IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 9

Ripartiamo dal 1860. Con la “repressione” austriaca in Trentino dove viene proclamato il cosiddetto “giudizio statario”. Seguono, in un terribile crescendo di provvedimenti contro chi chiede l’autonomia, destituzioni, arresti e deportazioni. Quindi il sequestro dei beni degli emigrati e il blocco del lago di Garda. Oltre a nuove fortificazioni in tutto il territorio trentino, soprattutto ai confini. Parleremo, in questa nona puntata sul Risorgimento in Trentino, anche di dimostrazioni patriottiche, dell’attività parlamentare (in Italia) di Antonio Gazzoletti e Giuseppe Canestrini, degli eroi trentini da Marsala al Volturno, con il sacrificio di Pilade Bronzetti. Ed ancora: la diserzione dalle urne nelle elezioni del 1861, i conflitti fra Governo e municipi trentini, la campagna elettorale del novembre 1862, per finire con i dissensi fra gli emigrati circa la partecipazione al Comitato veneto. Come sempre c’è un elenco dei trentini che combatterono a fianco di Garibaldi oltre a quello di chi si vide sequestrare tutti i beni. E c’è il solito video didattico … per chi ha fretta.

a cura di Cornelio Galas

I sistemi di repressione messi in vigore nell’anno della guerra non apparvero abbastanza efficaci ad Innsbruck e a Vienna. Il governo del barone Carlo Daublebsky von Sterneck, capitano circolare di Trento, era giudicato nelle sfere dirigenti austriache troppo mite e tollerante, dal momento che divieti, minacce e rappresaglie non avevano da lui sortito la virtù di soffocare le manifestazioni di simpatia, e, quel che è più, di sopprimere i tentativi di attiva partecipazione alle lotte per l’ indipendenza italiana. I giornali di Bolzano e di Innsbruck — ai quali i confratelli di Vienna, di Monaco, di Augusta, di Francoforte facevano ampia e rumorosa eco — non si erano lasciati sfuggire veruno degli episodi atti a mettere in luce la infedeltà dei trentini, usando dei più foschi colori nel dipingerli e, nel commentarli, dei più aperti incitamenti ad un regime di terrore. Né questo tardò.

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Il 3 febbraio 1860 l’ i. r. luogotenenza per le Provincie venete notificò infatti alle autorità della Venezia, della provincia di Mantova e del circolo di Trento che S. E. il tenente maresciallo conte Degenfeld, comandante generale della seconda armata, in faccia alla sempre crescente estensione data da qualche tempo dal partito rivoluzionario al sistema, di seduzione ed istigazione delle ii. Rr. truppe, con semplice ordino del giorno poneva in applicazione nei suddetti territori il giudizio statario per i crimini contro la forza militare dello Stato. L’Austria, che pur sempre mirava a mantener ben separato il suo dominio sul Trentino da quello sulla Lombardia e sul Veneto, e che alcuni mesi prima aveva persino preclusa agli studenti trentini e triestini la frequentazione dell’Università di Padova, come pericoloso ambiente di slealtà dinastica o di mene sediziose, si risolveva ora ad accomunare in una estrema misura di repressione le due categorie gelosamente distinte, di imperial regi  sudditi italiani. “Certamente – osserva il Baisini – che questo nuovo genere di parificazione delle nazionalità non è proprio quello che i trentini potessero desiderare … Ma pure essi ne sono fieri, perché sanno che le nazioni si formano a forza di abnegazione e di sacrifici, e il comune martirio è per gli italiani il suggello dei comuni intenti ed affetti”.

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In forza del capitolo XIX del regolamento di procedura penale allora vigente nell’Impero d’Austria, nel giudizio statario quale l’aveva proclamato il Degenfeld, non si richiedeva una formale istruttoria né un particolare atto di accusa: la sua massima durata Si prefiggeva a otto giorni dal momento dell’arresto dell’imputato; il presidente, non vincolato alla normale procedura dell’ordinario giudizio penale, era anzi obbligato ad evitare prolisse discussioni fra accusatori e difensori; sanzione ordinaria la pena di morte, da commutarsi nel carcere solo nel caso in cui sopra uno o parecchi dei più rei, si fosse già dato l’esempio di terrore necessario a ristabilire la tranquillità: la sentenza inappellabile da chicchessia; la pena —  ordinariamente applicata due ore dopo la pubblicazione della condanna — non suscettibile di sospensione o ritardo alcuno, nemmeno per virtù di una presentata domanda di grazia sovrana; unica sanzione contro le eventuali esorbitanze del procedimento statario, questa: che entro quindici giorni dalla chiusura del regime eccezionale tutte le sentenze pronunziate erano a deferirsi, unitamente agli atti processuali, al tribunale di appello, il quale doveva esaminarli e censurare i difetti che vi scorgesse.

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Pochi giorni dopo la proclamazione del giudizio statario fu inviato a Trento il conte Carlo Hohenwarth, i. r. consigliere aulico, in qualità di commissario straordinario del Governo, o — per ripetere la barbara testuale espressione burocratica — “come organo esposto della i.r. luogotenenza per il Tirolo e Vorarlberg, colla missione di esercitare, in seguito alla confusione politica d’Italia e per la durata di tale stato di cose, un ufficio di sorveglianza per ciò che riguarda il mantenimento della pubblica quiete”.

Istruzioni severissime gli erano state impartite da Vienna e da Innsbruck per la sorveglianza dei confini, il controllo degli atti degli enti locali, la repressione del movimento nazionale; e in vista di ciò gli era lasciata la più ampia libertà di indire processi statari, di punire e di destituire impiegati e autorità municipali, di fare largo impiego della forza armata. Si trattava di una forma aggravata di stato d’assedio estesa a tutti i distretti italiani della provincia del Tirolo, ai quali il Governo era forzato, una volta tanto, ad applicare un separato regime amministrativo, dando coi rigori della legge marziale la più formale e solenne patente di patriottismo italiano a una regione che italiana non voleva chiamare.

Il conte Hohenwarth, arrivato a Trento, diramò a tutti gli uffici a lui sottoposti una circolare invitandoli, ad “insinuare nell i. r. governo quella confidenza che era tanto necessaria onde rimediare alle piaghe aperte negli ultimi dieci anni” e li esortò in particolar modo “ad opporsi energicamente a quelle idee di separazione del Tirolo meridionale dal settentrionale, che avevano già messo nel paese radici cosi profonde”. E al podestà di Trento che, come di dovere, si era recato ad incontrarlo, dichiarò che” le tendenze del partito sovversivo trentino gli tornavan ben note, ma che avrebbe represso inflessibilmente ogni manifestazione di tale partito ovunque sorgesse”.

