Diari, lettere, testimonianze dai campi di prigionia
NELLE PRIGIONI DI HITLER – IL VIDEO
a cura di Cornelio Galas
LIBRI DA LEGGERE – 4
CALLIARI TULLIO/2 Si segnalano tra gli altri documenti rinvenuti: Corrispondenze del dopoguerra con il parroco di Dennep (Germania). Fitta serie di corrispondenze dal Lager alla famiglia. Una rara fotografia scattata a Steinach: viene in essa raffigurato un gruppo di IMI (compreso il Calliari) durante il trasferimento a Innsbruck, subito dopo la cattura del settembre 1943; la foto venne scattata da un tedesco che scendeva verso l’Italia. Quest’ultimo la spedì nel dopoguerra al nostro. Essa fu pubblicata sull’ “Alto Adige” del 19 marzo 1993, in occasione di una mostra allestita in quegli anni nella sala della Regione Trentino-Alto Adige (vennero esposte 50 fotografie e 160 tele). Una particolare “Lettera di intenti” del 30.4.1944 in cui il Calliari elenca una serie di “progetti per il futuro” che si augura di poter realizzare se avrà la fortuna di rientrare in patria. Lettere che il Calliari scriveva ai famigliari di IMI deceduti nei Lager per comunicarne il decesso; documentazione e corrispondenza inerente Orlando Lucchi, di Tenno, già senatore e presidente dell’ANEI del trentino dal 1970 al 1995; documentazione e corrispondenza con Candido Rosati, di origine trentina, presidente dell’ANEI nazionale (Tullio Calliari è stato anche delegato dell’ANEI nazionale). E ancora: piccolo diario scritto su fogli di cartolina, con date e annotazioni del periodo 1943/1945; una cartella di documentazione “Rapporti con ANPI” (rapporti istituzionali tra ANEI e ANPI durante la Presidenza ANEI di Calliari); corrispondenze con Paride Piasenti e con la Presidenza nazionale dell’ANEI; corrispondenze con Provincia Autonoma di Trento, Presidio militare di Trento, Commissariato di governo; una lettera di Alessandro Natta a Calliari. Poi, documentazioni varie di corrispondenza con enti locali e nazionali (rapporti con Ana Trento, Associazione nazionale combattenti e reduci, Associazione nazionale del fante, Museo storico in Trento, Museo storico delle truppe alpine, Incontro italo – austriaco di Bondo (1996), Lavarone, e Pejo; documentazione su risarcimento/indennizzo OIM (lavoratori coatti); lettera del 3 gennaio 2001 con cui Tullio Calliari scrive al Presidente del Consiglio della Provincia Autonoma di Trento per chiedere la traduzione dal tedesco all’italiano di una tesi di laurea sugli IMI redatta da Remo Azara, Kurt Fischer Wolfsburg.
CALZA’ CARLO Luogo di conservazione dei documenti: presso i famigliari; Biblioteca Civica di Rovereto. L’originale del diario di prigionia è presso la famiglia (i figli Gabriella e Mauro). Scritto com’è su supporti di fortuna, il diario costituisce un cimelio molto suggestivo. Un fondo miscellaneo (libri, documenti, album fotografici, materiale grigio di varia natura) è stato versato di recente, dopo la scomparsa di Calzà, alla Biblioteca Comunale di Rovereto. Tra i materiali più interessanti, il dattiloscritto di un secondo libro di poesie di Alvaro Mucci ispirate alla prigionia (inedito?), appunti di una tragedia da Treviso al Lager. Negli album fotografici c’è una documentazione significativa di manifestazioni commemorative. Non c’è invece documentazione significativa dell’attività della sezione ex Imi di Rovereto della quale Calzà fu presidente. Ma per questa esiste il robusto archivio dell’associazione, da poco passato al Museo della Guerra.
CAMPREGHER MASSIMO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento, data di nascita: 22/5/1911; Luogo: Centa San Nicolò; Occupazione: Contadino. Titolo: “Diario della prigionia”. Il testo è la registrazione di appena cinque mesi, dal 24 settembre 1943 al 16 gennaio 1944. Dopo l’8 settembre Campregher viene fatto prigioniero, in Bulgaria, dai tedeschi. Rifiuta di arruolarsi con i fascisti della RSI. Viene inviato quindi in vari campi di concentramento, prima in Albania poi in Germania (con un viaggio lungo e faticoso dalla Bulgaria attraverso la Macedonia, la Serbia, la Croazia, l’Ungheria e l’ Austria) a Dortmund e a Ihmer (?). Della vita del campo registra soprattutto la fatica della sopravvivenza e la lotta quotidiana contro la fame e il freddo. Il testo è poi seguito da alcune canzoni. Campregher muore il 18 settembre 1972. Il diario inizia il racconto il 24.9.1943 in Albania. La sensazione è che il reparto cui appartiene Campregher, dopo l’armistizio, sia associato ai tedeschi in una condizione di stallo; in particolare durante il trasferimento dall”Albania alla Bulgaria – avviene un attacco partigiano che causa parecchi morti e feriti. Il 28.9.1943 Campregher annota: “… i tedeschi volevano che io restasse a far servizio con loro, io sempre no!”. Transito per la Bulgaria, poi passaggio attraverso Macedonia, Serbia,Croazia, Ungheria, Austria. Arrivo al campo di Dortmund. Poi avviene il trasferimento in un campo il cui toponimo è di complessa decifrazione (Hemer? Ihmer?). Ulteriore trasferimento nel campo di Polsum. Descrizione dettagliata del lavoro, dei pasti, delle violenze e percosse compiute dai tedeschi, nonché dei furti subiti. L’11 dicembre 1943 fugge dal lavoro per andare a chiedere la carità ai contadini. Riceve da alcune donne 5 kg. di patate. Fugge altre volte dal lavoro: “… La sera di notte scappai dal lavoro e andai in cerca per la campagna di qualche cosa e trovai ancora un pò di rapete meze gelate e alcuni capusci piccoli”. Il 28.12.1943 mette dei lacci per la cattura della lepre vicino alla fabbrica dove lavora. Nei lacci finisce però un capriolo; coltello alla mano lotta per cinque minuti con la bestia ed infine riesce ad avere il sopravvento. Il diario si interrompe l’8.1.1944. Seguono poi alcuni brevi testi di canzoni degli internati (“Mamma son prigioniero”, “Si viaggia su lenta tradotta”, “Ricordi quella sera”, “Prigionieri di guerra”).
CAPRINI ARTURO Luogo di conservazione dei documenti: abbiamo a disposizione le fotocopie. Materiale avuto dal Sig. Barbieri Giorgio, Bolzano. Documentazione che fa riferimento al maresciallo maggiore trentino Caprini Arturo, classe 1908. Ci sono relazioni redatte dallo stesso Caprini nel ruolo di fiduciario del Lager di Hallendorf e inviate all’Ambasciata d’ Italia a Berlino, Servizio Assistenza Internati; testimonianze sul comportamento di sottufficiali italiani nei loro ruoli di fiduciari e comandanti in prigionia, accusati di comportamenti arbitrari e servili (Caprini è spesso nella parte dell’accusatore). Non ci sono nel piccolo fondo documenti propriamente autobiografici.
CEOLA MARIO Luogo di conservazione dei documenti: copia presso il Museo della guerra, originale presso la figlia Annamaria. Tipologia: diario. Il documento a disposizione del Museo Storico della Guerra di Rovereto è un manoscritto in fotocopia, rilegato in due distinti tomi e conservato in un unico faldone (“Ceola 5. Fotocopie della trascrizione del diario di prigionia 8.9.1943 / 25.8.1945”). Il primo tomo affronta il periodo 8.9.1943 – 5.10.1944, mentre il secondo tomo tratta il periodo 6.10.1944 – 25.8.1945. Sono inoltre incluse in questo secondo tomo altre brevi appendici, identificate dalle seguenti. voci: “25 luglio”, “La distribuzione del pane e del rancio”, “La giornata del prigioniero”, “Vita in comune”, “Hammerstein”, “La conta”. Ogni tomo è a sua volta distinto in una serie di quaderni, per un totale complessivo di 8 quaderni in sequenza cronologica. Ogni quaderno ha una sua specifica numerazione di pagina; ogni quaderno successivo ricomincia con la numerazione ex novo. Primo tomo, primo quaderno (8.9.1943 – 31.10.1943). Il racconto inizia l’8.9.1943 ed è ambientato a Bolzano, dove Ceola era stato trasferito da due giorni “a disposizione del Comando della Difesa Territoriale del XXXV Corpo d’Armata”. Puntigliosa la descrizione dei fatti occorsi nei locali del Comando di corpo d’Armata di Bolzano la notte tra l’8 e il 9 settembre 1943. E’ una delle poche testimonianze “in presa diretta” di questo evento. Ceola, oltre a descrivere l’evolversi della situazione con grande ricchezza di dettagli, riporta alcuni passaggi di una telefonata giunta al Comando da parte del capostazione del Brennero, dopo le 22,00 dell’8.9.1943, mentre è in corso l’aggressione germanica. Compaiono, ma poi non ritorneranno più, alcune riflessioni avvilite circa il comportamento dei soldati italiani (“… era chiaro come i nostri non avessero combattuto fino al dovere”). Descrizione del “noto” colpo di carro armato germanico alla facciata del Corpo d’Armata (che l’iconografia ci propone frontalmente e che qui viene narrata “dall’interno”).
Gli attacchi germanici vengono paragonati agli “assalti in trincea”. L’autore si sofferma sulla cattura del gen. Gloria. “Il sottotente [tedesco] come fosse pratico del palazzo si dirige verso la stanza del generale Gloria …”. Sottointesa la nota premeditazione germanica. Analisi disincantata del comportamento di molti ufficiali italiani: li chiama “araffoni”; durante la cattura a Bolzano un colonnello tenta persino di rubargli dei “cenci” (un cuscino e una coperta, sudici). Compare il tema “classico” dei biglietti lanciati ai civili affinché portino notizie alle famiglie dei prigionieri (“a quei bravi anonimi il mio grazie”). Ceola ci rivela indirettamente che il diario, almeno in parte, è stato rielaborato nel dopoguerra: “[riferito ad uno dei biglietti di cui sopra]… Chi lo raccolse mi assicurò che lo avrebbe spedito. E così fu. L’ho saputo dopo il mio ritorno”. Partenza per Bressanone, quindi in autocarro verso Innsbruck, dove gli ufficiali sono ancora frammisti ai soldati. Il campo è in breve ridotto ad un “letamaio”. Gli alti ufficiali italiani non riescono ad impartire più nessun ordine, nemmeno quando sono i tedeschi a chiedere che venga fatta pulizia: “I soldati ridevano in faccia o al più voltavano le spalle” ai colonnelli e maggiori italiani. Trasferimento da Innsbruck a Wörgl (campo di transito per ufficiali). A partire da p. 22 viene introdotto il presente, mentre fino a questo punto era stato utilizzato solo l’imperfetto. Incontro con altri ufficiali trentini: Andreatta, Fiorio, Ferrari, Raffaelli, Farina, Gottardi, Concei. Le prime proposte tedesche di arruolamento degli ufficiali italiani nelle SS; (aderisce un certo Battisti, trentino, “… ironia del nome, che subito è stato cacciato dalla zona dei trentini”) e quindi nella RSI (gli unici che aderiscono – sottolinea Ceola – sono gli ufficiali della Milizia). Trasferimento in Polonia, a Deblin Irena. Dettagliata descrizione della composizione dei ranci e del complicato meccanismo di “scambio” viveri, sigarette, indumenti che, pur clandestino, regola la vita e la sopravvivenza dei prigionieri. A titolo di esempio: “Ho barattato due terzi della mia razione di pane con 12 sigarette greche. Il maggiore Egidio Salvatore mi ha regalato spontaneamente 2 paia di calze. Uno di cotone ed uno di lana. Ma queste ultime non posso metterle perché molto piccole. Ho dato 20 sigarette per un paio di mutande corte di tela …”. Compare ripetuta a più riprese la parola “camorra” ad indicare, con disprezzo, il metodo con cui numerosi ufficiali italiani, addetti al rancio, trattengono per sé quote degli alimenti.
