IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 12

Con questa dodicesima puntata  ci avviciniamo sempre di più alla famosa battaglia di Bezzecca (quella dell’altrettanto famoso “Obbedisco” di Garibaldi). Si parte dallo sfasciamento della Confederazione Germanica per arrivare ai preparativi dell’Austria per la difesa del Trentino. Quindi il reclutamento e l’organizzazione dei volontari. La guida di Garibaldi nelle valli trentine di confine con i combattimenti del Caffaro, gli scontri di Darzo e Lodrone e i preparativi per l’assedio del Forte d’Ampola.  Propongo anche due video su Garibaldi che, nel 1866, è l’indiscusso protagonista di questi eventi.

TUTTO SU GIUSEPPE GARIBALDI

GARIBALDI

GARIBALDI

GARIBALDI “SPIEGATO” AGLI STUDENTI

a cura di Cornelio Galas

La guerra del 1866 era determinata in modo da lasciar sperare ai patrioti trentini più che non avessero sperato in passato. L’ostacolo che nel 1848 aveva trattenuto al Caffaro le truppe del generale Durando, e che nel 1859 aveva vietato al generale Cialdini di proseguire sulla via di Trento, s’ infrangeva rumorosamente all’atto stesso della dichiarazione di guerra.

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La Confederazione germanica non c’era più. I ducati di Holstein, Lauenburg e Schleswig, ritolti alla Danimarca dalle forze riunite dell’Austria e della Prussia (1864), furono la causa della rottura definitiva fra le due grandi rivali che si disputavano il dominio del centro d’Europa e dello sfasciamento di quel miserabile organismo politico che col nome di Confederazione tedesca si era preteso surrogare, nel 181 5, al defunto impero romano-germanico. A Gastein (14 agosto 1865) si era convenuto fra le due potenze, che il Lauenburg fosse ceduto in proprietà alla casa di di Hohenzollern, e che gli altri due ducati venissero amministrati separatamente dall’ Austria (Holstein) e dalla Prussia (Schleswig). Questo compromesso lasciò uno strascico di litigi fra i due Stati, finché le milizie di re Guglielmo, sotto il pretesto che il governatore austriaco dell’Holstein avesse violato gli accordi, invasero il ducato (8 giugno 1866). L’Austria, che nel frattempo ha accelerato gli armamenti, si ritira dal Holstein per evitare una collisione immediata, ma alla Dieta germanica, già convocata, propone di mobilitare i contingenti federali per ridurre a dovere la sua rivale.

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L’invito è accettato dalla maggioranza degli stati tedeschi (14 giugno), mentre è rigettata ima controproposta della Prussia per una riforma alla costituzione della Confederazione. Il 16 giugno il Monitore prussiano annunzia ufficialmente che il patto federale germanico è rotto per volere della Dieta medesima: lo stesso giorno la guerra è dichiarata all’Hannover e alla Sassonia, e il 18 all’Austria.

L’Italia, alleata della Prussia, era perciò in piena libertà di agire tanto in direzione del Veneto, che non aveva mai appartenuto alla Confederazione tedesca, quanto in direzione del Trentino, che per lo scioglimento del patto federale disdetto dalla Prussia non vi apparteneva ormai più. Prima ancora dello scoppio delle ostilità aveva l’Austria intuito questo pericolo e adottato le più rigide misure per conservare un territorio, che la politica tradizionale della dinastia e la stessa ragion militare le facevano sembrare indispensabile al suo potere.

HOHENWART

HOHENWART

Come nel 1848 e nel 1859, mentre i tirolesi accorrevano volontariamente ad ingrossare le file dell’esercito austriaco, i trentini si arruolavano sotto Garibaldi o si astenevano dal combattere. Il che era constatato dal consigliere aulico Hohenwarth nell’atto di comunicare al Municipio di Trento l’appello imperiale del 17 giugno: “L’assodare la confidenza negli atti dell’ i. r. governo riuscirà tanto più facile in quanto che la popolazione anche di questa nostra parte meridionale del Tirolo professa i medesimi sentimenti di fedeltà e di attaccamento all’Augusto nostro Sovrano, che il Tirolo settentrionale, più esperto nel maneggio delle armi, va a constatare schierando di bel nuovo al minacciato confine i suoi figli collo sperimentato schioppo in mano {sic). In seguito a un rescritto di sua serenità il Principe Luogotenente invito il Civico Magistrato a coltivare questo spirito patriottico della popolazione, a rinvigorirlo sempre più e a confortarlo alla lieta prospettiva del completo atterramento d’ un nemico che col suo desiderio di rapina {sic) dal 1859 a questa parte minaccia i nostri confini, e non lascia questa laboriosa popolazione pacificamente godere i frutti dei propri sudori.

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Tre giorni dopo (23 giugno) a conferma di questa vantata fiducia veniva decretato a Trento lo stato d’assedio, mentre alcuni cittadini sospetti di eccessivo patriottismo erano relegati nell’ intemo dell’impero.  Alla vigilia della guerra furono allontanati Angelo Ducati, Sigismondo Manci, Giambattista Tambosi, Pietro Larcher, Giovanni Depretis, Giuseppe Santoni, Fortunato Zeni; durante la guerra: Francesco Bertolini, Matteo Catoni, Alessandro Amorth e Gerolamo Serafini.

