IL TRENTINO NEL RISORGIMENTO – 11

Più che di undicesima puntata forse è il caso di parlare di puntata numero dieci bis. Nel senso che completiamo, oggi, quanto scritto in precedenza sulle cospirazioni mazziniane ed i “movimenti” in quel periodo del Risorgimento in Trentino, fino al 1865.

Dov’eravamo rimasti? Ah sì … Filippo Tranquillini, che di sfuggita era ritornato a Mori sua patria, riunì qui nuovamente il 31 gennaio il Zaniboni, il Pavani, il Rossi, il Canella e il Briccio e ottenne da loro, nonostante qualche riserva, giustificata dallo scarso appoggio dal quale i patrioti si ritenevano secondati nel Regno, una risposta favorevole sull’esito sperabile degli arruolamenti.

a cura di Cornelio Galas

Il Zaniboni, recatosi in febbraio a Milano per dare e ricevere dal Bezzi nuovi consigli, fu da lui caldamente esortato a perseverare nella sua operosità. Ergisto Bezzi si lusingava al fine di provocare l’esplosione per la fine di maggio 1864. E in marzo inviava a Giambattista Rossi una memoria da leggersi in una riunione di amici del Trentino, con che avvertiva prossimo il momento di agire e necessario pertanto — nei due mesi che ancora restavano — precisare e disciplinare le forze sulle quali l’auspicata intrapresa avesse a contare. Faceva presente che con cento giovani ben disposti, facili a raccogliersi in tutto il Trentino, si poteva dar vita alla guerriglia colla certezza di tenerla accesa per più di quindici giorni, e cioè per l’intervallo strettamente necessario a Garibaldi per accorrere coi suoi volontari sui campi dell’azione: “Se insorgono i Friulani ed i Cadorini, che ben poco possono sperare in aiuti, non lo faranno i trentini che in pochi giorni possono essere aiutati da dieci mila volontari, e che da Garibaldi hanno la dichiarazione che il Trentino sarà il campo dei suoi movimenti ?

Noi siamo dispostissimi, come altra volta vi fu detto, di mettervi in relazione coi comitati veneti per così persuadervi, che essi contano di fare e presto, tanto più ora che un forte partito moderato veneto cerca di fondersi con quello d’azione, e che il governo pure cerca tutti i mezzi per intendersi con noi riguardo alla questione veneta”. Ai primi di aprile Vincenzo Andreis si recava a Milano, ove riceveva da Ergisto Bezzi l’ incarico di girare per il Trentino a distribuire i proclami per l insurrezione e l’ invito di promuovere una riunione generale di tutti gli emissari in Trento. Tale invito era ripetuto in una lettera in data 1 aprile che il Bezzi indirizzava al Rossi.

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A questi incitamenti seguivano, in data 23 aprile 1864, più positive istruzioni di Ergisto Bezzi medesimo. Premesso che nel Trentino era stato introdotto ormai il necessario per l’equipaggiamento completo di circa duecento giovani, oltre a sessanta rivoltelle, stabiliva il seguente piano d’azione: “i volontari di Rovereto, Riva, Nago e dintorni al momento indicato si concentrerebbero a Mori, ove era in precedenza a collocarsi un deposito sufficiente all’armamento di una cinquantina di uomini; i volontari di Trento e di Valsugana si raggrupperebbero a Sardagna o a Vezzano, presso un altro deposito di circa trenta fucili; altri senz’armi dalla Valle di Non per il valico di Molveno scenderebbero a Stenico, località a prescegliersi per un magazzino generale, donde con tutte le piccole bande riunite in una avrebbero giuocato un colpo di mano sulla guarnigione di Tione. I ponti della ferrovia di Val d’Adige, la strada del Ponale tra Riva e la Valle di Ledro, i fili telegrafici e in genere le comunicazioni buone pel nemico verrebbero interrotte tutte ad un tempo”. Fissato il piano di massima, Ergisto Bezzi assicurava che egli stesso, il Manci, il Martini, il Tranquillini, precedendo di due o tre giorni lo scoppio dell’insurrezione, sarebbero accorsi nell’interno del Trentino a capitanar le prime bande; mentre Garibaldi avrebbe coi suoi atteso sul continente il segnale d’allarme per penetrare di sorpresa.

