a cura di Cornelio Galas
Facciamo un passo, anzi facciamone molti di più, indietro, nella storia del Trentino. Dopo aver preso in esame varie fonti sul secondo dopoguerra, sul “Rebalton”, sulle origini dell’autonomia, su quello che scriveva Mussolini nel 1909, abbiamo cercato di capire come il Trentino ha vissuto gli anni del Risorgimento italiano. E soprattutto quali contributi ha dato all’Unità d’Italia, anche se Trento e Trieste diventeranno italiane solo alla fine della prima Grande guerra.
Nel 1913, quindi proprio alla vigilia della prima guerra mondiale, Livio Marchetti pubblica il saggio storico “Il Trentino nel Risorgimento” (scritto nel novembre 1912) con la società editrice Dante Alighieri fondata a Roma da Giovanni Albrighi, Dante Segati ed altri soci nel 1895. L’opera di Marchetti è divisa in due volumi. E affronta la storia del Risorgimento dai primordi fino a quelli che definisce “i fatti che in Trentino ebbero sfortunato riscontro all’effettivo conseguimento dell’Unità nazionale”. Come un libro moderno ha persino degli allegati: due carte geografiche, un inno musicato e due ritratti.
Interessante la prefazione, scritta dallo stesso autore. Anche perché rende bene l’idea di partenza di questa dettagliata analisi di quell’epoca storica e soprattutto della situazione, allora, in Trentino.
SOTTO TRE PADRONI
di Livio Marchetti
Tempo addietro, un benemerito insegnante che si occupa con speciale amore della, diffusione della coltura fra la. piccola borghesia, mi invitò a voce a scegliere un tema di storia patria da svolgere in una conferenza popolare. Risposi subito, con piena disinvoltura: « Ben volentieri. E il mio argomento sarà Il Trentino nel Risorgimento italiano ».
Quest’atto impulsivo aveva una sola spiegazione e una sola scusa: l’essere cioè la mia famiglia originaria di una di quelle valli trentine che negli avvenimenti storici del secolo scorso ebbero parte non trascurabile. Troppo debole titolo, in verità, per darmi la capacità a trattare adeguatamente un simile soggetto al quale altri avevano già da lunghi anni dedicato i loro studi.
Ma quel peccato di leggerezza ebbe la sua degna pena. Quando infatti mi volli accingere a tradurre in atto il mio impegno (che poi non mantenni) mi trovai di fronte a difficoltà gravi, direi quasi primordiali. Da una parte l’argomento mi si mostrava sempre più vasto e sempre più vario, dall’altra le fonti apparivano frammentarie e disperse e, quel che è peggio, malsicure. Mi ero illuso di cavarmela colla lettura di qualche breve pubblicazione oltre a quelle che già conoscevo: dovetti invece ridurmi a porle quasi tutte in quarantena per cercare la verità un po’ più davvicino.
E cercando trovai più che non sperassi. Raccolsi, nelle principali città e vallate del Trentino, e particolarmente a Trento, Rovereto, Riva, Arco, Tione, Cles e Malé, interessanti memorie di famiglia e preziosi documenti pubblici e privati che mi misero in condizione di trattare con maggior sicurezza, o per lo meno con un superiore grado di approssimazione storica, gli eventi delle guerre, il movimento dell’opinione pubblica, le vicende delle cospirazioni. Altri lumi potei ottenere, fuori del Trentino, da patrioti superstiti e da eredi di patrioti che avevano conservato carte inedite di importanza, e da pubblici archivi del Regno. Sebbene poi avessi conoscenza. più che famigliare di molti dei luoghi ove si svolsero gli avvenimenti che mi ero accinto a narrare, volli visitarli o rivisitarli tutti, per esaminarli in relazione ai fatti, raccoglier nuovi documenti sul posto e interrogare testimoni oculari ove ne sopravvivessero. E cotali sopralluoghi mi risparmiarono non pochi errori.
Senonché con tutte queste ricerche il mio lavoro assumeva, per la natura stessa del tema, un’ampiezza che era ben difficile conciliare colla brevità dell’ora di una semplice conferenza di divulgazione. D’altra parte l’inesistenza di un libro che seguisse l’azione del Risorgimento nel Trentino — azione non coronata da successo, ma perciò appunto più cara e piú degna di illustrazione — rese in me vivo il desiderio di supplire, per quel che mi permettevano le forze, a tale mancanza.