IL MARESCIALLO HABERMANN

HABERMANN

E il 24 giugno l’i. r. tenente maresciallo Habermann attivava “nel regno Lombardo Veneto, nel Tirolo meridionale (preesistito circolo di Trento) e per tutto il territorio della i. r. luogotenenza di Trieste, il giudizio statario colla pena di morte mediante fucilazione, contro quelle persone del ceto civile e militare, le quali commettessero il crimine contro la forza armata dello Stato, a tenore del § 327 del codice penale militare„.

Quanto alla difesa militare del territorio, molto era già disposto qualche settimana prima della rottura delle ostilità. I punti già fortificati erano apprestati a difesa: Trento veniva contornata da una linea di opere da campagna formanti una specie di campo trincerato. Intorno al castello si costruirono poi sei opere chiuse, dodici batterie, due parapetti per pezzi da montagna e sette per il tiro dei razzi ; si fortificarono sette grandi edifici situati fuori del caseggiato e l’interno stesso della città fu preordinato alla resistenza con un armamento complessivo di 47 cannoni. A Lardaro 3 forti e 20 cannoni, all’Ampola 2 casamatte e 2 cannoni, presso Riva una batteria sulla strada del Ponale e due batterie con 15 cannoni sulla strada di Mori (a Nago) ; a Malcesine una batteria a 6 cannoni, a Buco di Vela (Cadine) 2 opere e 7 cannoni, presso il Tonale un’opera con 6 cannoni, alla Rocchetta (sopra Mezzolombardo) 2 opere e 8 cannoni, al ponte di Mostizzola sul Noce una doppia testa di ponte con 7 cannoni, allo Stelvio 7 cannoni.

FORTE AMPOLA

FORTE AMPOLA

Il comando delle truppe nel Tirolo era affidato al generale Kulin, espertissimo nella guerra di montagna. Alla fine di maggio le truppe austriache a difesa del Tirolo e del Trentino erano cosi composte e dislocate: Mezza brigata del tenente colonnello Thour, con sede a Riva; comprendente un battaglione di fanteria principe ereditario di Sassonia (4 compagnie a Riva, 1 a Tiarno e 1 a Pieve di Ledro), un plotone del 5° squadrone ulani di Trani (a Riva), due compagnie del 6° battaglione dei cacciatori tirolesi (una a Riva e una a Arco), una batteria da montagna.

IL GENERALE KULIN

IL GENERALE KULIN

Quindi: Mezza brigata del tenente colonnello Hoffern, con sede a Tione, comprendente il 2° battaglione principe ereditario di Sassonia (dislocato fra Tione, Bolbeno, Condino e Storo), due compagnie del 1° battaglione dei cacciatori tirolesi (1ìuna compagnia a Campo e una a Cavrasto), un plotone del 5° squadrone ulani di Trani (a Tione) e una batteria da montagna. Mezza brigata del maggiore Albertini, con sede a Malé; comprendente il 3° battaglione fanteria arciduca Ranieri (dislocato fra Malé, Croviana, Cles, Cusiano e Pelizzano), due compagnie del reggimento cacciatori tirolesi (a Cis, Preghena, Livo ed altri paesi), un plotone del 5° squadrone degli ulani di Trani (a Malé) e una batteria da montagna. E ancora: Mezza brigata del maggiore von Metz, in val Venosta e allo Stelvio. Brigata di riserva del generale von Kaim con sede a Trento, comprendente 4 compagnie del 1° battaglione cacciatori (dislocate a Vezzano, Calavino, Sarche e Padergnone), tre battaglioni (18 compagnie) del reggimento fanteria Ranieri (in val d’Adige, fra Merano, Bolzano e Trento), un plotone del 5° squadrone ulani di Trani, 1 batteria da campagna e 1 batteria di razzi. Brigala di riserva del colonnello Montluisant, con sede a Trento; comprendente il 1° battaglione di fanteria granduca d’Assia fra Trento, Pergine e Civezzano, 4 compagnie del 6° battaglione cacciatori tirolesi fra Rovereto, Sacco, Mori e Calliano, e una batteria da montagna a Trento. In totale le truppe del Kuhn sommavano a 15 o 16 mila uomini.

MONTLUISANT

MONTLUISANT

Se le disposizioni prese dall’Austria per la difesa del suo dominio nel Trentino erano oculate e provvide, non altrettanto seria era la preparazione colla quale l’Italia si accingeva ad invadere quel territorio. Quantunque tutti gli ordini riguardanti la mobilitazione dell’esercito fossero stati emanati fin dal mese di aprile, alla organizzazione dei volontari si era pensato tardi e male.

Il La Marmora, allora presidente del Consiglio, considerava l’armamento delle milizie irregolari come una soddisfazione voluttuaria da offrire all’opinione pubblica più che come un provvedimento necessario ad agevolare il buon esito della campagna. A comandante supremo dei volontari era alla metà di maggio nominato Giuseppe Garibaldi che si trovava allora a Caprera.

Ma la sua presenza sul continente era temuta, e perciò lo si pregava di non muoversi: cosi le truppe che dovevano obbedirgli erano raccolte e disciplinate all’infuori del suo intervento e della sua responsabilità. Come è noto, Garibaldi accarezzava il progetto di sbarcare i volontari su Trieste per prendere alle spalle l’esercito austriaco; ma al Ministero non parve conveniente decidere ciò  in un momento nel quale il disegno, conosciuto in Germania, avrebbe vieppiù diffuso fra i vari stati tedeschi le ostilità, già vive, contro la Prussia.

