IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 14

Quattordicesima puntata. Dedicata – oltre che al famoso “Obbedisco” di Garibaldi a Bezzecca – ai successi italiani in Valsugana prima della cosiddetta “ultima pace” ((luglio-ottobre 1866). Ci sarà ampio spazio anche per Giacomo Medici alla volta di Trento, con gli scontri di Primolano, Borgo e l’attacco notturno di Levico. Poi la marcia del Kuhn su Trento e il combattimento di Vigolo Vattaro e la tregua d”armi, giunta proprio quando il Trentino poteva essere conquistato dall’Italia. Parleremo anche dell’acccoglienza dei trentini all’esercito italiano, di un tentativo (fallito) d’insurrezione, dei precedenti dell’alleanza italo-prussiana. Infine le prospettive (deluse) del Trentino nei negoziati per l’armistizio, le (strane) trattative di pace e le inevitabili rappresaglie austriache.

Oltre al video – questa volta sul museo garibaldino di Bezzecca – troverete anche un elenco dei trentini che combatterono nel 1866 con Garibaldi e nell’esercito regolare italiano.

a cura di Cornelio Galas

Fin dal 5 luglio, Costantino Nigra, ambasciatore d’ Italia a Vienna, aveva telegrafato al Ministro degli Esteri Visconti Venosta, e questi ritelegrafato al La Marmora: “Sarebbe molto importante di avere una vittoria e di occupare il Tirolo, se ciò è possibile: altrimenti temo che non l’avremo … Avanzata che fu nel Veneto l’armata del generale Cialdini, il generale Petitti, a nome del Re, inviò un dispaccio al Cialdini (16 luglio), ordinandogli di disporre per l’ invasione del Trentino una delle sue divisioni. Ma il Cialdini non era d’accordo su questo punto; rispondeva invece a Vittorio Emanuele esser preferibile un grande sforzo con tutte le truppe in direzione di Vienna; e alle insistenze del marchese Visconti Venosta si rivolgeva al La Marmora, assai più di lui favorevole ad una invasione del Trentino, perché desse corso all’impresa con una divisione dell’armata propria. Senonché di fronte a nuove premure fattegli dal Re, il Cialdini — dopo aver perduti cosi due o tre giorni che in seguito avrebbero fruttato forse nulla meno che l’occupazione della città di Trento — si decideva ad ubbidire.

COSTANTINO NIGRA

COSTANTINO NIGRA

Il 20 luglio il generale Giacomo Medici, giunto a Cittadella, riceveva dal Cialdini le seguenti istruzioni:

“Il generale Garibaldi ebbe un successo sul nemico in val di Chiese e marcia ora per passare in Val d’Adige. La somma convenienza di facilitargli questo movimento ed alte considerazioni politiche consigliano di occupare al più presto il Tirolo con nostre truppe. Ho quindi determinato che la S. V. colla sua divisione marci immediatamente e colla massima celerità possibile su Trento, passando per Valsugana. Lasci gli zaini ed il carreggio che non le sia assolutamente indispensabile. Si valga d’ogni mezzo che possa occorrere sulla via onde accelerare la marcia, giacché importa soprattutto che Ella giunga a Trento nel più breve tempo possibile …”.

GIACOMO MEDICI

GIACOMO MEDICI

Alla lettera seguiva a rincalzo il seguente poscritto, che meglio chiariva la ragione della raccomandata urgenza:

“Se non si occupa Trento prima dell’armistizio, non avremo titoli per ottenere il Tirolo. L’armistizio può coglierci fra 5 o 6 giorni. La S. V. vede dunque che l’arrivare a Trento poche ore prima può dare un gran risultato”.

L’azione del generale Medici corrispose fedelmente a questi ordini, ma non pervenne a cogliere il risultato che le era prefisso. Rapida quanto facile fu la sua marcia. Garibaldi tratteneva il Kuhn con quasi tutte le sue truppe fra il Sarca e il Chiese: eravamo alla vigilia di Bezzecca. L’ingresso della Valsugana, fra Tezze e Primolano, era fortissimo, ma guardato da scarse truppe. Teneva quel passo il maggiore Pichler inviato dal Kuhn colla 1^ e 6^ compagnia del reggimento arciduca Ranieri, e colla 3^ e 4^ del reggimento Wimpfen sopraggiunte da Belluno, oltre a tre compagnie di bersaglieri provinciali e mezza batteria di razzi, un drappello di ulani e un plotone del genio: in tutto un migliaio di uomini.

FRANZ KUHN

FRANZ KUHN

Il generale Medici aveva ai suoi ordini invece circa 9 mila uomini, e cioè il 27°, 28°, 61° e 62° reggimento fanteria, il 23° e 25° battaglione bersaglieri, una brigata di artiglieria del 9° reggimento da campagna, una compagnia del 2° zappatori del genio, e due squadroni di lancieri Milano.

Il vantaggio del Medici, nonostante la condotta di rapida offensivavoluta dalle imperiose esigenze del momento, era dunque evidentissimo; ed egli seppe approfittarne brillantemente, sorprendendo col fulmineo procedere della sua marcia il nemico. Per affrettare con ogni possa la ritirata degli austriaci dall’una all’altra posizione e costringerli a cedere senza indugio tutti i loro punti d’appoggio, egli fece una larga applicazione del sistema degli attorniamenti.

PRIMOLANO, 1866

PRIMOLANO, 1866

Si propose cioè di avvolgere dapprima d’un tratto, con un largo movimento, tutte le posizioni del nemico, salvo a percuoterne i fianchi e a minacciarne le spalle ad ogni singola fase del combattimento. E allo sviluppo di questo concetto, sommamente fecondo nella guerra di montagna, si appalesò favorevolissimo il terreno. Infatti l’avversario spintosi all’imbocco di Primolano poteva considerarsi al vertice di un angolo sporgente e sensibilmente acuto, del quale era possibile rompere i due lati e segnatamente il lato sud-ovest, tagliandogli a Tezze e Grigno l’unica via di ritirata.

Giunto il 21 a Bassano, il Medici predispone per il giorno seguente l’attacco all’entrata della Valsugana. Commette al colonnello Negri di passare il Brenta a Valstagna col 61° reggimento e con tre compagnie del 25° battaglione bersaglieri, di girare per la montagna sopra Enego e di piombare su Tezze in modo da chiudere al nemico la via d’ uscita verso Trento; incarica il colonnello Casuccini di percorrere col 27° reggimento e l’altra compagnia del 25° bersaglieri la catena di monti a sud-est del Brenta, e di cadere su Arsiè minacciando da quella posizione Fastro e Primolano; invia altre truppe sulla sua destra, per l’ immediato contatto colla colonna principale e per l’attacco diretto contro le ali del nemico; muove infine egli stesso all’assalto frontale con cinque battaglioni del 28° e 62° reggimento, e lascia il 4° battaglione del 28° in riserva, mirando con sei teste di colonna ad attenagliare le poche compagnie del Pichler.

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Il primo scontro ha luogo al ponte del Cismon fra la 1^ compagnia del 23° bersaglieri in avanguardia e un drappello nemico. Il passaggio del fiume, dominato dal nemico, si presenta arduo: il ponte è stato distrutto. Ma mentre il genio accorre per riattivare le comunicazioni fra l’una e l’altra riva, due tiri a granata della 14^ batteria situata in favorevole posizione scompigliano il nemico, costringendolo a smettere il suo atteggiamento minaccioso e a ripiegare. Così la colonna centrale, coadiuvata da un nuovo battaglione spedito sul fianco destro colla compagnia del 23° bersaglieri, passa senza molestie il torrente e s’avvia a Primolano.

Gli imperiali, sospettando l’avviluppamento, cedevano ad una a una, senza combattere, le fortissime posizioni della gola tra Cismon e Primolano. Il Pichler disponeva in quest’ultimo punto di tre compagnie, compresa una di tiratori provinciali; altri drappelli si trovavano alle vedette sulla sinistra (Enego) e sulla destra (Fastro ed Arsiè). Contro Primolano serrano successivamente due plotoni di bersaglieri italiani, due compagnie del 62° e il 2° battaglione di quest’ ultimo reggimento, e poi il 23° fanteria. Frattanto, sulla strada di Feltre si getta una delle colonne aggiranti di destra, comandata dal maggiore Rapy.

3KYH300ZIl comandante austriaco, compresa la gravità del pericolo che gli sovrastava ai fianchi, avuto sentore della marcia della colonna Negri che scendendo sulle Tezze avrebbe irreparabilmente strozzato il suo piccolo corpo, ordinò, dopo una debole resistenza, l’adunata di tutte le compagnie ed i drappelli distaccati sulla stretta di Pianello, e di li spinse ansiosamente la marcia sulle Tezze appena in tempo per prevenire la testa della colonna Negri che sboccava fra Tezze e Grigno contro la coda della sua retroguardia. Alcuni drappelli sbandati di austriaci furono fatti prigionieri.

Nonostante l’estrema stanchezza causata dalle marce faticosissime e lunghissime del 22, la fulminea occupazione del Canale di Brenta e dell’ ingresso di Valsugana rappresentava un cosi brillante successo per gli italiani, che il giorno 23 le truppe ardevano ancora dalla bramosia di combattere con ferma fede di vincere. Il maggiore Pichler, ritiratosi su Borgo, aveva qui ricevuto in rinforzo la seconda divisione di deposito del reggimento arciduca Ranieri (124 uomini), la quale riusciva appena a compensare le perdite del giorno antecedente.

