica di “ante marcia” ed era accusato di aver fatto parte delle squadre d’azione fasciste. Per tali motivi durante il regime, secondo la Commissione di epurazione, Babuscio Rizzo raggiunse in meno di quattordici anni il grado elevato di ministro Plenipotenziario di seconda classe66, scavalcando altri funzionari con la stessa anzianità.
Nel 1939 fu inviato a Tirana in qualità di Consigliere di legazione per collaborare con Francesco Jacomoni all’occupazione militare dell’Albania. Infine dal febbraio al luglio del 1943, Babuscio Rizzo ricoprì la carica di Capo di Gabinetto del ministero. In questo ruolo nella primavera del 1943 fu tra gli autori insieme a Giuseppe Bastianini (sottosegretario agli Esteri), Leonardo Vitetti e Luca Pietromarchi (entrambi Ministri plenipotenziari di prima classe) della controversa «Carta d’Europa», presentata dal regime fascista ai vertici del Terzo Reich a Klessheim (7-10 aprile 1943).
Il progetto della «Carta d’Europa» rappresentava il punto di vista italiano sul “nuovo ordine europeo” la cui realizzazione era prevista in seguito alla vittoria definitiva dell’Asse. Nel difficile contesto degli ultimi mesi di vita dell’alleanza politico-militare italo-tedesca, tale prospetto rifletteva la volontà dell’Italia di limitare la progressiva subordinazione nei confronti dell’alleato tedesco (aumentata proporzionalmente alle sconfitte militari dell’Italia) immaginando piccoli spazi di autonomia anche per gli stati occupati, tuttavia i rappresentanti tedeschi rifiutarono recisamente il progetto presentato dall’Italia.
Dopo il 25 luglio del 1943 Babuscio Rizzo fu nominato ambasciatore in Vaticano e da quella sede riuscì a superare indenne il processo di epurazione. Il ministero degli Esteri scavalcò l’Alto Commissariato adducendo che l’opera di Babuscio Rizzo era particolarmente «utile per il normale sviluppo dei rapporti tra il Governo Italiano e la Santa Sede».
La risposta dell’Alto Commissariato non si fece attendere e ribaltando la giustificazione politica presentata dal ministero comunicava che:
«[…] la importanza delle sue attuali funzioni anziché ostare alla sospensione, come codesto Ministero opina, la rende invece ancor più necessaria, non essendo certo compatibile, per chi ha avuto, notoriamente, tanta parte nel passato regime, di seguitare ancora a rappresentare l’Italia all’estero e di svolgere, per di più, delicate trattative presso Governi stranieri».
Le lacune della documentazione non consentono una dettagliata ricostruzione dei vari passaggi (molto probabilmente subì retrocessioni di carriera), tuttavia il conferimento del grado di ambasciatore a Babuscio Rizzo nei primi anni Cinquanta, in occasione della sua missione a Bonn, attesta che egli superò la fase dell’epurazione in assenza di pregiudizi politici per il futuro proseguimento della carriera.
Il console Guglielmo Arnò, nel 1946 a capo della delegazione degli osservatori italiani ai processi contro i criminali nazisti di Dachau e Norimberga, era entrato in sevizio in seguito alla legge del 1927 che prevedeva il reclutamento senza regolare concorso di alcuni “benemeriti della causa fascista” allo scopo di fascistizzare il ministero.

Vitale Gallina (a destra)
Anche il primo rappresentante diplomatico italiano nella Bizona nel 1947, Vitale Gallina, era un “ventottista”. Il Console Gallina era inoltre accusato dalla Commissione di epurazione di essere stato durante il regime uno stretto collaboratore costituire le basi di una cooperazione politica ed economica sulle “forze vive dei popoli”, senza sfruttare brutalmente i territori occupati, ma convogliando e potenziando quelle forze che sarebbero state decisive per il dopo, nella lotta contro le grandi forze extraeuropee.