Preferì quindi tenere i garibaldini all’ala sinistra dell’armata regolare che operava sul Mincio, pronti ad invadere il Trentino quando la questione riflettente la Confederazione germanica fosse stata decisa dal contegno risoluto della Prussia. Non era peraltro escluso che il progettato sbarco a Trieste potesse avvenire a guerra cominciata, quando i vari stati della Germania si fossero schierati pro o contro la Prussia e quando l’esercito italiano si fosse assicurato una forte posizione nel Veneto.

Il 14 maggio si aprivano gli arruolamenti fra i volontari, e la gioventù italiana rispondeva all’appello con slancio incomparabile. Il Ministero aveva previsto 14 o 15 mila iscrizioni: si presentarono invece fin dai primi giorni circa 30 mila uomini. Impreparato, il Governo dovette sospendere gli arruolamenti e impiantare in fretta e furia altri quattro depositi (Varese, Gallarate, Barletta, Bergamo) oltre ai due già esistenti a Como e a Bari, portare i battaglioni di cui era prevista la formazione da venti a quaranta, raddoppiare e triplicare i mezzi d’armamento e di corredo. Ad onta di ciò la imprevidenza e la confusione che presiedettero alla formazione di questi corpi lasciarono per tutta la durata della guerra segni tanto dolorosi quanto incancellabili.

LA MARMORA

LA MARMORA

Quei trenta o quaranta mila volontari non potevano infatti essere peggio istruiti, peggio inquadrati, peggio equipaggiati, peggio armati. I più si iscrivevano fra i combattenti senza saper neanche caricare un fucile, senza addestramento alcuno alla marcia e agli esercizi militari, e quasi tutti affatto nuovi alla montagna. Gli ufficiali che dovevano comandarli erano scelti all’ultimo momento da commissioni di scrutinio che badavano a fare alla svelta e li mettevano a posto alla rinfusa a mano a mano che si presentavano. Non si esigeva da loro né la famigliarità alla vita di caserma, né la pratica del combattere, né l’abitudine alla montagna, né un titolo sufficiente di capacità ad istruire reclute e a portarle al fuoco.

A capo di un reggimento era posto un audace cospiratore, a capo di un altro un ufficiale sottratto alla guarnigione di una piazzaforte; lo stato maggiore dei comandi rigurgitava di uomini politici affatto profani al tecnicismo tattico e logistico. Ufficiali della guardia nazionale che nella campagna del 1860-61 si erano da sé creati comandanti di corpo, sebbene digiuni di ogni cognizione militare, venivano ammessi collo stesso grado nel nuovo esercito garibaldino. Anche la composizione e l’articolazione dei corpi era infelicissima e del tutto inidonea alla guerra cui si accingevano. I reggimenti avevano una forza spropositata : 4000 uomini circa, e comprendevano quattro battaglioni di ben sei compagnie ciascuno. Come guidarli con ordine, con prontezza, con energia attraverso le anguste valli che dovevano contenerli? Miserabile appariva l’equipaggiamento di quei militi: a chi mancavano le scarpe, a chi i pantaloni, a chi la biancheria. Molti, lasciati senza cinturino e senza fodero per la baionetta, dovettero appendersela nuda al fianco con un pezzo di spago, e altri, non avendo cartuccere né zaino, ripararono le cartucce fra le pieghe della coperta che portavano a tracolla, salvo a gettarle addirittura quando la pioggia le aveva rese inservibili.

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Difettava il necessario per attendarsi, per coprirsi, per consumare i pasti. I fucili distribuiti ai volontari erano di un modello ormai antico: pesanti a trasportare, lenti a caricare, tardi ad esplodere, quasi incapaci a colpir nel segno, soggetti a guasti d’ogni genere. Da un corpo all’altro però si riscontravano grandi differenze e nel reclutamento e nell’equipaggiamento e nella disciplina. Assai migliore degli altri era, ad esempio, il secondo battaglione bersaglieri; quasi del tutto disorganizzato il 2° reggimento fucilieri.

Si aggiunga l’insufficienza e la cattiva qualità delle munizioni e l’inesperienza dei tiratori, e si comprenderà come il fucile giovasse a molti meno ancora che un bastone da passeggio. E l’inefficacia del tiro, aggravata nelle sue conseguenze dalla precisione del fuoco del nemico, fu una causa non lieve di scoramento a di demoralizzazione per i nostri. Infatti, mentre i volontari italiani erano costretti a tenersi coperti il più possibile contro i ben aggiustati colpi dei tiratori tirolesi, dovevano al tempo stesso constatare con amarezza che il fuoco dei loro fucili era pressoché inutile a fermare gli avversari, e riporre ogni loro speranza negli ardui quanto micidiali assalti alla baionetta.

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In tutta la disordinata preparazione di quella campagna, in tutte le deficienze di armamento, di equipaggiamento, di istruzione, di comando, che caratterizzavano quelle truppe raccogliticce, si trovava indubbiamente qualche reminiscenza dei corpi franchi del 1848. Se non alle bande scompaginate dell’Arcioni e del Longhena, se non alle folle infatuate che sfuggendo di mano al generale Allemandi si erano spinte, come le acque torbide di un torrente impetuoso, fino a Vezzano, a Cles, ad Arco, le nuove truppe garibaldine potevano in qualche modo paragonarsi e per la loro fisionomia e per il loro compito, al Corpo di osservazione che il generale Durando, dalla fine d’aprile ai primi di agosto 1848, aveva tenuto a difesa del Caffaro.