GARIBALDI

GARIBALDI

A Trento, Rovereto e Riva bisognava “pensare ad avere due o tre persone sicure che per il giorno destinato gettassero nella birreria o caffè frequentato dagli ufficiali, delle bombe alla Orsini”. Per partecipare ai comitati locali questo disegno, predisporne l’esecuzione, contare i giovani pronti a combattere, al Rossi era fatta premura di indire a Trento una seduta generale di tutti gli emissari del partito. E la seduta vi fu, ma non vi intervennero che Moggio e Andreis, probabilmente per incuria del Rossi, al dire degli altri due ” freddissimo e sfiduciato al segno da ridurre alla sfiducia essi pure”. Tostoché ciò riseppe a Milano Ergisto Bezzi, fulminò di violente rampogne Giambattista Rossi, rinfacciandogli di non saper trarre alcun profitto delle ottime disposizioni dei soci di Riva, Rovereto e Tione e ricordandogli la responsabilità gravissima che pesava su lui come coordinatore della trama (27 aprile).

A promuovere un affiatamento più caldo fra i cospiratori delle due regioni, il Comitato di Milano pensò di predisporre a Padova pel 30 maggio 1864 un convegno fra i congiurati veneti e trentini, rappresentati questi ultimi dal Foradori di Rovereto e forse dal Zaniboni di Riva. Presiedeva l’adunanza il colonnello Chiassi, il quale interrogò il Foradori sul contingente di volontari che i trentini avrebbero dato all’insurrezione. Al Chiassi non riuscì di ottenere su due piedi una categorica risposta: ma una risposta

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fu poi spedita per lettera a Milano — e, a quel che sembra, garantì il chiesto numero di cento o centocinquanta armabili — come risultato di un nuovo abboccamento che ebbe luogo a Riva, il 4 giugno, fra Emilio Candelpergher, Giuseppe Canella, Ignazio Buffi e Andrea Zaniboni, e nel quale i primi due riferirono su quanto il loro concittadino Foradori aveva udito a Padova.

Il viaggio di Garibaldi a Londra (aprile 1864) era di nuovo venuto ad affievolire la lusinga riposta nell’ausilio dell’ Eroe e non era stato ultima causa delle freddezze e delle titubanze degli ultimi mesi. Una nuova ragione di indugio e di scoramento si disvelò nella progettata spedizione di Garibaldi nei Balcani. Come è noto. Re Vittorio Emanuele aveva accettato il consiglio di cooperare ad una rivolta che sarebbe scoppiata nella Romania, nell’ Ungheria, nella Bessarabia e nella Galizia per fiaccare l’Austria. Garibaldi, d’ intelligenza col Re, si apprestava a partire per l’ Oriente per assumervi un comando di truppe.

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Il Generale tenne celato questo proposito perfino ai suoi più fidi, che perseveravano nel loro lavorio verso il Veneto ed il Trentino colla ferma persuasione di conservare il suo appoggio: quand’ecco istantaneamente si riseppe che Garibaldi, sbarcato nell’isola d’Ischia il 12 giugno, attendeva da un giorno all’altro un vapore sul quale salpare per l’Oriente, e che intanto teneva convegno in quell’isola con alcuni fra i suoi ufficiali per metterli a parte del disegno.

 Fra i chiamati fu Ergisto Bezzi: il quale peraltro non accorse all’invito prima di aver ascoltato, a Lugano, i suggerimenti di Mazzini. Garibaldi lo informò delle sue mire di piombar sull’Austria di rovescio e lo esortò a perseverare nei preparativi per l’ insurrezione del Trentino e del Veneto, tenendosi pronto ad appiccar per primo l’ incendio non appena gli giungesse sicura nuova dell’avvenuto suo approdo in Oriente. Il Bezzi volle far comprendere al Generale che, lui assente, era temerario rischiar passo alcuno, e che il suo allontanamento avrebbe per certo intiepidito gli spiriti nel Trentino, “ove sul suo solo concorso si facea fidanza”.