“Erano vivamente preoccupati al pensiero di poter essere associati e considerati complici del terrore nazista e consapevoli che l’odio e l’avversione nei confronti dei nazisti erano aumentati in maniera massiccia a seguito delle catastrofi dell’inverno 1942-43, quando i resti dell’armata italiana in Russia erano rientrati e migliaia di sopravvissuti avevano stigmatizzato il comportamento dei soldati tedeschi nei loro confronti. Ma tra la visione fascista del nuovo ordine europeo e quella nazista vi fu davvero un abisso ideologico e politico?».
Aldo Morante, addetto commerciale della rappresentanza diplomatica italiana in Germania nel 1947, uno dei protagonisti della riorganizzazione delle relazioni economiche italo-tedesche era stato littore della cultura e dal 1939 al 1941 redattore della rivista «Civiltà fascista». Roberto Chastel «ventottista», Console generale a Francoforte sul Meno negli anni Cinquanta, era stato messo a riposo senza diritto di pensione nel gennaio del 1945 per aver collaborato nell’inverno del 1943-1944 con Mazzolini alla riorganizzazione del ministero degli Esteri di Salò.

Massimo Magistrati, a sinistra, con Hitler
Massimo Magistrati, nel 1950 in servizio presso il ministero a Roma come capo del Servizio Cooperazione Europea ed esperto di questioni tedesche, era stato negli anni Trenta uno dei funzionari più protetti da Ciano, del quale era anche cognato. Prima della guerra in qualità di Consigliere di legazione a Berlino, Magistrati era stato uno dei principali artefici e sostenitori dell’alleanza italo-tedesca.
Sulla rapidissima carriera di Magistrati la scheda redatta dalla Commissione di epurazione per gli Esteri riportava:
«[…] il Magistrati ha fatto una rapidissima carriera, tanto che, assunto nel 1925, si è trovato, nel 1938, dopo una serie di avanzamenti non altrimenti giustificabili, Ministro plenipotenziario di II classe, in un grado, cioè alquanto superiore a quello corrispondente alla sua anzianità, fra tutti i Ministri plenipotenziari di II classe in carica nel 1943 egli era quello pervenuto in quel grado nella spazio di tempo più breve».
Per questi diplomatici gli elementi di compromissione con il regime non erano limitati all’uso della tessera del partito fascista ai fini dell’acquisizione di vantaggi economici o di carriera, ma avevano implicato l’attiva adesione e partecipazione ai progetti espansionistici del fascismo della seconda metà degli anni Trenta.

Massimo Magistrati, a sinistra
Le richieste di sospensioni dal servizio, di privazione del grado, dello stipendio e del diritto alla pensione, qualora fossero state interamente accolte, avrebbero provocato la completa decapitazione dei vertici e dei ruoli della diplomazia italiana.
Raffrontato con altri ministeri, l’alto numero dei licenziamenti all’interno del ministero degli Esteri costituì, secondo Woller, un’eccezione nell’ambito della pubblica amministrazione, soprattutto perché il governo italiano agiva in questo settore sotto gli occhi dell’opinione pubblica internazionale e non poteva fare altro che dimostrare severità e rigore.
I giudizi e le valutazioni sulla politica di defascistizzazione e sulle sanzioni adottate dai governi italiani nel periodo 1943-1948 sono oggetto di dibattito fra gli storici79. Le fonti a disposizione dimostrano che le Commissioni di epurazione svolsero il compito per cui erano state istituite.
Il periodo 1944-1946 segnò una volontà di discontinuità da parte delle forze antifasciste e le nomine degli ambasciatori “politici” nelle principali sedi estere, come precedentemente presentato, ne rappresentavano una prova. Allo stesso tempo il conferimento dell’incarico di ambasciatore a rappresentanti della sfera politica era il sintomo di una viva preoccupazione dei partiti del CLN sulla presentabilità internazionale dei vertici del corpo diplomatico italiano.
Negli anni seguenti una serie di circostanze e di interessi politici indusse il governo prima ad arginare e poi ad annullare i risultati dell’epurazione80. Infatti, in un rapporto del ministero dell’Interno del 18 agosto 1952, contenente i dati sui dipendenti statali dispensati dal servizio per effetto dell’epurazione, erano scomparsi gli 84 funzionari messi a riposo nel gennaio del 1945 dalla Commissione di epurazione, di conseguenza non risultavano diplomatici epurati.