“… Il maggiore Luciani di sorveglianza in cucina ha riferito di aver scoperto che i colonnelli prendevano razioni in più e che in cucina scoperse parecchi chilogrammi di frattaglie messe a parte assieme a un grosso pezzo di burro … “. Dopo avere descritto minuziosamente il contenuto delle razioni, Ceola racconta: “Un ufficiale dei R.R.C.C. ci ha raccontato che, malgrado la penuria di viveri e di grassi nella Croazia occupata, la figlia di un generale nostro a Lubjana esigeva, per la sua cucina, 1 kg. di burro al giorno. Ed il Generale ordinò ai vari reparti di R.R.C.C. di procurarlo ad ogni costo, mettendo tutti in moto, pena sanzioni disciplinari. Così facevano i magnati dell’esercito! … “Ho avuto un pomeriggio nero, nero. Scoraggiamento, nostalgie, dolori morali, pensieri che la prigionia duri anni e anni, freddo, fame!”.
Primo tomo, secondo quaderno (1.11.1943 – 31.12.1943). Sul perdurare di notizie false (o favolose, o tremende) circa l’andamento della guerra: “Andreatta, in tema, tiene cattedra e si dà arie di superuomo, informatissimo da fonti segrete”. Tema, quello dei bollettini di guerra “di fantasia”, ricorrente in tutto il testo. 3.11.1943. Giornata di ricordi. “25 anni or sono – sembra un sogno – si vinceva una grande guerra anche mondiale. Oggi si stà perdendo questa e quella. Morti, mutilati, dolori, sacrifici, tutto invano!” 4.11.1943. L’arrivo, con scopi di arruolamento e propaganda, del generale di brigata della RSI, Sisini. Vengono riportati da Ceola molti dettagli interessanti: “Il discorso è tenuto alle ore 10,00. Entro le 14,00 di quel giorno è richiesto pervengano le eventuali adesioni al nuovo esercito repubblicano. Ancora in mattinata viene organizzata una riunione di chiarimento tra Sisini e 9 ufficiali in rappresentanza delle varie camerate”. Riportata da Ceola con grande dettaglio la relazione del Maggiore Nicolardi, all’assemblea con Sisini. “Fra gli aderenti [alla RSI] vi sono i seguenti trentini: Magg. Adorni, Rella, Bruschetti, un sottotenente di Roncegno. Da ieri sera abbiamo un nuovo comandante di blocco. E’ un Col. Brigadiere che si presentò dicendo: “Da questo momento assumo il comando del blocco”, nulla di invariato. E’ burbero ed autoritario con noi, pecora e untuoso con i tedeschi …”. Il diario sorprende per la minuziosa descrizione degli scenari e dei paesaggi che Ceola ha avuto modo di osservare. A titolo di esempio: “… Noi abbiamo un fabbricato lungo e basso nel quale le camerate a volta di botte, con muri di ¾ di metri… hanno le misure di 6 ½ x 24 cm, con 2 finestre alle testate, 2 stufe enormi che funzionano in genere male. In ogni camerata ci sono 27-34 persone in lettucci biposto …”.
Ripetute descrizioni del basso e isterico comportamento di ufficiali (in particolare da parte degli alti graduati). Il tutto porta Ceola ad un esasperato interrogativo: “… La fame? La denutrizione? O la vera natura umana egoista?”. Il rito della distribuzione della posta: “Che batticuore mentre leggevano i nomi; che dolore e delusione al non sentirmi chiamare. I fortunati sembravano bambini dalla gioia e prima di leggere indugiavano a guardare le care grafie e dicevano a tutti: “Guarda, mi hanno scritto da casa!”. Molto interessanti le notizie circa il ruolo della C.R.I. Ceola riferisce che i 9/10 della corrispondenza in arrivo sono su carta intestata della Croce Rossa anziché sulle cartoline tedesche, come previsto. Per questo, sottolinea Ceola, “oggi il comando tedesco ha comunicato che d’ora in poi tutta la corrispondenza che non sia in risposta alle nostre spedite, sarà distrutta senza farla leggere. Noi non abbiamo nulla a che vedere con la CRI o col Nunzio Apostolico. Siamo militari internati di stato alleato e di noi dispone solo il Duce …”. Arriva una commissione propaganda arruolamento composta da Vaccari, ex prefetto di Trento, Sommariva da Cavalese, Ten.col. alpino federale di Pola e un generale dell’aviazio e Perroni. A fronte del rifiuto iniziale di adesione alla RSI, Ceola annota una serie continua e costante di defezioni che, con il trascorrere dei mesi, ingrossano le fila di quelli che lui inizia a chiamare “optanti”. 31.12.1943: “Quanta tristezza e quanti ricordi! Rivivo tutta la mia vita, stò con le mie care e a momenti invidio gli optanti che si sanno vendere. Sulla sera distribuzione di sigarette, cipolle, cartoline da scrivere. Optanti mie ex camerate: I° Sambo e Patané; II° Macchi e Lingiardi. Questa: Rossi e Camici”. Primo tomo, terzo quaderno (1.1.1944 – 29.2.1944) 16.1.1944. La diffidenza, frammista spesso a rabbia, ironia, disincanto, con cui Ceola ha riferito fin qui le notizie sull’andamento della guerra, e in particolare all’avanzata dei russi, muta all’improvviso in una nuova certezza: “Dicono che Leopoli sia in mano dei partigiani. Treni su treni si susseguono. Bollettino ottimo. Tutti ci siamo dati a preparare le nostre cose ben sapendo che se si va i tedeschi ci ordinano di essere pronti entro 1 ora. 22.1.1944. Riprendo questo diario dopo 5 giorni durante i quali vi fu l’annunciato e atteso trasferimento. Ora sono al Campo 367, blocco V, camerata 2 a Czestochowa o Tschenstockov in tedesco, sempre in Polonia …”. L’arrivo di un pacco: “Questa notte ho dormito poco e agitato causa gioia del pacco avuto e desideroso di mangiare. Ma mi sono trattenuto perché a cena avevo mangiato bene e a sufficienza. Mi toccò molta pasta. Bevetti il brodo con pane, poi margarina e formaggio, gustai una vera pastasciutta che, nel metterla in bocca, mi faceva girare testa e cervello … Stanotte nella camerata attigua è accaduto una mezza tragedia. Per futili motivi due maggiori vennero a diverbio e uno ferì l’altro alla faccia. Che urla del ferito! Muoio, mi uccidono, vigliacchi, ecc. ecc. !!”
Primo tomo, quarto quaderno (1.3.1944 – 10.4.1944). 21.3.1944: “Neve, tormenta, ho chiesto visita in branda. A mala pena sono stato capace di andare al gabinetto. Credo mi manderanno in infermeria, bisogna certo tagliare. Il piede è gonfio 2 volte il normale. Mi dolora molto, mi batte, ho passato la notte con dei momenti agitati. Alle 15 mi hanno portato in barella all’infermeria assegnandomi alla stanzetta nr. 2 dei “gravi”. Il tragitto (200 m.) l’ho fatto sotto la tormenta. Il letto à un pagliericcio con 2 dita di paglia pieno di cimici. Doloro molto molto. I soldati mi han fatto il letto peggio di un canile. A forza di proteste ho potuto avere un pappagallo … “. Scrive Ceola durante il periodo di permanenza in infermeria per cancrena: “Verso le 11 hanno portato su barella 3 S. tenenti provenienti da Leopoli, che i tedeschi stanno evacuando. Sono tisici e in uno stato da far pietà. Li mandarono in carro bestiame. Non so quanti giorni di viaggio terribile. Con loro altri 18 ammalati gravi… Uno sembra un bambino, l’altro preso a Bolzano il dì dopo del suo arrivo, perché ufficiale di Iª nomina, à anche i piedi congelati e non può muoversi. Sono stati messi nella camera accanto alla mia … Sono stati lasciati abbandonati a se stessi nella barella, fino alle 14. Ho chiamato i piantoni che li aiutassero per i bisogni. Macché! Nessuno è venuto. E’ proprio vero che i nostri soldati sono più carogne dei tedeschi …”.
Primo tomo, quinto quaderno (11.4.1944 – 5.10.1944). “Alle 17 ò assistito al sereno trapasso del S. Ten Moruzzi Giorgio di Lugo di Romagna. Di prima nomina, fu preso a Bolzano 35 ore dopo il suo arrivo. A Leopoli si ammalò di tubercolosi. Giunse qui alcuni giorni fa assieme ad altri (vedi diario) … Lo portarono sotto l’acqua in una barella scoperta dalla stazione a qui, lasciandolo, bagnato, assieme al suo compagno di malattia … Il letto rimase tale e quale … e ospiterà il primo venuto, sano di polmoni o meno che sia … 16.5.1944: Si riparla di opzioni e credo, tutti opteranno, o quasi. All’infermeria è morto un magg. di mal di cuore. 28.5.1944: Bollettino ottimo Roma caduta. Il comando tedesco à comunicato che “se dovesse cadere Roma” e se si facessero dimostrazioni di giubilo le S.S. le avrebbero represse severamente. Giubilo per la caduta di Roma … Ho notato che, specie gli ufficiali effettivi, si sono fatti venire divise nuove e, con i guanti, fanno i gagà sul viale della caserma. E i loro discorsi? Stipendio, arretrati, pensione. Ogni dì che passa comprendo sempre più a quale basso livello era ridotto il nostro esercito, solo poche lodevoli eccezioni, quanto fosse diventato un ricovero di mendicità, una congregazione di carità, un rifugio di gente che, bacato [sic] nel corpo, cercava nel facile stipendio nella gioia di burocratizzare tutto nella comoda seggiola dell’ufficio, nel comando facile ai piantoni, nella tavola ben imbandita, ogni utilità propria e di passare gli anni, della pacchia il meglio possibile. Spero che nella nuova Italia che sorgerà sulle rovine di quella pseudo imperiale l’esercito, i suoi quadri, saranno degni dei sacrifici che la Nazione sostiene per averlo … “. 31.5.1944: Oggi compio 50 anni. Partii da casa richiamato a 45 anni. Posso ben dire che i miei migliori anni lo ò dati al servizio della Patria che avrei voluto – e sempre sognato – grande, giusta e temuta. 4 anni nel 1915-1919, 4 mesi nel 1924, uno nel 1932, 9 mesi per la guerra d’Abissinia, pur essendo malato d’ulcera (avrei potuto farmi esentare) e questi 5 anni. Quanto ancora? E con quale risultato? Ed oggi in quali condizioni morali e materiali?… 15.6.44: Festa dell’artigliere. Ricorrenza della battaglia del Piave. 26 anni sono passati! Allora ad ogni missione i combattenti del Carso andavano alla battaglia cantando, alla morte con gioia, offrivano il petto al ferro, perché tutti gli Italiani avevano ritrovato in se stessi un fervore di patriottismo dopo Caporetto. E oggi? E tutto quel sangue, quegli eroismi, lutti, lacrime a cosa hanno valso?… 21.6.1944: La Voce della Patria del 19, venuta oggi, porta la notizia della morte del Maestro Zandonai, morte che mi addolora sia per la conoscenza personale che avevo con lui, sia per la perdita del cittadino e patriota integerrimo, dell’artista e compositore valente. Ho avuto lettera dalla mia Emma che mi dice i prezzi paurosi della vita in Italia, che l’avv. Bettini è stato ucciso, che mi fa capire le persecuzioni alle quali sono sottoposti i non fascisti…”.