ALLEMANDI

ALLEMANDI

La necessità di coprire la sinistra dell’esercito principale contro un attacco austriaco che movesse dal Trentino aveva determinato nel 1848, come determinava nel 1866, quella speciale dislocazione delle truppe volontarie sulla linea che congiunge il lago d’Idro col lago di Garda. Al Durando, come abbiamo visto nelle precedenti puntate, era stato prefisso un obbiettivo puramente difensivo in attesa che l’avanzata dell’esercito principale e la sospirata liberazione del Trentino dal vincolo della Confederazione germanica permettessero un’azione offensiva sulla valle del Sarca e sulla Val d’Adige, e cioè sul fianco destro del nemico.

Né diversa missione, nella prima fase della guerra, ebbe Garibaldi, il quale non poté spingersi risolutamente fra le montagne del Trentino finche non fu comunicato ufficialmente al Governo italiano chela Confederazione germanica non esisteva più e finché la ritirata dell’esercito austriaco dal Mincio non determinò una generale avanzata delle nostre truppe regolari.

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Troviamo una evidentissima analogia persino negli effetti immediati che l’una e l’altra sconfitta di Custoza esercitarono sui movimenti delle truppe del Caffaro. L’ordine perentorio che il Durando ricevette ed eseguì alla fine di luglio del 1848, fu quello stesso cui obbedì Garibaldi alla fine di giugno del 1866: Coprite Brescia! La ritirata dell’esercito principale, lasciando indifesa tutta la zona pianeggiante a mattina dell’eroica città delle dieci giornate, rendeva necessario uno sforzo dell’ala sinistra dell’esercito italiano su Lonato, sforzo che costò una infelice battaglia nel 1848, e che nel 1866 pose nel più serio imbarazzo e nel più grave pericolo le milizie, ancor scarse per numero, di Giuseppe Garibaldi.

PONTE CAFFARO

PONTE CAFFARO

E mentre il grosso delle truppe volontarie, nella prima come nell’ ultima campagna contro l’Austria, teneva i gioghi tra il Caffaro e Tremosine, altre forze irregolari di minore entità erano destinate a distogliere l’attenzione del nemico verso il passo di Crocedomini, il passo del Tonale e il passo dello Stelvio: il colonnello Cadolini del 1866 corrispondeva al generale d’Apice del 1848. Non molto differente, nelle due guerre, l’entità delle milizie poste a presidio di questi valichi di minore importanza; invece, salvo nella prima fase delle operazioni, le truppe che Garibaldi portava al fuoco per la conquista del Trentino erano assai più numerose di quelle che il Durando disciplinò e che Garibaldi stesso — come si ricorderà — avrebbe dovuto guidare 18 anni prima:  più numerose in vista della destinazione loro più prevedibilmente offensiva, e in proporzione della quantità stessa delle truppe regolari. Anzi, data l’angustia del teatro di operazione, le forze garibaldine erano sovrabbondanti al loro impiego, come avremo occasione di constatare in seguito. La padronanza della Lombardia e dell’Emilia e lo scopo di ritogliere all’Austria il Veneto e di occupare il Trentino, o almeno di difendersi ai suoi confini, configuravano e nel ’48 e nel ’66 una identica situazione militare e perciò consigliavano mosse analoghe; ma se tutto ciò era spiegabile, assai meno giustificabile era invece che il Governo italiano del 1866 ricadesse negli stessi errori e si ritrovasse in quella medesima impreparazione che aveva caratterizzato i governi piemontese e lombardo del 1848.

GENERALE GIACOMO DURANDO

GENERALE GIACOMO DURANDO

Garibaldi ebbe, fra il lago d’ Idro e il lago di Garda, da dieci a trenta mila uomini; Durando da 1500 a 5000 circa. Le truppe regolari italiane contavano nel 1866 circa 130 mila soldati ; le truppe regolari piemontesi, nel 1848, oscillarono intorno a 60 mila soldati. Se tornate alle pagine che descrivono in succinto i caratteri e gli atteggiamenti del Corpo d’osservazione del generale Durando ritroverete quegli stessi errori nel reclutamento dei soldati e nella scelta degli ufficiali, quelle stesse deficienze di armamento e di equipaggiamento, quelle stesse ragioni di demoralizzazione, di malcontento, di indisciplina che senza la personalità di Garibaldi sarebbero indubbiamente riuscite fatali ai volontari del 1866.

Il mònito dell’esperienza, forse perché lontano, forse perché cancellato dai successi brillantissimi dei cacciatori delle Alpi (ben più saggiamente organizzati) e dei Mille (ben altrimenti scelti), non era valso a suggerire al Ministero del generale La Marmora, il quale disponeva di tempo e di mezzi di gran lunga superiori a quelli dei governi insurrezionali, una meno trascurata e meno tumultuaria preparazione dei volontari, e un impiego più confacente alle loro attitudini e alle loro abitudini prevalentemente cittadine, che non fosse la guerra di montagna, tanto penosa e disagiata quanto tecnicamente difficile. Gli è che una simile incuria, una medesima diffidenza e un identico disprezzo per le energie disordinate ma vive della Nazione, accorrenti contro il nemico sotto le assise del volontario, caratterizzava quasi tutti i generali piemontesi d’antico stampo: il generale La Marmora, a diciotto anni di distanza, dopo Roma, dopo Varese, dopo Calatafimi o Milazzo, dopo il Volturno, restava cogli stessi gretti e fatali pregiudizi del generale Salasco, il suo antecessore del 1848.

il generale Salasco

IL GENERALE SALASCO

l quale di tante e sì preziose esperienze non aveva potuto far tesoro e che nell’ impossibilità di creare un migliore assetto si era visto obbligato ad accogliere alla rinfusa e ad utilizzare alla meglio i volontari versati sul campo dal ribollimento improvviso della rivoluzione.