GIACOMO MEDICI

GIACOMO MEDICI

Dal canto suo il Medici, approfittando delle ottime disposizioni delle sue truppe, decise di non frapporre indugi, e mosse in rapida marcia con tutte le sue forze su Borgo. Erano le 9 antimeridiane circa quando usci dalla stretta di Primolano. Arrivato a Castelnuovo, verso le due, il generale è avvertito che l’avversario si appresta a difesa sul prossimo torrente Ceggio. Allora decide di attaccarlo a fondo, da tutti i lati. Pichler, dal canto suo, prese quelle scarse precauzioni che la pochezza delle sue forze gli permettevano.

Sul monte a nord, nei castelli di Telvana e di San Pietro, appostò la 6^ compagnia del reggimento Ranieri con mezza batteria di racchette, e collocò la 3^ compagnia del reggimento Wimpffen più indietro a sostegno; spinse a difesa del ponte sul Ceggio e dell’entrata di Borgo la 1^ compagnia Ranieri e la 4^ Wimpffen, mise a guardia sulle alture a nord e sud le due compagnie dei bersaglieri provinciali di Landeck e Dornbirn, tenne in riserva dentro Borgo la divisione di deposito del reggimento Ranieri allora arrivata.

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Facile fu al Medici il soverchiare con un pronto aggiramento truppe deboli e sfiduciate. Il 23° battaglione bersaglieri, presa la via di Telve, precipitò a destra sui castelli di Telvana e di San Pietro, e coadiuvato da una sezione della 15^ batteria che sparava dal fondo della valle, li sgombrò in men che non si dica, facendo cinquanta prigionieri.

Contemporaneamente otto battaglioni (27° e 28° reggimento fanteria, 25° battaglione bersaglieri) muovevano in doppia colonna a destra ed a sinistra della strada ponendosi in mezzo la 15^ batteria, che spazzava a mitraglia la via maestra e il ponte fino a Borgo. Breve fu la resistenza degli austriaci sul Ceggio; a Borgo, ove ben presto si ritirarono, furono di nuovo perseguitati dall’assalto dei tre battaglioni di testa, mentre il 4° battaglione del 28° reggimento, con una rapida mossa a sinistra, si gettava sul lato meridionale del paese minacciando i fianchi dell’avversario.

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Il combattimento si addentrò nell’abitato. Allora il maggiore Pichler, vedendosi già quasi attorniato, pensa a salvarsi in tempo e ripiega frettolosamente con le sue truppe a Levico, inseguito alle calcagna dai battaglioni del Medici e molestato dalla cavalleria. I drappelli di retroguardia oppongono qua e là qualche piccola resistenza, ma non riescono ad arrestare la marcia degli italiani. Molti austriaci si sparpagliano, cercano di salvarsi per i monti, si appiattano fra i campi, sono scovati e fatti prigionieri. L’artiglieria dell’avanguardia accorre in testa ed accompagna con tiri a granata la precipitosa ritirata del nemico già lontano. II combattimento di Borgo è durato poco più di un’ora e si è svolto cosi rapidamente da non lasciare al 1° battaglione del 28° fanteria — che il Medici aveva diretto verso Olle per scagliarlo di qui sulla destra della borgata — il tempo di compiere il suo movimento attorniante.

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Frattanto il comando delle truppe austriache, appresa la notizia della rapidissima avanzata del Medici, si affrettò a correre ai ripari. Il 23 mattina, in seguito a pressanti sollecitazioni del Kuhn, i quarti battaglioni dei due reggimenti fanteria Martini e Hartmann erano da Verona spediti per ferrovia a Trento. Di qui si posero entrambi immediatamente in marcia; il battaglione Hartmann raggiunse Roveda presso Civezzano, il battaglione Martini pervenne la sera stessa a Levico prima che il Medici lanciasse le sue truppe contro quella borgata. Il Kuhn aveva già potuto rendersi conto della gravità del pericolo che lo minacciava: il telegramma che gli annunciava il combattimento di Borgo, trasmesso da Levico, era stato interrotto dall’assalto degli italiani. Fu questo uno scontro notturno nel quale ebbe particolare occasione di segnalarsi il valore delle truppe regolari.

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La posizione di Levico non era forte e il Medici giudicò che il nemico, demoralizzato per le due improvvise sconfitte di Primolano e di Borgo, l’avrebbe facilmente ceduta ad un pronto attacco delle truppe italiane. Egli aveva tanto maggior ragione di ciò pensare, in quanto un nuovo combattimento a cosi breve distanza non era atteso dal Pichler. Ricevuto il battaglione Martini a tarda ora, egli lo aveva collocato a guardia della borgata in sostituzione delle truppe sfinite dal lungo combattere. Il Medici, giunto a Selva, a un chilometro circa da Levico, fu erroneamente informato che a difesa di quella località stesse ormai tutta una brigata agli ordini del Kaim. Ciononostante fidò nell’effetto della sorpresa che un assalto notturno avrebbe esercitato sull’avversario. I suoi soldati erano stanchi, affamati, malconci, ma egli fece dir loro che la giornata gloriosa attendeva il suo degno compimento; che cibo e riposo volevano esser conquistati alla baionetta. E a quest’appello degnamente rispose il valore italiano.

Levico_1866

LEVICO, 1866

Un plotone di cavalleria spedito alle scoperte si ebbe le prime fucilate. Silenziosi, ma rapidi, i fanti del 28° reggimento, coi bersaglieri del 25° battaglione distesi a destra ed a sinistra della strada, si mossero, marciarono, spiccarono la corsa. Il nemico sparò furiosamente su loro senza vederli: essi non risposero. A un tratto, al grido di Savoia, gli italiani scaricarono le loro armi e si precipitarono alla baionetta sugli austriaci. Questi si opposero disordinatamente al loro passaggio agli sbocchi della borgata, attraverso le vie, dall’alto delle finestre e dei tetti. Ma i nostri irruppero in massa, da ogni dove scacciandoli e fugandoli, e facendo numerosi prigionieri. Una ultima zuffa sanguinosa avvenne all’ uscita posteriore del villaggio.

Il Pichler si ritirò colle sue truppe fuggenti verso Pergine. Nei combattimenti di Borgo e di Levico gli italiani non ebbero che 7 morti e 24 feriti; gli austriaci 12 morti e 42 feriti, oltre a circa 200 dispersi, compresi i prigionieri. I vincitori trovarono fra gli abitanti di Levico liete accoglienze. Le case si aprirono, le finestre si illuminarono, e le famiglie più ragguardevoli della borgata accolsero gli ufficiali italiani come liberatori.

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Un nuovo progresso era raggiunto colla marcia forzata del colonnello Negri, il quale alla testa del 61° fanteria e di una compagnia del 25° battaglione era stato distaccato sui monti a sud della valle coll’ordine di accorrere al combattimento soltanto in caso di bisogno.

La brevità della lotta lo dispensò dallo scendere a Levico, ed egli prosegui per Caldonazzo, ove giunse verso le 5 antimeridiane del 24. Immediatamente spedi il suo terzo battaglione a Calceranica, a guardia delle due strade che conducono a Pergine per la sponda occidentale del lago e a Mattarello per Vigolo e Valsorda. A sua volta il generale Medici avanzò un battaglione del 27° sull’istmo di Tenna, che divide i due laghi di Caldonazzo e di Levico e signoreggia tutta la rete stradale fra Pergine, Levico, Calceranica, Caldonazzo e Lavarone. Senonché anche il piano di Lavarone, occupato fino allora da una compagnia di bersaglieri tirolesi, era già stato sgombrato dal nemico.

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Mentre le truppe di avanguardia eseguivano, d’ordine del Medici, perlustrazioni verso Vigolo e Pergine, il grosso della divisione si poneva in cammino, verso le due pomeridiane, per assalire ancora il nemico, che si credeva afforzato in quest’ultima località. E infatti il maggiore Pichler, raccozzate le sue truppe, era entrato in Pergine fra le 1 e le 2 dopo la mezzanotte e vi si era fermato; ma il generale Kaim, spedito in fretta dal Kuhn ad assumere il comando delle truppe della Valsugana, e arrivato a Pergine verso la stessa ora, giudicava insostenibile quella posizione e ordinava la ritirata su Civezzano.

La veloce incursione del Medici obbligava il Kuhn ad abbandonare d’ improvviso, col grosso delle sue forze, la linea di schieramento contrastante ai volontari di Garibaldi per portarle a difesa della città di Trento minacciata di prossima occupazione.

A spostare le truppe verso est aveva pensato fin dall’ indomani di Bezzecca. Il 22 luglio la brigata Kaim fu ritirata a Tione, il 23 prima alle Arche e poi a Vezzano, mentre la brigata Montluisant raggiungeva per BallinoCampomaggiore; e il 24 mattina, prima che il quartier generale della divisione Medici fosse tolto da Levico, entrambe le brigate di riserva, più il primo battaglione dei cacciatori Imperatore, erano entrati in Trento.