8.8.1944: “Ieri sera tardi an comunicato che oggi partirà il primo scaglione e con essi l’infermeria. Di tener pronti i bagagli. Stamane lavoro a fare i bagagli. (…) 9.8-10.8.1944 Siamo giunti a Norimberga (dove nel passare col treno ò visto molte case distrutte e il 70% dei tetti rattoppati) verso le 17 di oggi… Io con altri 7 sono stato mandato all’ospedale da campo dove mi trovo. Esso è a 2 km dallo Stalag, pulitissimo. Tutto di soldati, vis a vis, allo Stalag dei serbi, americani, francesi, inglesi, neozelandesi ecc. ecc. Questi anno un ospedale vero e proprio attrezzatissimo dove i nostri vanno per le operazioni raggi ecc. Qui vi sono 3 dottori: bravi, molto bravi. Uno di Trento, tenente Pedrazzoli già aiutante all’ospedale S.Chiara del Dott. Pezcoler, l’altro s.ten Allorio Riccardo, piemontese, chirurgo, serio, bravo. Il 3° non so come si chiama… Infermiere è un certo Fait di Volano, già infermiere all’Ospedale Civile di Rovereto, mio attendente certo Bottura Alberto di Trento, via Marsala 28, gran bravo ragazzo… “. 13.8.1944: “La Germania sarà dura e lunga a cedere. Ecco la mia impressione riportata da quanto ò visto durante il viaggio perché: ordine e disciplina ovunque. Città grandi e piccole con immensi parchi carri ferroviari, depositi carbone, merci, treni carichi di armi, cannoni e materiali da guerra nuovissimi. Cultura intensa suolo con distese immense frumento, segale, orzo, avena, bietole. Battaglia del grano in atto e vinta senza blaterare come da noi. Coltura patate a perdita d’occhio, selve meravigliose. 3.9.1944: … Verso le 19 ha fatto l’ingresso nel campo un carro militare a sponde alte tirato da 2 bei cavalli, pasciuti, grossi, con su una ventina di soldati, in piedi, appoggiati alle sponde laceri e macilenti. Erano tutti TBC provenienti dall’ospedale di Neumarkt, un abitato a 20 km da Norimberga. Dietro al carro attaccato un carretto a 4 ruote… e su di esso un soldato, con i piedi nudi, penzoloni, morto durante il viaggio, coperto da uno straccio come fosse un vitello macellato che da noi, coperto da un tessuto qualsiasi si trasporta al frigorifero. Aperte le sponde del carro, nel fondo, in pagliericci, due altri soldati. Uno moribondo, nemmeno capace di parlare, l’altro molto grave. L’ordine di trasferimento per quei disgraziati c’era, gravi o non gravi, bisognava eseguirlo. Così uno morì nel vagone bestiame, che da qui a Neumark [sic] sono 10-15 minuti di treno!!. 2.10.1944: Alla stazione trovammo soldati italiani deportati – e rastrellati – da poco in varie città d’Italia. Andavano a lavorare al campo di aviazione. Ci dissero che in Italia regna il terrore, che chi non è iscritto al P.N.R. viene deportato assieme a donne e ragazzi… Alle 19 circa sono giunti 2 carri con 39 degenti dell’ospedale di Neumark. Spettacolo penoso e rattristante come l’altra volta. Qualcuno in barella, grave, uno coll’enfisema polmonare. Quasi tutti ischeletriti perché a quell’ospedale mantengono a rape e acqua, 12 vennero alla nostra baracca, 14 alla 9 e gli altri TBC. Anche i barellati, coperti da uno straccio li tennero per terra al freddo più di ½ ora per le pratiche burocratiche”.
Frequenti bombardamenti su Norimberga (3.10.1944): “Dopo la sarrabanda [sic] degli scoppi subentrò un silenzio sinistro. Il vento portò il fumo denso verso est dietro alla pineta rispettivamente alle baracche dei blocchi formando uno sfondo che col verde triste delle conifere aveva un qualcosa di funereo, di sinistro… e la mente di tutti immaginò la massa dei morti sepolti sotto le macerie, vidi in quel triste e desolato scenario quasi il drappo funebre per quella povera gente …”
Secondo tomo, sesto quaderno (6.10.1944 – 4.2.1945). 6.10.1944. Ceola viene dimesso dall’infermeria e trasportato al blocco (VII baracca 120). 7.10.1944: “Ho visto Andreatta. Mi ha detto che nel Trentino regna il Terrore che i tedeschi impiccano a tutto andare. Manci, Schettini, Bett.[ini] e una dozzina di altri patriotti àn fatto la fine di Filzi. E’ terribile. Penso come sarà la vita da noi!… 8.10.1944: Stanotte la sentinella à ucciso, con un colpo di moschetto, il Col. dei bersaglieri, già a Bolzano, Riva Saverio, che durante la notte uscì dall’infermeria per andare al gabinetto… Ecco i fatti. La sentinella diede il chi va là, egli continuò la strada ed entrò nel gabinetto… Allora la sentinella diresse la luce del riflettore contro l’uscita del gabinetto e quando il Col. uscì gli sparò. Colpito all’inguine fece qualche passo, poi cadde, chiedendo aiuto. Dall’infermeria uscirono gli ufficiali e infermieri per soccorrerlo ma vennero fermati sulla porta dalla sentinella. Solo ½ ora dopo vennero i tedeschi che lo raccolsero e lo portarono all’infermeria dove spirò poco dopo… 20.10.1944: Ieri sera dalle 20,30 alle 21,30 incursione aerea su Norimberga. Ho calcolato 5 ondate. Qualcosa di spaventoso. In pochi attimi la città è stata avvolta dalle fiamme. In cielo uno spettacolo pirotecnico fantasmagorico. Ai razzi illuminanti con paracadute si frammischiavano quelli verdi, rossi sciamanti in centinaia e centinaia di stelle cadenti, come i fuochi artificiali, delle segnalazioni delle varie ondate sui punti da colpire. Decine e decine di lame d’acciaio luminoso del proiettori che cercavano affannosamente gli aerei, intrecciavano i loro fasci in ogni direzione… Dopo l’incursione subentrò un silenzio di tomba rotto dall’ululato e dai sibili di un vento impetuoso che faceva pensare al pianto di dolore di tante famiglie colpite, della città in parte distrutta, giacché questa è stata certo l’incursione più violenta… L’altra sera mi è accaduto un caso strano. Parlavo con un collega di Pergine. Il Col. Brigante Rodolfo (abita a Moncalieri V.C.Colombo 6) che giocava a carte sul tavolo vicino al mio, che udì il nome del mio paese natale disse: a Pergine, quando ero a Trento, da maggiore, ò fatti fare i mobili dalla falegnameria Rizzi, mobili splendidi, che in 20 anni e molti traslochi non àn fatto una fessura. Durante la grande guerra, poi ò conosciuto un uff. aviatore di Pergine. Ero io soggiunsi. Ma aveva la barba, disse, e un nome falso. Si, si risposi: ten. Neri. E allora si sovvenne del mio nome. Prendemmo a chiaccherare e ricordare. Nel 1917 era ten. dei mitraglieri a Castenedolo e abitava presso la Signora Cassa… Così, lui colonnello, io maggiore, ci ritrovammo e riconoscemmo dopo 27 anni. Ma in quali mutate condizioni!…
26.11.1944: “Ieri sera è stata compilata dai tedeschi una statistica strana. Han chiesto chi era Badogliano e non nel senso di sapere chi combatté contro i tedeschi l’8 settembre. Nella baracca si annunciarono 6 soldati, un maresciallo, un S.ten… Si dice che questi combattenti saranno riguardati e trattati come prigionieri di guerra. Arrivano nel campo soldati italiani badogliani fatti prigionieri dai tedeschi in Italia, al fronte”. 29.1.1945. Il ricordo di Ceola del mese di gennaio 1945 é dominato dalle continue supposizioni che gli internati italiani fanno circa l’andamento della guerra e l’imminente arrivo dei russi. Tutti sperano in un’accelerazione dell’avanzata sovietica ma, al medesimo tempo, nutrono timori circa il comportamento dei tedeschi ormai sconfitti. .
31.1.1945. “Scirocco. Il campo è tutto un lago di acqua e neve in scioglimento. Non si può muoversi dalla baracca. Alle 19 circa viene diramato questo ordine: Fare i bagagli come si dovesse partire. Portare una coperta del Raich [sic] oltre alle personali. Lasciare il resto del Raich al posto (lenzuole, scodelle ecc.) calcolando che si può tornare. Adunata domani alle 7 ½ davanti alla baracca. 1.2.1945: Ore 7 ½ carichi degli zaini… eravamo in rango coi piedi affondati nel fango e neve. Fino alle 10 ci fecero attendere un pò davanti alle baracche un pò sul viale principale. I piedi bagnati gelati, il corpo pure intirizzito causa i piedi e malgrado lo scirocco e fame. Finalmente a gruppi di 40 ci portarono in una baracca per la rivista ai bagagli. Tragitto di 150-200 m., ma durante il quale mi convinsi non poter avere la forza di portare zaino, scatole, fino alla stazione (circa 41 kg.) e giunsi alla baracca sfinito. Rivista proforma, solo per legalizzare i furti di teli tenda e coperte, per chi ne aveva più di due veniva privato dell’esuberante… Fuori dalle baracche vero assalto ai portafogli da parte di sgherri incaricati. Ànno preso 180 marchi, malgrado protestassi che eran quelli datemi in conto stipendio quando ero all’ospedale, quindi più che legalmente posseduti. Alle 13 rientravamo in baracca. Alle 18 ebbimo pane e rancio unico. Alle 20 altro ordine: domani si parte… 3.2.1945. Finalmente alle 16 giunge la tradotta, 50 vagoni merci d’ogni grandezza e nazionalità. Contrariamente all’assegnazione del vagone avuta con numeri progressivi al campo, ogni capo gruppo diede l’assalto con i suoi al vagone che riteneva il migliore… Verso le 17-18 ci diedero da mangiare: 500 gr. di pane e 120 di una specie di ordinarissima mortadella di Bologna, gelata, confezionata in pani grandi come le pagnotte, esternamente in parte ammuffite. Ma la fame in tutti era così grande che tutto fu divorato in un attimo…”
Secondo tomo, settimo quaderno (5.2.1945 – 7.4.1945) “Il treno si muove. In breve si giunge a Mezen (?), meta del nostro viaggio. Stò poco bene. I viveri a secco, il pane nero, cominciano a fare il loro deleterio effetto. Mi sembra essere senza forze… 6.2.1945: Siamo al confine tra Olanda e Germania. Bimbi curiosi paffuti che ci guardano dalle finestre; allagamento di tutta la campagna dicono, ultima propaggine degli allargamenti difensivi dell’Olanda il cui confine é a 20-30 km. 16.2.1945: Stamane il comando tedesco a comunicato che sono aperte le adesioni al lavoro per ingegnieri, geometri, disegnatori, tecnici. Dopo varie ore di angoscioso dilemma con la mia coscienza, con i miei principi ho finito, considerate le mie condizioni di salute, di aderire… Sono giunto a questa conclusione sentendo che non posso più resistere alla denutrizione, alle privazioni, che le forze se ne vanno… E in tal caso quale beneficio porto alla patria e alla famiglia? Nulla anzi più aggravio di quanto possa essere delittuosa la mia collaborazione al lavoro perché: 1° aggravio la Patria di una pensione, la mia famiglia a stentare la vita perché la pensione sarà inadeguata ai bisogni, e in pari tempo far mancare le mie braccia, la mia attività al lavoro del dopo guerra. In quanto a me il sacrificio lo ritengo inutile appunto perché infruttuoso. In camerata è stato un mezzo scandalo e ò notato subito, da parte di molti, una glaciale freddezza…”.