La burocrazia dei vari ministeri ebbe un ruolo notevole nel condizionare l’orientamento politico del governo sia durante l’attività di epurazione che negli anni seguenti allo scopo di mitigarne e annullarne i risultati. La documentazione appartenente al fondo della Segreteria Generale82 consente di ricostruire l’atteggiamento assunto dai funzionari del dicastero degli Esteri nei confronti delle politiche di epurazione.
Nel gennaio del 1944, prima della liberazione di Roma, il ministero degli Esteri inviò un appunto al Presidente del Consiglio Bonomi contenente i criteri guida individuati dal dicastero per la sospensione dal servizio dei funzionari compromessi con il fascismo. Si tratta di un documento molto importante, poiché permette di individuare l’obiettivo dell’atteggiamento assunto dai vertici del ministero degli Esteri in tema di epurazione tra il personale diplomatico. La tendenza era quella di deviare l’attenzione unicamente sui funzionari che avevano aderito alla Repubblica Sociale dopo l’8 settembre.

IVANOE BONOMI
Secondo l’appunto inviato a Bonomi i casi da perseguire erano due:
«A) quei funzionari i quali dopo l’armistizio hanno accettato posizione dirigente della politica estera neo-fascista e preso parte preminente alla riorganizzazione del Servizio Diplomatico Consolare. B) quei funzionari i quali abbiano accettato l’accreditamento in qualità di Capo Missione dello pseudo Governo Repubblicano presso una potenza straniera. Nei confronti di costoro, la cui volontà era libera di manifestarsi, non potrebbe essere invocata alcuna circostanza attenuante, per avere essi chiaramente dimostrato la loro connivenza con la causa fascista e la volontà di collaborare, nel campo politico, con il Governo di Mussolini».
Per i vertici del ministero degli Esteri il comportamento assunto dai vari diplomatici dopo la formazione del governo di Salò doveva costituire il principio rivelatore e di riscontro nell’ambito delle procedure di epurazione:
«Rinviando pertanto a Roma [al momento del ritorno della sede del governo nella città di Roma] il riesame della posizione personale di ciascun funzionario del Ministero nei riguardi dell’atteggiamento tenuto dopo l’armistizio nei confronti delle Autorità Fasciste e germaniche, si ha l’onore, in vista delle considerazioni sopraesposte, di sottomettere all’approvazione di V.E. [Bonomi] la proposta […]»
Un esame approfondito di tutto il corpo diplomatico non era escluso, ma subordinato esclusivamente alla verifica dell’atteggiamento assunto dopo l’armistizio. In questo caso l’epurazione rappresentava un problema di fedeltà al capo dello stato, il re Vittorio Emanuele III.
Un’eventuale indagine sulla storia della carriera dei funzionari non era presa in considerazione, la condotta avuta negli anni precedenti o nel corso della guerra al fianco dei tedeschi scompariva dall’orizzonte investigativo. La verifica del comportamento assunto dal personale diplomatico in seguito all’8 settembre e all’instaurazione del governo di Salò non costituiva, tuttavia, l’unico compito della Commissione.
Il decreto legislativo luogotenenziale n. 159 del 27 luglio 1944 che istituì l’Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo aveva l’obiettivo principale di vagliare le carriere dei vari funzionari al servizio dello stato durante l’intero arco di vita del regime fascista, e quindi non solo nel corso del 1943.
Pertanto, secondo gli articoli del decreto, coloro che avevano condotto il paese nella guerra al fianco dei tedeschi, chi aveva appoggiato la formazione dell’Asse e contribuito alla destabilizzazione dell’equilibrio internazionale, o semplicemente coloro che avevano sfruttato il regime fascista per ottenere vantaggi nella carriera, anche se rimasti fedeli al regio governo dopo l’8 settembre 1943, erano tutti passibili di epurazione.
Nel febbraio del 1945, un mese dopo la diffusione dei primi risultati del lavoro svolto dalla Commissione per l’epurazione del personale diplomatico88, la Segreteria Generale inviò una lunga e preoccupata relazione al ministro degli Esteri De Gasperi e al Presidente del Consiglio Bonomi.