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Non erano passati quattro mesi, che lo stesso podestà di Trento, conte Gaetano Manci era deposto, esiliato e sostituito da un imperial regio commissario. Il neo-eletto podestà di Rovereto, Giuseppe Balista, fu a sua volta ricusato dal Governo. Non contento di liberarsi dai podestà in odore di patriottismo, il conte Hohenwarth passò in rassegna, sulla base di rapporti di confidenti le opinioni politiche degli insegnanti nelle scuole governative. Don Bartolomeo Venturini e don Giovanni Bertanza, professori nel ginnasio di Rovereto, furono da un giorno all’altro destituiti, senz’ombra di procedimento disciplinare. Quasi contemporaneamente alcuni studenti ginnasiali vennero espulsi da tutte le scuole dell’Impero sotto la taccia di propaganda antiaustriaca.

Le denunzie e le perquisizioni imperversavano, le corrispondenze sospette erano dissuggellate, e perseguitata fino al ridicolo ogni combinazione cromatica che avesse parvenza di tricolore italiano. La polizia, riorganizzata con nuovi intenti, si pose febbrilmente a ricercare e a scovare i sovversivi, e già alla fine di febbraio fece a Trento, Riva, Torbole e Nago una prima retata di 16 sediziosi, subito internati nelle prigioni del Tirolo.

Ma più importanti arresti seguirono nella notte fra il 23 e il 24 giugno. Alcuni dei più influenti cittadini, e cioè Francesco Antonio Marsilli, già deputato alla dieta di Francoforte, Tito Bassetti, Giuseppe Santoni, Enrico dalla Rosa, Silvio Andreis, Cesare Cavalieri, un Zeni, un Bettini e vari altri, furono contemporaneamente catturati a Trento, Rovereto, Riva e altrove. Si dubitò nel Trentino che questi arresti fossero preordinati a prevenire una dimostrazione nell’anniversario della battaglia di Solferino, della quale la polizia doveva aver avuto sentore; ma a smentire quest’ipotesi, i prigionieri furono tutti insieme allontanati da Trento e relegati in varie città della Boemia e della Moravia. Egual sorte toccò al cons. Giovanni Depretis, che abbiamo veduto nel 1848 come deputato a Francoforte, Vienna e Kremsie: egli fu internato a Steyr in Stiria. Furono arrestati anche Giovanni Nones, Luigi Auchentaller, Leopoldo Toresani, Pietro Gregori, Francesco Bettini, Andrea Malfatti, Giovanni Candelpergher, don Felice Zampedri e vari altri.

ANDREA MALFATTI

ANDREA MALFATTI

Allo scopo di impedire che il popolo si affollasse alla stazione e improvvisasse una clamorosa dimostrazione di simpatia ai capri espiatori dell’agitazione politica, essi furono trasportati in vettura, come di soppiatto, alla stazione più vicina verso il nord, e rinchiusi frettolosamente nel treno. Parecchi altri vennero del resto arrestati e processati in quell’anno: ed è già molto che il commissario straordinario non abbia trovato occasione di applicare il giudizio statario, bandito con tanta ostentazione di terrorismo. Evidentemente l’Austria paventava delle sinistre influenze che la pratica di un siffatto regime poteva esercitare sull’opinione pubblica europea.

Però se le condanne capitali non furono tenute per espediente idoneo a consolidare il dominio dell’Austria nel Trentino e il suo prestigio all’estero, la procedura a carico degli emigrati politici non si limitò alle semplici minacce. La sovrana patente del 24 marzo 1832 sulla emigrazione e sulla assenza illegittima era d’altronde quanto mai esplicita e scevra di lungaggini. Gli emigrati illegittimi, ossia coloro che senza il permesso dell’autorità si fossero recati in paesi esteri col proposito tacito od espresso di non più tornare perdevano, oltre alla cittadinanza austriaca, tutte le cariche, uffici o privilegi goduti in Austria, divenivano incapaci di qualsiasi atto giuridico, e le loro sostanze erano poste senz’altro sotto sequestro giudiziale fino alla morte dei rispettivi proprietari.

Questa legge draconiana, fucinata nei tempi del più profondo oscurantismo politico, fu tolta dagli archivi per la circostanza e posta a puntello del nuovo regime del conte Hohenwarth. Secondo la procedura fissata dalla patente imperiale, si pubblicava per tre volte l’editto di richiamo, dopodiché l’autorità giudiziaria metteva sotto sequestro tutti i beni mobili ed immobili degli emigrati che non fossero ancora rientrati nei rispettivi comuni. E dal novembre 1859 in poi la Gazzetta ufficiale di Trento ebbe effettivamente ad inserire, d’ordine del Governo, parecchi di simili editti, che intimavano agli assenti il rimpatrio. Un primo manifesto pubblicato il 9 novembre 1859, elenca novantotto profughi, un secondo del 13 gennaio 1860 ne comprende ottanta, un terzo (18 aprile) trenta, un quarto (10 giugno) cinquantanove, e cosi di seguito.

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E dopo le intimazioni, piovono le confische. Alcuni volontari trentini di stanza a Modena, per rispondere ai richiami ufficiali del Governo austriaco, inviarono a Trento una lettera di cui vai la pena di riprodurre qualche brano:

«Al Signor Capitano del Circolo di Trento — gli emigrati trentini

«Eccitati da Voi, Signor Capitano, a dare le nostre giustificazioni per l’assenza illegale (come voi dite) dagli Stati « di S. M. I. R. A., non vogliamo essere cosi scortesi da rendere infruttuosi i vostri eccitamenti, e perciò noi Io faremo, ma a condizione che ci permettiate di parlarvi con franchezza e alla spiccia, come si conviene a persone che trattano l’armi e che non han tempo da perdere.

Abbiamo abbandonato gli Stati di S. M. I. R. A. perché, nati e cresciuti in suolo italiano, non potevamo rimanere, senza il rossore sul viso e il rimorso nel cuore, indifferenti spettatori della magnanima lotta che Re Vittorio Emanuele iniziava per la comune nostra patria, l’ Italia …

Abbiamo abbandonato gli Stati di S. M. I. R. A., perché fummo sempre di quest’intimo convincimento, che l’oppressione esercitata dall’una sull’altra Nazione é il massimo dei delitti …

Abbiamo abbandonato gli Stati di S. M. I. R. A. perché non volevamo essere trascinati dall’Austria nelle sacrileghe pugne d’italiani contro italiani …

Queste sono, signor capitano, le nostre giustificazioni come buoni italiani quali ci vantiamo di essere.

Come Trentini poi (e Trentini siamo noi tutti che nel  gergo di V. S. veniamo addimandati come tirolesi meridionali) abbiamo abbandonato gli Stati di S. M. I. R. A. perché stanchi di dover sottostare all’ esotico Governo d’ Innsbruck … perché profondamente amareggiati nel vedere la rovina dell’ infelice nostro paese, caduto al basso, e ridotto a deplorabili condizioni da una pessima amministrazione, dal prestito di 500 milioni di fiorini, dalla circolazione forzosa delle note di Banca, e dalle intollerande gravezze onde sono colpite le proprietà, l’agricoltura, l industria, il commercio … perché non potevamo tollerare più a lungo quel tedescume di che sono infestate tutte le nostre amministrative e politiche magistrature … Eccole, signor Capitano, le giustificazioni della legalissima nostra assenza dagli Stati ili S. M. I. R. A., ed assicuriamo la S. V. che ad onta del generale perdono, benignamente impartitoci … ci guarderemo bene dal trarne « profitto …”.