ERGISTO BEZZI

ERGISTO BEZZI

Garibaldi peraltro aveva già impegnato la sua parola e “non si sarebbe a niun costo ritratto”, se proprio in quei giorni (prima metà di luglio) non fosse sopraggiunto ad Ischia il Porcelli coll’ordine di Vittorio Emanuele di mandare a vuoto la spedizione. Allora Garibaldi si confidò nuovamente col Bezzi; gli disse che l’impresa era andata a monte, che per il momento ripigliava la rotta per Caprera, che a un cenno dei suoi si lancerebbe sul continente per liberare Venezia e Trento dallo straniero.

Altrettanti scambi di vedute — poi bruscamente troncati — nell’intento di agevolare con mezzi rivoluzionari l’ integrazione nazionale, erano  corsi tra Mazzini e il Re. Il quale non si era mostrato del tutto alieno dal sommuovere il Veneto con bande armate per trarne robusti pretesti a subentrare a sua volta colle milizie regie, come gli proponeva il grande repubblicano: ma quando quest’ultimo volle fargli intendere che dal Veneto appunto doveva partire l’iniziativa buona per tutta Europa, Vittorio Emanuele gli fece nettamente dichiarare che avrebbe in ogni caso aspettato che l’incendio divampasse in Galizia e in Ungheria, che non avrebbe mai voluto né tollerato che la rivoluzione avesse principio dal Veneto, che infine qualsiasi accenno del partito d’azione a promuover la rivolta fra il Trentino e il Friuli prima che alcunché fosse accaduto in altra parte d’Europa, sarebbe stato represso colla forza senza indulgenza veruna.

GIUSEPPE MAZZINI

GIUSEPPE MAZZINI

 L’ultima lettera di Mazzini al Muller, uomo di confidenza del Re, fu scritta da Londra il 21 maggio 1864; la prima era stata scritta al Pastore (la Lugano nell’aprile 1863. Il dissenso, in un anno di trattative, restò sempre negli stessi termini : il Re voleva semplicemente seguire il moto ungherese, l’Agitatore invece voleva cominciare dall’ Italia, nella persuasione che l’Oriente avrebbe poi secondato l’impulso. Il Mazzini, sdegnato di questo rifiuto, era purtuttavia deciso a suscitare ugualmente il moto, nella persuasione di trascinar la monarchia al bivio fatale di seguirlo o cadere. E così Ergisto Bezzi, d’intesa con lui, disponeva per lo scoppio dell’insurrezione in settembre.

 Gli stessi patrioti, stanchi di attendere e sempre in timore che la polizia avesse un giorno o l’altro a sventare la congiura, tempestavano di sollecitazioni i Comitati di Torino e di Milano. Questi decisero allora di spedire Giuseppe Guerzoni e il conte Francesco Martini a Padova per parlare coi rappresentanti del Veneto e del Trentino e rendersi esatto conto della situazione. L’adunanza ebbe luogo il 19 agosto in un sottotetto di una via remota: fra gli altri vi parteciparono il Tolazzi ed il Cella per il Friuli, il Panizza e il Foradori per il Trentino. Panizza, Cella e Tolazzi volevano ad ogni costo romper gli indugi; il Guerzoni e il Martini li esortarono invece ad attendere più ponderate deliberazioni dai Comitati di Torino e di Milano.

Ripartiti al mattino del 24 agosto, il Guerzoni si recò direttamente a Torino a riferire e il Martini sostò a Verona ad aspettare ordini mentre il Panizza e il Foradori rientravano a Pergine e a Rovereto.