Probabilmente quest’ultima relazione rappresentava uno dei primi documenti di riflessione sulla politica dell’epurazione letto da De Gasperi in qualità di ministro e prodotto da un organo dello stato al centro delle indagini. Il tono complessivo della relazione denunciava una profonda apprensione relativa ai caratteri generali della politica di defascistizzazione in corso89. Per il governo, segnalava il documento, si avvicinava un decisivo e pericoloso bivio:
«Ora il problema dell’epurazione, dal punto di vista politico, può essere esposto, non senza durezza, ma forse in forma più aderente alla realtà, nei seguenti termini: Si vuole andare verso una restaurazione o si intende preparare una rivoluzione?».
Particolare attenzione bisognava prestare al linguaggio utilizzato dalla relazione. In questo caso il termine restaurazione veniva introdotto con un’accezione positiva, nel senso di un rinnovamento delle radici dell’Italia liberale, offuscate dalla frattura del 28 ottobre 1922.
La conseguenza di tale ragionamento era che:
«Se si pensa ad una restaurazione in senso più alto, e cioè alla necessità di dar nuova vita, nei nostri animi, a quella recente e delicata cosa che è il senso dell’unità d’Italia, non conviene forse, con un gesto di alta e suprema giustizia, punire da un lato quanti hanno commesso delitti, prevaricazioni e violenze (attentando appunto a quel supremo bene che è l’unità della Patria) ed andare incontro, dall’altro, con animo sereno e fraterno, a tutti gli altri nostri concittadini assicurando loro una vita libera ed una piena parità di diritti nell’Italia di domani?».
Seguire invece la strada della rivoluzione, ammoniva la relazione, significava liquidare l’intera classe dirigente italiana che aveva comunque assicurato la continuità di correnti culturali e di tradizioni istituzionali sorte nel periodo precedente all’istituzione del regime fascista ed estranee al fascismo stesso:
«In altri termini, si vuole dar inizio alla liquidazione graduale di quella che è stata tradizionalmente la classe dirigente italiana (la quale per venti anni non poteva assentarsi dalla vita politica del paese e che durante gli stessi venti anni ha del resto assicurato la continuità di molte nostra correnti di pensiero e di molte nostre istituzioni) per aprire la strada ad una rivoluzione sociale di vasta ed imprevedibile portata, o si vuole, dopo aver compiuto entro i limiti di materia e soprattutto di tempo ben precisi, un’opera riparatoria di giustizia, porre termine alla liquidazione del passato e ravvivare, su nuove basi, la vita politica nazionale?».
In nome di una “sana e alta restaurazione”, continuava il documento, si suggeriva di punire quanti avevano “tradito l’Italia”, alludendo con ciò alle scelte di campo successive all’8 settembre, ma di “andare incontro a tutti gli altri italiani” assicurando loro una vita libera ed una piena parità di diritti. Quest’ultimo suggerimento era tanto più auspicabile, poiché era impossibile estirpare il fascismo in tutte le sue forme. Era necessario ammettere:
[…] l’impossibilità di distruggere totalmente nella vita del popolo italiano tutte le tracce del cosiddetto fascismo. E ciò sia perché il fascismo si è appropriato di una serie dei motivi ideali che facevano parte della nostra migliore tradizione politica (sia pure giustapponendoli ad altri motivi attivistici che ne formavano praticamente la negazione) sia perché un popolo come il popolo italiano, non può, durante venti anni, lavorare e costruire a vuoto.
Se si vuole impedire il rinnovamento delle correnti politiche che ci hanno portato all’attuale stato di cose, ciò non può avvenire che con l’assorbimento, con la comprensione e col superamento di quelle esigenze e di quelle dottrine che negli ultimi venti anni sono state portate in primo piano».
Non erano valutazioni neutrali. In primo luogo, perché le indicazioni suggerite a De Gasperi e a Bonomi tendevano esplicitamente a convincere il governo dell’opportunità di rivedere completamente l’orientamento dell’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo; e in secondo luogo, non si trattava di opinioni imparziali, perché provenivano da un’importante istituzione in cui quasi il 50% dei funzionari era stato deferito a giudizio dagli organi preposti all’epurazione.