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La lettera è datata a Modena, 19 febbraio 1860.

Primi ad essere ufficialmente spossessati di tutti gli averi sono Vittore Ricci, Gerolamo Pietrapiana e Simone Larcher di Trento;  in seguito alle requisitorie 30 marzo 1860, n. 2802 e 18 aprile 1860, n. 4711, l’autorità spicca ordine di sequestro a carico di altri sessantasei emigrati:

De Pretis Sisinio, Bonfante Quintiliano, Lorenzini Giovanni Battista, Rinaldi Ferdinando, Marcabruni Luigi, De Negri Giuseppe, Martini Francesco, Moratti Filippo, Olnaider Giulio, Cappelletti Luigi, Giordani Francesco, Baibel Eugenio, De Rovereti Giuseppe, Gasperini Francesco, Trafelini Giuseppe, Marchi Angelo, Artel Luigi, Armani Antonio, Giannazzi Giovanni, Barcelll Domenico, Tiboni Gerardo, Bolognini Nepomuceno, Pizzini Bartolomeo, Ciolli Alfonso, Nicolussi Enrico, Bonapace Carlo e Giuseppe, Adami Giambattista, Berti Giuseppe, Nicolodi Salvatore, Bendelli Germano, Risati Giacomo, Tisi Emanuele, Sartori Pietro, Weiss Cesare, Weiss Pietro, Paoletti Pietro, Manci Filippo, Falzoghi Bortolo, Dalla Vecchia Giuseppe, Chizzola Ognibene, Bona Antonio, Anderlini Bortolo, Brunoli Giovanni, Manzana Tommaso, Podestà Giovanni, Cattarozzi Giambattista, Frighello Pier Luigi, Tosadori Luigi, Morghen Ottavio, Miori Giuseppe, Pederzolli Giuseppe, Dalla Buona Giovanni, Mezzanotte Giuseppe, Marchi Luigi, Gazzoletti Antonio, De Zinis Alessandro, Dallafior Giorgio.

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Rifulsero allora mirabili esempi di solidarietà e di abnegazione fra gli amici degli esuli. I notai Luigi Boscaroli, Francesco Moar e Pietro Negri si dimisero dalla carica (aprile) piuttosto che dare esecuzione all’ordine di confisca del patrimonio dei profughi. Inquisizioni, processi, arresti e sequestri non avevano però forza bastevole a fermare né tanto meno a portare a ritroso l’ irresistibile fiumana degli entusiasti che accorrevano ai fervidi appelli della patria.

Intendendo di por freni all’esodo ognor più imponente dei sudditi trentini, S. M. I. R. A., “allo scopo di ovviare tentativi provenienti dall’estero di perturbare la tranquillità, si degnò di comandare con sovrano autografo del 17 corrente — cosi notificava la luogotenenza di Innsbruck in data 21 settembre — che il servizio di sorveglianza al confine venga esercitato con maggior rigore, e di ordinare ulteriormente, che le sentinelle e pattuglie lungo il confine facciano un uso più esteso delle armi in tutti quei casi, quando individui alla chiamata della guardia o pattuglia tentassero fuggire. Una tale misura ha di mira in ispecie la clandestina importazione di armi e di stampati illeciti, ed in genere individui, i quali sia mediante l’assentamento di soppiatto all’estero, sia mediante l’ introdursi furtivamente nel territorio austriaco, provocano il sospetto che nutrano mire politiche cattive”.

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In applicazione di queste ed altrettali norme, ad ogni sbocco verso la Lombardia fu intensificata la sorveglianza. Il lago di Garda era già prima di questa patente letteralmente bloccato, disseminato di spie e percorso in tutti i sensi da imbarcazioni di gendarmi; contro i battellieri sospetti di aver favoreggiato la fuga di qualche emigrato o di volerla favoreggiare e sin contro le rispettive mogli, era stato o fu spiccato mandato di cattura; agli altri venne imposto di tenere le barche in porto assicurate con catena e lucchetto, e la relativa chiave depositata presso il commissario di polizia, che a sua volta non doveva rilasciarla se non (quando fosse esattamente informato dove, con chi, per quanto tempo e per quali affari volesse il proprietario del legno allontanarsi dal porto.

Siffatte precauzioni furono anch’esse insufficienti a frenare le evasioni, e verso l’autunno gli emigrati avevano già raggiunto tal numero da compromettere seriamente le operazioni della leva. Alcuni giovani, anzi, fuggirono appunto per sottrarsi agli obblighi militari: cosicché nel comune di Trento, per esempio, sopra 172 coscritti chiamati in ottobre per la rettifica delle liste, se ne presentarono soli 42, quasi tutti inabili. E pertanto, a somiglianza di quanto aveva ordinato nel Veneto, il Governo austriaco decretò (10 novembre 1860) che i distretti militari del Circolo di di Trento fossero tenuti al pagamento di una tassa di supplenza per ciascun coscritto assente, salvo il regresso verso la sostanza degli emigrati o delle rispettive famiglie o dei comuni di loro domicilio. Per rifarsi delle spese della guerra il governo aveva già pensato del resto, fin dalla primavera di quell’anno, a imporre nuovi balzelli sulle carni e sul vino, che erano riusciti oltremodo impopolari.

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Aggregata la Lombardia al regno di Sardegna, il confine del Trentino restava scoperto verso occidente e verso mezzogiorno: data l’importanza che l’Austria annetteva alla signoria di quella regione, si rendeva necessario tutto un nuovo sistema di fortificazioni. In vista di che fu nominata, verso la fine dello stesso anno 1859, una speciale commissione militare che in breve tempo studiò i progetti e dette principio ai lavori.

I nuovi fortilizi furono costruiti a San Nicolò presso Riva, a Nago, a Lardaro, (valle del Chiese), a Buco di Vela (Cadine), presso il Tonale, (con due fortini a Fusine e a Vermiglio), alla Rocchetta sopra Mezzolombardo: le opere di Rivoli e quelle di Doss Trento erano già state edificate prima o dopo il quarantotto. I lavori di frontiera furono diligentemente osservati dai patrioti di lassù e regolarmente comunicati con particolari e considerazioni di carattere militare agli emigrati, che a lor volta ne resero edotte le autorità italiane.