Ceola dialoga in tedesco con gli ufficiali del campo, i quali gli chiedono – visto che ha inteso aderire al lavoro – se è in grado di disegnare macchine. “Risposi che non l’avevo mai fatto, ma che avrei provato, se volevano. Portatomi al comando, entrato loro subito in simpatia, decisero di prendermi. Àn detto che verranno con l’auto dopodomani, che mi tenga pronto. E anche se non riuscirò mi terranno come interprete. Vistomi vestito da pezzente mi chiesero se avevo abiti civili. Al mio no, mi dissero che mi avrebbero aiutato finché non giungano da casa. Sono i dirigenti di una grande impresa di estrazione dell’olio minerale dal terreno nei pressi del paesello di Dalum (?), a 6 km. da qui. E mi promisero di trattarmi bene, di darmi una stanza e buon vitto”.
23.2.1945: “Notte semi insonne dall’ansia della partenza. Ora mi chiamo contento d’avere aderito, e non vedo l’ora di andarmene da questo inferno. Parecchi ufficiali effettivi, mi àn preparato di chiedere alla ditta di farli richiedere. Loro non ànno coraggio di darsi in nota per tema (?) delle critiche ma mi invidiano, e non ne possono più. Un colonnello è venuto con me al comando tedesco dichiarando che si adattava a fare il panettiere o qualsiasi altro lavoro, pur di andare subito… … proverò a ricostruire le mie prime ore di “libero lavoratore” e di libertà. Alle 9 giunse l’ing. Körbitzer della ditta, a prendermi con un auto. Il comando tedesco mi diede una carta nella quale è detto che sono lavoratore civile – libero – e con questo tutte le formalità sono state esplicate. Caricato lo zaino e le due scatole della C.R. nell’interno della macchina si partì. L’ing. mi offerse un ottimo sigaro. Poi mi disse che la ditta era a Dalum, 6 km dal campo. E difatti in breve giungemmo . E’ una ditta militarizzata che trivella il terreno per cercare l’olio minerale. Il cantiere è a 2 km dal paese. Vi sono torri in traliccio per le trivellazioni (10-12) vi sono officine, uffici tutto in baracche molto belle e ben fatte e dentro, signorilmente dipinte… Alcuni pozzi sono in azione. La sete di benzina della Germania l’ha costretta a spese immani pur di averne, e qui ne abbiamo un esempio, che su 10 trivellazioni, che penetrano fino a 1500 m. nel suolo, talvolta nessuna, o una, dà risultati positivi. E ogni volta la torre viene smontata per rimontarla in altro luogo, per altra ricerca. Dopo le presentazioni al personale dirigente fui lasciato libero per “sistemarmi”, il mio ospite mi portò al “lager” dei lavoratori mia nuova dimora… Il nuovo trattamento di rancio é molto buono e abbondante.
Cuoco è un ragazzo di Trento che venne pure a trovarmi. Tirai fuori dallo zaino ½ galletta e la margarina ripromettendomi di fare un lauto pasto e dopo averne offerto ai presenti, che non accettarono dicendo che da mangiare ne avevano più che a sufficienza, mi misi a… rosicchiare la mia… ricchezza. E parlando narravo della fame mia, degli ufficiali, del misero rancio che ricevevano ecc….! Entrò frattanto il soldato Dabaldi da Vigevano che udito quanto dicevo mi portò in regalo una pagnotta intera, invitandomi a lasciare la galletta dura e vecchia. Mi sembrava di sognare a tanta generosità e ci volle prima che l’accettassi. Il soldato Radaelli di Cuneo corse a prendere un uovo e due bei pezzi di lardo. Un altro mi portò un pezzo di burro, altri offersero cibarie che non accettai dicendo che ne avevo più che a sufficienza. Credo che a vedermi mangiare dessi l’idea di vero affamato altrimenti non so spiegarmi tante offerte di cibo…”.
Inizio del lavoro di Ceola: “Sono stato in piedi tutto il dì a disegnare. Ho fatto il progetto per le fondazioni di una torre di un pozzo. Fatto, rifatto due volte, perché, senza occhiali, come sono (l’ing. Körlitzer me li ha portati a riparare) non ci vedo bene, macchio, faccio errori… Comunque alle 17 era tutto finito. Ho dato il lucido al ing. che assieme al direttore si dichiararono soddisfatti, lo dissero ben fatto…”.
24.2.1945: “Ancora una volta sento che la mia decisione è stata felice. Ogni ora che passa, si può dire, mi fà ridiventare uomo, tornare alla vita, mi porta forza, la gioia del lavoro e quella di prepararmi allo stesso che dovrò svolgere dopo il ritorno in Patria per dare alla famiglia pane e benessere… Oggi vedo il campo di prigionia come una cosa paurosa, anzi spaventosa. Come potei vivere 18 mesi? Come ci possono vivere quelli che ci sono?… i prigionieri alleati sono trattati ben differente sia dal lato materiale come da quello morale. Noi siamo alleati prigionieri, bocche inutili e scomode, gente sulla quale nessuno può contare, sulla quale per mancanza di leggi internazionali che tutelino la nuova costituzione di un’IMI alleato si possono sfogare tutti gli umori senza tema di reazioni…”.
Ecco come Ceola descrive la ricezione della prima paga da “lavoratore” per i tedeschi: “Oggi ho avuto la mercede di Giuda, la paga di febbraio. In totale per 77 ore di lavoro, compreso gli assegni familiari, dedotte le assicurazioni ecc. ecc. 66,77 marchi. Mai mi è bruciato denaro in mano come questo. Nemmeno l’avessi rubato o guadagnato con l’azione più disonesta…”
Le fosse comuni dei prigionieri russi: “Ne muoiono a decine tutti i giorni, e quasi tutti i giorni passa il carro della morte che porta le povere salme alla sepoltura. E’ un carro militare comune a fiancate rialzate. Le salme, nude, vi vengono messe senza pietà le une sulle altre, piedi contro testa, testa sui ventri, nelle positure più schifose e irrazionali. Luridume di resti umani, vomito, carni sfatte, ecc., sul fondo e fiancate. Puzza, 4-5 Russi le accompagnano. Altro che trasporto di bestiame macellato! Sul posto una fossa comune. Il carro si avvicina passando sui tumuli, tutto pestando. E i vivi prendono i morti, li gettano nella fossa come vengono vengono, come cadono cadono supini, ventri a terra, piegati su se stessi, gambe e braccia attrappite in una orrenda miscellanea, in un disordine da non immaginarsi, se non si vede. Poi quattro palate di torba, qualche zolla, e la fossa comune/anonima, e chiusa su tante vite, martiri della guerra, della fame, del bastone e barbarie teutonica… Sono quelli che non tornan più, che le famiglie mai sapranno dove e come sono finiti, come e quanto hanno sofferto…”.
20.3.1945. Annotazione molto importante del Ceola circa la datazione dei suoi scritti:”Dio sia lodato e ringraziato che posso riprendere questo mio diario dopo 77 giorni di degenza in ospedale, dopo aver avuto l’estrema unzione, esser stato altre volte moribondo, aver subito la gastroentomia in extremis. Ho messo la data 20.03.1945 per trovarmi con la continuazione del diario mandato a casa ma lo riprendo oggi (in realtà 6.6.1945). E farò tesoro del senno di poi sulle cose e fatti vissuti e constatati cercando di essere il più obiettivo possibile e sereno come lo fui nei momenti che io e chi mi contornava, credemmo supremi”.
Ceola spiega che il mattino del 21.3.1945 fu preso da dolori lancinanti e non potè proseguire con il lavoro. Vista la nuova condizione viene trasferito in auto all’ospedale civile di Meppen e qui ricoverato. Solita accuratissima descrizione dell’ospedale e dell’organizzazione dello stesso. Dolori di Ceola sempre più atroci ma il conforto di un ospedale vero, a differenza dei veri e propri lazzaretti incontrati in precedenza.
“Sento che vado verso la tomba. Eppure il mio spirito è sereno e rassegnato e, eccetto che nei momenti di crisi, non penso che al mio passato, vivo con le mie care, le accompagno nelle loro faccende, discorsi, speranze nella cara casetta di Coredo. Certo che il lasciarle, così lontano, solo come un cane, è doloroso, ma come il male, che è grande, la morte non mi fa paura; tanto più che per me oggi è giornata di grande, lieto avvenimento. E’ venuto a trovarmi un cappellano militare, su mia domanda mi ha confessato, mi ha dato il perdono di Dio per i più che 30 anni che fui assente dalla religione, qualche volta nemico, per i peccati commessi assicurandomi che da oggi sono in Grazia. E con gioia sono tornato alla fede, alla preghiera… Questa sera credo si sia aperta l’ultima scena sulla mia tragedia: ho avuto abbondante vomito di sangue che, credo, non potendo passare negli intestini passa nello stomaco… e quando questo è pieno… rigurgita , e mi libera dai dolori ed ho qualche ora di pace. Così spero sarà questa notte. Mentre vomitavo (nel lavandino essendo il gabinetto occupato) nell’angolo del vano il polacco con la russa [si tratta di un ammalato e di un’infermiera] stavano facendo all’amore, mangiandosi bocca a bocca le caramelle. Che delizia per un tale spettacolo… e continuarono malgrado la mia presenza con tutti i poco piacevoli annessi e connessi. Sono sfinito; il mio corpo è ridotto ad uno scheletro!”
31.3.1945. Trasferimento all’ospedale di Linghen (?) per essere operato. Durante il trasferimento Ceola annota: “… devo essere pauroso a vedermi… Escono persino dai negozi , rompono le code, si passano parola. Mi trascino a mala pena …”. 31.3.1945. Riceve l’estrema unzione lo stesso giorno. Finita la cerimonia, “… la suora mi fece un’iniezione dicendo che era calmante, per dormire… Al che ribattei con quel poco di voce che mi usciva dalla bocca: “Forse per dormire per sempre !!! Forse, rispose, e mi lasciò…” Secondo tomo, ottavo quaderno (7.4.1945 – 25.8.1945). Nota di commento al quaderno: “… Sulla cartella di accompagnamento [del 25.8.1945] le parole: “Soggetto da rimpatriare per morire in Patria”.
7.4.1945. “Da ieri Lingen è in mano degli inglesi. Il 5-6 e notti relative furono veramente tragiche… Ometto i mitragliamenti degli aerei che specie la notte sul 5 e il 5 furono intensi. Verso l’alba del 5, se la nozione del tempo non mi tradì (e tradisce) si udirono le prime cannonate in città. Carri armati tedeschi piazzati sulle vie, alla periferia, contro carri armati inglesi. Una batteria tedesca fu piazzata a fianco dell’ospedale…! [riferito al 6 aprile] non passarono molti minuti – eterni però – che nel corridoio [dell’ospedale] comparvero 2 soldati inglesi, una occhiata, qualche parola tranquillizzante e se ne andarono. Così tornò la pace in città e in tutti i cuori…”.