Cosi, ancor che la guerra fosse già da lungo tempo prevista (l’alleanza era stata conclusa l’8 aprile), i garibaldini entrarono in campagna con grande ritardo. Il giorno precedente all’apertura delle ostilità (22 giugno) Garibaldi non teneva a sua disposizione che il 1°, 2° e 3° reggimento di fanteria, comandati dai colonnelli Corte, Spinazzi e Bruzzesi, e il secondo battaglione bersaglieri, agli ordini del maggiore Nicostrato Castellini.

CASTELLINI

NICOSTRATO CASTELLINI

Il 19 giugno il generale Garibaldi aveva ricevuto a Salò, dal quartiere generale di Cremona, la seguente lettera, che chiariva gli intendimenti del comando supremo:

“L’intenzione di S. M. è che alla S. V. sia affidata fin da adesso la difesa del lago di Garda e dei vari passi che dal Tirolo mettono nelle vallate lombarde. Al suo comando sono quindi sottoposte, siccome ne avrà già  ricevuto avviso, sia la flottiglia, sia l’artiglieria recentemente inviata per l’armamento delle batterie locali. Rotte le ostilità, e di mano in mano che le forze sotto i suoi ordini si completeranno in numero ed in organizzazione, Ella agirà contro gli austriaci o per il lago o per le montagne come meglio crederà. Suo scopo sarà di penetrare nella valle dell’Adige e di stabilirvisi in modo da impedire ogni comunicazione tra il Tirolo e l’armata austriaca in Italia. Se le popolazioni del Tirolo italiano si mostrassero favorevoli alla nostra causa, Ella è autorizzato a trarne partito. In questo suo campo d’azione è necessario ch’Ella tenga presente la dichiarazione emanata dal Governo, che avrebbe rispettata la neutralità svizzera, a condizione, bene inteso, che lo sia pure dall’armata nemica. Il Generale d’annata Alfonso La Marmora”.

ENRICO CIALDINI

ENRICO CIALDINI

Garibaldi accettava questa missione in cambio di un’altra che il La Marmora non aveva approvato. Scalare le sue truppe a Bergamo, a Brescia e più innanzi ed accennare a nord per richiamare il nemico ai valichi del Tonale e del Caffaro; poi correre a grandi passi verso il Po inferiore dietro il corpo del generale Cialdini, entrare con questo nel Veneto, sopravanzarlo, e per la Valsugana lanciarsi su Trento: ecco l’originario progetto di Garibaldi. Il quale invece, in conformità degli ordini ricevuti, il  23 spingeva da Salò per Vestone e Rocca d’Anfo il secondo battaglione bersaglieri e i tre primi battaglioni del secondo reggimento.

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Dalla Rocca d’Anfo (che era già presidiata da due compagnie del 29″ reggimento fanteria, da una di artiglieria da fortezza e da una di zappatori del genio) una avanguardia, composta di due compagnie di bersaglieri e di una di fucilieri, condotte dal Micali e dal trentino Ergisto Bezzi, capitano di stato maggiore addetto al comando dei volontari, e accompagnate dal maggiore Castellini, si inoltravano il 25 mattina verso il Ponte Caffaro.

Altre tre compagnie (due di bersaglieri e una di fucilieri) agli ordini del capitano Adamoli salivano al tempo stesso verso il Monte Suello. Frattanto il tenente colonnello austriaco von Hoffern, che teneva il grosso della sua brigata a Tione e dintorni, aveva avanzato la compagnia dei bersaglieri provinciali di Innsbruck fino a Dazio, e quella dei bersaglieri di Innsbruck- -Mieders fino a Condino; a Storo era distaccata una compagnia di fanteria di Sassonia sotto il capitano Ruzicka. Passato il ponte Caffaro, le prime truppe italiane s’addentrarono, col Bezzi e col Castellini, nel territorio trentino. Il Bezzi si lanciò avanti da solo a cavallo sopravanzando una pattuglia in perlustrazione, ma presso il paese di Darzo fu salutato da due fucilate austriache. Di ritorno fra i suoi, decise col Castellini di richiamare le truppe al Caffaro per ivi attendere il nemico.

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Frattanto i piccoli posti collocati dagli austriaci a Darzo si erano ritratti fino al ponte Dazio, ove la compagnia dei bersaglieri provinciali di Innsbruck, che qui sostava, fu raggiunta dalla compagnia di fanteria di Sassonia partita da Storo. Entrambe allora procedettero di conserva rioccupando il villaggio di Darzo, e quindi si spinsero verso il ponte del Caffaro con un plotone distaccato a destra, fra i boschi del monte Macaone, e destinato a piombare sulla sinistra garibaldina. Precisamente in quell’occasione avvenne l’ormai celebre duello fra il capitano Ruzicka e il garibaldino Cella, nel quale il primo fu ferito e fatto prigioniero. Dopo un accanito combattimento gli imperiali cedettero e ripararono in fuga verso Darzo. I reparti austriaci che avevano preso parte al combattimento del Caffaro furono poi fatti risalire a Roncone, su cui si spingeva da Tione il grosso della mezza brigata Hoffern, spiegando, la stessa sera del 25, le sue forze fra il passo dell’ Ussol, il doss dei Morti e la malga d’Arno.