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La popolazione del Trentino, pur ridotta dal permanente stato d’assedio ad una immobilità quasi assoluta, non tralasciava occasioni per dar chiari indizi del suo sentire. Ovunque apparivano iscrizioni in odio all’Austria; sulle muraglie di certe chiese si leggeva:” Pregate per liberazione del Trentino e fate l’elemosina per gli emigrati !” Gesti di minaccia, male parole e legnate fra soldati e cittadini erano incidenti di tutti i giorni: ogni pretesto serviva a una dimostrazione. Si passava voce che donne e uomini dovessero in segno di cordoglio astenersi da ogni pompa nel vestire: i crinolini e i cappelli a cilindro erano addirittura proscritti. Il Casino sociale di Trento, al quale era stato da tempo imposto a presidente il Capitano circolare, si sciolse per non esser costretto ad invitare gli ufficiali ai propri ricevimenti.

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Don Venturini e don Bertanza, i professori di religione rimossi dall’impiego per sospetto d’italianità, ebbero dalle famiglie dei loro allievi calorosissime manifestazioni di carità, d’affetto e di consenso: tutti andarono a gara per procurar loro lezioni private e per soccorrerli e confortarli nella sventura. Gli studenti di Rovereto, che ogni anno, durante il carnevale, erano usi inscenare una rappresentazione teatrale, vi rinunziarono in segno di lutto e per evitare la presenza di ufficiali austriaci fra gli spettatori.

Il carnevale del 1860, data la penosa situazione politica, ebbe cosi un andamento affatto quaresimale. Ma i capi ameni non vollero lasciar finire il periodo carnevalesco senza porre in opera qualche atroce giochetto … sovversivo. Un maggiore austriaco di guarnigione a Rovereto rimase un giorno dolorosamente sorpreso nell’avvertire lo smarrimento d’ un bel barbone bianco di sua proprietà. Deciso a riaverlo, promise pubblicamente un premio di venti fiorini a chi glielo avesse ricondotto. Ma il cane indugiava a ricomparire. Il 20 gennaio il maggiore in parola sedeva con altri ufficiali del presidio al Caffè Maffei, in quell’ora piuttosto affollato, e andava, una volta di più, lamentando ai colleghi lo spiacevole incidente del fido compagno perduto, quand’ecco precipitarglisi incontro a salti, emettendo guaiti di giubilo, un quadrupede irriconoscibile. Era un barbone a strisce bianche, rosse e verdi, con un coccardone giallo e nero applicato non si dice dove! A stento l’ufficiale poté ravvisare in quello strano campione zoologico il suo cane prediletto: la cronaca però non narra se egli, o chi per lui, abbia potuto pigliarsi un’allegra rivincita sugli ignoti autori della poco ortodossa burletta.

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Gli emigrati, dal canto loro, influivano di continuo sul paese per mantener vivo il fervore alla causa. Nel maggio del 1860, mentre si svolgeva la gloriosa spedizione dei Mille, Vittore Ricci a Milano formulava un proclama incitante i trentini a persistere nei sacrifici a pro del bramato riscatto, che tante sofferenze e privazioni aveva costato e costava ai volontari: un drappello appunto di valorosi conterranei — annunziava il manifesto — cooperava alla redenzione della Sicilia sotto le bandiere dell’Eroe! E simili esortazioni non eran gettate al vento.

Uno scritto di carattere più popolare fu diramato più tardi sotto il titolo: Due parole al popolo della provincia di Trento. Esso ribatteva principalmente le ragioni di carattere economico che gli emissari dell’Austria adducevano per dimostrare al popolo delle campagne che il Trentino ci avrebbe rimesso unendosi all’Italia. Rilevava il deprezzamento della carta austriaca, che faceva perdere il 20 o il 30 per cento sul cambio; il dazio sul granturco, che rincariva l’alimento del povero; le spese eccessive accollate ai comuni, e le molteplici relazioni di interessi che legavano il Trentino al resto d’Italia, facendo presente ai setaiuoli che dopo lo spostamento del confine le sete manufatte si sarebbero vendute ancora a Vienna, come si vendevano fino a quel momento.

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Nell’autunno poi fu posto in circolazione un « salmo”, stampato o almeno datato a Rovereto, intitolato: Preghiera da farsi da ogni buon italiano nei presenti bisiogni. Ne cito alcuni versetti:

  • Il fulmine della tua vendetta, o Signore, è tremendo;
  • l’uomo s’incurva sotto i flagelli della tua giustizia.
  • Tu hai gridato alle nazioni : nel furore della mia collera punirò le vostre iniquità.
  • Il giogo dello straniero incallirà il vostro collo; voi servirete ad un Sovrano che non é il Vostro.

° Nelle vostre contrade passeggeranno delle genti barbare, e vi insulteranno impunemente.

°  Le vostre ricchezze satolleranno le loro avidità; e per loro suderanno i vostri figli: le vostre donne si mescoleranno ad una razza abborrita

° E questo grido terribile ha attraversato i secoli, o Signore; ed ha lasciato sulla terra delle stigmate dolorose, perchè la sua parola è verità.

° Ma il regno della violenza non è un regno che dura; i lamenti degli oppressi gridano innanzi a te e contro gli oppressori …

° Guai al tiranno quando tu ti svegli o signore, ed hai « detto che basta; tu guardi, ed ei non è più.

° Signore, nei giorni della servitù noi pure ti abbiamo invocato, e tu hai ascoltato i gemiti di chi da lungo tempo soffriva …

° Noi avevamo bisogno dei Sansoni, dei Maccabei, la tua mano li ha suscitati …

° Tu hai guidato il braccio dei martiri della nostra indipendenza, i tuoi fulmini si unirono alle palle dei loro moschetti.

° Oh! compi l’opera tua, o Signore, e fa che presto questo popolo diviso dalla violenza, sia unito dalla carità.

° E il paese che tu hai creato con predilezione respiri dai lunghi affanni, e s’inebrii al sorriso della pace.

GARIBALDI

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La sottoscrizione per il milione di fucili aperta da Garibaldi fece il suo giro anche nel Trentino, ove si raccolsero migliaia di fiorini. Molti spontaneamente si prestavano ad inviare soccorsi di denaro al Comitato per i volontari più poveri. Di rimando, il vescovo di Trento indirizzava una pastorale al clero ed ai fedeli, invitandoli a sottoscrivere il prestito di cinquanta milioni di franchi che il Pontefice emetteva per procacciarsi i mezzi atti a difendere lo Stato romano: ma l’obolo raccolto in paese fu insignificante.

Chiusa colla pace di Zurigo la guerra, il Ministero italiano aveva indetto le elezioni per convocare un parlamento nazionale: era la prima volta infatti che entravano nella Camera, oltre ai deputati degli antichi stati sardi, anche i rappresentanti della Lombardia, dell’Emilia, delle Romagne e della Toscana. Per rendere più spiccato il carattere nazionale dell’Assemblea, il Cavour aveva disposto i comizi in modo che riuscissero eletti anche molti cittadini delle regioni non ancora unificate. Fra questi entrarono pure due trentini, cioè Antonio Gazzoletti, che ottenne vittoria nei due collegi di Adro (Brescia) e Castel San Giovanni (Piacenza), optando per quest’ ultimo, e Giuseppe Canestrini, il noto naturalista, il quale conquistò la rappresentanza politica del collegio di Montepulciano.

