a cura di Cornelio Galas
Siamo all’ultima puntata di quest’analisi – che ha avuto per gran parte della sua elaborazione come punto di riferimento la tesi di laurea di Filippo Triola – sul dopoguerra e la ricostruzione in Italia, dal 1945 in poi. Proponiamo le considerazioni conclusive dell’autore della scrupolosa ricerca soprattutto dei rapporti Italia-Germania dopo la fine della seconda guerra mondiale. E la notevole bibliografia, per chi volesse approfondire gli argomenti fin qui trattati. Grazie della pazienza e dei lusinghieri commenti.
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
Le relazioni diplomatiche tra Italia e Germania (occidentale) ripresero ufficialmente nell’aprile del 1951, sei anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, e quasi otto anni dopo la dichiarazione di guerra alla Germania del 13 ottobre 1943 da parte del governo Badoglio.

PIETRO BADOGLIO
Questo studio – scrive Filippo Triola – ha cercato di ricostruire ed analizzare la ripresa delle relazioni politiche ed economiche italo-tedesche, mostrando come al momento della ripresa ufficiale delle relazioni diplomatiche – così come alla vigilia della prima visita di Adenauer a Roma (giugno 1951) – le relazioni politiche e i rapporti commerciali bilaterali avessero già raggiunto una fase avanzata di sviluppo.
Per comprendere ed interpretare le dinamiche di tale sviluppo è stato necessario risalire ai primi anni del secondo dopoguerra, non tanto con l’obiettivo di scoprire un’«origine» che, come osservava criticamente Marc Bloch, era di per sé sufficiente a spiegare «tutto il resto». Il problema principale era di avviare una ricostruzione ed un’analisi sul come e sul perché.
Tra il 1945 ed il 1951 una pluralità di motivi economici e politici, all’interno di determinati condizionamenti storici, orientò l’atteggiamento dei governi italiani nei confronti della Germania, rendendo possibile (non senza attraversare aspri contrasti e confrontandosi con punti di vista diversi, provenienti di volta in volta da ambienti più o meno inclini ad un riavvicinamento al “mondo” tedesco) un rapido riavvicinamento politico tra i due paesi dopo l’istituzione della Repubblica federale nel 1949.
Bisognava, in primo luogo, verificare la presenza o meno di uno specifico punto di vista dell’Italia nei riguardi del cosiddetto «problema tedesco». Un aspetto, quest’ultimo, importante e poco indagato dalla storiografia italiana, che ha in genere puntato direttamente a ricostruire la collaborazione tra l’Italia e Repubblica federale e tra De Gasperi e Adenauer nella politica europea durante la prima metà degli anni Cinquanta, senza indagare il processo di formazione degli orientamenti della politica estera italiana sulla Germania durante la fase 1945-1949.
L’occupazione della Germania e la scomparsa di qualsiasi autorità centrale tedesca al termine della seconda guerra mondiale comportarono una significativa alterazione dello scenario politico ed economico europeo, ma non solo. Come è noto, Stati Uniti ed Unione Sovietica si avviavano a diventare le due uniche “superpotenze”, ridimensionando drasticamente il ruolo delle “grandi potenze” europee. Tra il 1945 e il 1949/59, l’Europa e la Germania soprattutto divennero gradualmente territori di confine tra due diversi spazi economici e politici.
Pochi mesi dopo la fine della Conferenza di Potsdam il ministero degli Esteri italiano intraprese un’importante riflessione interna sulle ripercussioni immediate per l’Italia derivanti dalla frammentazione e dalla scomparsa di uno stato tedesco. Tali analisi furono realizzate contemporaneamente all’infaticabile azione della diplomazia e della politica estera italiana che cercarono di valorizzare in sede internazionale il ruolo della cobelligeranza e del «contributo di sangue italiano» nella lotta contro il nazismo con l’obiettivo di separare le sorti dell’Italia da quelle della Germania nazista (non solo nella fase di elaborazione del Trattato di pace italiano, ma anche in seguito, per l’ottenimento di una revisione del Trattato).
È stato mostrato come già alla fine del 1946 la Direzione affari economici sottolineasse in tutta la sua gravità il problematico «vuoto economico» lasciato dalla Germania. Per il sistema economico-produttivo della penisola italiana questo vuoto si traduceva nella scomparsa del più importante mercato di sbocco e di approvvigionamento; un mercato, inoltre, che risultava «estremamente difficile da sostituire [con] altri mercati».
Si è quindi mostrato che la ripresa dell’interscambio italo-tedesco divenne progressivamente un punto focale dell’agenda politica italiana sulla Germania, un punto che travalicava l’ambito delle relazioni bilaterali per ripercuotersi sull’andamento complessivo dell’economia italiana.
Alla fine del 1946, il documento della Direzione affari economici incentrato sulle relazioni con la Germania illustrava dettagliatamente i diversi rapporti di natura economica esistenti fra i due paesi ed informava il governo che l’interruzione degli scambi, a causa della divisione e dell’occupazione del territorio tedesco, provocava effetti negativi all’interno di fondamentali settori produttivi orientati all’esportazione, con gravi ripercussioni sulle possibilità di ripresa dell’economia italiana.