La parte finale delle riflessioni contenute nel documento sottoposto al ministro degli Esteri e al Presidente del Consiglio era affidata ad un’analogia non priva di astuzia:
«Come non è pensiero di nessuno quello di abbattere le case su cui il passato regime si compiaceva di mettere i fasci littori, così non vi è motivo, quando esse sono suscettibili di uno sviluppo e di essere riunite in una grande verità nazionale, di rinnegare tutte quelle forze e quelle istituzioni che, nel ventennio testè trascorso, si sono, secondo la formula d’uso, “compromesse con il sistema fascista”.
Ancora una volta, dinnanzi alla tragedia della Patria, noi dobbiamo pensare non tanto alle nostre divisioni interne, non tanto alle colpe passate, quando ai problemi di domani, che possono essere affrontati e risolti soltanto restituendo un significato ed un valore a quelle delicate, fragili, fruttuose e non casuali creazioni che furono la libertà e l’unità d’Italia».
Gli sviluppi politici dei mesi e degli anni seguenti si intrecciarono alle pressioni provenienti dalle varie amministrazioni dello stato tendenti a stemperare e ad annullare l’opera di epurazione. Secondo Grassi Orsini la categoria di fascismo difficilmente può essere applicata alla diplomazia nel suo complesso, mentre sicuramente può essere adoperata per i singoli diplomatici.
Per la diplomazia occorrerebbe utilizzare le categorie di continuità e discontinuità. Gli studi e le fonti disponibili inducono ad un’interpretazione della diplomazia dell’Italia repubblicana segnata da una profonda continuità. Su questo aspetto è interessante evidenziare la reazione dei dirigenti tedeschi durante i primi anni Cinquanta.
La presenza di una forte continuità tra il personale del dicastero degli Esteri italiano fu constatata, infatti, anche dai rappresentanti tedeschi poco dopo la formazione del primo governo Adenauer (settembre 1949). Nel gennaio del 1950 una nota riservata (Vertraulich) dell’inviato straordinario Erich Kordt, scritta dopo una breve vista a Roma, segnalava, non senza sorpresa, il reintegro dei diplomatici che avevano aderito alla Repubblica di Salò:
«La maggior parte dei funzionari – scriveva Kordt il 3 gennaio 1950 –, che nel 1943 si era decisa per Mussolini, è nel frattempo rientrata nuovamente in servizio al ministero degli Esteri, con l’eccezione di alcuni ambasciatori e di una dozzina di funzionari, tra cui Anfuso, che al momento risiede a Parigi. In occasione dell’abdicazione (Abdankung) del re Umberto II e dell’introduzione della Repubblica solo quatto funzionari avevano dato le loro dimissioni, tra questi c’era il ministro degli Esteri del governo Badoglio, Raffaele Guariglia».
Dopo l’istituzione del primo Consolato tedesco in Italia nel dicembre del 1950, i resoconti compilati dai rappresentanti dalla futura ambasciata della Repubblica federale a Roma sul personale diplomatico italiano contenevano spesso una distinzione dei vari funzionari in «super fascista», «fascista» e «sincero [aufrecht] democratico».
L’assenza di adeguati studi sulle biografie di tutti i direttori generali e dei funzionari più alti in grado del dicastero degli Esteri durante il primo quindicennio della repubblica non consente di escludere la possibilità di allargare a tutto il ministero quella definizione di fascista che allo stato attuale è possibile circoscrivere per i singoli diplomatici. In generale, la storiografia italiana difetta di una convincente interpretazione del rapporto tra regime fascista e diplomazia italiana.