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I due deputati trentini furono nella loro breve carriera politica fedeli e affettuosi seguaci di Camillo Cavour. Proprio in quell’anno il Gazzoletti scrisse e distribuì ai deputati e ai senatori italiani il noto opuscolo: La questione del Trentino, nel quale egli seppe con tanto calore di convinzione propugnare le ragioni etniche, storiche, strategiche e politiche che reclamavano l’ unione della sua terra all’Italia. L’opuscolo fu tradotto anche in francese e spedito in molti esemplari a Parigi e a Londra.

Né veniva meno in quell’anno, ma anzi si intensificava la propaganda giornalistica condotta dal Gazzoletti e dai suoi conterranei in Italia e fuori. Il Ricci si era persino rivolto, con lettera del 31 gennaio 1860, a Giuseppe Garibaldi, facendogli vive raccomandazioni perché nell’abboccarsi con Alessandro Dumas — che allora appunto si proponeva di scrivere il suo libro sull’Eroe dei due mondi — gli facesse menzione dei numerosi trentini che nel 1848 e nel 1859 avevano militato sotto il suo vessillo e gli desse cenno della infelice situazione politica della propria regione.

ALESSANDRO DUMAS

ALESSANDRO DUMAS

Garibaldi non ebbe tempo di far tesoro dell’esortazione del Ricci, perché i suoi appunti per il Dumas furono troncati a mezzo il quarantotto dalla partenza per la gloriosa impresa di Marsala. Ma in questa dovevano i trentini acquistarsi nuovi brillanti titoli di valore, che poi non sfuggirono alla penna del grande romanziere francese. Non appena fu bisbigliata fra i patrioti la nuova che l’Eroe stava apprestando uno sbarco in Sicilia, parecchi trentini emigrati a Milano accorsero ad inscriversi nei ruoli della spedizione; altri che già servivano nell’esercito dell’Italia centrale si affrettarono ad ingrossarne le schiere.

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Fra i mille volontari che la mattina del 6 maggio 1860 salparono dallo scoglio di Quarto diretti in Sicilia si trovavano ben quindici giovani di quasi tutte le città e vallate del Trentino. Ossia:

Giuseppe Fontana, Antonio Sterchele e Filippo Manci di Trento, Giacomo Costa (Domenico Toller), Enrico Isnenghi e Quirino Moiola di Rovereto, Antonio Armani e Giuseppe Leonardi di Riva, Filippo Tranquillini di Mori, Pietro Sartori e Antonio Fattori-Bittòn, rispettivamente di Levico e Castel Tesino (Valsugana), Attilio Zanolli di Vezzano (bacino del Sarca), Oreste Baratieri di Condino (Giudicarie), Ergisto Bezzi di Cusiano (Valle di Sole) e infine Camillo Zancani di Egna (Alto Adige).

Quattro studenti, cinque agenti di commercio, cinque operai artigiani, e un ardito avventuriero senza professione: ecco la loro condizione sociale. In questa schiera troviamo prima e dopo la campagna del 1860 i più arditi campioni trentini dell’ Indipendenza e i più audaci cospiratori: Bezzi, Manci, Tranquillini, Zancani, Zanolli, Fontana e Baratieri.

ORESTE BARATIERI

ORESTE BARATIERI

Oreste Baratieri fu anzi il primo a segnalare il proprio valore nell’ impresa di Sicilia. A Marsala, per la intrepidezza dimostrata nello sbarcare i pezzi sotto il fuoco nemico, in un quarto d’ora di magnifica operosità, egli fu da Garibaldi nominato sui due piedi ufficiale di artiglieria; e a Calatafimi concorse a sparare quegli storici due colpi di cannone — i soli che l’artiglieria garibaldina riuscì a scaricare sul nemico — che influirono tuttavia non poco sulle sorti della giornata. In quella stessa battaglia lo Zancani ebbe un braccio scalfitto da una palla di rimbalzo: ma ben altre ferite doveva quel prode guadagnare alla sua gloria! Il 27 maggio, mentre l’artiglieria dell’Orsini (assistito dal Baratieri) s’ indugia verso Corleone per trarre in inganno il nemico, il grosso dei garibaldini si spinge su Palermo. L’assalto decisivo è audacemente tentato da una piccola pattuglia d’avanguardia a porta Termini: in testa a tutti è la guida Nullo, che agita il tricolore, e sotto il fuoco micidiale del nemico, s’infilano subito dietro di lui Damiani e Zasio e i tre moschettieri trentini: Bezzi, Manci e Tranquillini, i quali poi s’inoltrano animosamente a combattere per le vie. Essi escono incolumi dal meraviglioso ardimento; ma una palla di cannone di rimbalzo ferisce Camillo Zancani al ginocchio sinistro,e una bomba squarcia un braccio a Francesco Leonardi, mettendolo fuori combattimento.

PILADE BRONZETTI

PILADE BRONZETTI

Frattanto erano sbarcati in Sicilia i rinforzi della spedizione Medici, e con questi parecchi volontari e due ufficiali trentini: Nepomuceno Bolognini e Pilade Bronzetti, che molto si distinsero per la loro intrepidezza nella battaglia di Milazzo. E fra i due primi garibaldini che approdarono in Calabria l’8 agosto era pure un trentino, e cioè Ergisto Bezzi,  già promosso luogotenente per smaglianti saggi di valore nel combattimento di Meri.

Ma altri numerosi trentini, prima arruolati in diversi corpi italiani o emigrati per la circostanza, erano stati attratti dal fascino della miracolosa impresa garibaldina ed erano volati a far folte le file dell’Eroe. Il Brentari valuta a duecento circa il numero dei trentini che appartennero all’ Esercito meridionale organizzato dopo l’approdo in Calabria. I loro nomi:

Agostini Bortolo, Aiani Eugenio, Alessi Pietro, Aliprandi Giacomo, Amadori Luigi, Amistadi Bernardo, Angeli Cesare, Antoniazzi Abele, Antoniolli Clemente, Arascer Luigi, Armani Antonio, Ascani Temistocle, Azzolini Giuseppe, Baibel Tommaso, Baratieri Oreste, Battaia Gerolamo, Battisti Alessio, Bellocchio Angelo, Bendelli Germano, Bertani Giovanni, Berti Bartolomeo, Bezzi Antonio, Enoch ed Ergisto, Boleck Tommaso, Bolognini Nepomuceno, Bonapace Attilio, Bonomi Luigi, Brachetti Patrizio, Bronzetti Pilade, Camelli Giuseppe, Campolongo N., Cappelletti Luigi, Casa grande Giovanni, Castellazzi Giuseppe, Cattarozzi Eugenio, Cavalieri Domenico, Ceola Lazzaro, Cereghini Francesco, Chiesa Vincenzo, Chini Michele, CoIorio Angelo, Conci Achille, Corbella Paolo, Costa Giacomo, Dalbosco Gerolamo, Dallabona Gaetano, Dallago N., Dalleaste N., Dalmaso Domenico, Danieli Arcadio, Danieli Filotimo, Dante Demetrio ed Ignazio, De Gasperi Giovanni, De Pretis Cesare, Dorighelli Pietro, Dorigoli Paride, Dorigoni Cristoforo, Dorna Luigi, Eccheli Giovanni, Eccher N., Endrizzi Luigi, Fattori Antonio, Fava Antonio, Fier Marco, Flasseri Fortunato, Fontana Giuseppe, Fontanari Pietro, Foradori Alfonso, Frasnelli Gerardo, Frighello Luigi, Fronza Antonio, Gaggia Vigilio, Galvagni Angelo ed Augusto, Garbari Eliseo, Gazzoletti Giambattista, Giongo Giuseppe e Luigi, Giovannazzi Decimo e Francesco, Grazioli Giuseppe e Antonio, Gusmerotti Antonio, Inaiter Vincenzo, Inama Giovanni, Iseppi Giuseppe, Isnenghi Enrico, Lazzari Francesco, Leonardi Giulio, Giuseppe e Pietro, Lona Filippo, Lutterini Angelo, Maino Domenico, Malfatti Michele, Manci Filippo, Manganato Ladislao, Marcobruni Luigi, Marconi N., Martini Francesco e Giuseppe, Mazzocchi Vigilio, Mezzena Giovanni, Michelotti Fedele, Miliani Francesco, Moiola Gervasio e Quirino, Moligno Giacomo, Molinari Giambattista e Giuseppe, Morelli Antonio, Moseri Giuseppe, Negretti N., Negri Antonio, Nodari Antonio, Oberosler Paolo, Ognibeni Ludovico, Olzer Eligio, Osnaider Giulio, Oss Giuseppe, Paini Alceste, Paoli Carlo, Paoli Carlo (n. 2), Pasquazzo Dominico, Passerini Luigi, Pavoli Gaetano, Pederzolli Luigi, Pedrotti Pietro, Pedrini Eliodoro, Perempruner Alessandro, Peretti Pietro, Perlat Alfonso, Pernisi Luigi, Perolini N., Pezzolato N., Pifferi Antonio e Luigi, Poda Giuseppe, Poffo Giovanni, Porti Gaetano, Pradella N., Predelli Pietro, Puelli Giovanni, Raggiunti Leopoldo, Rizzoli Eugenio, Rocchetti Francesco e Giuseppe, Rosina Giambattista, Rossi Giuliano e Pietro, Sajani Carlo, Sani Alessandro, Sanquirico Annibale, Santoni Celestino, Sartori Edoardo e Pietro, Scarpetta Giacomò, Segato Fedele, Setti Enrico e Fortunato, Simonini Domenico, Smerzi N., Sneider Vincenzo, Sterchele Antonio, Stoppa Giovanni, Tait Giulio, Tasainer Bortolo, Tiboni Gerardo, Toblini Donato, Torboli Antonio, Tranquillini Filippo, Travaioni Giovanni, Vaiz Cesare, Valcauser Giulio, Velo Francesco, Venturi Carlo ed Enrico, Vincenzi Casimiro, Volpi N., Zamboni Sebastiano, Zancani Camillo, Zancher Pietro, Zanolli Attilio, Zatelli Antonio e Fortunato.

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Nuovi e più fulgidi episodi asserirono l’audacia di quei giovani nella campagna continentale. Celebre rimarrà nei fasti della epopea garibaldina e nazionale il sacrifìcio di Pilade Bronzetti: egli s’ immolò con gesto altrettanto sublime, ma per la vittoria anche più prezioso, che il fratello Narciso (vedi precedente puntata). Pilade Bronzetti, sebbene originario di Rovere della Luna non era, come il fratello maggiore, nato sulle Alpi, bensì a Mantova: ma a ragione il Trentino ne rivendica a se il sangue, perché tale il suo sangue fu, e tale egli volle essere. Battutosi da eroe nel ’48 e nel ’49, e poi nel ’59 fra i cacciatori delle Alpi, aveva raggiunto per l’ ultima volta Garibaldi nel 1860 per cimentarsi da Milazzo al Volturno.

Alla vigilia della battaglia decisiva fu distaccato dalla divisione Cosenz cui apparteneva, col suo primo battaglione bersaglieri (230 uomini) per guardare Castel Morone, l’altura che prospetta il passo del Volturno. Mentre il von Meckel attaccava il Bixio, il Perrone, colonnello brigadiere nelle truppe borboniche, guadava appunto il fiume a Limatola per gettarsi sulla destra garibaldina con mille e duecento uomini ; ma trovò una inaspettata resistenza nei duecentotrenta volontari condotti da Pilade Bronzetti, che con cinquanta dei suoi spartanamente offerse il suo petto alla vittoria. Dopo sei ore di tenace combattimento il prode trentino si fece porgere una tovaglia tolta all’altare della Vergine nella vicina chiesetta e la sollevò sulla punta della spada per invocare la cessazione del fuoco.

NINO BIXIO

NINO BIXIO

Senonché i regi, dimentichi delle buone consuetudini di guerra, si lanciarono sul Bronzetti all’arma bianca. Adirato il maggiore levò la sciabola e trafisse uno degli assalitori, ma una fucilata borbonica lo colpi a bruciapelo in pieno petto e le baionettate furiosamente inferte sul suo corpo stramazzato al suolo lo finirono:

Oh, vendemmia di giovinezza

Pili forte che il vino !

Porpora d’autunno,

Porpora di morte

Su la dolce di uve Campania!

Non piangere, anima di Trento,

La tua calpestata corona.

Ribeviti il tuo pianto amaro,

Dimentica il male, se puoi.

Non fare lamento. Perdona.

Prepara In silenzio gli eroi.

(Gabriele d’Annunzio, Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi)

GABRIELE D'ANNUNZIO

GABRIELE D’ANNUNZIO

Il sacrificio di Pilade salvò la giornata del Volturno. Se la valorosa colonna Perrone, che ancora il giorno seguente nutrì fiducia nell’esito della lotta, non avesse trovato il 1° ottobre sul suo cammino l’ostacolo del Bronzetti, avrebbe potuto, proseguendo la sua marcia, girare la posizione di San Michele, porre fra due fuochi le truppe del Bixio, che il von Meckel assaltava di fronte, e sconfiggendolo capovolgere il felice risultato di quella giornata decisiva.

Ben ricordò dunque Matteo Renato Imbriani l’eroico morto del 1° ottobre, incidendo su l’ossario di Castel Morone queste parole:

IL 1° OTTOBRE 1860

PILADE BRONZETTI

CONSACRAVA COL SANGUE

CASTEL MORRONE.