In seguito agli studi della Direzione affari economici, il problema dell’interruzione degli scambi italo-tedeschi venne sollevato dal Presidente del consiglio De Gasperi all’amministrazione statunitense in occasione del suo primo viaggio americano nel gennaio del 1947. Londra e Parigi furono informate dell’importanza rivestita dall’economia tedesca per quella italiana da diversi comunicati diramati dal ministro Sforza agli ambasciatori accreditati presso i governi inglese e francese.
In tal senso la volontà italiana di prendere parte alle discussioni intorno ad un eventuale trattato di pace della Germania fu dettata, oltre che dal desiderio più o meno latente di riacquistare uno status di potenza, da motivazioni di natura economica. Le aspirazioni del governo italiano di far parte del gruppo delle nazioni autorizzate all’elaborazione del trattato di pace della Germania contenevano una buona dose di rivalsa, di desiderio di un riconoscimento internazionale della diversità etica e storica dell’Italia rispetto alla Germania e alle responsabilità della guerra, ma puntavano anche ad informare gli alleati dell’importanza per l’economia italiana dei rapporti commerciali italo-tedeschi.
Secondo gli esperti della Direzione affari economici, il governo italiano doveva sostenere una sostanziale revisione del programma di Potsdam. Una revisione che doveva interessare soprattutto alcuni aspetti economici dell’assetto tedesco, e non gli obiettivi diretti allo sradicamento del nazismo e del cosiddetto militarismo tedesco.
In particolare, si trattava di dichiararsi a favore del ripristino di una ricostituita unità economica della Germania (o almeno di una sua parziale riorganizzazione), della revisione di alcune clausole del Protocollo finale di Potsdam che prevedevano drastiche riduzioni per diverse produzioni siderurgiche, chimiche e meccaniche spesso collegate per la realizzazione o nello scambio con industrie italiane specializzate nella produzione di semilavorati; e, infine, il governo italiano doveva manifestare il proprio interesse per l’istituzione di un futuro regime politico ed economico compatibile con una ripresa di intense relazioni tra la Germania e i paesi dell’Europa occidentale.
I tentavi della diplomazia italiana di partecipare all’elaborazione del trattato di pace con la Germania fallirono e lo stesso trattato, a causa delle difficoltà scaturite dalla nascente guerra fredda fra gli alleati occidentali e l’Unione Sovietica, non trovò mai la luce. I rappresentanti italiani iniziarono, quindi, a presentare i propri punti di vista sul «problema germanico» nella veste di questioni che «riguarda[vano] gli interessi dell’intera Europa». «Il solo modo che abbiamo di influire sul futuro destino della Germania – scriveva l’ambasciatore Carandini a Sforza nel luglio del 1947 – è quello di abbordare il problema sul piano della ricostruzione europea».
Presentando il complesso delle tesi italiane come una necessità europea, il governo di Roma mostrava di seguire una linea di politica estera sulla Germania non dettata da calcoli puramente nazionalistici: un atteggiamento che amalgamava in modo sagace interessi nazionali e ideali europei.
L’istituzione della Bizona era stata salutata positivamente dal governo italiano in quanto comportava il ripristino di una più grande unità economica tedesca (costituita dalla zona di occupazione inglese e dalla zona di occupazione americana), la possibilità per l’amministrazione della nuova area di intrattenere relazioni commerciali con i paesi esteri (attraverso l’organo anglo-americano della Jeia), e la graduale restituzione ai tedeschi di determinati poteri amministrativi in ambito economico (attraverso l’istituzione del Consiglio economico di Francoforte – Wirtschaftsrat – nel giugno del 1947).
La Conferenza di Parigi per l’inizio del Piano Marshall offrì all’Italia la prima importante occasione per esporre in un consesso internazionale il proprio punto di vista su alcuni cruciali aspetti dell’assetto tedesco. L’Italia richiamò l’attenzione delle grandi potenze, e specialmente degli Stati Uniti, sulla necessità della ripresa degli scambi commerciali con la Germania occidentale (si puntava soprattutto allo scambio con le materie prime).
Riguardo all’assetto della regione della Ruhr e ai problemi della situazione tedesca direttamente affrontati dalla conferenza, l’Italia sostenne le idee americane, appoggiando di riflesso anche le ragioni dell’industria tedesca e i desideri di rinascita della Germania condivisi dai partiti politici della Bizona. Il documento approvato da Sforza e De Gasperi per la condotta dei lavori della delegazione italiana a Parigi affermava, nella parte dedicata alla linea da seguire sulla Germania, che:
«Si riconosce in modo unanime la convenienza economica dell’Italia acché venga ricostituita l’unità economico-produttiva tedesca. Per quanto riguarda la Ruhr si è concordi ad escludere l’opportunità della nazionalizzazione delle miniere [tesi inglese], come pure quella di affidare il loro esercizio ad un organo internazionale [tesi francese].
Ci si pronunzia invece a favore di una produzione autonoma della siderurgia e delle miniere di carbone tedesche. In modo particolare ci si pronuncia contro l’imposizione di grosse indennità a titolo di riparazione sulla nazione tedesca e si esprime il parere che l’interesse economico del nostro Paese consiglia di ostacolare richieste del genere da qualsiasi parte provenienti».