Espertissimo della guerra di montagna, il Kuhn provvide immediatamente a munire i punti più facili ad essere attaccati dal lato di Pergine; la Valsorda, e cioè la via più breve per raggiungere la vai d’Adige, fu presidiata con tutte le forze che si poterono raccogliere a Rovereto e in Vallarsa, che gli italiani non minacciavano. Fu cosi costituito un piccolo corpo di quattro compagnie di cacciatori Imperatore e di sei compagnie di bersaglieri provinciali sotto il comando del capitano Cramolini: il qual corpo giungeva in Val Sorda nel pomeriggio del 24 luglio.

Ad un tempo le brigate Montluisant e Moràus (già Kaim) da Trento salivano a Civezzano, per opporsi al procedere della divisione Medici già arrivata a Pergine. Alla sera di quel giorno le truppe austriache che coprivano Trento sommavano a circa 8 o 9 mila uomini, si trovavano cioè a forze pari di fronte al loro più immediato assalitore.

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Il Kuhn prevedeva che Garibaldi potesse sopraggiungere da un momento all’altro nella direzione di ponente a prenderlo tra due fuochi, e si preparava con ogni energia a fronteggiare una simile eventualità. Trento fu posta in stato di difesa, e agli abitanti venne emanato il seguente proclama:

“Siccome dovrò difendere Trento a tutto potere contro l’invasione delle truppe nemiche, il valore, la bravura e la costanza dei miei soldati mi sono pegno che il nemico non sarà per penetrare nelle mura di questa città principale, la quale diverrà cosi il baluardo contro il progredire del nemico sul suolo tirolese. Eccito gli abitanti della città a mantenersi tranquilli durante la pugna, giacché si procederebbe senza riguardo con tutto il rigore delle leggi marziali contro chiunque osasse turbare la tranquillità e l’ordine.

È sin d’ora interdetto il suono delle campane e sarà rigorosamente guardata tanto la sortita come l’ingresso nella città. All’imbrunire ogni casa dovrà avere illuminato il secondo piano. Abitanti di Trento! Da lungo tempo io conosco il vostro attaccamento al legittimo vostro sovrano: ho quindi ferma fiducia che non mi sarà imposto il dovere di esercitare rigorosa giustizia, Lorché farei senza alcun riguardo contro chiunque osasse turbare l’ordine e la tranquillità, essendomi pure noti appieno i pochi nemici del legittimo loro governo. Dall’i.r. Comando delle truppe del Tirolo e Vorarlberg. Trento, 25 luglio 1866. L’ i. r. General maggiore Barone Kuhn. (Una commissione di cittadini si era recata dal Kuhn per persuaderlo a ritirarsi in tempo e ad abbandonare la città; ma egli aveva risposto di voler difenderla fino all’estremo).

GARIBALDI

GARIBALDI

Il generale austriaco però comprendeva troppo bene che fra il Garibaldi e il Medici non si sarebbe sostenuto a lungo. Il Medici, con mosse aggiranti, poteva per una delle valli a nord di Pergine penetrare nel bacino dell’Avisio e gettarsi sulle sue retrovie. Garibaldi, evitando i forti di Lardaro e di Cadine e il fuoco della flotta del Garda, scacciate le scarse truppe rimastegli di fronte, non aveva che a scendere ad Arco e valicare lo Stivo e il Bondone per piombare su di lui.

Perciò fin dal 24 provvide a spedire verso il nord la cassa di guerra e il bagaglio, emanò ai singoli corpi particolareggiate istruzioni per un eventuale ripiegamento su Bolzano, e pensò di fare di quest’ ultima città il caposaldo della propria difesa in caso di ritirata, appoggiandosi a Franzensfeste ed aiutandosi colla leva in massa. Là, attorniato da tedeschi, si sarebbe sentito più sicuro. Un simile concetto era  stato approvato dall’arciduca Alberto, ma cosi l’arciduca come il comandante delle truppe del Tirolo non volevano in ogni modo lasciar Trento senza aver prima tentato l’estrema battaglia sotto le sue mura.

L'ARCIDUCA ALBERTO D'AUSTRIA

L’ARCIDUCA ALBERTO D’AUSTRIA

Due combinazioni salvarono il Kuhn e perdettero il Trentino. La prima: che Garibaldi non ricevette la lettera con la quale il Medici lo avvertiva del suo arrivo a Levico e lo spronava a cooperare allo sforzo su Trento;  né poté lì per lì accorgersi del rapido indietreggiare delle truppe austriache. La seconda: che la sospensione delle ostilità fu annunciata a tempo per prevenire un’azione concorde e decisiva dei due piccoli eserciti italiani. Il Kuhn aveva appreso in via confidenziale che la tregua d’armi, già decisa, sarebbe, quasi certamente, incominciata il giorno 26.

Un ordine del giorno alle truppe datato il 25 mattina, diceva infatti: «Pare che il governo italiano mandi per le lunghe le trattative per la tregua apposta per aver tempo d’impossessarsi di Trento. Questo disegno del nemico ò stato in parte sconcertato dalla marcia notturna eseguita dalle truppe fra il 23 e il 21. Frattanto io ho ricevuto d’alta parte l’ incarico di tener Trento sino agli estremi. Conforme a tale comando, io sono risoluto a far di Trento una seconda Saragozza. Quindi, se le truppe che la coprono siano costrette a retrocedere, dovranno farlo passo a passo, difendendo col massimo sforzo ogni partita di terreno, ogni casale, ogni edificio». Nell’ordine del giorno erano poi stabilite tre linee di difesa: la prima nella posizione allora tenuta dal Kaim, la seconda fra Martignano e le Laste, la terza nella città, all’ uopo fortificata.

IL GENERALE MEDICI

IL GENERALE MEDICI

Il Medici invece mancava ancora di informazioni. Due giorni prima, gli era giunta la falsa nuova che Garibaldi fosse stato battuto dagli austriaci: null’altro aveva saputo poi. Né, data la rapidità colla quale l’avversario aveva accalcato le sue milizie nei passi minacciati, poteva ancor farsi una idea precisa della loro consistenza numerica. Prima dunque di avventurarsi in mosse arrischiate, volle tastar terreno. All’alba del 25 il 23° battaglione bersaglieri, diviso in due reparti, si spingeva in esplorazione verso Seregnano ed il passo di Povo.

Al tempo stesso il colonnello Negri doveva eseguire una battuta d’avanguardia nella conca di Vigolo e nella Val Sorda. Ma l’avanzata, che doveva avere il carattere di semplice ricognizione, si trasformò in un combattimento. Il 4° battaglione del 61° fanteria, inviato di prima mattina su Vigolo e poi raggiunto da altre due compagnie del 3° battaglione e dalla 1^ del 25° bersaglieri, volle spingersi più avanti sul colle che segna il displuvio fra la Valsugana e la Val d’Adige per dominare le probabili posizioni del nemico.

Ma mentre il 4° battaglione stava per schierarsi a sinistra della strada che mena a Val Sorda, si iniziò dalle alture sovrastanti alla strada sulla destra degli italiani un vivo fuoco di carabine, che ben presto si estese a tutta la fronte.

IL COLONNELLO NEGRI

IL COLONNELLO NEGRI

Erano le compagnie avanzate del Cramolini. Gli italiani si lanciarono alla carica e riuscirono a far retrocedere i cacciatori e i bersaglieri austriaci fino all’ingresso di Val Sorda: ma qui il fuoco nutrito dei difensori, rafforzati da nuove truppe ed abilmente appostati nel fondo della valle e sulle pendici laterali, consigliò il Negri a ripiegare verso Calceranica e Caldonazzo: tanto più che un reparto nemico girando sulle alture a mezzogiorno tentava di prendere gli italiani alle spalle. Gli avversari, incalzando i nostri, rioccupavano Vigolo, quando pervenne al Negri un parlamentare inviato dal generale Medici, che annunciava la sospensione delle ostilità.

A tale annuncio il combattimento fu interrotto. Vigolo rimase agli austriaci; gli avamposti italiani furono collocati a Bosentino e a Centa. I nostri ebbero in quel combattimento 13 morti, 31 feriti e 8 prigionieri, gli austriaci 1 morto e 8 feriti.

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Il giorno susseguente in Ciré, fra Pergine e Civezzano, fu tra i capi di stato maggiore delle due parti fissata la linea di demarcazione fra i due eserciti, lasciando a ciascuno di essi le posizioni già occupate. Durante la tregua entrambi mirarono a rafforzarsi per rientrar poi in campagna con più vive speranze di vittoria. Il generale Medici organizzò un regolare servizio telegrafico con Padova, fortificò il poggio di San Valentino presso Levico — posizione importantissima per contrastare l’accesso della Valsugana al nemico —, ordinò ricognizioni verso la Valle di Avisio per informarsi esattamente sulla natura del terreno, si tenne giorno per giorno al corrente delle mosse degli austriaci.

Per contrapporre forze adeguate a quelle che il Kuhn andava accumulando su Trento, sollecitava presso il suo comando di armata l’invio di altre truppe; ed ebbe infatti a rinforzo una intera divisione che marciò sotto gli ordini del generale Cosenz su Borgo, ed in più una brigata della 16^ divisione (principe Umberto) destinata a muovere da Schio per la Vallarsa.