GIUSEPPE GUERZONI

GIUSEPPE GUERZONI

Le cose andavano troppo per le lunghe. Una sorpresa era da attendersi. Nella stessa notte in cui i patrioti discutevano a Padova (19-20 agosto) la polizia austriaca trasse contemporaneamente in arresto alcuni fra i capi trentini del complotto: Zaniboni e Andreis a Riva, Tamanini a Tione, Chimelli a Pergine, Canella e Candelpergher a Rovereto, Moggio a Cles, Ghezzi Giovanni Antonio a Pra di Bondo).

Altri arresti furono praticati nei giorni successivi (Pavani Giosuè, Marchiori Amadio e Vigilio, Giuliani Luigi, Cimonetti Giovanni (22 agosto); Vianini Domenico (23 agosto); Panizza Pompeo, Salvaterra Giovanni Battista (21 agosto); Perotti Francesco, Gregori Giacomo (25 agosto) ; Prandini Giacomo, Buffi Luigi (28 agosto); Prandini Luigi (29 agosto), Futten Matteo (13 settembre), Foradori Alfonso (19 settembre), Pizzini Felice, Ghezzi Bortolo fu Giovanni e Ghezzi Bortolo fu Simone (20 settembre), Ghezzi Florio (21 settembre), Armanini Giuseppe (18 novembre), Marsilli Agosto (2 dicembre).

Questi arresti passarono quasi inosservati nel Regno: nei giornali del tempo non se ne parla. Qualche cenno se ne trova nella Sentinella bresciana e nell’Unità italiana dei primi di settembre.

GIOVANNI SICCHERI

GIOVANNI SICCHERI

Ma alcuni fra i più compromessi cercavano scampo nella fuga. G-li emigrati e i fuggitivi contro i quali fu aperta l’inquisizione sono 23 e cioè : Bezzi Ergisto, Martini Francesco, Manci Filippo, Tranquillini Filippo, Bonapace Attilio, Siccheri Giovanni, Bazzanella Massimiliano, Guarnieri Giuseppe, Bordignoni Giuseppe, Risatti Giuseppe, Fava Giuseppe Rossi Giambattista, Cavalieri Cesare, Buffi Ignazio, Brandini Giuseppe, Rizzonelli Giovanni, Bertana Giacomo, Rizzonelli Giovanni (detto Callièr), Sega Carlo, Cattoi Giuseppe, Vincenzi Giacomo, Vianini Vaieriano, Siccheri Francesco,

A che era dovuto questo subitaneo e pieno risveglio delle dormienti i. r. autorità? Lo si riseppe, o almeno lo si poté facilmente arguire dalle risultanze processuali. L’uomo che Ergisto Bezzi aveva eretto a custode, coordinatore e centro di tutta la trama, l’amico al quale per più di un anno aveva di continuo rivelato tutti i segreti della cospirazione — Giambattista Rossi — si era per debolezza d’animo o per interesse lasciato indurre a tutto riferire e consegnare al Commissario di Trento, ottenendo da lui, in compenso della delazione, via libera per una simulata fuga.

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A Torino, in seguito alla relazione Guerzoni, e prima che vi giungesse notizia degli arresti di Riva e di Rovereto, era stato deciso di sospendere l’ insurrezione fino alla primavera del 1865. Infatti i sette comuni, che avrebbero dovuto servire da anello di congiunzione fra le bande del Trentino e quelle del Cadore, erano sprovvisti di armi perché il carico di fucili ad essi diretto era stato sequestrato per via dal Governo italiano. E poi si osservava che la sedizione, la quale sarebbe stata utilissima nel 1863 quando la Polonia era in fiamme, o al principio del 1864 quando l’Austria si trovava coinvolta nella guerra di Danimarca, perseguitata com’era dal Governo e non ancora ben preparata, diveniva impossibile ed inutile.

E i patrioti del Friuli si rassegnavano a questa decisione, quando a San Daniele pervenne notizia dell’ improvvisa rovina della cospirazione a Trento e delle perquisizioni che la polizia già praticava ad Udine, a Pagnacco, a San Daniele stesso. I patrioti di quel comitato si risolsero allora a prevenire gli arresti e i sequestri che già pendevano sul loro capo, ed insorsero animosamente.