Alla Conferenza di Parigi dell’estate 1947 il governo di Roma appoggiò le proposte degli Stati Uniti sulla sistemazione della regione della Ruhr ed avanzò una richiesta ufficiale di ripresa degli scambi con la Germania. I documenti esaminati hanno mostrato che il governo italiano si convinse dell’opportunità di appoggiare le tesi statunitensi sulla Germania, in quanto esse furono ritenute coincidenti con gli interessi dell’Italia, nonché maggiormente sicure ed efficienti per una rapida ripresa delle relazioni commerciali italo-tedesche.

Stretta di mano, a Parigi, tra De Gasperi e Gruber
Nell’autunno del 1947, infatti, gli anglo-americani autorizzarono il governo italiano ad istituire un Ufficio commerciale all’interno della Bizona, a Francoforte sul Meno. Alla fine dello stesso anno veniva istituita sotto la guida di Vollrath von Maltzan l’Abteilung für Außenhandel (sezione per il commercio Estero) dipendente dall’agenzia economica della Bizona, la Verwaltung für Wirtschaft diretta da Ludwig Erhard. A partire da quel momento e sotto il patrocinio degli anglo-americani iniziò la ripresa delle relazioni commerciali italo-tedesche: in un primo momento tra l’Italia e la Bizona e dal 1949 in poi tra l’Italia e la Repubblica federale.
Stati Uniti e Gran Bretagna incoraggiarono la ripresa dei traffici tra i due paesi, ma a partire dal giugno 1948, con l’introduzione della riforma monetaria nelle tre zone d’occupazione occidentali, l’azione vera e propria passò progressivamente in mano a italiani e tedeschi.
Nel corso del 1948 e fine allo scioglimento della Jeia (l’amministrazione alleata della Bizona responsabile del commercio estero della Bizona) gli americani si limitarono ad appoggiare (o a non intralciare) la ripresa dei contatti tra i due “paesi” – l’Italia e la Bizona – in tale particolare settore. In termini quantitativi la storia della ripresa degli scambi commerciali bilaterali si rivelò un assoluto successo.
L’Italia, agevolata anche da una serie di congiunture internazionali come la creazione della Bizona nel 1947 e l’istituzione di una Germania occidentale fuori dal controllo dell’Unione Sovietica nel 1949, riuscì a centrare l’obiettivo di ripristinare i consolidati scambi commerciali con il mercato tedesco già alla fine degli anni Quaranta. Nel 1953, a soli quattro anni di distanza dall’istituzione della Repubblica federale, la Germania occidentale era il primo paese europeo fornitore dell’Italia (e il secondo a livello mondiale dopo gli Stati Uniti), mentre il mercato tedesco rappresentava il primo in assoluto per le esportazioni italiane.
Con la vittoria della DC di De Gasperi alle prime elezioni politiche del 18 aprile 1948, e con il raggiungimento dei primi obiettivi nel campo della ripresa delle relazioni commerciali (il primo accordo con la Bizona fu concluso, infatti, nel settembre del 1948), il governo italiano iniziò ad occuparsi anche degli aspetti politici relativi al ruolo della Germania in Europa. Fin dalla primavera-estate del 1947, l’inasprirsi delle tensioni internazionali tra Stati Uniti ed Unione Sovietica e le differenze sempre più marcate sulla gestione delle zone di occupazione portarono alla messa in discussione dei vari organismi di controllo quadripartito della Germania.
La possibilità di una soluzione condivisa sul futuro assetto politico ed economico della Germania si allontanava progressivamente dai calcoli delle cancellerie dei paesi che avevano dato vita durante la guerra alla coalizione antinazista. Con l’introduzione della riforma monetaria nelle zone controllate dagli alleati occidentali nel giugno del 1948 diveniva concreta l’ipotesi di uno stato tedesco occidentale separato dalla zona occupata dall’Unione Sovietica.
L’accelerazione impressa dagli alleati anglo-americani al processo di formazione di un governo tedesco-occidentale nella primavera-estate del 1948 modificava lo scenario politico dell’Europa rispetto alla situazione emersa subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. In breve tempo nelle zone di occupazione non controllate dall’Unione Sovietica un nuovo stato tedesco, con un proprio governo, avrebbe sostituito la Bizona e la zona francese attraverso una rinnovata unità amministrativa.
La riforma monetaria e l’evidente volontà delle potenze occidentali di autorizzare la nascita di un governo tedesco ad Ovest richiedevano un aggiornamento delle posizioni italiane nei riguardi della «questione germanica». Il governo italiano, che durante i primi anni del dopoguerra aveva auspicato il mantenimento di un’unità tedesca, dopo la Conferenza di Parigi dell’estate del 1947 e le riforme introdotte dagli alleati nella Bizona nella primavera del 1948, si adattò progressivamente all’idea di una Germania occidentale divisa dalla zona sovietica.
In quel determinato contesto storico tale soluzione rappresentava, nell’ottica dei dirigenti italiani, l’unica strada praticabile per inserire una parte consistente dell’ex Reich (quella più grande e ricca) nel nuovo sistema di relazioni politico-economiche in costruzione nell’Europa occidentale, sfera in cui l’Italia era inserita.