La malinconica dolcezza emanante dalla rievocazione di quegli avvenimenti mi condusse a offrire all’Idea che animò tanti eroi dimenticati e incompensati il modesto tributo della mia fatica.. Quei mesti eroi sperarono quando tutti li consigliavano a disperare, s’incoraggiarono reciprocamente quando da ogni parte erano scoraggiati, delusi insistettero, vinti lottarono ancora, affrontarono animosamente la serie di ostacoli che li separava non dalla realizzazione delle loro aspirazioni, ma da quella situazione che li avrebbe abilitati a concepirle in grado uguale ai fratelli loro. Eran troppo deboli, troppo scarsi, troppo isolati, e i loro avversari troppo forti, troppo numerosi, troppo sostenuti ovunque. Ad un filo di speranza, ciò nonostante, votarono pensiero e azione, tranquillità e benessere, sudori e sangue. Gridarono e non furono uditi; si agitarono e non furono visti. Anche li colpi la calunnia, e anche questa amarezza offrirono al loro ideale. Inavvertitamente, attraverso ai secoli, gli italiani avevano lasciato che una triplice signoria gravasse sui loro connazionali alle porte d’Italia. Al risveglio italiano del secolo decimonono, i trentini si trovarono pertanto soggetti a tre padroni insieme collegati, ossia l’Austria, il Tirolo e la Germania, mentre i lombardo-veneti non ne avevano sopra di loro che uno, e cioè l’Austria.
Questa posizione iniziale dà un carattere proprio a tutta la storia trentina del secolo scorso. Nel seguirla ho cercato sempre di tenermi all’ immagine obbiettiva e fedele dei fatti. Perciò non ho solo usato della copiosissima bibliografia italiana disseminata e nascosta in libri, riviste e giornali, ma mi son pure largamente servito delle fonti tedesche, per la ricerca delle quali (come delle italiane) ebbi il valido appoggio di Bruno Emmert, eruditissimo bibliografo del Trentino.
A lui, come a tutti coloro che mi aiutarono consegnandomi documenti o memorie, facilitandomi la ricerca di carte inedite o di pubblicazioni rare, istradandomi con notizie e con suggerimenti, e comunque agevolando la riuscita di questo lavoro, esprimo qui la mia riconoscenza.
La mia pubblicazione comprende due volumi: il primo segue le sorti del movimento nazionale nel Trentino in tutto il periodo antecedente alla formazione del grande Stato italiano, e cioé dai prodromi della Rivoluzione francese allo scoppio della guerra del 1859; il secondo, prendendo le mosse da questo momento, esamina i fatti che in quella provincia ebbero sfortunato riscontro all’effettivo conseguimento dell’Unità nazionale.
Il presente lavoro non ha carattere di propaganda. Ma se da una pura e semplice descrizione d’ambiente e di fatti scaturirà un effetto che sorpassi la chiusa cerchia degli studiosi di storia, chi scrive, non si dorrà di aver raccontato un passato che non può essere morto nella memoria degli italiani.
I primi indizi della coscienza nazionale trentina (1748-1813)
Verso la metà del secolo XVIII il principato vescovile di Trento versava, come il resto d’Europa, nelle più miserabili condizioni intellettuali, morali ed economiche. Il concilio di Trento aveva gettato le sue sinistre influenze su tutto il mondo cattolico, e dopo due secoli, il paese che lo aveva ospitato ne risentiva ancora le conseguenze più di ogni altro. Il dominio spagnuolo non era penetrato fra quei monti, ma a frotte, a sciami avevano invaso le valli trentine i gesuiti, i frati, le monache. Il governo del vescovo, limitato ed inceppato ognor più dalla politica austro-tirolese, si rivaleva sulle anime e le soffocava. Duemila ecclesiastici e più di cinquanta conventi erano disseminati fra una popolazione di 188 mila abitanti; e lasciavano crescere e fomentavano le superstizioni, le leggende, le paure d’oltretomba, popolavano le valli di streghe e di stregoni, fabbricavano miracoli e profezie. Un clero strapotente, munito di uno speciale foro ecclesiastico e protetto da mille privilegi; una piccola nobiltà decaduta, ma ancor gelosa del suo regime di favore; una borghesia senza diritti, allevata ed educata dai gesuiti; un popolo ignorantissimo, schiavo dei pregiudizi, tenuto quasi ancora alla servitù della gleba: tali erano le condizioni sociali di quei tempi.