BOMBA ORSINI

BOMBA ORSINI

La notte dal 16 al 16 ottobre 1864, la banda dei friulani, composta di 65 individui armati di fucili a pistone e di rivoltelle e muniti di una bomba all’Orsini per ciascuno, fece impeto su Spilimbergo, espugnò quel posto di gendarmeria e si impossessò dei suoi fucili. La sera dello stesso 16 si spinse a Tramonti di sopra ; e il giorno appresso guadava il Tagliamento e si avviava a Preusio. Senonché, nessun’altra banda compariva in aiuto; la truppa austriaca sbucava da ogni angolo, mentre con pubblico bando era proclamato il giudizio statario.

I capi si indussero allora a dar conto ai gregari della difficile situazione, ed invitarono chi volesse a ripigliar la via di casa. Rimasero soltanto in sedici, fra i quali il dott. Antonio Andreuzzi, Francesco Tolazzi e Marziano Ciotti. Per vari giorni si aggirarono armati sui monti, riluttanti a sciogliersi, sempre confidando nei soccorsi che non venivano.

A Monte Castello (5 novembre), presi d’assalto e bersagliati per un’ora da una compagnia austriaca, riuscirono a ricacciarla. Frattanto Giambattista Cella compariva a Venzone con un’altra banda di ventisette armati; entrambe corsero la montagna fino alla fine di novembre: poi si dispersero. L’Austria non poté aver nelle unghie che tre soli volontari.

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Ergisto Bezzi, che aveva promesso di venire in aiuto al Cella dal lato del Trentino, volle anch’egli a tutti i costi gettarsi in quella temeraria e inverosimile avventura; e Giuseppe Mazzini, pur giudicando per allora intempestivo il moto del Friuli, fece fuoco e fiamme perché non si abbandonassero gli insorti, e versò nelle mani del Bezzi tutto il denaro che gli riuscì di raggranellare. Per la fine d’ottobre il Bezzi e il Guerzoni si danno convegno a Brescia, ove arrivano alla spicciolata molti giovani trentini, veneti e lombardi, desiderosi di venire alle mani. Giuseppe Facchini e Carlo Tortima sono incaricati di reclutare volontari, mentre si vanno acquistando partite di fucili presso i fratelli Glisenti, fabbricanti d’armi.

Ai primi di novembre tutto è all’ordine; ma al solito il Guerzoni, prima di buttarsi nell’impresa vuole andare a Torino a prender suggerimenti da quel Comitato. Di ritorno previene i compagni che la spedizione è inattuabile: il governo ha dichiarato al Cairoli che reprimerà qualunque moto colla forza.

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Arde di sdegno il Bezzi, e vola a Milano a investire con fiere rampogne il Cairoli, il quale peraltro non deflette dal suo diniego. Allora il prode di Cusiano riparte per Brescia e qui chiede consiglio ed aiuto ai compagni. Lo Zancani, il Manci, il Tranquillini, il Martini, tutti i suoi più cari amici, tutti i più arditi campioni trentini dell’ Indipendenza gli stanno dintorno per farlo recedere da quel proposito temerario. Ma il Bezzi si sente troppo legato dalla promessa data al Cella e decide di avventurarsi checché possa accadere. Già era stampato un proclama insurrezionale da distribuirsi per le vallate, in questi termini:

“Trentini ! Il grido degli insorti friulani echeggia sui nostri monti: questo grido è la voce della Patria, la voce del dovere. Noi sorgiamo in armi per unirci ai generosi iniziatori della lotta nazionale, noi sorgiamo in nome d’Italia, per la libertà e per l’unità della Nazione. All’armi, all’armi tutti, o giovani fratelli ! Il nemico che ci sta davanti è l’Austriaco: in faccia a tale nemico, ogni uomo nato in Italia è un soldato dell’insurrezione … All’armi, all’armi! Garibaldi sarà il nostro duce supremo e la spada di Garibaldi — voi lo sapete — si chiama Vittoria! Accorrete da ogni valle sotto la tricolore bandiera che sventola su queste vette: accorrete, accorrete tutti sui forti baluardi delle care montagne native: qui oggi è il dovere italiano; qui è la speranza, la gloria, l’onore della Patria comune! Noi vi aspettiamo: noi non possiamo aspettarvi indarno! La prima Banda insurrezionale del Trentino”.