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Si propagò nel contempo la notizia dell’infausta battaglia di Custoza. Il 25 giugno pervenne al generale Garibaldi una lettera del generale La Marmora, che gli comunicava l’insuccesso del giorno antecedente e il proposito di ritrarre l’esercito del Mincio in una forte posizione difensiva sulla linea di Cremona, Pizzighettone e Piacenza. A Garibaldi raccomandava “di coprire le principali città che, come la patriottica Brescia, si trovassero esposte al nemico. Del resto – continuava la lettera – a Lei è lasciata la più ampia latitudine di agire, sia di mantenersi dalle posizioni ora occupate, sia di gettarsi nel Tirolo e condurvi operazioni di montagna con quella maestria che Le è propria”.

Ma Garibaldi non durò fatica a persuadersi che quest’ultimo partito era assai rischioso. Se infatti egli avesse continuato il suo movimento in direzione del Caffaro, le truppe austriache, sbucando dal Mincio, avrebbero potuto con tutta facilità sorprendere alle spalle i volontari internati nella Val Sabbia, disperdere i sopraggiungenti e impossessarsi di Brescia.

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Saggia e prudente fu quindi la sua determinazione di serrare su Lonato — e cioè tra le colline a sud-ovest del lago di Garda — tutte le truppe sparse dei volontari, richiamando l’avanguardia inviata al Caffaro e raccogliendo, in attesa di una nuova fase offensiva, i reggimenti che di giorno in giorno si riversavano dai depositi sul teatro delle operazioni.

Le milizie garibaldine coprivano in tal modo Brescia e al tempo stesso proteggevano il ripiegamento dell’esercito principale. La posizione era assai pericolosa, ove si ponga mente al numero relativamente scarso dei volontari (il 27 Garibaldi non aveva sotto mano che 16 mila uomini) e alla mancanza assoluta di truppe di cavalleria e di cannoni da campagna; ma fortunatamente l’arciduca Alberto non considerò abbastanza le eventualità favorevoli di un attacco verso il Mincio, e tenne invece la sua attenzione rivolta a preferenza verso il basso Po. Garibaldi, che nel frattempo aveva ricevuto nuovi rinforzi di truppe dal mezzogiorno, ordinava il 29 giugno che la prima brigata (1° e 3° reggimento), comandata dal colonnello Corte, col primo battaglione bersaglieri e l’unica batteria da montagna, lasciasse Lonato per il Caffaro e che il quarto reggimento e il secondo battaglione bersaglieri, agli ordini del colonnello Cadolini e del maggiore Castellini, si portassero a Edolo a fronteggiare le colonne austriache che minacciavano il Tonale.

COLONNELLO CADOLINI

COLONNELLO CADOLINI

Questa mossa, interrotta il mattino del 30 in seguito ad un ordine del generale La Marmora, fu ripresa il 1° luglio, con l’obbiettivo di agire gagliardamente verso le Giudicarie senza impegnarsi a fondo sul Tonale».

Ma il nemico non rimaneva inerte. Per quello stesso giorno l’arciduca Alberto aveva infatti prestabilito l’avanzata generale di tutto il suo esercito: e mentre i tre corpi del Quadrilatero transitavano il Mincio sui quattro ponti di Peschiera, di Monzambano, di Borghetto e di Goito, il generale Kuhn, comandante il corpo d’operazione del Trentino, spingeva le teste delle sue colonne al di qua dello Stelvio, del Tonale e del Caffaro, preparandosi a capitanare egli stesso, col grosso delle proprie forze, una punta in Valcamonica.

L'ARCIDUCA ALBERTO D'AUSTRIA

L’ARCIDUCA ALBERTO D’AUSTRIA

Il pericolo che corse in quel frangente Garibaldi fu gravissimo. Se infatti il nemico avesse proseguito nel movimento iniziato, i volontari, presi fra l’esercito dell’arciduca e quello del Kuhn, sarebbero stati quasi inevitabilmente schiacciati. Ma l’avanzata austriaca era appena incominciata, quando l’arciduca Alberto, appresa la notizia che tutto il terzo corpo d’armata italiano con due divisioni del secondo corpo marciava in ricognizione verso il Mincio, e avuto sentore che il generale Cialdini si riavvicinava alle sponde del Po, deliberò, per non essere scalzato dalla sua base, di ripassare sulla sinistra del Mincio e ordinò al Kuhn di rimettersi sulla difesa.