Battaglia di Calatafimi - Remigio Legat

Con circa 25 mila uomini cosi raccolti sperava il Medici di potere al 2 agosto, scadenza della tregua, gettarsi sul nemico in tre direzioni: urtarne cioè la fronte a Civezzano, piombare sulla sua destra a Rovereto (per la Vallarsa), interrompendo le sue comunicazioni con Verona, girare per la valle di Piné nel bacino dell’Avisio per tagliare al Kuhn la ritirata su Bolzano.

Ma neppure il Kuhn era rimasto inoperoso. Mentre insisteva presso il comando principale dell’esercito perché fossero portate nuove minacce contro il Veneto — allo scopo di distrarre le forze italiane dal Trentino — egli badava a rinvigorire le trincee a Riva, presso Calliano, in  Vallarsa, e ad assicurare mediante opere passeggere i valichi principali fra la Valsugana e la valle di Fiemme; costruiva nuovi baluardi per la difesa interna di Trento, tramutando in ridotta la stazione della ferrovia, sgombrando tutte le case fra porta Aquila e porta Nuova e riducendole a fortezze, occupando militarmente il torrione oltre il Borgo Nuovo. Al tempo stesso concentrava su Trento da Innsbruck una nuova brigata (Kleudgen), forte di 6219 uomini; promuoveva la formazione di nuove compagnie di bersaglieri volontari; costituiva altri due battaglioni di cacciatori tirolesi; ordinava per il 2 agosto la leva in massa nella valle superiore dell’Adige, nella valle dell’Eisack ed in Pusteria.

Le truppe del Kuhn sommavano, alla scadenza della prima tregua, a circa 20 mila uomini. Con questi contava di assaltare vigorosamente il generale Medici per liberarsi dalla sua stretta, prima che Garibaldi da ovest fosse giunto in tempo ad attaccarlo.

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Egli voleva colpire il Medici in tre direzioni: e alle spalle, facendo calare la mezza brigata del maggiore Pichler, con due battaglioni di cacciatori, attraverso la valle di Fiemme su Strigno per rompergli le retrovie; e sulla sinistra, inviando il capitano Walter con 7 compagnie ed una sezione di artiglieria per San Sebastiano sopra Lavarone e Levico; e di fronte, assalendo Pergine e Levico per Civezzano e Val Sorda col grosso delle sue truppe.

A fronteggiare Garibaldi era rimasta presso Stenico la mezza brigata Hòffern, mentre la flottiglia austriaca del Garda proteggeva gli accessi dalla Val di Ledro su Riva. Le truppe garibaldine occuparono durante l’armistizio tutta la val di Ledro e la val di Concei, il paese di Campi sopra Riva e la valle del Chiese fin sotto il forte di Lardaro.

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Il colonnello Cadolini, comandante del quarto reggimento , aveva ricevuto ordine di ricondurre le sue truppe dalla valle Camonica nella valle del Chiese, prendendo di fianco il forte di Lardaro, ma non avendo notizie da Garibaldi indugiò per vari giorni al passo di Campo: ciò che impedì nell’intervallo tra Bezzecca e l’armistizio (22-24 luglio) un rapido aggiramento di Lardaro e un’avanzata più veloce delle truppe garibaldine.

Sul lago di Garda le navi austriache ebbero facile ragione sulle misere imbarcazioni italiane; e nonostante che dopo il 21 luglio le truppe austriache avessero sgombrato Riva, le cannoniere imperiali poterono battere efficacemente col loro tiro la strada del Ponale e arrestare l’avanzata garibaldina da quella parte.

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Il 2 agosto la tregua fu rinnovata; l’Austria, accomodate le sue divergenze colla Prussia, poté rivolgere tutte le milizie a minaccia dell’Italia; il Kuhn portò il suo corpo di difesa a ben 50 mila uomini. Seppur la guerra fosse stata ripresa. Medici e Garibaldi avrebbero avute ben scarse probabilità di vittoria. Ma il 9 agosto pervenne al Medici l’ordine di sgombrare il Trentino in vista dell’armistizio, il quale fu dichiarato il 13 dello stesso mese.

Gli abitanti della Valsugana avevano accolto i loro liberatori colla più schietta simpatia. Gli emissari dell’Austria non si erano peritati di gettar fango sul buon nome delle truppe conquistatrici, dipingendole alle ingenue masse del contado come bande di ladroni sacrileghi. Ma il contegno esemplare degli italiani svelò ben presto la calunnia, e una grande confidenza si stabili fra i soldati e la popolazione. La borghesia di Levico e di Pergine fu larga di ospitalità agli ufficiali.

Molti valligiani accorsero allo stato maggiore della divisione ad offrire i propri petti per la redenzione del loro paese. Si formò cosi un corpo di volontari trentini, simili a quelli di Garibaldi, che il generale Medici distribuì fra i vari reparti colla funzione di guide.

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Le persone più influenti promossero fra i cittadini della Valsugana una specie di plebiscito per l’ unione all’Italia e incaricarono quindi una commissione di recar tosto il voto al Governo italiano. Del tutto somiglianti erano gli indirizzi che i comuni dei distretti di Condino e di Tione rivolgevano, verso la fine di luglio, a Vittorio Emanuele e a Garibaldi.

L’appello dei municipi di Val di Ledro e di Valle del Chiese a Vittorio Emanuele suonava cosi:

“All’annuncio della guerra che Voi in nome della Nazione avete mossa all’Austria, l’animo nostro si apriva alla speranza di essere finalmente uniti alla grande famiglia italiana, alla quale sentiamo appartenere e per lingua e per confini imposti dalla natura e a noi contesi finora dalla diplomazia nemica dei popoli. Furono in breve questi nostri monti rallegrati da migliaia di volontari che la nazione, al Vostro appello, offerse con ammirabile entusiasmo. E vinsero, questi valorosi, un nemico forte di posizioni e di armi, che a noi parevano insuperabili.

Ma ora che i maggiori sacrifici sono consumati, ora che l’Austria crolla da tutte le parti, ecco che la diplomazia si pianta fra noi ed i nostri diritti, le voci di pace prendono tuttodì maggiore consistenza, sicché temiamo di noi, mentre avevamo tanto sperato pochi giorni addietro. In queste angustie, noi volgiamo una parola a Voi, che non foste mai sordo alle grida di dolore mosse dai vostri popoli; e noi siamo Vostri, perocché siamo parte della Nazione italiana, e pronti a dare per essa sostanze e vita. Impedite che l’Austria temporeggiando si rimetta, a scorno della nostra causa, ad obbrobrio della Nazione a danno dei nostri veri alleati”.

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Sotto, le firme dei consigli municipali e del clero di Storo, Darzo, Lodrone, Magasa, Bondone, Condino, Cimego, Greto, Bersone, Brione, Strada, Tiarno di sopra, Tiarno di sotto. Pieve di Ledro, Bezzecca, Mezzolago, Molina, Barcesina, Legos, Biacesa, Locca, Enguiso, Lenzumo. La lettera a Garibaldi che accompagnava l’ indirizzo al Re era del seguente tenore:

“Generale, Alle Vostre frequenti vittorie ci vedevamo ormai uniti alla grande famiglia italiana, alla quale apparteniamo per sentimento, per lingua, e per confini domandati dalla natura. Ma alla vigilia di vedere queste nostre speranze esaudite, intervenne la diplomazia, eterna nemica dei popoli. Essa vorrebbe ora che tanto sangue fosse sparso indarno, che l’Austria si rimettesse di forza e di baldanza a obbrobrio d’Italia e a danno degli alleati che al nostro fianco combattono con tanta gloria il comune nemico. « Voi oggi potete, o Generale, dar pieno corso alle Vostre vittorie, rompendo una volta quei vincoli che troppe volte avete sopportati con ammirabile abnegazione. Noi a ciò vi offriamo l’appoggio delle nostre braccia e delle nostre vite, orgogliosi di spenderle a pro dell’ Italia anziché serbarle alle ritorte dell’Austria. Accogliete un saluto ed un voto”.

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Più significativa ancora è una petizione inviata a Re Vittorio, per il tramite di Garibaldi dal distretto di Tione, che fu per tutta la durata delle ostilità ed anche durante la tregua in potere del nemico:

“Sire ! Italiani per origine, lingua e natura, per convinzioni ed affetti, congiunti all’Italia da vitali bisogni, noi con incrollabile fede, con animo pronto, seguimmo ansiosi lo sviluppo dell’idea nazionale, dell’unione d’Italia sotto l’augusto scettro dell’ illustre Vostra casa. Giunto il momento supremo, dacché l’ Italia è chiamata a prendere, qual nazione intera e compatta, il posto che le compete fra le grandi potenze d’Europa, noi cittadini dell’estremo suo lembo, alla M. V. umiliamo ardentissimo voto di vedere, coll’annessione del Trentino, compiuta la gloriosa opera dell’ italiana unità”.

La lettera al generale Garibaldi che accompagnava quest’altro indirizzo al Re era del seguente tenore : “Generale, Fede inconcussa, eroici conati, sublime abnegazione, a Voi, Generale, danno diritto di essere l’ interprete dei voti nostri, dei nostri bisogni. A voi quindi, per la Maestà del Re d’Italia Vittorio Emanuele II, innalziamo l’acchiuso indirizzo, e l’ innalziamo a Voi, come a colui al quale, sempre ed in tutto consacrato all’Italia, tardar deve l’istante di porre, con gloria imperitura, la corona all’edificio dell’ italiana unità”.