Fin dai primi mesi del dopoguerra l’importanza attribuita dal governo di Roma ai rapporti commerciali italo-tedeschi aveva contribuito ad indirizzare la politica estera dell’Italia su posizioni contrarie al mantenimento di una Germania economicamente irrilevante. Nel momento in cui tra la primavera e l’estate del 1948 si palesava il passaggio verso la formazione di uno stato tedesco occidentale, il governo De Gasperi iniziò a sostenere pubblicamente la necessità di integrare i tedeschi nei programmi di cooperazione economica e politica dell’Europa. Il reintegro di una struttura economico-politica tedesca nel sistema dei paesi dell’Europa occidentale divenne progressivamente la linea ufficiale del governo italiano.
In una prima fase, tra il 1945 e il 1947, i forti legami economici esistenti fra i due paesi avevano indirizzato il governo italiano verso un atteggiamento incline al non isolamento della Germania dal sistema degli scambi nel quale rientrava l’Italia: quello, cioè, dell’Europa occidentale. Successivamente, nel corso del 1948, dopo l’esito delle elezioni politiche italiane, quegli orientamenti furono rinsaldati da analisi geopolitiche dettate dal contesto internazionale segnato dalla guerra fredda.

776896 01.01.1971 Вице-премьер французского правительства, коммунист Морис Торез (в центре) на заседании кабинета министров. 1947 год. Репродукция фотографии из фондов института Мориса Тореза в Париже. РИА Новости/РИА Новости
Secondo gli analisti di Palazzo Chigi, infatti, la presenza di uno stato tedesco al posto del vuoto tedesco avrebbe evitato una forte pressione americana e sovietica sull’Italia. La presenza di una nuova compagine statale tedesca al centro dell’Europa avrebbe assorbito le attenzioni delle due superpotenze, lasciando maggiori spazi di manovra politico-diplomatica all’Italia e spostando i punti di frizione tra sovietici e americani dal sud al centro-nord dell’Europa.
Da un punto di vista politico gli interessi della penisola non erano lesi, quindi, da una rinascita della Germania. L’esistenza di un’entità politico-economica tedesca al centro dell’Europa comportava, secondo la Direzione affari politici, il soddisfacimento della tradizionale visione del «concerto europeo». Tale concetto postulava un sistema di relazioni nel quale i rapporti di forza tra le potenze del continente europeo-occidentale si bilanciavano a vicenda.
L’idea di fondo delle riflessioni geopolitiche del ministero degli Esteri si basava, quindi, sull’assunto di una maggiore capacità di influenza politico-economica dell’Italia in campo internazionale solo all’interno di un’Europa occidentale plurale, non sbilanciata esclusivamente sulla Francia o sulla Germania.
La linea del governo italiano sullo stato tedesco-occidentale fu consolidata politicamente dall’europeismo e dalla visione ideale di una nuova Europa che soprattutto il Presidente del consiglio De Gasperi andava maturando. I progetti europeisti rappresentavano, inoltre, uno strumento politico ed economico particolarmente efficace, in primo luogo, per ottenere il contenimento e la difesa dall’Unione Sovietica e, in secondo luogo, per scongiurare eventuali rischi derivanti da una nuova Germania rafforzata, ma isolata e potenzialmente orientata verso Mosca.
Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949 l’approccio del governo italiano nei confronti dell’imminente stato tedesco-occidentale poteva essere considerato in linea di massima elaborato. I punti cardine erano stati individuati e delineati. L’approccio del governo italiano si caratterizzava per la volontà di non assumere un atteggiamento ostile, diffidente o comunque impostato sulla cautela nei confronti del futuro governo tedesco, ma di promuovere sul piano internazionale una politica estera a favore di una piena integrazione della Germania occidentale.
La possibilità di una Germania neutrale e politicamente equidistante tra i due blocchi contrapposti non fu presa in considerazione né dal ministero degli Esteri, né da De Gasperi e Sforza. Alla fine degli anni Quaranta l’esistenza di uno stato tedesco non sottoposto alla diretta influenza dell’Unione Sovietica, il momentaneo annullamento dei tradizionali campi di frizione fra Italia e Repubblica federale e i forti legami economici preesistenti rappresentarono le condizioni storico politiche favorevoli per un rapido riavvicinamento.
Nel maggio del 1949, prima ancora dell’istituzione della Bundesrepublik Deutschland e dell’avvento del Cancelliere Adenauer, il presidente del Consiglio De Gasperi e il ministro degli Esteri Sforza intrapresero una precisa azione diplomatica di riavvicinamento politico, favorendo incontri e scambi di visite.
Gli interessi economici e commerciali, le analisi di natura geopolitica influenzate dalla guerra fredda e le posizioni di De Gasperi e Sforza rappresentano, dunque, secondo questa ricerca, i tre elementi costitutivi e fondamentali per la comprensione del processo di formazione della politica estera italiana sul «problema germanico». È attraverso tale pluralità di motivi che la storia degli indirizzi italiani sulla Germania nel secondo dopoguerra risulta intellegibile.
È possibile quindi affermare che già prima dell’inizio dell’«era Adenauer» il governo italiano aveva maturato una propria peculiare posizione nei confronti della Germania occidentale, una posizione che nel panorama europeo-occidentale si avvicinava – nelle sue declinazioni politiche ed economiche – molto di più a quella degli Stati Uniti, che non a quella di Francia e Gran Bretagna.