La casa d’Austria, padrona dell’Impero e della contea del Tirolo, diveniva sempre più esigente verso i sudditi dei due principati protetti di di Trento e di Bressanone. Fino alla metà del settecento questi erano rimasti esenti dal servizio militare. Nonostante gravissime resistenze, finalmente l’Austria riesce ad imporre la formazione di un reggimento “per la difesa del paese” nel 1744; e nel 1762 bandisce la coscrizione nei suoi stati, comprese le provincie dell’Adige. I popoli protestano, centinaia di giovani emigrano, ma il Governo di Vienna s’impone.
Tra guerre, balzelli e dogane
La guerra per la successione d’Austria (1740-48) e la guerra dei sette anni (1756-63) inducono Maria Teresa imperatrice a chiedere al Trentino, come agli altri paesi soggetti o protetti, tributi gravosissimi. Il carico del debito pubblico si appesantisce: le decima, i livelli, i censi spolpano le popolazioni; i pedaggi e i dazi interni ostacolano il traffico; le dogane poste ai confini della Lombardia ad esigere diritti di importazione sui generi di consumo affamano il contado che trae i suoi mezzi di sostentamento dal bassopiano del Po.
I vescovi di Trento, sempre servili di fronte all’Imperatore e conte, nulla fanno per opporsi alle usurpazioni, per porre un freno alle pretese austriache, che immiseriscono i loro sudditi. Più di tutti debole e vile è Pietro Vigilio dei conti di Thun, ultimo della serie otto volte secolare dei principi ecclesiastici tridentini. Non appena eletto egli si reca a Vienna per regolare i rapporti dello Stato tridentino con l’Imperatrice Maria Teresa, e conclude con questa un trattato che è come la sentenza di morte del principato. Secondo questo trattato il vescovo si adatta a perequare le imposte del principato secondo le patenti emanate dal governo del Tirolo, aderisce al principio della coscrizione militare, accetta le dogane austriache erette ai confini del paese, ammette che il capitano che rappresenta a Trento l’ Imperatore come conte del Tirolo abbia il diritto di ascoltare e di definire le controversie di indole militare o finanziaria a lui sottoposte dalle comunità trentine dipendenti dal vescovo.
E quasiché ciò che aveva concesso non bastasse ancora, Pietro Vigilio nel 1784 si recava a Vienna ed offriva all’Imperatore il suo principato contro una discreta ed adeguata somma. Senonché il Consiglio di Stato di Vienna, più prudente se non più scrupoloso del vescovo, rigettò la proposta, per non dover affrontare le ire della Dieta dell’Impero, al quale quello Stato apparteneva.
Versucci dozzinali su S. Vigilio
La cultura del paese, che aveva avuto nel cinquecento il suo piccolo Leone decimo in Bernardo Clesio, si era adagiata più tardi nella melensaggine degli accademici. Viveva ancora, nella prima metà del settecento, l’Accademia degli Accesi, con sede in Trento, e si baloccava con versucci da dozzina su San Vigilio e su Teodorico, sul volto della donna e sulle sue somiglianze colla volta celeste. Era più che altro una congrega di canonici e di amici loro, posta a sgabello della reazione. La scuola elementare era trascuratissima, il ginnasio era dominato dai gesuiti, l’alimento letterario era fornito ai giovani da traduzioni sgrammaticate di testi tedeschi; e i loro precettori li consigliavano a proseguire i lori studi ad Innsbruck o in altra città tedesca per acquistare delle cognizioni di lingua straniera che mal compensavano dell’ ignoranza del proprio idioma.
Verso il 1730 Iacopo Tartarotti, roveretano, pubblicava un Saggio della biblioteca tirolese o sia notizie istoriche degli scrittori della provincia del Tirolo dove l’autore affastellava alla rinfusa biografie e testimonianze di scrittori trentini e tirolesi, senza far distinzione da italiani a tedeschi. E, salvo alcune eccezioni, a quell’epoca erano gli abitanti del Trentino cosi poco memori della loro nazionalità e della loro storia, da qualificarsi senz’altro per tirolesi. Doveva forse pretendersi che quei montanari fossero gelosi della propria italianità, quando tutta l’ Italia era dominata dal più vile snobismo francofilo e si adagiava senza ribellione alcuna sotto le zampe dei cavalli austriaci, francesi e spagnuoli, che se la disputavano e se la dividevano come il campo di una giostra medioevale?