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Questa disposizione peraltro non poté essere eseguita tanto prontamente da evitare parziali scontri tra imperiali e garibaldini. Le mezze brigate von Hòffern Thour, in esecuzione degli ordini ricevuti dal Kuhn, avevano invero fin dal 30 iniziato la loro marcia verso il Caffaro collo scopo di bloccare la Rocca d’Anfo: cosi il capitano Cramolini, colla terza compagnia del reggimento cacciatori Imperatore, raggiungeva il 1° luglio sera il passo di Croce Domini; il grosso della mezza brigata Hòffern, valicato il Bruffione, entrava in Bagolino la sera del 1° luglio a tardissima ora, e il 3 luglio per la Val Levrazzo si inerpicava sulla Cima dell’Ora, col progetto di calare da quella posizione sulla Rocca d’Anfo il mattino successivo. Invece la mezza brigata Thour — che doveva assalire il forte da tergo marciando per i monti di Val Vestino e girando a mezzogiorno il lago d’ Idro — si era urtata contro due compagnie del 1° reggimento garibaldino fra Turano, Moerna e Hano, e credutasi minacciata da truppe italiane anche di fianco e alle spalle, aveva ripiegato su Moerna e sul forte d’Ampola (3 luglio). Mentre così le due colonne di sinistra e di destra si predisponevano all’ investimento laterale della Rocca d’Anfo, il capitano Gredler, col sesto battaglione dei cacciatori Imperatore procedeva contro il fronte del forte mantenendo la congiunzione fra le due mezze brigate. Il 1° luglio il Gredler occupò il ponte e il villaggio del Caffaro, e il 2 luglio spinse qualche pattuglia in perlustrazione verso monte Suello.

La brigata Corte intanto si affrettava verso il Caffaro, seguita dallo stesso generale Garibaldi. Questi, fino dalla sera del 1° luglio, avendo ricevuto da Rocca d’Anfo un telegramma che avvertiva la minacciosa apparizione del nemico sulle montagne intorno al lago, aveva ordinato al brigadiere Corte di mandar subito ad occupare Ponte d’Idro. Il maggiore Cingia, colla 16^ compagnia del 1° reggimento e con una compagnia di bersaglieri, giunse infatti la mattina del 2 al ponte d’Idro, lo fece tagliare, lasciò una compagnia a Lavenone e pose l’altra a Treviso bresciano, rinforzate poi entrambe da nuove compagnie dello stesso reggimento. Altri reparti erano inviati col maggiore Salomone sul giogo della Berga, che separa la valle di Presegno dalla valle di Bagolino.

ROCCA D'ANFO

ROCCA D’ANFO

Su queste disposizioni date da Garibaldi il 2 luglio, come sugli ordini emanati il giorno seguente per l’attacco di Monte Suello, influirono certamente i consigli del capitano trentino Ergisto Bezzi. Quest’ ultimo progettava, come risulta, di girare la destra degli austriaci prendendo a rovescio il forte di Lardaro e piombando attraverso i monti fra Roncone e Tione. Altre forze garibaldine avrebbero sfondato il centro austriaco a Ponte Caffaro, ed altre ancora avrebbero tenuto a bada la destra nemica in direzione di Val Vestino. Molto sperava il Bezzi nel felice esito di questa operazione, dato lo sparpagliamento delle truppe imperiali; ma all’attuazione il piano concepito rivelò difficoltà inattese. Alla mattina del 3 tutta la brigata Corte si avvicinava al luogo dell’azione, ove era raggiunta da Garibaldi con parte del suo stato maggiore.

ERGISTO BEZZI

ERGISTO BEZZI

Il Generale inviava allora il capitano Ergisto Bezzi colla compagnia di bersaglieri del capitano Evangelisti verso Monte Breda e Monte Snello per prender contatto colla destra degli austriaci, mentre il maggiore Mosto con due compagnie del primo battaglione bersaglieri era avviato nella stessa direzione: altre sei compagnie del 1° reggimento, dieci compagnie del 3°, la batteria da montagna, un plotone di guide e una compagnia di bersaglieri si addensavano verso Rocca d’Anfo. Verso le due del pomeriggio Garibaldi ordinò al Corte di ricacciare il nemico di là dal Caffaro. Allora il brigadiere avanzò le sei compagnie del 1° reggimento in colonna per quattro sulla strada che da Anfo conduce per il monte Suello a Bagolino, facendole fiancheggiare a sinistra, sul monte, dalla compagnia di bersaglieri distesa e ponendo a suo sostegno una sezione di artiglieria, e ordinò al terzo reggimento di tenersi in riserva sulla strada medesima.

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Il capitano Gredler, comandante della colonna centrale austriaca, si dispose ad affrontare le truppe garibaldine avviando una compagnia (la 36’^cacciatori) col capitano Schiffler sulla sua sinistra per la strada più vicina al lago, ponendo la 31^ e la 32^ cacciatori (capitano Spagnoli) sulle alture verso destra, e disponendosi a resistere sulla strada di Bagolino col resto del battaglione. Disteso in fitta catena sul pendio, il battaglione del Gredler accolse a fucilate i garibaldini che si avanzavano. La sezione di artiglieria italiana, da un appostamento opportuno, apri a sua volta il fuoco, mentre la fanteria, animata dalla presenza di Garibaldi e incoraggiata dall’arrivo di altre dieci compagnie del 3° reggimento (colonnello Bruzzesi) formanti il secondo scaglione, tentava un assalto verso l’altura.

BRUZZESI

BRUZZESI

Le due compagnie di cacciatori che agli ordini del capitano Spagnoli erano scese ad incontrarli, li attesero schierate a pochi passi di distanza e poi aprirono contro di loro una salva micidiale, costringendoli a ridiscendere, e in pari tempo il capitano Schiffler, presso la sponda del lago, respinse i garibaldini da Sant’Antonio. Però il capitano Spagnoli, comandante dell’ala destra austriaca, rimase gravemente ferito a an occhio e dovette ritirarsi dal combattimento. Frattanto i nostri, rinforzati dalle schiere fresche del terzo reggimento, ritornavano all’attacco da Sant’Antonio colla cooperazione efficace dell’artiglieria. Una nuova mossa combinata della sinistra e della destra austriaca obbligò ancora i volontari italiani alla ritirata, ad onta del vigore col quale si erano lanciati all’assalto e della presenza dell’Eroe nelle loro file.