La vittoria della coalizione guidata dalla Cdu alle prime elezioni politiche della Germania occidentale nell’agosto 1949 e l’elezione di Adenauer a primo Cancelliere della Repubblica federale nel settembre del 1949 (un partito ed un leader che condividevano con la DC italiana e soprattutto con il Presidente del consiglio De Gasperi non pochi ideali) agevolarono il riavvicinamento politico fra l’Italia e la Repubblica federale, ma non costituirono le cause decisive degli orientamenti italiani nei confronti della Repubblica federale.
È importante, dunque, ribadire che nell’ottica della presente ricerca, così come è stato mostrato nel corso dei vari capitoli, le convergenze politiche e culturali tra De Gasperi e Adenauer concorrono a spiegare molto del processo di riavvicinamento bilaterale, ma non esauriscono il senso della politica estera italiana nei confronti della Repubblica federale.
Nell’autunno del 1949 il nuovo governo tedesco-occidentale guidato dal Cancelliere Adenauer mostrò subito una non trascurabile attenzione nei confronti dell’Italia e del governo De Gasperi. Nell’iniziale e relativo isolamento politico e diplomatico, il governo della Repubblica federale ebbe l’occasione di contare sulla «mano tesa» dall’Italia alla nuova Germania occidentale.
Sforza e De Gasperi miravano ad introdurre i tedeschi nella costituenda «famiglia europea», invitando francesi e tedeschi a rimuovere e a superare «i contrasti del passato». L’Italia non rientrava nel circolo delle grandi potenze, ma grazie alla posizione geografica strategica di confine tra i due blocchi della guerra fredda, all’appartenenza al Patto Atlantico e al Consiglio d’Europa poteva svolgere una valida azione politica e diplomatica a favore della Germania occidentale.
Dal punto di vista dei rappresentanti di Bonn, impegnati nei primi anni Cinquanta nel raggiungimento di un ruolo paritario e di una piena equiparazione politica dei diritti (la Gleichberechtigung) con le alte potenze occidentali, la politica europea dell’Italia poteva contribuire a ridurre l’iniziale isolamento internazionale della Bundesrepublik Deutschland, accelerando il processo di integrazione europea della Repubblica federale tedesca. L’atteggiamento del governo italiano in occasione dell’inizio del dibattito sul riarmo tedesco confermò ai dirigenti di Bonn che l’Italia era disposta ad appoggiare in sede internazionale la Germania occidentale anche per quanto riguardava tale delicato argomento.
I documenti redatti dall’Auswärtiges Amt nel giugno del 1951 in occasione della visita di Adenauer a Roma hanno evidenziato una certa consapevolezza da parte della diplomazia tedesca dell’esistenza di un insieme di interessi che spingevano l’Italia ad appoggiare il nuovo stato tedesco al di là delle posizioni di De Gasperi e Sforza. Secondo l’Auswärtiges Amt, l’Italia rappresentava un alleato naturale della Repubblica federale.
Il sostegno di Roma a Bonn derivava da un insieme di interessi economici e geopolitici di natura strutturale, un complesso di interessi che, nella prospettiva della diplomazia tedesca, non lasciava all’Italia di De Gasperi molte alternative in tema di politica europea, se non quella di appoggiare una piena ed attiva partecipazione della Repubblica federale ai progetti di difesa ed integrazione europea.
Le analisi della Protokollabteilung sottovalutavano in modo eccessivo il fattore rappresentato dalle personalità di De Gasperi e Sforza per l’efficacia della politica europea e “tedesca” dell’Italia, ma individuavano due motivi concreti che nel corso del secondo dopoguerra avevano contribuito alla definizione della posizione italiana sulla Germania (gli interessi economici e l’interesse geopolitico per l’inclusione della Repubblica federale nel perimetro difensivo occidentale in chiave antisovietica).
Le relazioni commerciali bilaterali hanno rappresentato un campo di indagine fondamentale. Era imprescindibile ricostruire le dinamiche di tali sviluppi, poiché fu proprio grazie alla ripresa dei traffici commerciali che avvenne il primo riavvicinamento tra dirigenti tedeschi e rappresentanti del governo italiano: il nodo dei rapporti economici era stato al centro delle riflessioni del governo italiano sulla Germania fin dalla fine della guerra.
La collaborazione economica e commerciale, in un primo momento attraverso la sua ripresa (1947-48) e poi grazie alla sua intensificazione (1949-50), rappresentò uno dei nodi centrali nel quadro del ristabilimento dei rapporti italo-tedeschi. Le concrete relazioni politiche tra Italia e Germania occidentale furono precedute da quelle commerciali: la costruzione dei rapporti economici anticipò l’inizio dei contatti politici tra i due governi. Si trattava dunque di una chiave di lettura degli interessi economici fondamentale per la comprensione della storia dei rapporti fra Italia e Germania (occidentale) dopo la seconda guerra mondiale.
La ricostruzione e l’analisi del potenziamento degli scambi ha consentito di svelare e mostrare i mutamenti dei rapporti di forza tra i due paesi così come essi vennero percepiti dai protagonisti della ripresa delle relazioni bilaterali. Attraverso l’osservazione dei rapporti commerciali bilaterali è stato mostrato che tra il 1949 e il 1950 l’Italia percepì la propria condizione di “forza” rispetto al nuovo stato tedesco-occidentale e che in determinate circostanze la «mano tesa al figliol prodigo» in Europa si tradusse in precise richieste negoziali.