16.4.1945: Ceola viene operato (gastroenterostomia). Nei mesi successivi continue trasfusioni di sangue (per esempio 17.6.1945: “Oggi ho avuto una trasfusione di sangue di 300 cm cubici regalatomi dal Sten. dott. Eboli Mario Viggiano (Potenza)!” Verso la fine di giugno Ceola si sta riprendendo. Inizia a salire e scendere degli scalini, esce persino in giardino. In questa fase assiste alla morte di molti italiani ricoverati, giunti allo stremo delle forze. Rinasce la speranza di tornare a casa: “ho fede di guarire, di tornare a casa…”.
Ricaduta di Ceola con febbre anche elevata alla metà del mese di luglio 1945. 20.7.1945. “Stamane alle 10 sono andato, digiuno da ieri sera, dal dott. della gola [si tratta di uno specialista dell’ospedale dove si trova Ceola]. Mi à tormentato, ma di dolori, per ¾ d’ora, non à voluto dirmi che male ho, non mi ha ordinato cure o medicine. Da mezze parole fra lui e la suora credo aver capito che è un male molto grave. “Alles caput” [sic] à detto la suora. E allora? Cancro? E allora morire qui lentamente”.
30.7.1945. Trasferimento in un ospedale di soli italiani, sempre a Meppen. La situazione fisica del Ceola appare comunque grave. Il diario non viene compilato per 15 giorni. La scrittura riprende il 15.8.1945: “Fino ad oggi non ho avuto la forza di scrivere. E poca, e sempre meno ne ho. Va sempre peggio. Dolori, vomiti, denutrizione. Sono tornato uno scheletro, peso 48 kg. Il dottore mi ha scoperto una tromboflebite ambulante. Sono stato operato al polpaccio della gamba destra da dove è uscito uno zampillo di pus. E spurga sempre e dolora. Poi un ascesso alla gola, altri due alla gamba. Ma sento averne uno anche allo stomaco…”.
20.8.1945: “Sempre peggio! Dolori atroci, cure amorose! Si dice che si parte! Ma chi ci crede? Ad ogni modo àn fatto le liste. Ci sono io pure, barellato – ben si intende. E’ un andirivieni di ufficiali che vengono a trovarci da Gross Heseppe e un pò a sbaffare a spalle nostre. Molti, impazienti, scappano e vanno in Italia coi treni, pagando il biglietto giungono fino a Monaco. Là sono concentrati e mandati in Patria su tradotte. Più di 150 sono già partiti. In questi dì andrà Andreatta al quale ò prestati un pò di denaro per il viaggio. Come li invidio! Se stessi bene, a piedi vorrei fare tutta la strada! … Or ora vengono a gridare che domani si parte. Dio sia lodato! 25.8.1945. Sono in Italia a Merano, all’ospedale della C.R. Svizzera. Viaggio disastroso per me. Ma per tutti trattamento ottimo sul treno ospedale. Sono sfinito. Un comitato ha telefonato a Rovereto alle mie care che sono qui, che vengano che sono grave. Dio ti ringrazio. Viva l’Italia”.
Appendici al diario
Si tratta di cinque parti che riassumono alcuni temi cari al Ceola, peraltro già ampiamente trattati nel testo: una riflessione sui fatti occorsi il 25 luglio e durante tutta l’estate del 1943; la descrizione del pessimo trattamento alimentare riservato agli IMI nei lager; la tipica giornata da prigioniero; la vita in comune nei campi; il lager di Hammerstein; la “conta” dei prigioneri effettuata dai tedeschi.
CESCHI NATALE Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento, data di nascita: 20/10/1922; Luogo: Cognola (Trento); Occupazione: muratore. Tipologia: Epistolario. Descrizione: cc. 8 (5 lettere e 3 cartoline). Lettere e cartoline (5.9.1943-29.5.1944) indirizzate ai genitori dalla caserma di Merano, da Bolzano e dal campo di prigionia di Amburgo. Note: Contiene: 1 lettera indirizzata ai genitori (Cognola) dalla caserma di Merano, 5.9.1943; 1 cartolina, indirizzata ai genitori, da Bolzano, di passaggio verso la Germania, 11.2.1943; 4 lettere indirizzate dallo Stalag XI B: 29.2.1944; 19.3.1944; 16.4.1944; 29.5.1944.; 2 cartoline dal campo di prigionia, 16.4.1944; 17.4.1944. Allegati: 1 certificato di morte, 1 lettera del cappellano del campo a conferma del decesso; una lettera di Benvenuto Caumi indirizzata ai genitori, nella quale si descrive la malattia e la morte di Natale. – Dati biografici: Ceschi muore il 28 giugno 1944 nel campo di concentramento di Amburgo.
Il Ceschi fu costretto ad inviare una cartolina alla famiglia sulla cui parte illustrata è raffigurato un soldato tedesco che difende una donna e un bambino. La frase riportata sotto l’immagine dalla propaganda nazista è “Anch’egli difende la vostra famiglia”. Si riporta questo aspetto per sottolineare una tipica umiliazione cui furono sottoposti gli IMI. Interessante è anche una cartolina spedita da Postal (Bolzano) il 13.9.1944 da una certa signora Arti Maria: “… E’ passato da qui vostro figlio e mi [ha] incaricata di spedirvi questa cartolina”. E’ un documento interessante perché è il classico messaggio affidato dai soldati italiani ai civili – e destinato alle rispettive famiglie – all’atto del trasferimento in Germania da parte dei tedeschi.
CHINI TULLIO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento, data di nascita: 11/9/1922; Luogo: Taio (1922); Occupazione: Inizia il Liceo classico a Merano, ma il corso di studi è interrotto dallo scoppio della guerra. Titolo: “Perché? Memorie di guerra e prigionia 1940-45.” Tipologia: Memoria autobiografica . Descrizione: cc. 57, manoscritto; cc. 18, copia dattiloscritta. Scritta nel 200l, la memoria ha inizio con il 16 febbraio 1942 quando Chini viene arruolato nel battaglione alpini “Trento”. Nel settembre 1942 è sul fronte russo, dove partecipa alla battaglia del Don. Rientrato a Vicenza, nell’estate del 1943 viene mandato in Iugoslavia (“un periodo bruttissimo, pieno di pericoli e piccoli scontri”). Il giorno dell’armistizio è a Trento: fatto prigioniero dai tedeschi viene tradotto in Germania, dapprima a Furstemberg, quindi in Slesia. Liberato dall’esercito sovietico, nell’estate 1945 rientra in patria. Prendiamo in considerazione, per comodità, la versione dattiloscritta del manoscritto di Chini. L’autore testimonia nelle prime righe la genesi delle sue memorie: “Su gentile invito della professoressa Chini (n.d.r.: la moglie del figlio), vi racconto il mio dramma vissuto nell’ultima guerra 1940-45. Mi è difficile e doloroso parlarne, ma lo faccio per testimoniare a tutti quanto sia assurda e terribile una guerra. Quello che vi stò raccontando è veramente accaduto ed il mio non intende essere un racconto politico bensì storico”. Tullio Chini nasce nel 1922 a Trento; richiamato alle armi il 16 gennaio 1942, si presenta al distretto militare di Trento e finisce nel battaglione alpini “Trento”.
“Stetti a Trento per tre mesi, dove ci istruirono sulle armi e i percorsi di guerra. Finito questo periodo di recluta, mi trasferirono a Predazzo per fare il campo dove serviva per un ulteriore addestramento… Trasferimento a Gorizia e cambio di battaglione, dal “Trento” al “Vicenza”, quindi aggregato alla divisione “Iulia”: In questa caserma ci diedero i vestiti invernali, con scarponi con sotto il vibram e non i chiodi e il cappotto al posto della mantellina. Ci dissero che la Iulia era destinata al fronte Russo. Così una mattina dopo un severo alle armi fu distribuito un rancio di riserva, che consisteva in quattro gallette e due scatolette di carne. Ci misero su un treno merci quelli che adoperavano per il trasporto di derrate alimentari e per il bestiame. Quaranta uomini per vagone e otto muli per vagone… Così la tradotta militare si mise in moto e incominciò a percorrere il Friuli, il Veneto e poi il nostro stupendo Trentino. A questo punto, ve lo confesso, mi prese un nodo alla gola e mi misi a piangere, pensando a quell’ “addio monti” del Manzoni, quando Renzo dovette fuggire dal paesello! Tutti i miei ricordi in quel momento mi passarono davanti agli occhi, stavo per abbandonare tutte le persone a me care: genitori, fratelli, amici, le mie montagne e la mia valle…”. Dopo il transito attraverso l’Europa il treno di Chini giunge in Bielorussia, a Izium (settembre 1942). Durante la marcia di avvicinamento al fronte incontra molti soldati tedeschi: “Io rimasi allibito nel vedere come erano armati! Avevano dei carri armati potenti, tanti cannoni anticarro, aerei e tanti, tanti camion. Ci guardavano con un sorriso ironico, vedendoci con le nostre armi poco offensive e tutti appiedati. Si sentiva odore di prima linea. Le città di Karcov, di Kiev erano già molto lontane. Incominciarono a farsi sentire i partigiani. Erano uomini e donne ben armati che difendevano la loro patria, ed i tedeschi li chiamavano banditi. Se per caso erano presi, venivano immediatamente impiccati a un palo della luce o del telefono. Ne ho visti a centinaia di questi poveri diavoli impiccati e cominciai ad avere paura…”.
Durante una sanguinosa battaglia in Russia: “Vedevo i miei compagni morire vicino a me, i lamenti disperati dei feriti; quella tragedia superava la mia possibilità di resistenza fisica e morale. Allora pregai con tutto il cuore e mi misi nelle mani della madonna. Avevo una confusione che rasentava la pazzia, ero come un automa. Camminavo continuamente sulla neve verso dove non lo sapevo! Improvvisamente vidi davanti a me un ufficiale vestito con la tuta bianca da sciatore, aveva un colbacco in testa, un binocolo a tracolla e una carta topografica e era disarmato. Mi fermò, mi sorrise, mi fece cenno di seguirlo. Mi fece capire di non fare rumore, di non tossire, di non sparare, perché lui mi avrebbe portato in salvo. Lo seguii fiducioso e mi sentii pervadere da una grande calma. Quell’angoscia e quella paura che erano in me, erano scomparse. Camminai dietro a lui per circa tre ore. Attraversammo un fitto bosco con la neve che ci arrivava alla cintura dei pantaloni. Quel signore mi spiegò che stavamo attraversando la linea russa, di non fiatare, di evitare il minimo rumore. Finito il bosco vidi in lontananza la divisione Tridentina. A quel punto quel signore mi sorrise e non lo vidi più. Io rimasi strabiliato, non capivo cos’era successo, mi sembrava un sogno. Era un miracolo? Era un angelo che la madonna mi aveva mandato per salvarmi? Ancora adesso mi pongo questa domanda. Incominciai a correre e camminare forte e così raggiunsi la divisione…”
Segue una tragica descrizione dell’esperienza della guerra in Russia e della battaglia del Don (“Su 1.600 alpini del mio battaglione “Vicenza” partiti per il fronte, eravamo rimasti in 110”), che tuttavia non può essere approfondita in questo contesto, dovendo noi passare al periodo dell’internamento. Estate 1943: “Finita la mia licenza premio, avuta dopo il mio rientro in patria dalla Russia, dovetti presentarmi al distretto miltare di Vicenza. Qui formarono il nuovo btg “Vicenza”, distrutto nella campagna di Russia. Ci armarono di nuovo e tutti i giorni si doveva fare i percorsi di guerra, e tiri con le armi. Io a dire il vero, in quei giorni facevo il lavativo. Pensavo a cosa mi servissero i percorsi di guerra ed i tiri con le armi! Il comandante del btg era molto tollerante nei confronti di questi poveri alpini, circa un centinaio, reduci dal fronte russo. La città di Vicenza ci fece un’accoglienza commovente e sincera. Sfilammo per il centro della città sopra i petali di rose e la gente, moltissima, ci acclamava commossa e ci baciava. Avevamo i biglietti gratis per il cinema, il teatro, il bus, i bus di città, i ristoranti. Il vescovo ci benedisse nel santuario della Madonna di Monte Berico. La gente la sera ci aspettava fuori dalla caserma e ci invitava nelle loro case, dove ci offriva la buonissima soppressa, la polenta ed il vino Clinto. Ma avevo una missione da compiere e una promessa da mantenere. Con me in guerra c’era un carissimo amico che si chiamava Rino. Durante uno scontro con i russi venne colpito a morte. Prima di morire mi pregò, se fossi tornato in Italia, di portare ai suoi genitori il suo rosario e il suo portafoglio. I suoi genitori abitavano vicino a Vicenza. Non avevo coraggio di recarmi da solo e mi confidai con il capitano. Lui commosso mi accompagnò dai suoi genitori. Questi signori erano proprietari di un grande appezzamento di terra, avevano molti bovini e cavalli. La loro casa era bella e grande, una vera casa padronale. Per arrivare a questa casa c’era un viale bellissimo con ai lati tutti rosai, ed era coperto dai tralci delle viti. Mi fermai con il capitano all’ingresso di questo viale. Ero impietrito. Mi passarono per la mente in quel momento tutte le cose che il mio grande amico mi raccontava di sé e della sua famiglia. In quel momento vidi un vecchietto venire verso di noi. Senza proferire parola si mise a piangere a dirotto. Aveva capito il perché della nostra visita. Arrivarono la madre e due fratelli di Rino. Erano disperati dal dolore. Volevano sapere come era morto il loro figlio e fratello. Volevano sapere le sue ultime parole. Io tremante consegnai loro il portafoglio e la corona del Rosario, li baciai tutti ed in lacrime senza dire una parola tornai in caserma… Trascorsi così alcune settimane in caserma e quando il btg. Vicenza fu pronto mi spedirono per “premio” in Iugoslavia contro i partigiani.