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Eppure, il contegno delle popolazioni della valle del Chiese e della val di Ledro non sembrò favorevole ai volontari del sessantasei. Certo le manifestazioni esteriori di quei contadini non furono entusiastiche. Ma in qual altra parte d’ Italia ebbe echi di giubilo, fra le plebi rurali, la guerra guerreggiata sulle terre loro?

I garibaldini toccarono soltanto piccolissimi villaggi, abitati da famiglie di campagnoli, quasi affatto privi di borghesia. Né le milizie irregolari erano interamente reclutate con elementi scelti e disciplinati; abbondavano gli eroi, ma non mancavano i vagabondi, e questi non andavano tanto per il sottile e facevano man bassa, quando potevano garantirsi l’impunità.

Singoli atti di reazione da parte della povera gente di quei luoghi devono dunque sembrare a noi oggi più che giustificabili. Inoltre i volontari erano troppo spregiudicati, troppo alieni da riguardi per i sentimenti religiosi che si riscontrano in tutte le popolazioni montanare, per trovare fin dal principio l’ unanimità che desideravano e pretendevano. Estrema ingenuità, grossolana inesperienza potevano poi illudere i garibaldini sopra una aperta sollevazione di quelle estreme e discoste valli trentine in favore della causa italiana.  Il quarantotto le ammoniva. L’annessione del Trentino non presentava alcuna certezza di realizzazione.

Diciotto anni prima, i volontari lombardi si erano presentati alle porte del paese in un simile disordine, con analoghe promesse. Poi, erano ripartiti abbandonandoli agli austriaci.

Lo stesso procedimento, tardo ed esitante, col quale le camicie rosse occupavano a grado a grado la regione, sempre sul punto di esserne ricacciate dagli imperiali, non rassicuravano affatto. Solo chi ignora tutta la storia del nostro Risorgimento può credere questa una stranezza e meravigliarsene. Se si pensa che quegli stessi villaggi che i garibaldini accusavano di scarso patriottismo e quasi di ostilità, avevano fornito, nel 1848, il maggior contingente di volontari alla legione trentina …

E volontari trentini, come in tutte le altre guerre dell’ indipendenza, se ne contarono a centinaia anche in questa. Ergisto Bezzi, Nepomuceno Bolognini, Filippo Manci, Francesco Martini, Camillo Zancani sono nomi che il Trentino e l’ Italia rammenteranno sempre a titolo d’onore. E fra i combattenti morirono Giovanni Giongo di Pergine e Claudio Zambelli di Civezzano, a Custoza; Giuseppe Zecchini di Molina, a Vezza; Giovanni Eccheli di Pilcante, Giovanni Mantovani di Arco e uno Schelfi di Trento, a Bezzecca. Ma assai più grande sarebbe stato il numero dei soldati trentini in questa guerra, qualora l’Austria non avesse pensato ad assicurare alle sue prigioni, ai suoi coatti domicili i migliori cittadini, e cioè coloro che agli altri sarebbero stati esempio e guida di patriottismo.

La città di Trento fu, come abbiamo visto, fin dal principio della guerra, posta sotto il più rigido regime militare ed invasa da truppe in tutte le direzioni. Sorte eguale o simile toccò a Riva e a Rovereto. Né mancarono atti di terrorismo da parte dei belligeranti austriaci. Il Manfroni, comandante della flottiglia austriaca del Garda, venuto a conoscenza di incidenti che chiaramente segnalavano l’entusiasmo della popolazione di Riva per la causa italiana, minacciò di bombardare la città, dopo la battaglia di Bezzecca abbandonata dalle autorità austriache.

VINCENZO DE LUTTI

VINCENZO DE LUTTI

Se la barbara misura non fu applicata, lo si deve al tatto e alla prudenza di Vincenzo Lutti, allora podestà di Riva, il quale riuscì in bel modo a dissuaderne il Manfroni. La minaccia ha forse connessione colla circostanza che alcuni popolani di Riva avevano aiutato sette garibaldini fatti prigionieri a Bezzecca, a fuggire nottetempo dalla Rocca ov’erano rinchiusi. Certo Angelo Floriani, contadino, li nascose in una cantina della casa Colò, donde, travestiti da bifolchi, riuscirono a raggiungere i loro corpi. Degno di nota è pure il tentativo di sollevazione del quale furono esecutori alcuni volontari trentini di Garibaldi.

BETTINO RICASOLI

BETTINO RICASOLI

Quando, il 29 luglio, si tenne in Ferrara il celebre consiglio dei ministri in cui si doveva decidere sull’accettazione dell’armistizio proposto da Napoleone, Vittorio Emanuele, Ricasoli e Cialdini furono d’opinione che si dovesse continuare anche senza l’aiuto della Prussia la guerra se non si ottenevano, oltre al Veneto, il Trentino e la linea dell’ Isonzo. Il giorno Re Vittorio, ricevendo a Rovigo Teodoro Bernhardi, inviato prussiano, gli diceva con tutta franchezza: “Giuoco l’ultima carta, lo so! Ma è quanto ho sempre fatto, e sarei disposto a fare ancora. E’ mia abitudine ! „

Evidentemente l’idea di cooperare alla conquista militare colla rivoluzione si radicava nell’animo suo, come già altre volte. Che proprio Vittorio Emanuele e il Presidente del Consiglio Ricasoli, per solito favorevolissimo a simili progetti di insurrezione, abbiano esortato a tentarla nel Trentino durante l’armistizio per rinforzare il titolo dell’uti possidetis militare, non è assolutamente provato : certo è che ai primi di agosto, mentre duravano le trattative, giunse in gran segreto al quartier generale di Garibaldi a Pieve di Bono, per parlare col generale, un messo da Ferrara.

GEROLAMO NAPOLEONE

GEROLAMO NAPOLEONE

Era il conte Gaetano Manci, ex podestà di Trento, allora presidente del Comitato nazionale trentino costituitosi a Milano. Il Manci veniva, a quanto sembra, a nome di re Vittorio, dei ministri e anche del principe Gerolamo Napoleone Bonaparte inviato dell’ Imperatore a Ferrara, per istruire Garibaldi circa un piano di insurrezione generale che doveva scoppiare in Austria durante l’armistizio, e per invitarlo a suscitare il moto nel Trentino, nonché ad Ampezzo e Livinallongo, vallate venete aggregate al Tirolo.

Questo movimento, appoggiato poi da Garibaldi ed eventualmente dall’esercito regolare, avrebbe servito, nelle trattative di pace, in base all’ uti possidetis , a pretendere l’aggregazione del Trentino e di quelle vallate al regno d’Italia.

GARIBALDI

GARIBALDI

Già il 18 luglio Giuseppe Garibaldi, nel suo appello ai trentini, aveva inserito, forse per consiglio di Francesco Crispi, queste parole: ” Voi prodi, voi non potete attendere inerti la vostra liberazione. Rompete ogni intrigo diplomatico, date di piglio alle vostre famose carabine e venite fra le nostre file”.

Dopo il colloquio con Gaetano Manci, il Generale mandò a chiamare due trentini che militavano nelle sue schiere, e cioè il conte Francesco Martini e Filippo Manci (cugino di Gaetano); parlò ad essi del progetto e chiese se il divisato moto rivoluzionario nel Trentino sembrasse loro attuabile. “Il conte Martini – narra il Brentari sulla guida delle memorie Martini – fece subito osservare a Garibaldi che quel moto era estremamente difficile. I migliori giovani trentini, insigni per patriottismo, erano nelle file dell’esercito regolare italiano, o nelle schiere garibaldine; i vecchi patrioti, sui quali si sarebbe potuto contare con tutta sicurezza, erano stati arrestati, ed internati nelle province austriache della monarchia; la gioventù atta alle armi era, per forza di leva, nell’esercito austriaco, quasi tutto sui campi di Boemia: il paese era pieno di soldati, e sotto l’incubo d’un rigoroso stato d’assedio”.  — Ed allora — interruppe Garibaldi — che facciamo? — La sola cosa possibile — rispose il conte Martini — è, secondo me, questa: organizzare una parvenza di rivoluzione, facendo entrare alcuni di noi garibaldini, vestiti da contadini trentini, entro la zona austriaca segnata dall’armistizio. Qualche cosa si farà; e lasciamo poi cura alla stampa ed alla diplomazia di gonfiare l’incidente ! “

L’ idea piacque al generale, che incaricò il Manci ed il Martini di organizzare la spedizione, scegliendo uomini, e prendendo armi e munizioni; e Garibaldi consegnò a Filippo Manci lire 20 mila in oro per le spese „. Una schiera di circa trenta volontari, quasi tutti trentini, fu presto riunita; e parti per Tiarno di sopra. II Brentari cita alcuni nomi : tenente Pietro Fontanari, sergente G. B. Cattarozzi, caporale Primo Dalmaso, conte Gerolamo Martini, conte Aristide Martini, prof. Vigilio Inama, Simone lung, Carlo de Pretis, Antonio Tononi, Mosè Bordato, Luigi Frighello, Filippo Tranquillini, conte Gerolamo Sizzo, dott. Giustiniano Depretis, tenente Luigi Marcabruni ed Attilio Zanolli: tutti trentini.