In determinate occasioni tra il 1949 e il 1950 l’“amicizia” italiana nei confronti della Repubblica federale venne consapevolmente strumentalizzata dalle delegazioni italiane (capeggiate in genere dai vertici della Direzione affari economici) per ottenere da Bonn migliori condizioni economiche a vantaggio degli interessi italiani. Si è visto, infine, che a partire dalla fine del 1951 la diplomazia italiana percepì di aver perso tale iniziale condizione di forza. Infatti, nonostante sul piano europeo la collaborazione politica con la Repubblica federale rimanesse solida, in sede di discussioni commerciali i dirigenti italiani constatarono con amarezza di aver perso l’iniziale influenza e di non essere più in grado di “strappare” le migliori condizioni contrattuali, così come era invece avvenuto tra il 1949 ed il 1950.
I successi della Repubblica federale nel campo della Gleichberechtigung e il progressivo sviluppo dell’economia assegnavano alla Germania occidentale maggiore stabilità e sicurezza. Tuttavia anche altri elementi contribuirono al mutamento di percezione del ruolo che poteva svolgere l’Italia in Europa. Infatti, all’ombra delle comuni visioni occidentali di De Gasperi e di Adenauer, la diplomazia tedesca iniziò a valutare in modo diverso il ruolo dell’Italia.
Le fonti conservate presso l’archivio dell’Auswärtigen Amts mostrano che l’attenzione dei rappresentanti tedeschi in Italia era rivolta fin dalla primavera del 1951 non tanto alle analisi delle scelte di politica estera del governo italiano, quanto ai problemi di politica interna.
I rapporti inviati a Bonn dal Consolato (Ambasciata dalla primavera del 1951) di Roma sintetizzano in modo efficace la percezione dei dirigenti tedeschi circa la situazione italiana tra il 1951 e il 1953: sul piano politico il punto di riferimento indiscusso era rappresentato dal presidente del Consiglio De Gasperi, probabilmente uno dei pochi politici realmente stimati e apprezzati dalla diplomazia tedesca; tuttavia la presenza di un fortissimo partito comunista e le continue tensioni sociali accompagnate da un basso tenore di vita della popolazione italiana costituivano delle fragilità che rischiavano di compromettere la generale stabilità del paese.
Sulla base di griglie interpretative fortemente impregnate di concetti e precetti liberisti, la diplomazia tedesca osservò con preoccupazione il varo delle principali riforme di politica economica dei governi De Gasperi. La forte presenza dello Stato nei meccanismi produttivi della penisola fu fortemente criticata dall’Ambasciata tedesca di Roma e dai dirigenti di Bonn. Secondo il giudizio del consolato tedesco di Roma la politica economica del governo italiano, tendenzialmente contraria ai principi del libero mercato, era in realtà incapace di venire a capo dei problemi economico-sociali del paese.
I diversi squilibri e le sperequazioni sociali irrisolte contribuivano ad alimentare il disagio sociale e finivano quindi per aumentare i consensi delle sinistre. In prospettiva, paventava l’ambasciatore Brentano, il mancato arretramento del partito comunista rappresentava una minaccia non solo per l’Italia, ma per l’intero sistema occidentale. La fragilità e la latente instabilità del sistema politico italiano erano, dunque, potenzialmente in grado di compromettere il costituendo assetto europeo.
Le percezioni e le letture degli sviluppi politici tedesco-occidentali da parte della diplomazia italiana hanno accompagnato il lavoro di ricostruzione e di interpretazione della costruzione delle relazioni politiche ed economiche bilaterali. I protagonisti al centro dell’indagine del presente lavoro sono soprattutto diplomatici, così come il corpo documentario consultato per la presente ricerca è principalmente di natura diplomatica.
Una riflessione sui funzionari italiani assegnati agli affari tedeschi si è rivelata, dunque, indispensabile. È singolare notare che la letteratura scientifica sulla storia delle relazioni politico-diplomatiche fra Italia e Germania dopo la seconda guerra mondiale ha sempre evitato di soffermarsi sul personale diplomatico italiano direttamente coinvolto nella ripresa dei rapporti bilaterali. Chi erano i rappresentati inviati in Germania a partire dal 1946/47? Si trattava di personale “nuovo”, selezionato all’interno dei partiti politici antifascisti, come era capitato in occasione delle prime nomine degli ambasciatori inviati dai governi italiani nelle capitali delle potenze alleate?
Nella scelta dei rappresentanti italiani da inviare in Germania prevalse un criterio in parte diverso da quello adoperato dai governi italiani per le designazioni dei primi ambasciatori a Parigi, Londra, Washington e Mosca. In questi ultimi casi si impose la volontà di marcare una netta discontinuità: il governo scelse di inviare come principali rappresentanti un tipo di personale non legato alla carriera diplomatica pesantemente compromessa con il passato regime fascista, così come l’Alto Commissariato per le sanzioni contro il fascismo aveva da poco evidenziato.
Sono noti i casi di Saragat (esponente socialista) inviato a Parigi, dell’esponente del partito liberale Nicolò Carandini destinato a Londra, dell’azionista Alberto Tarchiani a Washington o del liberale Manlio Brosio inviato a Mosca da Nenni nel 1946.