Sintomi di risveglio
Ma nella seconda metà del secolo decimo ottavo, e nelle altre provincie italiane e nel Trentino non mancano di apparire lieti sintomi di risveglio. La lotta contro la superstizione, la resistenza contro il governo austriaco, e persino l’affermazione della coscienza nazionale trovano a Rovereto e a Trento i loro insigni campioni. Il popolo stesso delle valli si dibatte e reagisce.
Verso il 1740 era corsa la voce che Francia e Baviera, nemiche dell’Austria, volessero spartirsi l’ Impero. La Francia avrebbe preso per sé la Lombardia, la Baviera si sarebbe aggregato il Tirolo e i principati di Bressanone e di Trento. Il paese se ne preoccupa vivamente, temendo che la minacciata annessione alla Baviera significhi la rovina definitiva dell’autonomia dei due principati. Ma più grave è l’inquietudine che si manifesta quando Maria Teresa richiede ai principati di Trento e di Bressanone un prestito per la guerra dei sette anni. I rappresentanti degli Stati (cosi volevano esser chiamati i due feudi ecclesiastici, a differenza dei domini diretti che gli Absburgo avevano in Val d’Adige) rifiutarono più volte di concedere i fondi richiesti, opponendo che la guerra contro la Prussia non li riguardava. Dopo molte insistenze da parte del governo di Vienna, finalmente si forma, a spese dei contribuenti tirolesi e trentini, un reggimento destinato unicamente alla difesa del paese; ma un terzo appena del reggimento è composto di elementi della regione e quasi tutti gli ufficiali sono tratti da altre provincie della monarchia.
L’indigesto servizio militare
I bandi di coscrizione che incominciano ad emanarsi dal 1762 in poi divengono impopolarissimi: le plebi rurali non vogliono assoggettarsi al servizio militare. E se più tardi il governo bavarese e quello francese si resero odiosi ai valligiani, sì fu per aver voluto imporre con tutto il rigore il servizio militare obbligatorio, che già aveva incontrato tante avversioni quando Maria Teresa si era accinta ad introdurlo gradualmente.
Per rendere sempre più immediato il suo dominio, il governo d’Innsbruck cercava di uniformare nei paesi protetti il regime monetario, quello dei pedaggi e dei dazi, recando terribili incagli al traffico delle popolazioni atesine. Queste, che avevano continui rapporti di scambio colla Lombardia e col Veneto, protestavano energicamente contro ogni provvedimento che tendesse ad elevare una barriera tra il Trentino e le altre provincie italiane. Quando poi il governo comitale pretese di stabilire un dazio di entrata sui grani e su altri generi e di mettere dei posti di guardia ai confini per assicurarsene la riscossione, il malcontento sordo diffusosi in paese scoppiò in aperta rivolta. Trecento contadini armati si raccolsero da tutti i paesi delle Giudicarie sulla piazza di Tione e marciarono verso il lago di Garda, ove assaltarono e abbruciarono la casa del dazio in Tempesta (anno 1768). Il governo austriaco reclamò vivamente presso il governo del vescovo contro quest’atto di sedizione; agli abitanti delle Giudicarie furono tolte le armi, e i capi della rivolta vennero impiccati sulla pubblica piazza. Il ricordo di questo fatto non è certo l’ ultima causa della viva partecipazione del popolo giudicariese ai fasti del Risorgimento italiano.
Le resistenze dei trentini all’Imperatore e conte del Tirolo non riguardano però soltanto le leggi e i proclami militari e finanziari. Sebbene fosse invalso, come abbiamo veduto, il vezzo di comprender nella denominazione di Tirolo anche il principato di Trento e di qualificar per tirolesi i trentini, non mancarono, neppure nei momenti di peggior decadenza del principato, formali proteste contro una simile confusione.