Le valutazioni di Grassi Orsini, prima riportate, convergono in parte con l’immagine che alcuni diplomatici italiani hanno diffuso in vari libri di memorie. Un’autorappresentazione tendente ad evidenziare gli aspetti positivi e a tacere su quelli più problematici. Sulla storia del dicastero degli Esteri durante il fascismo e sul grado di coinvolgimento dei vari funzionari verso i progetti espansionistici del regime, Mario Luciolli, entrato in servizio durante il fascismo e tra i più noti diplomatici italiani del dopoguerra, già nel 1976 scrisse:
«Si può dire che il Ministero degli Affari Esteri fosse antifascista? No, se con questo si intende che osteggiasse apertamente e sistematicamente la politica del regime. Sì, invece, nel senso che era refrattario ad assorbire lo spirito fascista e che tendeva a conservare, sia pure in stato di ibernazione, la mentalità dell’Italia liberale».
Anche in questo caso l’ipotesi di un ministero fascistizzato viene decisamente esclusa ed emerge, invece, la volontà di attribuire un ruolo importante al dicastero degli Esteri quale portatore di atteggiamenti etico-politici fondamentali per garantire la continuità dei principi democratici e liberali aboliti dal fascismo, ma necessari per la ricostruzione dell’Italia repubblicana.
Un’idea largamente presente nelle relazioni e nei promemoria del ministero redatti durante gli ultimi anni di guerra, in risposta alle accuse scaturite dalle indagini condotte dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo (come nei documenti precedentemente citati e analizzati). Quello che emerge dai libri di memoria e da queste ultime fonti è una descrizione del mondo diplomatico italiano come protagonista di un atteggiamento di sostanziale resistenza passiva nei confronti del fascismo.
È interessante rilevare il parallelo con il caso dell’Auswärtigen Amts: anche in Italia quindi, secondo la memorialistica del secondo dopoguerra, ci sarebbe stato un ministero degli Esteri tiepido – per alcuni addirittura ostile – nei confronti della politica fascista, un’istituzione coinvolta suo malgrado nei progetti espansionistici di Mussolini. Il tema andrebbe indagato in modo più approfondito. La storiografia non può, infatti, limitarsi a ribadire un’interpretazione formulata dai contemporanei degli eventi in occasione di scritti retrospettivi.
La presenza di una forte continuità di uomini e di incarichi nella diplomazia dell’Italia repubblicana non fu priva di conseguenze. Nella storia della ripresa delle relazioni italo-tedesche, tale continuità rese possibile in alcuni casi l’attribuzione di missioni riguardanti la Germania a diplomatici che in passato erano stati in stretto contatto con i rappresentanti del Terzo Reich.
Questi funzionari erano stati spesso testimoni o protagonisti insieme ai colleghi tedeschi di vicende drammatiche102. Le complesse esperienze legate alla costruzione e alla rottura dell’Asse assunsero un ruolo importante nelle esistenze di quei diplomatici. Quanti documenti inviati a Roma dai consoli e dagli ambasciatori italiani in servizio nella Germania occupata e poi nella Repubblica federale furono influenzati dal ricordo personale degli eventi passati e dalla inevitabile rielaborazione individuale di quegli stessi eventi?
Dopo la fine della guerra, nei vari provvedimenti di revisione delle condanne e di riabilitazione delle carriere, il corpo diplomatico riuscì ad imporre come discriminante l’atteggiamento assunto l’8 settembre. L’aperta adesione alla Repubblica di Salò rappresentò in ultima istanza l’unica causa di sospensione dal servizio, mentre per tutti gli altri le disposizioni emanate nella seconda metà degli anni Quaranta garantirono il reintegro nella carriera agli inizi degli anni Cinquanta.I documenti esaminati costituiscono un esempio di quel tipo di pressioni esercitato sul governo dalle amministrazioni statali per ridimensionare gli effetti della defascistizzazione.
A ragione intorno a questi temi Federico Chabod invitava a riflettere su quella forza enorme dello stato moderno rappresentata dalla burocrazia, meno appariscente dei partiti politici, ma dotata di una forte continuità, la quale può esercitare nel lungo periodo un influsso maggiore dei partiti. All’interno della burocrazia, proseguiva Chabod, possono operare singoli individui di orientamento diverso, ma l’insieme funziona come un organismo che tende alla continuità e alla conservazione.
La forza tecnica della burocrazia si trasforma così in una forza politica meno appariscente ma di gran peso.