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Il 13 novembre i pochi volontari rimasti, guidati dal Bezzi, partirono da Brescia alla chetichella, a uno o due per volta, e si riunirono a Pieve Lumezzane, dov’erano sepolti i fucili. Armatisi e sceltisi gli ufficiali, all’alba ripresero il cammino, e sfidando il vento e la neve si portarono per sentieri montuosi fino a Collio. Alla sera stessa erano alla cascina Cantoni sul giogo del Maniva, ove pernottarono (15-16 novembre). Una sgradita sorpresa li attendeva al risveglio. Prima che avessero potuto avvistarle e porsi in salvo, li raggiungevano d’ improvviso due compagnie di soldati italiani con un capitano dei carabinieri, che intimò loro di arrendersi.

Chi aveva guidato i suoi passi era certamente la spia tedesca Wolf, stipendiata da Napoleone, che stava fra loro e godeva di tutta la confidenza degli ufficiali. Il Bezzi e i suoi compagni furono tradotti prigionieri in Alessandria, ove dopo un mese di carcere furono lasciati in libertà. Mazzini e Garibaldi non mancarono di far pervenire all’eroe trentino, mentre languiva in cella, le più commoventi espressioni della loro ammirazione e del loro affetto.

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Frattanto gli imputati trentini erano stati messi in ferrovia e rinchiusi nelle case di pena di Innsbruck e Kufstein. Gli inquirenti ebbero un compito relativamente lieve, giacché le carte consegnate dal Rossi e le sue rivelazioni verbali avevano fatto ormai ampia luce sulla congiura. Tuttavia alcuni degli arrestati seppero serbare un dignitoso silenzio ed altri nei loro constituti non si lasciarono sfuggire molto più di quel che già non constasse al giudice istruttore.

Il processo cominciò il 15 maggio ad Innsbruck: sostenne l’accusa il procuratore Ziller contro gli avvocati difensori Ducati, Bertolini, Eccheli, Onestinghel e Seeber; il 10 giugno il Presidente Schenkenstuhl, assistito dai consiglieri Schuhmacher, Marchiori, Lutterotti e dall’ aggiunto Platz, condannò quattro (Zaniboni, Tamanini, Andreis e Panizza) degli imputati a sette anni di carcere duro, e undici (Foradori, Futten, Chimelli, Candelpergher, Moggio, Canella, Salvaterra, Prandini, Buffi Luigi, Marchiori Andrea e Cimonetti Giovanni) a cinque anni, assolvendo gli altri per insufficienza di prove.

IL PROCURATORE ZILLER

IL PROCURATORE ZILLER

Il dibattimento si restrinse a 30 imputati, perché sette erano già stati prosciolti prima del processo per mancanza di prove legali e altri sette (Marchiori Luigi, Briccio G., Brunori Giovanni, Bonapace Carlo, Salari Paolo, Ballardini Giambattista e Scaglia Giuseppe) erano stati deferiti al tribunale penale militare perché accusati di illecito arruolamento.

GIUSEPPE CANELLA

GIUSEPPE CANELLA

Il procuratore di Stato ricorse contro questa decisione lo stesso giorno, e il 28 luglio fu pronunziata la sentenza della corte d’appello che elevava la pena di Giuseppe Canella da cinque a sei anni, quella di Luigi Moggio da cinque a sette e quella di Pompeo Panizza da sette a dodici anni di carcere duro. Inoltre Marchiori Vigilio, Ghezzi Fiorio e Armanini Giuseppe, prosciolti dal tribunale di prima istanza, furono condannati, i primi due a tre anni e il terzo a un anno di carcere duro; mentre la pena dei condannati Salvaterra, Prandini, Buffi Luigi, Marchiori Andrea e Cimonetti era ridotta da cinque a tre anni.