RIMPROVERO AI VIVENTI

IN NOME

DELL’ IDEALE

PER CUI CADDE

LE SUE OSSA

CHIEDONO

TRENTO

Anche brillò nella battaglia del Volturno l’ instancabile coraggio del capitano Bezzi; esponendosi di continuo alla grandine dei proiettili, al galoppo sul suo bianco destriero egli recò qua e là gli ordini del generale Turr nelle varie posizioni occupate dai nostri. Filippo Manci — che già aveva preso parte, con duecento arditi, al primo sbarco armato sulla costa calabra (8 agosto) e che il giorno dopo l’espugnazione di Reggio, con cinque cavalleggeri condotti dal Nullo si era lanciato di carriera, colla spada sguainata, frammezzo alla brigata Briganti, obbligandola con un gioco di sorpresa ad arrendersi — ebbe il 7 settembre l’onore di annoverarsi fra gli otto ufficiali di scorta a Garibaldi nel suo ingresso trionfale a Napoli.

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Mentre i garibaldini irredenti concorrevano coi loro sforzi ad abbattere gli ultimi baluardi della signoria borbonica, l’agitazione patriottica incontrava nel Trentino una nuova occasione per risorgere. Nell’ottobre 1860 un diploma imperiale determinò le norme per un più moderno ordinamento dello Stato austriaco, fondato sopra una trasformazione delle diete provinciali. Seguì la patente del 26 febbraio 1861, che istituiva una Camera dei signori e una Camera dei deputati di 343 membri, da eleggersi dalle diete provinciali: in pari tempo fu pubblicato il nuovo statuto provinciale del Tirolo. La iniqua ripartizione dei mandati prevista da questo statuto, e la disparità di trattamento dimostrata dalla Corona col concedere l’autonomia amministrativa al Vorarlberg e a Gorizia e col negarla al Trentino, davano forti appigli al partito nazionale per rinfocolare il malcontento contro l’Austria.

La campagna per l’astensione elettorale e per l’autonomia s’ intraprende vivacissima ed ottiene nei comizi del marzo 1861 un brillante risultato, nonostante i conati del Governo in odio dell’abate a Prato, che conserva intatta la sua posizione di capo influentissimo del partito nazionale astensionista.

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Infatti fra Trento, Rovereto e Riva non si presentarono alle urne che 120 elettori, dei quali 111 impiegati; a Pergine, Levico e Borgo Valsugana non si ebbero suffragi di sorta: e quei pochissimi che parteciparono ai comizi dettero il loro voto a candidati astensionisti, eccezion fatta per il distretto di Cavalese. Numerosi gruppi di astenuti a Trento, Borgo di Valsugana, Riva, Arco, Mori ed Ala motivarono la loro diserzione dalle urne con solenni proteste scritte, stigmatizzando quella piccola minoranza che aveva spezzato la solidarietà cittadina.

Ora chi volesse intendere lo spirito che animava i patrioti trentini nell’ invocare l’astensione, ed il corpo elettorale nel seguire questa tattica, non avrebbe che a leggere qualcuno dei manifestini di propaganda che da dicembre a marzo furono clandestinamente distribuiti di valle in valle. Scelgo il seguente:

“Concittadini !

Nuovo inganno ! l’imperator d’Austria ha proclamata un’altra costituzione. Per essa deputati del Trentino dovrebbero sedere nella dieta d’ Innsbruck e nel Consiglio dell’Impero a Vienna! Sarebbe un’infamia politica, un errore dei più perniciosi … La nostra Assemblea sarà, è anzi il Parlamento Italiano, come la nostra patria è l’ Italia. In questi momenti è dannoso o nemico alla patria chiunque si presterà a nominar deputati alle diete dei nostri oppressori, e chiunque accettasse tale incarico … Facciamo come fanno i Veneti, asteniamoci assolutamente da tutto che si riferisce alle diete suddette ! … Si tratta delle ultime resistenze ! …

Viva la nostra Italia una ! Viva il nostro Re Vittorio Emanuele !”

Trento-Rovereto, marzo 1661

E il contegno dei deputati usciti dalle elezioni che qua e là parzialmente ebbero luogo, non smentì l’aspettativa del Paese. Di essi solo quattro, su quindici, intervennero alla dieta, e cioè i due del distretto di Cavalese (Riccabona e Sartori) e i due membri di diritto (il vescovo di Trento e l’arciprete di Rovereto). Giunti ad Innsbruck presentarono concordi una mozione per la separazione del Trentino dal Tirolo, che naturalmente fu respinta all’unanimità meno i voti dei proponenti. Il Sartori, intervenuto poi col Riccabona al Parlamento di Vienna, vi svolgeva (29 maggio) una interpellanza contro la deportazione dei trentini in Boemia e Moravia e contro il decreto che proibiva agli studenti trentini di frequentare l’Università di Padova.

Gli undici deputati che in ossequio alla volontà dei loro mandanti si esclusero volontariamente dai lavori della Dieta, indirizzarono a quest’ultima una dichiarazione, nella quale protestavano contro la iniqua ripartizione dei collegi (alla parte tedesca della provincia erano riservati 47 rappresentanti, e alla parte italiana soltanto 17), denunziavano lo scarsissimo concorso alle urne, affatto inadeguato a dare un indizio qualsifosse dei reali intendimenti del corpo elettorale, e richiamavano tutte le proteste più e più volte redatte, consegnate e diffuse nel 1848 e negli anni successivi, per concludere che la loro assenza era un atto dimostrativo conseguente alla tenace e generale volontà del paese.

PROSPERO MARCHETTI

PROSPERO MARCHETTI

Ciò non pertanto il Governo persiste nel suo atteggiamento di fiera opposizione alle richieste trentine. Il diniego d’investizione ai podestà eletti dalle rappresentanze comunali viene eretto a sistema: a Rovereto è ricusato il Balista, a Riva il BarUffaldi, ad Arco Prospero Marchetti, a Trento Sigismondo Manci e Girolamo Pompeati.

Un serio conflitto si pronunzia a Trento fra il consiglio comunale e il commissario governativo (Alberto Rungg) inviato in luogo dei podestà non convalidati. I consiglieri, alla nomina del Commissario (21 febbraio 1862) si dimettono in massa, e i cittadini in massa li rieleggono: il Rungg non ottiene che i voti di 67 impiegati. Il 17 aprile, riunitosi il nuovo consiglio, fa uscir dalle urne in blocco tutta l’antica giunta, e questa elabora un regolamento che serba alla competenza del podestà o di chi ne fa le veci i soli atti a lui espressamente demandati dallo statuto. Il 18 agosto, festa di Francesco Giuseppe, in segno di protesta, il Consiglio cittadino diserta come un sol uomo la messa ufficiale in onore del sovrano.