Fu un periodo bruttissimo, pieno di pericoli e piccoli scontri…. Un giorno ero nel bar della cittadina. Il bar era pieno di gente. Ad un tratto vidi il mio sergente puntare la pistola alla schiena di un uomo che stava bevendo. Noi immediatamente puntammo i nostri fucili verso i clienti che erano nei locali. Avevamo capito subito che qualcosa non andava. Accompagnammo l’uomo arrestato al nostro comando. Dopo l’interrogatorio, lo misero in cucina seduto su una sedia e mi comandarono di sorvegliarlo, fintanto che fossero arrivati i carabinieri. Il cuoco stava preparando il rancio per gli ufficiali e aveva messo un coltello sul tavolo. Fu un baleno. Quell’uomo prese il coltello e se lo conficcò nel ventre e pochi minuti dopo morì. Seppi poi che lui era un capo partigiano ed era venuto in città per spiare i nostri movimenti e come eravamo armati. Rimasi in Jugoslavia circa tre mesi, ed un giorno andai dal mio capitano e gli dissi che ero molto ammalato. Fui portato in ospedale da campo e mi fecero rientrare a Trento. Era il 20 agosto. L’aria della mia città mi guarì subito. Com’era bello fra la mia gente, parlare il trentino, godere di questa tranquillità! Ma questo durò molto poco! Il giorno 2 settembre 1943 a mezzogiorno in punto, mentre mangiavo il rancio nella mia gavetta, senza alcun allarme, i bombardieri fortezze volanti americani scaricavano le loro bombe sulla città. Senza perdere un minuto a tutti gli alpini che stavano in caserma fu comandato di andare sul posto di bombardamento. In pochissimo tempo arrivammo nel quartiere di Santa Maria. Quello che si presentò ai miei occhi era orribile. Il quartiere era distrutto completamente, tutto era in fiamme, parecchi abitanti del quartiere erano sparsi qua e là morti o spiaccicati suu muri a pezzetti. Io che tornavo da una tremenda guerra, mi sentii stringere il cuore. Questa era la mia gente, era gente innocente. I bambini e le donne, pochi gli uomini perché erano in guerra, erano lì sotto le macerie. I feriti gridavano per il male e la paura. La gente accorreva per sapere cosa era successo. Tanti cercavano i loro cari.
Ma noi alpini abbiamo ricevuto degli ordini ferrei. Abbiamo dovuto allontanare con la forza questa povera gente. Così si poté lavorare e spegnere i fuochi, ed incominciare a portare in salvo i feriti. Questo duro e pietoso lavoro durò parecchi giorni. Non sto a descrivervi le scene di pianti per il dolore e le imprecazioni della gente contro un regime folle e cattivo.
Le notizie che arrivavano erano brutte e confuse. Piano piano stava per arrivare la tragedia… Ed ecco l’8 settembre: la caserma di Chini viene circondata e attaccata, il colonnello prende la via della fuga sebbene abbia ordinato ai suoi di resistere e il presidio è costretto ad arrendersi. Quindi viene condotto, e vi rimane per tre giorni, nel campo di aviazione di Gardolo. Il colonnello che ha abbandonato Chini: “Difatti mentre i soldati tedeschi mi portavano verso il campo di aviazione, incontrai lungo la strada il colonnello impettito su un’automobile, seduto accanto ad un alto ufficiale tedesco. Confesso che in quel momento se avessi potuto l’avrei ammazzato. Se non ci fosse stato dato quell’ordine di rimanere in caserma, noi alpini potevamo fuggire tutti e andare nelle nostre case…”
La tradotta parte verso la Germania, raggiunge Furstemberg dove Chini viene condotto allo Stammlager III B. “Avevamo come responsabile del campo un maresciallo del sud Italia. Era sempre vestito elegante, impomatato, profumato. Stavamo alla larga da lui perché secondo noi alpini era una spia e un mafioso. Un giorno durante la distribuzione del rancio successe un fatto abbastanza comico. Questo maresciallo dava sempre l’ordine di tenere scarso il mestolo della zuppa e facendo così nel pentolone rimaneva parecchia zuppa. Questa zuppa spariva e dove andava? Per noi un cucchiaio in più era la salvezza. C’era con noi alpini un compagno fortissimo. Pensate che mi raccontava che quando lui faceva il muratore si caricava sulle spalle i paracarri di pietra che poi posava lungo le strade. Il loro peso era di 140 kg ciascuno. Penso che il più affamato di tutti fosse lui, perché un giorno finita la distribuzione della zuppa ordinò al maresciallo di distribuire anche quello che era rimasto nel pentolone. Al suo rifiuto lo prese lo alzò in aria e lo scaraventò nel pentolone, lo rotolò parecchie volte e alla fine lo tirò fuori intriso di quella brodaglia gialla. I tedeschi vedendo questo si misero a ridere a crepapelle e incaricarono il nostro maciste di distribuire sempre lui il rancio…”.
Dopo un paio di mesi passa ad un campo in Slesia (Sorau) sorvegliato non più dalle SS ma dalla Wermacht. Qui è assegnato ad un costruttore per lavori duri e faticosi di scavo. La fame lo fa deperire, un giorno ingurgita una grande quantità di radici ghiacciate di barbabietola che gli provocano coliti: “Ogni momento sentivo il bisogno di scaricare, alla fine andavo solo sangue. Il comandante del lager viste le mie precarie condizioni di salute mi mise in una baracca. Questa la chiamavano la baracca della morte. Era senza riscaldamento, nessun medico veniva a visitarti e a darti una medicina. Ma non era ancora arrivata la mia ora…”.
Un giorno viene trasportato da quel lager ad un vicino campo di aviazione. Chini viene alloggiato in una baracca accogliente in cui vi sono 8 letti; poco dopo il suo arrivo giunge una squadra di italiani. Essi formano una squadra di vigili del fuoco che interviene durante i frequenti “incidenti”: “Tutti i giorni si doveva spegnere qualche aereo che nel collaudo si incendiava. Molto spesso dovevamo spegnere i fuochi provocati dai bombardamenti degli alleati. Così giorno dopo giorno i tedeschi cominciarono a stimarci ed a rispettarci. Noi eravamo sordi, muti e ciechi. Vedevamo tutto quello che succedeva, sapevamo tutto quello che avveniva sui fronti di guerra. Come? Ve lo spiego: io con un mio compagno che era anche l’autista del comandante avevo accesso al ritrovo degli ufficiali. Era un bar dove dove si poteva bere la birra ed altre bevande. Alla parete era spiegata una grande carta topografica dell’Europa. Vi erano piantate delle bandierine. Queste segnavano i punti dove erano arrivati i russi e gli alleati. Tutte le sere io ero di servizio al bar con il mio compagno e vedevo che queste bandierine venivano spostate sempre più verso l’interno della grande Germania…”.
Chini viene arrestato con l’accusa di sabotaggio dai tedeschi perché, durante un’operazione di spegnimento, fa cadere involontariamente l’attacco in alluminio di una pompa, il quale si rompe. Durante il breve processo tenuto davanti al comandante del campo Chini riesce ad evitare una pena. Mentre i russi stanno avanzando, i tedeschi decidono di evacuare i prigionieri italiani; durante il trasferimento i mezzi germanici vengono attaccati dai sovietici: “… I carri armati russi cominciarono a spararci addosso. Io con alcuni miei compagni, saltai giù dal camion e fuggii attraverso i campo, verso un boschetto. Lì passava un ruscello d’acqua lungo il quale vi era una staccionata di legno. Nel frattempo i soldati russi distrussero i camion, uccisero tutti i tedeschi e cominciarono a sparare all’impazzata. Io spaventato per salvarmi saltai quel ruscello e mi sdraiai. L’acqua mi entrava nel colletto e mi usciva dalle scarpe. I russi continuavano a sparare ed i pezzetti della staccionata falciata dai colpi cadevano sopra il mio corpo. Rimasi in quella posizione parecchi minuti. Quando il fuoco cessò uscii da quella situazione e corsi, corsi tanto che ad un tratto mi trovai i soldati russi davanti. Mi presero e feci vedere loro il mio tesserino di prigioniero. Mi accolsero con delle manate sulle spalle e mi diedero subito da mangiare. Io capivo abbastanza quello che dicevano, perché avevo imparato un po di russo durante la campagna di Russia. Però facevo finta di non capire niente. E’ stata la mia fortuna comportarmi così, poiché poco tempo dopo un soldato russo mi portò davanti ad una commissione. Questa era composta da alcuni ufficiali russi e da un italiano vestito in borghese. Mi fecero un lungo interrogatorio. Volevano sapere chi ero, cosa facevo in Germania, se ero un fascista…”.
Chini mostra il suo tesserino di prigioniero di guerra e di conseguenza viene “assunto” in attività di carico e scarico di vagoni ferroviari. Ad un dato momento Chini viene assegnato ad un treno ospedale diretto verso l’Italia; visti le sue ormai buone condizioni di salute viene impiegato nell’assistenza ai numerosi malati presenti sulla tradotta. “Ad un certo punto il treno transita da C(K)attovice, “grande centro carbonifero della Polonia. Vicino a questa città ve ne erano altre tre e in una di questra nacque il nostro Papa Giovanni Paolo II e ora c’è il santuario della Madonna Nera. Il treno andava sempre avanti ed era diretto ad Odessa, dove i feriti venivano ricoverati e curati”. I feriti vengono trasferiti su un altro convoglio, mentre Chini viene assegnato ad un comando (nel frattempo la guerra non è ancora finita; nel diario non sono riportate date precise ma si presume che i fatti relativi all’ultimo paragrafo siano ricollegabili al periodo marzo/aprile 1945. Con dei camion viene trasportato di nuovo in Polonia (“ero vicino al fiume Oder”). Qui gli viene fatta un’iniezione “contro la peste” (il fiume è ricolmo di cadaveri di soldati in putrefazione): “Fatta l’iniezione svenni per circa due ore, come mi dissero i miei compagni e quando mi svegliai sentii un dolore fortissimo ai piedi. Non ero capace di stare in piedi e di camminare. Al che i miei compagni mi spiegarono che un soldato russo aveva continuato per parecchio tempo a darmi calci ai piedi affinché mi svegliassi”.