GIUSEPPE GOVONE

GIUSEPPE GOVONE

A Tiarno di sopra convennero con loro i fratelli Sicheri, maestri ed osti a Stenico, che presentarono alcuni giovani del paese e assicurarono la partecipazione di molti montanari delle patriottiche Giudicarie. In una notte oscura, sotto una pioggia dirottissima, i cospiratori partirono. Avevano mandato di spingersi entro la zona ancora occupata dagli austriaci, sorprendere all’ improvviso qualche corpo di guardia o posto di gendarmeria, metterlo in fuga, sparger voce di quell’avvenimento, far credere si trattasse di un principio di rivoluzione. Francesco Martini si era posto in comunicazione coi suoi amici di Riva e di Trento, che dovevano insorgere, abbattere le aquile imperiali, e fare un segnale concertato, in seguito al quale, dalla villa dei conti Martini, situata presso il paese dei Campi, i volontari sarebbero scesi a sostenere il moto rivoluzionario.

Ma il Martini e i suoi compagni attesero invano. L’ordine telegrafato a Garibaldi di sgombrare il Trentino mandò a monte ogni preparativo. E le sessanta carabine spedite per armare i futuri insorgenti ripassarono, dietro le meste truppe dell’Eroe, il vietato confine. Giuseppe Mazzini, dal canto suo, aveva consigliato Medici e Garibaldi, tramite messi fidati, a rompere ogni indugio e a marciare su Trento ancor mentre durava la tregua d’armi, ma le sue pressioni non ebbero effetto.

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L’11 agosto tutto era finito. Un po’ di storia delle lunghe ed inutili trattative dedicate alla questione trentina non riuscirà tuttavia inutile. I concetti e gli scopi che avevano guidato il Governo italiano nella stipulazione dell’alleanza colla Prussia non erano stati troppo precisi.

Nel dar pubblico conto delle trattative di Berlino, affidate all’ambasciatore Barral e all’ inviato general Govone, il La Marmora si era servito di un termine assai vago, dicendo che intento dell’alleanza era di ottenere “la cessione al Regno dei territori italiani soggetti all’Austria„. Ma il trattato concluso era formulato ben diversamente.

Il colonnello Edoardo Driquet, intelligente ufficiale spedito a Berlino al seguito del generale Govone, richiamò l’attenzione di quest’ultimo sulla questione del Trentino; e il Govone annunciò per telegrafo il 28 marzo a Firenze che dovendosi rinunciare ad alcuni punti del trattato per l’opposizione trovata nei ministri prussiani, si poteva far valere questa rinuncia a mo’ di concessione per ottenere oltre alla consegna del Veneto anche quella del “Tirolo italiano fino alla cresta delle Alpi”.

Ma il Bismarck, che non ne voleva sapere di urtare prima del tempo le suscettibilità degli altri stati della Confederazione (cui il Trentino apparteneva), si schermì abilmente da questa proposta e proseguì i negoziati col Barral tenendosi alla larga dal Govone.

LA MARMORA

LA MARMORA

Sotto l’influenza delle conversazioni avute col cancelliere, il Barral il 30 marzo scriveva al ministro La Marmora che il Trentino faceva parte della Confederazione germanica, e che perciò non ne poteva essere in antecedenza stipulata la cessione; che questa sarebbe tuttavia potuta avvenire durante o dopo la guerra, specialmente se il Governo italiano avesse indirizzato un appello a quelle popolazioni. Cosicché l’art. 4 del trattato definitivo si riferì al solo Veneto, non già ai “territori italiani soggetti all’Austria„ come pubblicò il La Marmora.

Del resto, nel 1865 il Governo italiano aveva usato una formula altrettanto imprecisa e generica quando per mezzo del Malaguzzi aveva trattato a Vienna per la cessione pacifica del Veneto mediante una somma pecuniaria che doveva aggirarsi intorno al mezzo miliardo di lire.

EMILIO VISCONTI VENOSTA

EMILIO VISCONTI VENOSTA

Dorante la guerra, l’Austria non mancò di protestare contro l’invasione del territorio federale: ma ogni legame fra gli stati della Germania era stato rotto dalla Prussia, e le sue recriminazioni non valsero a impedire le spedizioni di Garibaldi e di Medici.

Il 5 luglio Emilio Visconti-Venosta, come Ministro degli Esteri annunciava al conte Nigra, ministro a Parigi, il telegramma di Napoleone che d’incarico di Francesco Giuseppe proponeva a Vittorio Emanuele la cessione della Venezia sotto la condizione dell’armistizio; e incaricava il Nigra stesso di rispondere che l’ Italia non poteva accettare senza aver prima sentito la Prussia e diretto tutti gli sforzi alla liberazione delle popolazioni italiane soggette all’Austria, ma non comprese nella delimitazione amministrativa del Veneto.

Questo dispaccio del Visconti- -Venosta si incrociava con un altro dispaccio spedito dal Nigra lo stesso giorno (6 luglio) nel quale si diceva quasi lo stesso: “Aggiunsi inoltre (al Ministro degli Esteri francese) che la denominazione Venezia nel pensiero del r. Governo avrebbe dovuto comprendere il Trentino, che è posto sul versante italiano delle Alpi, che è abitato da una popolazione prettamente italiana”.

NIGRA

NIGRA

 Pochi giorni appresso il ministro Visconti- -Venosta, nel dare al Nigra le basi dell’accomodamento per l’armistizio (9 luglio), gli scriveva testualmente: “ … Il Governo italiano si riserva espressamente di sollevare nei negoziati per la pace la questione del Trentino. Noi reclamiamo la riunione di quel territorio alle Province venete cedute, per la duplice considerazione della nazionalità e della sicurezza delle frontiere.

La Francia consentirebbe ad appoggiare questa domanda”. Senonché, in attesa delle determinazioni del Governo di Berlino, le trattative andavano per le lunghe, e solo il 25 luglio il Visconti-Venosta conosceva quali fossero le vedute della Prussia riguardo alla questione da lui sollevata. Il Menabrea infatti, da Nikolsburg, in data 23 gli telegrafava che fra i plenipotenziari austriaci e il conte di Bismarck si erano già aperti colloqui che non lasciavano alcun dubbio sulla prossima conclusione dell’armistizio fra Austria e Prussia; ma che il Bismarck gli aveva spiegato “gli importanti motivi pei quali il Governo del Re di Prussia doveva, nelle circostanze attuali, in quanto ai confini da assicurare come condizione sine qua non dell’armistizio, limitare le sue richieste al Veneto propriamente detto”.

OTTO VON BISMARCK

OTTO VON BISMARCK

Era la seconda volta che il futuro gran Cancelliere dell’ Impero giocava l’ Italia sulla questione trentina. Pensava forse ad una via aperta per l’avvenire della razza tedesca, secondo il concetto degli imperatori medioevali e dei pangermanisti contemporanei ? Il mancato appoggio di Bismark non scoraggia il Gabinetto italiano, il quale si fa di nuovo ad invocare l’aiuto di Napoleone III.

E mentre il Visconti Venosta risponde al Menabrea a Vienna (25 luglio) riconfermando le condizioni dettate dal Governo italiano in data 9 luglio, ordina al Nigra di premere a Parigi per spuntarla sull’uti possidetis militare come condizione per la sospensione delle ostilità, e sulla consegna del Trentino come condizione di pace.

Frattanto, il 26 a Nikolsburg la Prussia, senza consultare l’ Italia, concludeva coll’Austria l’armistizio ; e l’ Italia ormai doveva adattarsi a fare altrettanto. Avuta notizia del poco leale abbandono della Prussia, il Ricasoli, presidente dei ministri, convocò in Ferrara un Consiglio presieduto da Re Vittorio e al quale intervennero i generali La Marmora e Cialdini, il ministro della guerra Pettinengo e il ministro della Marina Depretis.

Non era presente Visconti-Venosta, ministro degli affari esteri. Scopo del Consiglio era di stabilire il da farsi nel caso che le condizioni poste all’armistizio dall’Italia (fra le quali l’uti possidetis e la delimitazione dei confini) non fossero accettate. Subito si delinearono due correnti: il Re, Ricasoli e Cialdini volevano continuare anche da soli la guerra, in caso di rifiuto; il La Marmora invece credeva questo progetto imprudente e ineseguibile e consigliava di dichiararsi per il momento contenti del Veneto, salvo a risollevare in seguito la questione del Trentino.

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È bene ricordare, comunque, che il principe Gerolamo Napoleone Bonaparte, cugino dell’Imperatore, aveva fin dal 28 comunicato a Re Vittorio un dispaccio del sovrano francese, il quale faceva propri i termini prefìssati dall’Italia per l’armistizio. Dopo il Consiglio dei ministri del 29, Visconti- -Venosta, che non vi era intervenuto, rammentava ancora al Nigra a Parigi la questione dei confini del Veneto “i quali dovrebbero essere portati all’Isonzo e ad una linea che attraversi la valle dell’Adige al sud di Bolzano e al nord di Trento.