Ma nel novembre del 1862, convocati che furono i collegi vacanti per la nomina di nuovi deputati dietali, il Governo nell’ostinazione di vincere a qualsiasi costo, s’ impegnò nella campagna elettorale con tutte le forze. La Gazzetta ufficiale di Trento stampò una serie di articoli intitolati “II Tirolo italiano nei suoi rapporti col Tirolo tedesco”, che riuniti poi in un opuscolo vennero sparsi a profusione per le città e per le valli. L’opuscolo tendeva a dimostrare che l’agitazione per l’autonomia era artificiosa e che gli italiani della provincia avevano tutto l’interesse a restar uniti al Tirolo; e per giungere a tanto non si peritava di alterar cifre e di svisar fatti.

GIOVANNI A PRATO

GIOVANNI A PRATO

A tale memoria rispose vigorosamente l’abate Prato con un suo scritto intitolato “A necessaria difesa degli interessi del Trentino”, e nel quale rinfrescando gli argomenti già più volte esposti propugnava il programma autonomistico e agli austriacanti cie accusavano il partito nazionale di scarso amore per la dinastia rispondeva coraggiosamente:

“Le sorti finali di un popolo dipendono da cause delle quali nessuna potenza della terra, per quanto essa sia formidabile, può dire di tenere le fila, ed in quanto a noi, nella nostra qualità di cristiani, sappiamo esser obbligo di prestare, come prestiamo, obbedienza alle leggi, chiudendo nell’ intimo del nostro cuore quelle speranze delle quali non abbiamo a render conto ad altri che a Dio”.

Alla propaganda stampata il Governo poneva a rincalzo una propaganda orale insistentissima, condotta per mezzo di gendarmi, di agenti, di preti e diretta dallo stesso conte Hohenwarth. In tali frangenti il partito nazionale non si sentiva più di consigliare l’astensione dalle urne, che avrebbe condotto ad una vittoria dei candidati austriacanti: condusse invece gli elettori in massa ai comizi a votar compatti per quei candidati che avevano già dichiarato di non voler partecipare alle sedute dietali.

Gli eletti indirizzano una solenne petizione al Consiglio dell’Impero a Vienna, per ottenere la separazione del Trentino dal Tirolo e la sua unione alla Venezia, mentre mandano alla Dieta tirolese una nuova energica protesta. Tre soli deputati si presentano ad Innsbruck, per domandare ancora una volta e ancora invano, l’autonomia.

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Non ha miglior sorte la petizione inviata a Vienna e consegnata personalmente alla Camera dal deputato polacco Hubick: essa è dichiarata irricevibile col pretesto che il protocollo della commissione per le petizioni si è chiuso il giorno prima ! Le elezioni del novembre 1862 furono contristate da un episodio luttuoso. La Camera di Commercio di Rovereto, invitata a scegliere il suo deputato, dichiarò in pubblica assemblea di astenersi dopo un discorso del suo presidente Cofler (27 novembre 1862): ma la forma del discorso fu tale da provocare un processo penale a carico dell’oratore. Rinchiuso in carcere, il Cofler fu condannato a quattro mesi di reclusione oltre il sofferto; senonché i patimenti della prigionia lo portarono alla morte (4 aprile 1864) prima che avesse terminato di scontare la condanna.

Frattanto il Governo, irritato per la solidarietà manifestata dalla Camera o dai singoli membri di questa verso il suo presidente, ne decretava lo scioglimento, o condannava a otto giorni d’arresto Antonio Caumo, direttore del Messaggiere di Rovereto per aver pubblicato sul suo giornale il resoconto della seduta incriminata. (Il Messaggiere di Rovereto sostenne nel 1883 una fiera lotta contro il clericalismo trentino, traendo occasione dalle feste per il terzo centenario del Concilio di Trento tanto che il Vescovo ne proibì la lettura a tutti i fedeli della diocesi).

Per la seconda volta il potere centrale dichiarò decaduti dal loro ufficio i deputati astensionisti: per la terza volta (febbraio 1863) convocò i comizi, che dettero la loro terza riconferma agli uscenti. Questi, non appena proclamati, null’altro fecero che stendere una lettera alla Dieta, nella quale dicevano di esser lieti e commossi di aver potuto ripetutamente offrire alle popolazioni del Trentino l’occasione di manifestare il loro volere, e a questo volere delle popolazioni dichiaravano di obbedire col porre novellamente il mandato a loro disposizione.

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Nessuna circostanza atta a manifestazioni andava d’altronde perduta. Molti trentini partecipavano alle sottoscrizioni per i monumenti a Dante Alighieri, a Vittorio Alfieri, a Tommaso Grossi, ai caduti di Crimea; commercianti ed industriali trentini, a dispetto delle formali proibizioni del Governo, si producevano con buon successo nell’esposizione di Firenze del 1861;  una nuova colletta aperta in quello stesso anno dagli emigrati fra i patrioti della provincia di Trento per nutrire la cassa patriottica e concorrere alla liberazione del Trentino accumulava nuovi fondi per dimostrazioni, pubblicazioni, sussidi ai volontari.

L’emigrazione trentina era rappresentata pure nel Comitato politico veneto centrale organizzatosi in Torino, nella persona dell’esule Gaetani Manci, ex podestà di Trento. I fuorusciti trentini non avevano mai costituito un proprio comitato ufficiale, ma in mancanza di questo avevano aperto, nel 1859, un ufficio di segreteria e di raccolta di fondi, amministrato dal Ricci e dal Gerola. Nel 1860, quando si costituì un Comitato di sussidio per la emigrazione veneta e delle altre Provincie italiane occupate dall’Austria, i trentini vi furono rappresentati da Vittore Ricci, Senonché allora, come poi, alcuni fra gli emigrati contrastarono vivacemente una tal comunanza di attivita. In una lettera che Francesco Antonio Marsilli indirizzava a Brescia al Gazzoletti troviamo una traccia assai espressiva di tali dissensi.

PATRIOTI

Al dire del Marsilli, la situazione politica del Trentino era assai difforme da quella del Veneto, non foss’altro per la sua unione alla Germania, e però i postulati suoi dovevano esser lumeggiati e imposti con una separata azione; altrimenti, una volta conquistato il Veneto, Trento sarebbe caduta nel dimenticatoio. Occorreva, secondo il Marsilli — il quale scriveva di avere consenzienti anche Carlo Esterle e Scipione Sighele — porre in evidenza l’importanza strategica del Trentino e l’opportunità di invaderlo coi volontari mentre le truppe regolari bloccherebbero il quadrilatero. Che se poi il Governo temeva e impediva che si parlasse della scottante questione, ragione di più per agitarla instancabilmente.

La maggioranza degli emigrati però non si sentì il coraggio di affrontare l’ostilità del Ministero e per ragioni di prudenza politica, come per la mancanza dei mezzi necessari a mantenere un Comitato proprio e distinto, passò ad integrare il Comitato veneto. Ciò non pertanto il principio della necessità dell’occupazione del Trentino fu con costanza ricordato e al Governo e all’opinione pubblica, e con speciale insistenza ai capi della rivoluzione: e quanto avvenne fra il ’62 e il ’64 è prova di questa tenace e gloriosa preoccupazione e dell’interesse che ebbe a suscitare nei grandi agitatori d’Italia.

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