La decisione della suprema corte di giustizia (19 settembre) non faceva che riconfermare la sentenza dell’appello, salvo per Canella, Armanini, Marchiori Vigilio e Ghezzi ai quali la durata fu ristretta rispettivamente a cinque anni, due anni, un anno e sei mesi. I condannati scontarono la pena nelle carceri di Capodistria, Gradisca, Lubiana e Graz e furono tutti liberati nel dicembre 1866, in virtù dell’amnistia che segui la guerra.

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Giambattista Rossi, rifugiatosi a Milano dopo la sua delazione, riuscì a scroccare soccorsi dal Comitato, e convisse qualche tempo cogli emigrati trentini. Passati due mesi, quando i patrioti poterono ricevere notizie dagli imprigionati ed avere loro scritti, si riseppe con sorpresa generale che la scoperta della congiura doveva imputarsi al suo tradimento. Il Rossi riparò allora a Ginevra e si rintanò poi in un piccolo paese della Svizzera, ove mori nella miseria un anno dopo.

Mentre i più ardenti rivoluzionari si agitavano per liberare il Trentino dall’Austria, il paese non perdeva occasioni atte a manifestare con legali proteste il suo sentimento nazionale. Nuove elezioni provinciali suppletive furono bandite per l’ottobre 1865, e ancora una volta il partito nazionale ebbe a trionfare: solo due seggi furono conquistati dagli interventisti.

In quello stesso anno i municipi di Trento e di Rovereto, concordi, inauguravano nella sala delle sedute del Consiglio un busto a Dante Alighieri. Avrebbero bramato inviare propri delegati allo feste centenarie in onore del divino Poeta che appunto nel 1865 si celebravano a Firenze; il governo lo proibì: ciò nonostante il poeta Maffei poté rivendicare a sé stesso il mandato di rappresentare il Trentino all’inaugurazione del monumento.

ANDREA MAFFEI

ANDREA MAFFEI

Qualche Comune stanziò segretamente l’annua pensione di cento lire in favore di quei giovani trentini che nella prossima guerra nazionale sarebbero stati fregiati della medaglia al valor militare, mentre le signore di Trento (1864) si quotavano per raccogliere una somma di mille lire, che fu collocata presso la cassa di risparmio di Milano col proposito di metterla a disposizione del comandante di quel corpo che primo sarebbe penetrato in Trento, affinché ne facesse un dono al più valoroso dei suoi soldati.

ERGISTO BEZZI

ERGISTO BEZZI

Né gli emigrati ristavano dalla loro indefessa operosità. Ergisto Bezzi, uscito dalle prigioni di Alessandria, era nominato membro del Comitato veneto-trentino in rappresentanza del suo paese, e non si stancava di agitarne la causa fra i consenzienti dei partiti democratici. Alla vigilia della guerra, la necessità di redimere il Trentino e le province italiane dell’altra sponda dell’Adriatico fu dimostrata con profonda dottrina e con dovizia di ragionamenti in una memorabile opera del Bonfiglio {L’Italia e la Confederazione Germanica) intesa, appunto a chiarire la insussistenza delle pretese germaniche sui territori italiani della monarchia austriaca.

E pochi mesi dopo il conte Lorenzo Festi, in una pubblica lettera intitolata “Ancor del Trentino”, prese a inveire contro la Confederazione germanica, chiamandola un fantastico spauracchio e affacciando la possibilità di un Congresso europeo e di una alleanza fra l’Italia e gli Stati germanici contro l’Austria: alleanza mercé la quale si poteva attribuire alla Baviera il Tirolo tedesco, rivendicando all’Italia il Trentino.

13 - Dante Alighieri

La guerra si avvertiva vicina, incombente, e i patrioti di Trento e di Trieste si dibattevano ansiosamente perché questa nuova e forse estrema occasione non passasse senza che le armi italiane si levassero sui naturali confini della patria.

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