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Un terzo, un quarto assalto non ebbero miglior risultato e moltiplicarono le perdite dei nostri: anche il generale Garibaldi, mescolatosi eroicamente coi combattenti, riportò una ferita al sommo della coscia. In un ultimo contrattacco il Gredler portò al fuoco tutte le sue forze (cinque compagnie con sette ottocento uomini) ma i ben aggiustati colpi della batteria italiana collocata sulla spianata di Sant’Antonio lo costrinsero a riprendere alla sera la posizione di Monte Suello, donde la notte stessa — comprendendo di non potervi resistere di fronte alle forze italiane assai più numerose — si ritirò su Lodrone con tre compagnie e dispose che le altre due scendessero al mattino da Monte Suello e si ponessero a guardia del Caffaro.

Nel combattimento di Monte Suello le perdite degli italiani superarono di molto quelle degli austriaci: ammontarono cioè a un numero di 44 morti (fra cui tre ufficiali) e 266 feriti, mentre gli austriaci ebbero solo 10 morti e 48 feriti. Il valore eroico dei nostri aveva ceduto alla tranquilla e demoralizzante precisione dei tiri dell’avversario: ecco la constatazione della prima giornata in cui i nostri si erano trovati a misurarsi seriamente colle avanguardie del Kuhn. I pochi cannoni da montagna dell’esercito regolare che cosi efficacemente sostennero i nobili ed infruttuosi sforzi dei garibaldini, salvarono la partita da un esito anche più infelice.

GARIBALDI

GARIBALDI

Si è detto che se Garibaldi avesse atteso il giorno seguente perché le truppe del maggiore Salomone potessero compiere il movimento aggirante dal monte Berga, il combattimento avrebbe avuto maggior fortuna e minor spargimento di sangue. Senonché non si è tenuto conto del fatto che il 3 a sera sulla cima d’Ora, e cioè sulla stessa cresta di montagne che congiunge la cima Berga con Monte Suello, era comparsa anche la mezza brigata del tenente colonnello von Hòffern, e che quindi le truppe garibaldine, assalendo gli austriaci il 4 anziché il 3, avrebbero avuto a combattere contro una forza doppia, pur potendo portare al fuoco, da parte loro, contingenti maggiori.

L’ordine generale di ritirata dell’arciduca Alberto raggiunse il giorno 4 il tenente colonnello von Hòffern, e questi che già aveva preso le sue precauzioni per garantirsi una libera via d’ uscita per la val di Levrazzo, retrocedette a sua volta, concentrando poi le sue truppe verso Roncone e Lardaro, mentre la mezza brigata Thour era dislocata fra Tiarno, Pieve di Ledro e Nago a riparo contro una eventuale marcia dei garibaldini per la Val Vestino. La contemporanea avanzata del generale Kuhn e di Garibaldi determinò anche in Val Camonica uno scontro fra l’avanguardia delle truppe italiane (composta di un battaglione del quarto reggimento agli ordini del maggiore Caldesi e del secondo battaglione bersaglieri comandato dal maggiore Nicostrato Castellini) e l’avanguardia delle truppe austriache (costituita del 3° battaglione del reggimento fanteria arciduca Ranieri e di quasi due compagnie di cacciatori tirolesi, dipendenti dal maggiore Albertini). La battaglia che ebbe luogo a Vezza il 4 luglio, terminò colla peggio dei nostri e col sacrificio del prode maggiore Castellini, morto sul campo.

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Come si è detto, il Kuhn aveva pensato dapprima di tentare il massimo sforzo contro la Val Camonica: perciò aveva ordinato che le mezze brigate di riserva Kaim e Montluisant si recassero in Val di Sole per Campiglio allo scopo di seguire le truppe del maggiore Albertini. Giunto però l’ordine di ritirata e saputo che Garibaldi concentrava invece le sue contro il Caffaro e Riva, il Kuhn dispose che la brigata Kaim ritornasse a Trento in riserva, che la brigata Montluisant ripassasse il valico di Campiglio e si portasse a Tione e poi fra Stenico e Campomaggiore, che il maggiore Albertini si ritraesse da Vezza a Ponte di Legno e quindi al Tonale.

Le truppe garibaldine, nell’ intervallo, si andavano ingrossando di nuovi reggimenti. Il 4 luglio la linea del Caffaro era recuperata dalla brigata Corte (2° e 3″ reggimento); il 2° reggimento si teneva a Gargnano a protezione delle rive del lago contro un eventuale sbarco degli austriaci, con avamposti al passo di Notta; il 5°, il 6°, il 7°, il 9° e il 10° reggimento e la brigata d’artiglieria da campagna (distaccata dall’esercito regolare) stavano tra Salò, Prandaglio e Gavardo; il 4° in Val Camonica, tra Bieno e Vezza, l’8° tuttora a Brescia.

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Per vari giorni i volontari italiani rimasero in atteggiamento di difesa e di osservazione sulla sponda occidentale del Garda e nelle alte valli del Chiese, dell’Oglio e dell’Adda, guardando con un forte cordone di posti tutti i passi montani. Più che dalla ferita del generale Garibaldi questa sosta fu motivata dalla necessità di proteggere Salò contro ogni possibile attacco, e di mantenere le comunicazioni col resto dell’esercito, la cui avanzata tardava ancora.

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