E il Nigra a sua volta, in una nota verbale al Ministro degli Affari Esteri di Francia (30 luglio), dichiarava che l’annessione del Trentino al Regno era d’importanza fondamentale per il suo Governo, e ricordava come quel territorio dovesse considerarsi parte integrante d’ Italia sotto tutti i punti vista: etnico, storico, geografico, economico, militare.

Ecco il testo preciso della nota verbale del Nigra (tradotta dal francese):

“Nel consentire all’armistizio, il Governo italiano si è riservato di trattare nei negoziati di pace la questione dei confini. Sotto questa denominazione il Governo italiano farà valere i suoi reclami riguardanti il Trentino. Il Governo del Re confida che l’ Imperatore e il suo Governo vorranno appoggiare questa domanda. L’annessione del Trentino al Regno è essenziale per l’Italia.

Questo territorio etnicamente, geograficamente, storicamente e militarmente parlando, appartiene alla penisola. L’ Italia non domanda tutto quel tratto di Tirolo italiano che era annesso all’antico Regno d’Italia col nome di dipartimento dell’Alto Adige. La sua richiesta si limita esclusivamente alle popolazioni italiane. Già nel 1848 lord Palmerston, in una lettera al Hummelhauer proponeva di porre il confine fra Austria e Italia sopra una linea da tracciare fra Bolzano e Trento.

Queste popolazioni hanno le stesse aspirazioni nazionali che le altre popolazioni della Venezia. Esse parlano la medesima lingua. Esse ricavano i loro mezzi di sostentamento dall’Italia. Se esse si separassero dal regno d’ Italia, si troverebbero rinchiuse, come un tempo la Savoia, fra una barriera doganale al sud ed una barriera di montagne al Nord e non troverebbero, nelle loro gole anguste e sterili, le stesse risorse che le popolazioni della Savoia trovavano in un territorio più esteso e più fecondo. Malgrado la cessione del Trentino, l’Austria avrebbe ancora in suo possesso le migliori posizioni del versante meridionale alpino, mentre questo territorio permetterebbe all’Italia di fortificare tutt’al più Verona dalla parte della Germania, con uno scopo difensivo.

Infine l’Austria, padrona del Trentino, minaccia contemporaneamente il Veneto, Brescia e Milano e si mantiene sul lago di Garda. La bandiera austriaca continuerebbe a mostrarsi sulle rive di Salò e di Desenzano, come davanti a Peschiera. Tale questione è dunque estremamente importante. Dalla maniera nella quale sarà risolta dipenderà in gran parte l’instaurazione di rapporti definitivamente amichevoli fra l’Austria e l’Italia”.

Del tutto somiglianti erano le raccomandazioni che il generale Govone, inviato a Nikolsburg presso il Bismark, rivolgeva a quest’ ultimo dopo la conclusione dell’armistizio fra Prussia e Austria. Al che il cancelliere prussiano rispondeva che tali aspirazioni potevano essere apprezzate in altre future contingenze e che se qualche complicazione fosse sorta durante i negoziati o dopo la pace, egli sarebbe stato disposto a rinnovare il trattato dell’8 aprile, dando al medesimo una maggiore estensione, secondo i desideri d’ ingrandimento dell’ Italia.

Gli stessi trentini, che dal ’48 in poi non avevano mai cessato di agitare la loro questione di fronte agli italiani, sentirono il desiderio di invocare l’appoggio del Governo francese. Senonché la voce che una deputazione di emigrati trentini, triestini ed istriani dovesse partire per Parigi allo scopo di chiedere l’aiuto di Napoleone III, suscitò aspre rampogne da parte della stampa italiana.

La Nazione di Firenze pubblicò una censura che aveva tutta l’apparenza di un comunicato partito direttamente dal Presidente del Consiglio Ricasoli. Il più caldo propugnatore di questo progetto era Antonio Balista di Rovereto, che allora si trovava a Parigi ; ma Albino Jacob ed altri trentini residenti in Italia avrebbero preferito dapprima rivolgere direttamente un appello al Governo italiano, e soltanto poi sollecitare l’ausilio di Napoleone. Cosi passarono i giorni e le settimane in continui scambi di lettere fra Parigi, Brescia e Milano, finché, occupata una parte del Trentino dalle truppe italiane, le stesse popolazioni trentine, come abbiamo visto, poterono per mezzo dei loro legittimi rappresentanti far pervenire a Garibaldi, al Re e al Governo i voti per la redenzione del loro paese.

Ma l’atteggiamento risoluto ed intransigente dell’Austria fece cadere anche il sostegno dell’Impero francese. Il 6 agosto il generale Bariola, recatosi a Cormons per concludere l’armistizio, ritornò al quartier generale senza aver potuto trattare, perché gli austriaci respingevano la prima delle condizioni pattuite dall’Italia colla potenza mediatrice, e cioè l uti possidetis militare. Il Gabinetto di Vienna si era rifiutato di aderirvi anche di fronte alle pressioni del Gabinetto di Parigi, nella considerazione che il possesso militare sarebbe stato messo innanzi dall’ Italia nei negoziati di pace come titolo d’acquisto.

Drouyn de Lhuys, ministro degli Esteri di Francia

Drouyn de Lhuys, ministro degli Esteri di Francia

E Drouyn de Lhuys, ministro degli Esteri di Francia, doveva dichiarare al Nigra (8 agosto) che deplorava l’ incidente, e che aveva fatto a Vienna, per ottenere il consenso alla clausola dell’ uti possidetis, tutte le possibili istanze, tranne quelle che implicassero una sanzione coercitiva.

Senonchè il Gabinetto di Vienna era stato irremovibile nel suo rifiuto; aveva anzi preteso lo sgombero del Trentino come condizione preventiva per aderire all’armistizio. Completamente abbandonata dalla Prussia, coadiuvata dalla Francia con semplici parole, l’Italia, per non essere costretta a riprendere la guerra da sola contro l’intero esercito austriaco, dovette piegarsi.

Né maggior fortuna toccò alla questione trentina nelle trattative di pace. Due volte fu dai delegati italiani toccato il tasto relativo alla rettifica dei confini, e cioè nella quarta seduta (10 settembre) e nella diciottesima (28 settembre). La prima volta il Wimpffen, plenipotenziario austriaco, si dichiarò senza istruzioni al riguardo, la seconda francamente asserì che il suo Governo non poteva consentire nell’articolo relativo ai confini la riserva di addivenire in seguito a negoziati per una ulteriore rettifica dei medesimi, perché i trattati austro-francese e austro-prussiano, che servivano di base alla pace italo-austriaca, non parlavano che di cessione della Venezia.

Il Menabrea, ambasciatore a Vienna, non tralasciò di esporre in conversazioni confidenziali quale era il pensiero del Governo italiano sulla questione trentina: insistette sulla pretta italianità di quel paese, sui sentimenti delle popolazioni, favorevoli all’Italia, e sulle numerose manifestazioni legali in tal senso; sul nessun vantaggio difensivo che il Trentino presentava per l’Austria, la quale per garantirselo avrebbe dovuto costruirvi fortezze costosissime e porvi a guardia considerevoli forze militari, mentre cedendolo poteva poi con poche truppe assicurarsi a nord di Trento, alla chiusa di San Michele.

Il Menabrea affacciò anche l’ipotesi che a tale cessione l’ Italia potesse corrispondere con un compenso pecuniario. Ma non nutrendo speranza di risolver subito la questione del Trentino (già pregiudicata dall’armistizio), insistette sul!’ urgenza di provvedere alla rettifica delle frontiere verso il Garda e l’Isonzo. Il 3 ottobre la pace era firmata senza che l’Austria si piegasse né a compromettersi in alcun modo circa l’alto bacino dell’Adige, né ad ammettere un’ ulteriore revisione della frontiera sul Lago e sull’Adriatico.

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Rientrando in possesso delle valli occupate dagli italiani, gli austriaci non mancarono di esercitare rappresaglie contro coloro che più apertamente degli altri avevano fatto causa comune con gli invasori. Molte famiglie della Valsugana, che erano state larghe di ospitalità verso la divisione Medici, dovettero ben presto porsi in salvo.

La casa Rinaldi di Levico, ove aveva alloggiato il generale Medici in persona, fu dalle truppe austriache rientrate in paese orribilmente devastata e saccheggiata. Il conte Hohenwarth, d’ordine del Governo, impose ai comuni della Valsugana di sottoscrivere, entro due giorni, un indirizzo di fedeltà e di lealtà all’Imperatore, aggiungendo testualmente: “S’ intende da sé che questo addrizzo {sic) deve figurare come esteso spontaneamente dal Comune, non già in base ad un suggerimento dell’autorità … I comuni recalcitrarono con tutti i mezzi, e solo dopo le più gravi minacce sottoscrissero una dichiarazione che valeva in ragione della procedura colla quale era stata estorta.

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Nel giorno natalizio dell’Imperatore (18 agosto) il municipio di Trento fu forzato ad accender luminarie e fuochi d’artifìcio, ed il podestà ad assistere ad un banchetto imbandito all’ufficialità sotto la tettoia della stazione. Questi erano i mezzi, coi quali l’Austria si sforzava di dimostrare che le condizioni di pace da essa imposte all’Italia collimavano col sentimento della popolazione ricompressa sotto il suo giogo.