Non si riscontra nulla di simile per quanto riguarda la ripresa dei rapporti diplomatici con la Germania: durante il periodo 1946-1949, così come al momento dell’istituzione della Repubblica federale, si scelse di designare inviati provenienti dalla carriera diplomatico-consolare e in nessun caso un personale di estrazione politica antifascista.
La presente ricerca ha mostrato, infatti, che i rappresentanti italiani in Germania tra il 1946 e il 1951 erano tutti (ad eccezione del console Francesco Malfatti) diplomatici di carriera entrati in servizio durante il regime fascista. Il console Vitale Gallina ed il console Guglielmo Arnò (a capo della delegazione degli osservatori italiani ai processi contro i criminali nazisti di Dachau e Norimberga) avevano intrapreso la carriera diplomatico-consolare grazie ad una legge del 1927 che prevedeva il reclutamento senza regolare concorso di alcuni «benemeriti della causa fascista» allo scopo di fascistizzare il ministero degli Esteri.
Il primo ambasciatore italiano a Bonn, Francesco Babuscio Rizzo, come risulta dalla documentazione della Commissione di epurazione, aveva ricoperto cariche rilevanti al ministero degli Esteri durante la prima parte della seconda guerra mondiale e nel corso degli anni Trenta aveva raggiunto in pochissimi anni gradi elevati in carriera grazie ad appoggi politici.
Da un punto di vista politico, l’ossessione principale dei rappresentanti italiani in Germania tra il 1946 ed il 1949 fu quella di constatare «lo spirito democratico dei tedeschi». La documentazione archivistica non restituisce, tuttavia, un dibattito o una riflessione sulla “questione della colpa”, ma esclusivamente la preoccupazione di un potenziale ritorno di aggressività dei tedeschi.
Gli eventi relativi alla passata alleanza nell’Asse, alla guerra e alle sofferenze dell’occupazione tedesca assunsero, come è noto, un ruolo fondamentale per la percezione della Germania e dei tedeschi da parte della società italiana del dopoguerra, ma solo eccezionalmente è possibile riscontrare l’opinione dei diplomatici dell’epoca su questi temi all’interno di rapporti, appunti e relazioni.
Nell’ottica dei rappresentanti italiani in Germania le questioni da indagare erano altre. Si trattava di problemi generalmente poco legati al contesto internazionale della guerra fredda e frutto, invece, di prospettive nazionali e bilaterali. In particolare, una nuova Germania sarebbe stata un fattore di stabilità e di sicurezza per l’Europa o, invece, avrebbe rappresentato una potenziale minaccia per tutti? E, soprattutto, il popolo tedesco era veramente capace di instaurare un regime politico democratico?
Come è stato mostrato nel corso dei capitoli, la risposta dei diplomatici italiani in Germania tra il 1946 ed il 1949 a quest’ultima domanda fu sostanzialmente negativa. La mole di rapporti e di relazioni prodotta dai vari inviati italiani lascia intuire, tuttavia, che si preferì individuare conferme per i propri pregiudizi, piuttosto che intraprendere una vera osservazione degli sviluppi politici tedeschi-occidentali. Diversi sviluppi politici non irrilevanti per il futuro della Repubblica federale (i programmi dei partiti politici come la Spd o i liberali e istituzioni come il Parlamentarischer Rat) furono quasi completamente ignorati dalla diplomazia italiana.
La persistenza tra i diplomatici italiani di griglie interpretative basate sul postulato di una presunta antidemocraticità e di una innata bellicosità dei tedeschi indusse col tempo gli inviati del governo italiano a soffermarsi soprattutto su quegli elementi che potevano confermare tale aspetto della vita politica tedesca, trascurando i segnali di discontinuità tra la Germania del dopoguerra e quella del Terzo Reich.
Era quindi importante evidenziare il passato dei rappresentanti italiani e constatare che le periodiche relazioni sui progressi dei tedeschi nel campo della democrazia erano redatte da diplomatici che avevano servito per diversi anni un regime non esattamente avvezzo alle regole di una democrazia. Tra il 1946 ed il 1949 i diplomatici italiani in Germania si rivelarono, quindi, un debole strumento di supporto per il governo di Roma.
Fu soprattutto grazie agli interessi commerciali, alle analisi geopolitiche elaborate dal ministero a Roma ed agli orientamenti di politica europea maturati da Sforza e De Gasperi nel contesto della guerra fredda che il governo italiano sviluppò una linea politica sulla Repubblica federale poco condizionata dai radicati atteggiamenti antitedeschi largamente diffusi tra i rappresentanti diplomatici italiani.
È importante sottolineare che i timori e le perplessità della diplomazia italiana sulla presunta attitudine dei tedeschi all’autoritarismo costituivano i sintomi di immagini profondamente radicate tra i funzionari del ministero degli Esteri. Nel gennaio del 1951, dopo l’energico impegno del governo italiano a favore del riarmo tedesco e a pochi mesi dall’arrivo di Adenauer a Roma e dalla firma del trattato istitutivo della Ceca, l’Ufficio V° della Direzione affari politici (addetto ai paesi del nord Europa tra cui la Germania) inviò al governo uno studio riservato intitolato «Indagine sullo spirito democratico del Governo federale tedesco».