Viene impiegato nel recupero di cadaveri dal fiume Oder. Poi viene data comunicazione della fine della guerra: “Si conduceva una vita tranquilla, non si lavorava, si mangiava discretamente e si aspettava di tornare a casa. Ma di questo i russi non ne volevano sapere. Allora io ed un mio caro amico studiammo un piano di fuga…”. I due si aggregano di soppiatto ad un treno diretto verso occidente, standosene accovacciati in cima ai vagoni. Arrivo in Cecoslovacchia e quindi a Praga e a Vienna. Qui gli viene suggerito da alcuni russi di scendere dal treno in corsa e di raggiungere la stazione sud, in quanto vi è il pericolo che i sovietici prendano gli ex prigionieri italiani e li riportino in URSS (infatti un amico di Chini, padre di tre figli, viene arrestato; solo in seguito racconterà a Chini di essere sfuggito a due guardie russe, le quali gli sparano per altro addosso). Raggiunge gli americani e, attraverso l’Austria, giunge a Treviso. Qui viene messo in quarantena in una caserma italiana. Un giorno fugge con un pretesto, ferma un camion che fortunosamente è diretto a Trento. Il mattino del 7 agosto 1945 arriva a Segno dove ritrova la sua famiglia.
Queste le parole con cui Chini conclude il suo lavoro: “Ho scritto questi fatti e queste peripezie, che io ho passato, tanto sul fronte Russo, quanto nella prigionia in Germania, su pressione di tutti i miei familiari e amici. Ma è duro ricordare e mi commuovo ancora, pensando a queste tristi vicende, poiché incominciai a provarle quando non avevo ancora 20 anni. Così pure per i miei cari compagni di sventura. Li vedo ancora, come in un film, allegri, sorridenti e amanti di vivere. Ma il duro destino troncò queste vite, parte in battaglia, tanti morti assiderati dal grande freddo russo e molti, morti durante la prigionia in Germania ed in Russia. Dedico a loro questi miei ricordi, poiché loro sicuramente sono in un paradiso dove la pace e l’amore regnano sovrani. Auguro e spero che la bella gioventù di oggi, che io amo tanto, non dia retta a sirene che divulgano l’odio e la faziosità, perché non si trovino un domani, in situazioni estreme come quelle che ho vissuto io”.
CORBOLINI MARIO Luogo di conservazione dei documenti: Museo storico in Trento, data di nascita: 15/9/1920; Luogo: Riolo Terme (RA). Titolo: “Ricordi in Albania e in Grecia”. Tipologia: Diario – memoria. Descrizione: Tre quaderni (cm 14,5 x 50,5); cc. 205. Il lungo testo di Corbolini, scritto interamente nel campo di prigionia, si compone delle memorie del periodo precedente l’armistizio e del diario della prigionia: complessivamente dal 10 giugno 1940 al 17 ottobre 1945. Nelle memorie ricostruisce il periodo di permanenza in Albania, l’aggressione alla Grecia, un viaggio a Gianina nel novembre 1942; la permanenza a Creta e a Xilocastro. E continua poi raccontando gli avvenimenti riguardanti il periodo compreso fra l’8 settembre 1943 ed il giugno del 1944. In particolare Corbolini ricostruisce la sua cattura da parte dei tedeschi e il trasferimento in Germania attraverso Bulgaria, Albania, Belgrado, Zagabria, Vienna, Danzica fino al lager di Cholm. Nel diario (agosto 1944 – ottobre 1945) Corbolini registra le condizioni della prigionia; la propria malattia; il rifiuto di arruolarsi nell’esercito tedesco; il lavoro nel porto di Danzica; la permanenza nel lager di Osterwik; il trasferimento a Landao (8 km da Danzica) per la costruzione di trincee; i bombardamenti su Danzica; il trasferimento a Gottswalde per la costruzione di trincee; la permanenza in Germania fino all’ottobre 1945 e il viaggio verso l’Italia dal 1 al 14 ottobre 1945 con destinazione Forlì. Il testo è edito (non abbiamo avuto modo di fare un approfondito confronto tra gli originali e il libro).
Forniamo comunque qualche appunto come assaggio di lettura. Rievocazione dello stato d’animo della primavera del 1943, a Creta: “Era il primo anno da che ero soldato, che sentivo così impetuoso il bisogno di amare e di essere amato. Sognavo l’Italia, rivedevo le sue primavere simili a questa, come questa piena di sole e di luce, mi rivedevo fanciullo a passeggiare per i colli o in riva al fiume, fra il babbo e la mamma ancora giovani e Maria Caterina vispa e graziosa con un grosso fiocco celeste nei capelli. Io avevo il vestito alla marinara e dovevo fare attenzione a non sporcarmelo, la mamma sorridente coglieva i fiordalisi, il babbo mi tagliava uno zufolo da un ramo di pioppo, io e Maria Caterina cercavamo di scorgere fra i rami degli alberi i nidi di quegli uccelletti che ovunque cantavano e si rincorrevano e gioivano, i loro cinguettii si accordavano alla gran musica delle foglie mosse dal vento…”.
Il protagonista rivive la sua infanzia attraverso i paesaggi meravigliosi dell’Egeo e descrive i suoi sogni: “Quella notte dormimmo con le finestre chiuse ma il frastuono del mare entrò lo stesso a cantarmi la nanna e quella notte sognai di essere un grosso delfino, veloce lasciavo il golfo di Corinto, mi spingevo su per lo Jonio, su per l’Adriatico, risalivo il Reno, il Senio e mi fermavo sotto il ponte di pietra di Riolo, poi mi trasformavo in uccelletto e volavo per le campagne. Ma questi sono sogni e non vale la pena di scriverli…”
L’8 settembre Corbolini è soldato marconista dell’Esercito e dunque può seguire gli avvenimenti con molta attenzione, trovando conferma dell’armistizio anche sulle frequenze di Radio Londra e riportando i messaggi rivolti da quest’ultima ai soldati italiani. Ai soldati italiani del reparto di Corbolini viene dato ordine di resistere ai tedeschi (successivamente però venne emanato l’ordine di non sparare) e, di conseguenza, vengono approntate le misure difensive della caserma. Ad un certo punto i tedeschi (10.9) entrano nel reparto di Corbolini e tagliano tutti i fili delle radio: “… l’ordine ricevuto da Roma era di non molestare gli inglesi e non lasciarci disarmare dai tedeschi. Se il comandante d’Armata avesse detto in quei giorni “tutta la mia armata resta al suo posto”, tutti avremmo eseguito, avevamo bisogno di un ordine preciso da eseguire, nessuno invece si volle prendere la responsabilità, si sentivano in “nave senza nocchiero in gran tempesta”.
Il gruppo di Corbolini effettua collegamenti clandestini, nei giorni successivi, con stazioni radio italiane a Roma e in altre zone dell’Egeo e dei Balcani; nel frattempo i tedeschi hanno occupato l’isola ma non hanno fatto prigionieri i soldati italiani, lasciati liberi per il momento di girare nell’isola. L’ultimo comunicato che riescono ad inviare prima della distruzione degli apparecchi da parte dei tedeschi: “Asta [collega marconista di Corbolini] trasmise questo messaggio: “Eccoli sono qui che salgono le scale, saluti. Viva l’Italia!”. Non si erano ancora smorzate le valvole che irruppero dentro, si guardarono in giro col mitragliatore in mano e misero le mani alle valvole per tagliarle, le ritrassero subito scottati, il comandante con un sorriso ironico disse in italiano “che dice che dice Roma?”.
Molto particolare – anche perché i soldati sono stati ingannati col solito tranello del “ritornate in Italia” – il racconto del viaggio verso i lager. I prigionieri della tradotta – riferisce Corbolini – possono fermarsi nei mercati dei villaggi incontrati per acquistare o barattare generi di prima necessità: “… ad ogni fermata scendevamo, con quattro sterpi accendevamo un focherello e giù a cuocere uova e bistecche… Venti, trenta focherelli, non faceva a tempo a fermarsi il treno che già li vedevi ardere, quando ripartiva se le uova non erano ancora cotte si aspettava fino all’ultimo istante e poi c’era l’inseguimento al treno e si mangiava…”
Le cose cambiano quando salgono per un controllo sul treno alcuni ustascia e, anche dal loro violento atteggiamento, comprendono che forse il treno non andrà in Italia. Il convoglio attraversa Grecia, Bulgaria, Croazia, Austria, Polonia, arriva il 29 settembre a Thorn. All’arrivo al campo vi è l’immediato tentativo di convogliare questi soldati nelle SS: diversi “… col volto pallido cadaverico si mettevano in fila e si assegnavano alla sorte, ebbero il coraggio del suicida che si toglie la vita perché teme di affrontarla…”.
L’alimentazione: “…Fortunati poi se c’era dentro qualche pezzo di patata, che il più delle volte non era se non un brodo puzzolente e sabbioso: qualcuno voleva protestare, voleva prendere qualcosa di più aveva troppa fame, quindi sostava, imprecava, piangeva, ma le guardie istigavano i cani e se non faceva a tempo a scappare veniva azzannato. Alcune guardie poi si divertivano ad inseguire questi malcapitati: il cane gli azzannava i pantaloni, questi cadeva a terra e gemeva pietà, allora quegli aguzzini li vedevi sogghignare felici…”
Attraverso un fiume [Vistola?] dopo alcuni giorni di navigazione Corbolini, insieme a 300 altri soldati, viene portato a Danzica. Qui è impiegato come operaio, manovale, facchino, “pulitore di fogne”; il cantiere nel quale sono impiegati è il “Danziger Werft”. Domeniche libere a Danzica: “… Bella città… bei palazzi antichi dai caratteristici tetti nordici, belle vetrine, bei negozi, bei giardini, bei ponti che attraversano canali da parecchi dei quali è attraversata la città. Era di domenica e molta gente per le vie, tutti ci osservavano incuriositi e i ragazzi ci gridavano dietro “Italiano maccaroni”, sulla bocca di tutti poi era un nome Badoglio per loro eravamo i soldati di Badoglio, va un po a far capire a questa gente che non era vero, che Badoglio non l’avevamo mai conosciuto…”.