Anche quando i governi protetti di Val d’Adige dovevano cedere di fronte a qualche imposizione di Vienna, i loro rappresentanti ci tenevano a parlare di alleati e di alleanza colla contea del Tirolo, di dipendenza immediata dai sovrani austriaci come Imperatori e non come conti del Tirolo. Uomini di coraggio nel sostenere i diritti sovrani del principato non mancarono neppure fra i canonici di Trento, ordinariamente ligi al vescovo, come questi era prono di fronte all’ Imperatrice. Allorché fu portato ufficialmente a notizia del capitolo diocesano adunato il trattato del 1777, nel quale il vescovo rinunziava a favore del conte del Tirolo alla maggior parte delle sue prerogative, il canonico Gentilotti si alzò e lesse una dichiarazione scritta, nella quale biasimava aspramente l’atto del vescovo che sacrificava “gli interessi della città e di tutto il principato per impinguare la mensa vescovile”.
Tirolo e “annessioni” cartografiche
L’anno seguente (1778) veniva alla luce in Trento una strana carta geografica del paese, probabilmente ordinata dal vescovo Pietro Vigilio, che poi, come dicemmo, profferse l’indipendenza del vescovado contro discreta ed adeguata somma. In tale carta il principato appariva incluso nel Tirolo: indicazione falsa o almeno prematura, giacché il principato sussisteva sempre, nonostante molteplici limitazioni. A protestare contro questa pubblicazione i canonici si riuniscono, e incaricano di nuovo il Gentilotti di far note le proprie ragioni di risentimento al Vescovo: il quale peraltro non se ne dà pensiero e risponde “che il mappamondo risponde per lui, e crede indispensabilmente, che il suo principato sia nel Tirolo“. Né mancarono affermazioni anche più recise di autonomia e di indipendenza. Quando, nel 1792, i delegati degli Stati dell’Adige si recarono alla dieta di Innsbruck per protestare ancora una volta contro la coscrizione militare e contro le altre imposizioni del governo tirolese, il conte Francesco di Lodron, delegato trentino, ebbe ad esclamare con coraggio: ” Che importa a noi di quel che accade in altri stati dell’ Impero? Noi abbiamo pure uno Stato, un paese nostro, e nostri diritti, ed è solo un caso che sia comune il monarca”.
No agli abusi del governo clericale
Né tarda a manifestarsi tra le persone colte un energico movimento di protesta contro la superstizione e l’ignoranza del popolo, e contro le soperchierie e gli abusi del governo clericale. Giuseppe II imperatore, di sua stessa iniziativa, aveva voluto estendere al principato di Trento le leggi liberali emanate in tutti i suoi domini: aveva cioè abolito il diritto d’asilo, limitato il numero dei conventi, cacciato anche da Trento i gesuiti, proibite le sacre rappresentazioni, diminuito il numero delle feste, ridotti i privilegi del clero, rese più semplici le pratiche religiose, riformata e migliorata l’istruzione nelle scuole medie, togliendo buona parte degli obblighi religiosi prima imposti agli alunni e introducendo l’insegnamento delle scienze naturali. Queste riforme, avversate dal clero e solo applicate in virtù della devozione che il vescovo di Trento serbava alla casa d’Austria, non piacquero ai valligiani, conservatori per eccellenza; ma incontrarono favore nelle città ove la borghesia si andava educando alle nuove idee venute di Francia.
Rovereto, culla della cultura
La città di Rovereto era allora l’ambiente più progredito del Trentino, e di qui Gerolamo Tartarotti, letterato, storico, filosofo e riformatore illustre dava un fiero assalto al potere spirituale dei vescovi di Trento, criticando aspramente le pretese origini apostoliche della Chiesa tridentina. La polemica fra il Tartarotti e i canonici andò tant’oltre, che il vescovo sentenziò che gli scritti dell’audace riformatore fossero bruciati dal boja sulla pubblica piazza di Trento. Contro l’atto del vescovo insorse tutta la città di Rovereto, e al Tartarotti, che pochi giorni appresso la condanna era morto, furono fatti solenni funerali e fu decretata dal Consiglio cittadino l’erezione di un busto in suo onore (anno 1761).