La relazione non scioglieva tutte le riserve sulla nuova classe dirigente tedesca, ma ammetteva che «il governo federale tedesco ha dato prove irrefutabili di spirito democratico». Nulla permetteva di escludere che si trattasse di una fase momentanea o, peggio, di un espediente tattico solo apparentemente votato alla democrazia in attesa di un pieno ripristino della sovranità22. Nel frattempo, si osservava nella relazione, la presenza del Cancelliere Adenauer a capo del governo federale rappresentava un’indubbia garanzia di democraticità:
«A maggiore garanzia dell’esistenza di uno spirito sinceramente democratico del governo federale tedesco, non potrebbe essere taciuto che il suo capo e molti membri di esso hanno conosciuto per anni i campi di concentramento a cui hanno sopravvissuto solo per il tempestivo arrivo delle truppe alleate. Adenauer è stato liberato da Mathausen […]».
Una profonda continuità del personale interessò, inoltre, l’Ufficio commerciale italiano a Francoforte. Si è visto che il governo italiano e il ministero degli Esteri assegnarono consapevolmente la gestione della ripresa dell’interscambio italo-tedesco ad una serie di funzionari in possesso di una vasta esperienza maturata nello stesso campo nel corso degli anni Trenta.
Gli incarichi strategicamente rilevanti nell’ambito delle relazioni commerciali bilaterali furono assegnati a “tecnici” che già in passato, durante l’alleanza nazifascista, avevano occupato posti chiave nel coordinamento degli scambi italo-tedeschi. Nonostante alcuni “richiami” da parte delle autorità alleate d’occupazione della Bizona, che in un primo momento mostrarono di non gradire la presenza di funzionari italiani già impiegati dal regime fascista in analoghi incarichi, il ministero degli Esteri scelse di servirsi di tali funzionari anche perché – come notava l’Addetto commerciale Morante – si trattava di un “capitale umano” irrinunciabile «per il Paese».
Le segnalazioni alleate non si tradussero mai in esplicite richieste di revoca degli incarichi, fino a quando l’inasprimento della guerra fredda, il blocco di Berlino, la lotta al comunismo e la progressiva delega di poteri agli organi tedesco-bizonali da parte degli alleati occidentali determinarono una progressiva perdita di interesse degli americani per il recente passato degli addetti italiani al commercio estero in Germania.
Anche i più importanti funzionari della rappresentanza tedesca di Roma – da Brentano ad Eiswald – non rappresentavano degli “uomini nuovi”. Tutti erano stati in tempi diversi e in modi diversi addetti agli affari italiani. Tuttavia una differenza sostanziale tra il primo ambasciatore tedesco in Italia, Clemens von Brentano, ed il coevo rappresentante italiano a Bonn, Babuscio Rizzo, risiedeva nel grado di compromissione con la politica estera dell’ex regime fascista.
Dalla nascita dell’Asse nel 1936 fino all’estate del 1943, passando per il Patto d’Acciaio e la guerra parallela di Mussolini, Babuscio Rizzo aveva ricoperto gradi elevati della carriera diplomatica. Dal febbraio al luglio del 1943, il futuro ambasciatore a Bonn era stato Capo di Gabinetto del ministero degli Esteri. In questo ruolo nella primavera del 1943 Babuscio Rizzo fu tra gli autori insieme a Giuseppe Bastianini (sottosegretario agli Esteri), Leonardo Vitetti e Luca Pietromarchi (entrambi Ministri plenipotenziari di prima classe) della controversa «Carta d’Europa», presentata dal regime fascista ai vertici del Terzo Reich durante gli incontri di Klessheim dell’aprile 1943.
Da un punto di vista politico, se per la diplomazia tedesca le principali minacce alla stabilità del sistema politico italiano provenivano dalla presenza di forti partiti antisistema come il Pci di Togliatti, per i diplomatici italiani i fattori di rischio in Germania derivavano dalla possibilità di un’improvvisa accentuazione delle “storiche qualità negative” che contraddistinguevano il popolo tedesco.
Per entrambe le diplomazie le presunte “debolezze” individuate nell’altro paese erano virtualmente in grado di compromettere la stabilità complessiva del sistema europeo occidentale. Soprattutto nel caso italiano le debolezze attribuite alla Germania Ovest raffiguravano una versione nemmeno tanto aggiornata di antichi pregiudizi e stereotipi. I rappresentanti tedeschi non nascondevano che l’Italia andava salvata dal caos, dall’instabilità e dall’ingovernabilità, mentre per i diplomatici italiani la Repubblica federale recava in sé i rischi di potenziali derive politiche autoritarie.
Gli sviluppi storici esaminati nella presente ricerca interessano un arco di tempo breve, ma cruciale. Parallelamente alla ripresa delle relazioni italo-tedesche si andavano definendo gli assetti politici ed economici internazionali che condizionarono buona parte della storia europea nella seconda metà del XX secolo.
Rimane una questione aperta e ancora da indagare quanto nel medio e lungo periodo i forti interessi commerciali, le visioni geopolitiche e il ruolo specifico dei diversi governi abbiano influito per la storia dei rapporti bilaterali, e di riflesso per la stessa storia dell’integrazione europea, e di conseguenza, quante e quali delle reciproche percezioni individuate in questo studio tra i due paesi siano andate modificandosi o si siano ripresentate nel corso degli sviluppi storici successivi.
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