A metà di novembre 1943 viene trasferito in altro lager della città (Cholm). Ritorna come tema, ricorrente in molti memoriali di internati, la diffidenza tra prigionieri italiani e francesi, la simpatia per i russi ma soprattutto l’amicizia con i polacchi. La ricerca di cibo e mozziconi di sigarette nelle immondizie, al porto di Danzica: “… Laurerio era specializzato a trovare le cicche, conosceva la vena del mucchio di immondizie come un perito minerario conosce quella del suolo. Quando vedeva i fiammiferi era l’indizio, un’altra badilata e le cicche apparivano in tutta la loro bellezza… C’erano cicche principesche addirittura mezze sigarette, cicconi giganti d’Avana e Laurerio si chinava con religiosa tenerezza a raccoglierle, riempiva un cartoccetto e se ne andava alla botola di smistamento dei tubi a vapore più vicina a levarci la carta e a farle asciugare. Che tipo quel Laurerio, lo chiamavano il ciccaiuolo, aveva un’andatura dinoccolata un passo strascicato proprio da pezzente tipo, a casa era commesso in un grande negozio di apparecchi radio e diceva lui che se non fumava era come se gli mancasse l’ossigeno. Vedeva le cicche per la strada a distanza lunghissima, lo vedevi sorridere appena le scorgeva e appena racattata apriva la sua tabacchiera rugginosa coi denti e la riponeva, era continuamente ad avvolgere sigarette sia con cartine che trovava o addirittura con carta di giornale. Aveva il maledetto vizio di mangiarsi le unghie… Era un vizio preso mentre assisteva a un incontro di calcio fra il Milan e l’Ambrosiana e aveva perduto il Milan la squadra del suo cuore, così per sfogare la rabbia se l’era presa con le unghie…”
L’autore viene impiegato nell’inverno 1943 / primavera 1944 nella verniciatura di sommergibili. Corbolini e compagni lavorano in un cantiere al porto di Danzica. L’acqua del porto è ricoperta sempre da un velo di nafta. Un giorno il protagonista avvista un’anatra, già spellata, galleggiante: “Chissà forse l’avevano buttata in mare perché era vecchia, la vide Zattera ma non aveva il coraggio di prenderla… il che non fu difficile. Il guaio fu invece a lavarla che per quanto adoperassi acqua bollente non volle perdere il puzzo di nafta di cui si era imbevuta la pelle, che nell’acqua, e specie vicino alla banchina, galleggia uno strato di olio e di nafta che mai se ne va data la calma dell’acqua… Fu così che mi vennero i geloni e proprio non valeva la pena di farsela venire per quell’anitra di cui tutta la pelle fui costretto a buttar via e poi fatta bollire un’intiera giornata rimase sempre dura e puzzolente di nafta. Il gobbo [anziano sorvegliante tedesco] si scandalizzava a vederci mangiare quella roba e diceva che saremmo morti, gli interiori erano invece buonissimi e li facemmo friggere con la margarina. Era la seconda volta che mangiavo l’anitra da che ero al cantiere, la prima volta erano budella che avevano buttato via dalla cucina in un buco, ci volle una giornata solo per lavarle e le cucinammo in baracca la sera ma erano squisite…”.
Lo spregio dei tedeschi: “… I soldati tedeschi quando marciano per le vie inquadrati cantano una canzone dispregiativa contro noi “Italiano che vuoi?” dice la canzone e l’italiano risponde “datemi i maccheroni che non penso ad altro”. Gli italiani non sanno fare per loro altro che mangiare maccheroni. La prima volta che sentii questa canzone mi fece tanto male che quasi piangevo…”.
La propaganda dei carcerieri: “… No miei cari tedeschi, è inutile che ci allettiate, che strombazziate al mondo che gli IMI saranno liberati, prima volete da loro un documento di fedeltà, ma gli IMI dopo un anno di schiavitù non vi saranno fedeli, niente firme, resteranno fra i reticolati come li avete obbligati a restare per un anno, perderanno la libertà, perderanno i buoni del pane, la zuppa a mezzogiorno e tutti gli altri vantaggi, ma a loro che importa?…”
Avviene poi il ricovero per infezione ad una gamba; il medico tedesco, dr. Gibbs, nonostante il male insiste perché vada al lavoro. Vive in prima persona l’evacuazione di Danzica nel gennaio del 1945, per l’arrivo dei russi. A sei chilometri da Danzica (Praust) in treno e da qui la colonna, cui si sono uniti anche civili in fuga, prosegue a piedi fino ad Osterwik dove il gruppo viene alloggiato. Corbolini è ancora ammalato e non viene impiegato nel lavoro. Ripara per un periodo nella sagrestia di una chiesa, quindi è in fuga per l’avanzata russa e i mitragliamenti a bassa quota. Destinazione Landau. Su una delle pagine è presente pure una cartina (disegnata a penna) delle località citate da Corbolini. A Landau ancora descrizione di tremendi bombardamenti, le famiglie di civili scappano e gli internati ne approfittano per recuperare i viveri abbandonati: “… Davamo il foraggio alle mucche le quali, chiuse nelle stalle sarebbero morte di fame, mungevamo il latte e ce n’era così in abbondanza che lo sostituimmo all’acqua per cuocere le patate…”.
Intanto, più distante: “… Danzica continuamente bruciava, non si udiva più nulla, neanche la grossa gru, una nuvola enorme e nerissima era sempre sopra la città alimentata da migliaia di bombe d’areoplano e da proiettili di artiglieria… “.
Il 29 febbraio la squadra di Corbolini viene sfollata da Landau e portata ad Elbing per costruire trincee: “Il 29 mattina partimmo da Landao [sic], raggiungemmo lo stradone di Elbing ove nell’incrocio con la via di Dirchao pendeva un cadavere ad un albero. Era un soldato tedesco impiccato perché aveva disertato. Anche quella scena ci voleva per rendere ancor più tetro l’ambiente, non bastavano le vedute di villaggi bruciati, di moltitudini di sfollati i quali da tutta la Prussia orientale erano rifiniti in quella ristretta sacca e continuavano a girare avanti e indietro coi loro carri, con quei loro cavalli magri che a fatica si reggevano in piedi… Pendeva dall’albero dondolando al vento e aveva un cartello appiccicato alla giacca, l’avevano messo lì all’incrocio della strada perché servisse d’esempio agli altri soldati se mai gli fosse passato per la testa che ormai era inutile combattere… Su tutti i muri rimasti in piedi, nelle sponde degli autocarri, erano scritte incitatrici “O(h)ne Kampf kein Sieg” (“Senza combattimento non c’é vittoria”), oppure “combatti, vinci e sarai libero” oppure “ricordati che sei un soldato tedesco” e altri ancora… Kampf Kampf Kampf era scritto ovunque. Arrivo a Gottswalde “ove il benvenuto ci fu dato da un SuperRata il quale si abbassò a mitragliare”. Costruzione di rifugi sotto terra per sfuggire ai bombardamenti; di giorno costruzione di trincee insieme a prigionieri polacchi e francesi. Fuga da Gottswalde mentre Danzica è già occupata: “La strada era costeggiata da due file di grossi alberi e ogni tanto, al lieve chiarore di un lontano razzo, scorgevi qualche cadavere penzolante da un ramo che lugubremente mostrava il volto di cera. Arrivo sull’argine della Vistola. Poi trasferimento in un bosco: … era un bosco di pini altissimi largo un chilometro o due e costeggiava il mare per diversi chilometri, di fianco ad esso era la strada asfaltata e la ferrovia a scartamento ridotto, sulla strada viaggiavano moltissimi camion e sulla ferrovia vi era il treno… Costruimmo dei bunka [sic] piccoli così sarebbero stati più resistenti. Durante il giorno ancora impiego nella costruzione di trincee. Per sfamarsi i prigionieri uccidono cavalli abbandonati da civili che si imbarcano in fuga verso la Danimarca. A vedere il nostro accampamento all’imbrunire c’era da godersi uno spettacolo suggestivo. Il terreno era leggermente collinoso e dei bunca [sic] non se ne vedeva che a fatica l’apertura, decine di fuochi sparsi qua e là sollevavano un fumo azzurro che si perdeva fra i rami degli alti pini, cosce di cavallo e costate pendevano da cavalletti fra tronco e tronco come in una macelleria, il fragore del mare al di là della collinetta dominava.
Profumo acre di resina fresca, profumo di pino che bruciava e profumo di bistecche abbrustolite colpivano insistentemente le narici. Ombre che si muovevano fra i rami sembravano gnomi o genietti di un bosco incantato, ombre che sparivano nel terreno o comparivano come per incanto, che fumavano sigarette fatte di cicche, che cantavano canzoni italiane, francesi, russe, polacche, canzoni nostalgiche e cori solenni. Quando scendeva la notte i fuochi si spegnevano, i canti a poco a poco cessavano, restava la luce della luna che infiltrandosi fra i folti rami dava un aspetto d’incantesimo al bosco. Restava il muggito di qualche mucca dispersa e il rimbombo sempre più cupo del mare… Ci auguravamo la buona notte e ci eclissavamo a dormire, una candelina ardeva dentro il bunker e le pareti tappezzate di verde cupo davano un impressione di presepio, veniva voglia di recitare un sermone o inginocchiarsi a pregare”.
Bello anche il racconto del ritrovamento di un apparecchio radio abbandonato dai tedeschi: “Era buio, fuori piovigginava, entro il bunker avevo tutto il necessario per udire. Stesi un filo d’antenna e provai, girai la manopoletta del [?] e sentii il “cloe” caratteristico degli apparecchi a reazione, innescava. Girai il condensatore e sentii una telegrafica, poi una fonica, poi musica. Fermai di girare, nel sentir quella musichetta che sembrava venisse dall’aldilà, il cuore cominciò a battermi forte. Forse ridevo, forse piangevo, non ricordo ma ero talmente eccitato che mi trattenevo a fatica dal fare non so nemmeno io cosa. Donati mi osservava e “se sente? se sente?” mi chiedeva col suo accento romano, col dito gli facevo segno di zittire e poi gli presi la cuffia. Caro Donatino, che gioia provava pensando di poter sentire notizie della guerra, aveva tanta paura degli aerei! forse più di Cavallini. “Se sente, se sente” diceva felice e si stringeva le cuffie come se temesse qualcosa… Ognuno rievocava il passato, una vita vera esisteva ancora, speriamo che Iddio ci dia la grazia di riviverla, ognuno mormorò. Sembrava un sogno [che] si potesse rivivere, eravamo come bestie, peggio delle bestie, dovevamo scappare alla caccia degli uomini, vivere in tane, senza le zanne che le belve almeno hanno per difendersi, eravamo proprio talpe, solo talpe cieche, all’oscuro di tutto, nel turbine di una bufera”.
Ad un certo punto Corbolini riesce a sintonizzarsi sul canale radio di “Radio Milano” che annuncia la liberazione dell’Italia e la fuga dei tedeschi. Radio Londra, in italiano, annuncia la morte di Hitler. Transito in un lager, non meglio definito, in precedenza utilizzato come campo di sterminio per ebrei (prigionieri che erano stati con Corbolini a Danzica riferirono di avere assistito all’incendio, da parte dei tedeschi, di baracche nelle quali erano delle malate ebree).
I tedeschi distruggono migliaia di automezzi: “… Mi avvicinavo a quelle macchine e e ne ammiravo l’attrezzatura, erano carri officina o stazioni radio attrezzate in un modo che meravigliava, apparecchi di precisione, telescriventi, congegni di ogni genere i quali servivano ai minimi particolari, tutto per la facilità e comodità del servizio… Così squarciata mi si rivelò in pieno la grande attrezzatura tedesca, non mancava nulla. Mi piangeva il cuore vedendo distruggere quel materiale e quasi quasi sentivo che mi dispiaceva di vedere un esercito così perfetto perdere la guerra…”.
Quando Corbolini e i suoi stanno aspettando la fine della guerra riparati in un bunker sul mare, arriva una pattuglia di tedeschi che intima loro di seguirli, dovranno imbarcarsi su un piroscafo diretto verso la Danimarca. Arrivano però ben presto i russi. Straziante descrizione (morte, desolazione, violenza) degli scenari della campagna tedesca nel maggio 1945. Un ordigno, non riconosciuto come tale ma scambiato per la componente di una radio, viene innescato per sbaglio da Corbolini e causa il ferimento di 20 persone.
Riflessioni sui russi: all’inizio dipinti come liberatori, in seguito – conosciuti da vicino – descritti come persone nei confronti delle quali “bisogna constatare che fra noi e loro c’é un abisso. Vivono come le bestie e ciò perché non sanno che voglia dire Dio, patria e famiglia…”.