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Militarono con Garibaldi, nella campagna del Trentino, più di 200 volontari: Abbondi Carlo, Agostini Bortolo, Ajani Antonio, Angelini Antonio, Armani Giandomenico, Artel Angelo, Battistoni Cristiano, Battocchi Cerino, Bazzeda Giuseppe, Bertarelli Bortolo, Bertini Giacomo, Bezzi Ergisto, Bolognini Nepomuceno, Bommassar Giuseppe e Pietro, Bonapace Carlo e Giuseppe, Bonetti Francesco, Bordato Mosé, Bozzoni Luigi, Braito Giuseppe, Brandolani Luigi, Brazzali Domenico, Bresciani Domenico ed Eugenio, Bricio Gaetano, Bronzetti Oreste, Brugnara Giulio, Brunelli Angelo, Luigi e Giacomo, Brunori Antonio, Buffi Ignazio, Camelli Amedeo e Giuseppe, Candelpergher Pietro, Condotti Benedetto, Canella Isidoro, Canossi Benvenuto, Cappelletti Domenico, Cattarozzi Eugenio e Giambattista, Catturani Marcello, Ceola Baldo, Chiesa Vincenzo, Ottone e Tommaso, Chiesura Francesco, Chimelli Carlo, Chini Michele, Cicolini Luigi, Cortella Agostino e Paolo, Costa Francesco, Covi Vigilio, Cumerlotti Tommaso, Dallabona Gaetano e Giovanni, Dal Lago Adriano, Dalmaso Primo, Danieli Filotimo, Dante Ignazio ed Achille, De Eccher Edoardo ed Enrico, Del Monaco Bartolomeo, De Pretis Carlo e Giustiniano, Dipré Giacomo, Dona Dionisio, Dorigoni Silvio, Ducati Gustavo e Pio, Eccheli Giovanni e Luigi, Eccher Alberto, Facchinelli Francesco, Faccincani Alessandro, Fanti Giuseppe, Fava Antonio, Favelli Tommaso, Fiorolli Angelo, Foglia Carlo, Fogolari Abramo, Fontana Giuseppe, Fontanari Pietro, Frasnelli Gerardo, Frassoni Filippo, Frighello Luigi, Frizzi Cristoforo, Fronza Antonio, Furlanelli Giovanni, Galvagni Augusto, Giannazzi Giacomo e Giuseppe, Giongo Luigi, Giovannella Pietro, Grazioli Giuseppe, Grigolli Riccardo, Guberti Giuseppe, Handel Giuseppe, Iagher Francesco e Giovanni, Inama Vigilio, Iob Ermete, Iung Simone, Lanfranchi Federico, Larcher Carlo, Leonardi Francesco e Giuseppe, Limana Carlo, Lunelli Daniele, Maffei Alessandro, Malfatti Michele, Manci Filippo, Mantovani Giovanni, Marcabruni Luigi, Marchi Angelo, Marconi Giulio, Margoni Giambattista, Martignoni Domenico, Martinelli Emanuele, Martini Anacleto, Archimede, Aristide, Francesco e Gerolamo, Mattei Antonio, Mazzoni Placido, Meneguzzi Leopoldo, Mieli Pietro, Moiola Quirino, Molinari Giovanni, Moranduzzo Pietro, Morghen Ottavio, Muzio Enrico, Negri Angelo, Antonio e Giuseppe, Nodari Antonio, Oberosler Giuseppe, Orsi Luigi, Osnaider Giulio, Oss Giuseppe, Pagnoni Ermanno, Panizza Pompeo, Paoli Carlo, Parolari Deodato ed Emilio, Partel Albino, Pederzolli Antonio, Clemente, Giovanni e Pietro, Perempruner Alessandro, Pernat Giovanni, Pernisi Luigi, Piadecarnera Giovanni, Piccinini Venceslao, Possenti Angelo, Potrick Michele, Prandini Giuseppe, Luigi e Romano, Pratti Alfonso, Prez Luigi, Ravagni Angelo, Ricci Giuseppe, Rinaldi Ferdinando, Risati Angelo, Rizzonelli Giuseppe, Rocchetti Emilio, Sajani Carlo, Santoni Ermenegildo, Santuari Paolo, Sartori Enrico, Sassudelli Cesare, Schelfi N., Scozzi Giacomo, Segalla Giulio, Sizzo Camillo, Carlo e Girolamo, Sonna Anastasio, Spagolla Alessandro, Stefanini Antonio, Svaldi Giovanni, Tavernini Francesco e Giacomo, Tedeschi Giuseppe, Tiboni Giovanni, Toblini Donato, Tonini Angelo e Leopoldo, Tononi Antonio, Travaioni Giovanni, Turri Antonio, Valeri Claudio, Venturi Clemente e Riccardo, Veronesi Illuminato e Luigi, Vianini G. e Valeriano, Visintainer Augusto, Vivaldi Cristoforo, Weiss Giovanni, Zamer Sebastiano, Zancani Camillo, Zanella N., Zaniboni Amadio, Zanolli Attilio, Zanoni Adriano, Zanzotti Albino, Zatelli Giambattista, Zecchini Eugenio e Giuseppe, Zinis Alessandro. Nella stessa guerra altri 50 e più trentini militarono nell’esercito regolare: Adami Giambattista, Alberti Giovanni, Andreis Achille, Angelini N., Apicella Domenico, Armani Riccardo, Avanzo Filippo, Baratieri Oreste, Barcelli Luigi, Baruffini Fedele, Bentivoglio Michele, Berti Bartolomeo, Bettinazzi Vincenzo, Bettòlo Giovanni (nato a Genova da genitori trentini di Bieno), Bruni Patrizio, Cappelletti Luigi, Ceola Baldo, Cheluzzi Luigi, Chizzola Francesco, Condini Serafino, Cristoffolini Luigi, Dante Pantaleone e Roberto, Daziario Alessandro, Devarda N., Eccheli Carlo, Francesco e Giovanni, Fedrigoni Giovanni, Fier Marco, Giuliani Alessandro, Graziadei Giuseppe, Konninz Benedetto, Martini Federico, Marzari Leonida, Meneguzzi Giovanni, Olivieri Oliviero, Ottonelli Domenico, Paoli Alfonso, Riedmiller Simone, Romani Giuseppe, Rosanelli Antonio, Salvadori Carlo, Sardagna Giambattista, Tabacchi Tito, Tedeschi Guido, Torelli Giulio, Trentini Silvio, Valdagni Luigi, Weiss Leone, Zambelli Claudio, Zambra Antonio e Francesco, Zanzotti Giorgio.

L’ “OBBEDISCO” DI GARIBALDI

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“Obbedisco” è il contenuto del telegramma scritto da Giuseppe Garibaldi, allora capo del corpo dei volontari Cacciatori delle Alpi(Alpenjäger in tedesco), il 10 agosto 1866 in risposta al Generale Alfonso La Marmora, che gli aveva intimato di fermare la sua inarrestabile avanzata verso Trento contro gli austriaci nella Terza guerra di indipendenza. Il telegramma originale è conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato, la trascrizione che La Marmora consegnò al re, conservata fino al 1993 presso Casa Savoia, fu consegnata all’Archivio di Stato di Torino.

L’Obbedisco di Garibaldi, entrato subito e stabilmente nelle principali raccolte di citazioni, è stato anche oggetto di rappresentazioni parodiche. Non lo disse, ma lo scrisse. Il 9 agosto 1866 Garibaldi si trovava nel piccolo centro trentino di Bezzecca dove, tre settimane prima, aveva respinto un contrattacco austriaco guadagnando l’unica grande vittoria italiana nella Terza guerra d’Indipendenza. Con i suoi “Cacciatori delle Alpi”, il generale si preparava a entrare nella regione (allora parte dell’impero austro-ungarico) per liberare Trento.

A fermarlo fu la notizia dell’ormai prossimo armistizio tra Italia e Austria, giunta quel giorno assieme all’ordine del generale La Marmora di sgomberare il Trentino entro 24 ore. Allora Garibaldi impugnò la penna e, in risposta, scrisse la famosa frase: “Ho ricevuto il dispaccio n. 1073. Obbedisco. G. Garibaldi”.

La cessazione delle ostilità fu sancita il 12 agosto con l’armistizio di Cormons, e il 3 ottobre fu firmata la pace, a Vienna. L’Italia con questo accordo perse l’occasione di liberare Veneto e Trentino. Il primo fu comunque annesso al Regno d’Italia in ottobre. Per il Trentino si dovette aspettare 49 anni, e lo scoppio della prima guerra mondiale. 

“UTI POSSIDETIS”: COSA VUOL DIRE?

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L’espressione giuridica uti possidetis (letteralmente così come possedete) appartiene alla terminologia diplomatica ed esprime un criterio di comportamento nelle trattative internazionali sulla sovranità territoriale, secondo il quale viene riconosciuto valido il mantenimento della sovranità su un determinato territorio quando questa, in certe situazioni, è stata già in qualche modo acquisita (anche attraverso una occupazione militare) da parte di una nazione. Viene quindi trasformato un possesso (stato di fatto) in proprietà, o meglio, sovranità (stato di diritto). La formula opposta è status quo ante bellum.

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