In tale risveglio di pensieri e di propositi la secentesca Accademia degli Accesi erasi estinta per consunzione, e in suo luogo era sorta, con intendimento di critica e di progresso, dapprima l’Accademia dei Dodonei (anno 1730), fondata dal Tartarotti, e poi (anno 1750) l’Accademia degli Agiati, entrambe con sede in Rovereto. Il Trentino si distingue allora per uomini illustri nelle lettere, nelle scienze e nelle discipline giuridiche. Gerolamo Tartarotti si segnala come scrittore e poeta e come difensore del Trentino contro le corruttele degli idiomi stranieri; Carlo Rosmini scrive (1792) un opuscolo per dimostrare che le valli tridentine non hanno col Tirolo nulla di comune; Felice Fontana di Pomarolo e Carlo Antonio Martini di Revò portano notevoli contributi al rinnovamento delle scienze naturali; Francesco Vigilio Barbacovi, insigne giurista, detta un nuovo codice di leggi per il principato; Caro Antonio Pilati di Tassullo combatte fieramente in Trento, come il Tartarotti in Rovereto, tutti gli antichi pregiudizi, e per i suoi scritti contro gli abusi del clero e circa l’esistenza di una legge naturale è processato e condannato in contumacia al bando perpetuo; Giambattista Borsieri rinnova la scienza medica all’ Università di Pavia; Carlo Firmian porta principi liberali al governo austriaco di Milano; Giandomenico Romagnosi, venuto come podestà, a Trento, vi rimane qualche anno ancora dopo aver lasciato la sua carica e vi scopre e fa conoscere per le stampe i fenomeni fondamentali dell’elettromagnetismo; Francesco Filos di Mezolombardo, giovane innamorato delle idee dell’Enciclopedia, fonda a Innsbruck un club liberale ed è perciò processato e condannato a vari mesi di carcere, ma di tutti il più fervido patriota, il più mirabile precursore trentino e uno dei più notevoli precursori italiani delle idee e dei fatti del Risorgimento è Clementino Vannetti.
Clementino Vannetti, primo patriota
Pare che quest’uomo, più di un secolo avanti che si iniziasse aperta e viva la lotta linguistica contro l’invadente pangermanismo, abbia intuito la grande missione delle popolazioni di confine nel serbare intatto il patrimonio intellettuale della Nazione.
Anche allora, da parte dei governanti austriaci e degli emissari ufficiali del Tirolo, si cercava, specialmente colla scuola, di attrarre il Trentino nell’orbita della coltura germanica e di avvincerlo sempre più strettamente alla compagine, non ancora ben consolidata, dell’Austria. Fin dal settecento, la politica degli Absburgo riguardo al Trentino si distingueva nettamente da quella adottata di fronte ai possedimenti di Lombardia, sebbene il Trentino non fosse meno italiano delle altre provincie dell’ Italia superiore. Confondendolo mediante imposizioni e usurpazioni sempre nuove colla contea del Tirolo, introducendovi ordinamenti del medesimo stampo ed attraendo il paese, per mezzo di prelati, di impiegati e di insegnanti fedeli, nel giro di idee e di aspirazioni che formava il programma della dinastia, l’Austria intendeva foggiarsi un cuneo ben solido, tutto d’un pezzo nel bassopiano del Po, il quale per ogni evento divenisse il suo sostegno e la sua fortezza, la chiave degli attuali e futuri domini italiani.
Questo indirizzo della politica imperiale a riguardo del Trentino preesisteva alla stessa casa d’Austria e durava ormai da più di otto secoli. Per assicurarsi della loro sovranità in Italia gli imperatori romano germanici avevano sempre badato a mantenersi padroni della val d’Adige che era la più breve e la più comoda via per scendere nella penisola, e in particolar modo della posizione di Trento che dava agli eserciti, oltre alla vai d’Adige, altri sei agevoli passaggi nella pianura del Po. La stessa donazione del territorio di Trento ai vescovi della diocesi di san Vigilio, avvenuta al principio del secolo XI, era dovuta a tale intento. E i principi vescovi di Trento, eretti a custodi imperiali della porta d’Italia, avevano per lunghi secoli serbato fede alla loro missione, con uno spirito ghibellino assai raramente smentito.
Ma gli imperatori delle precedenti case, quelli che avevano regnato nel medio evo, si eran contentati di preporre volta per volta alla diocesi di san Vigilio dei vescovi tedeschi che curassero i loro interessi, e di favorire i piccoli feudatari e i canonici tedeschi. Quella politica era stata accorta, ma precaria: ad ogni elezione vescovile gli interessi dell’Impero trovavansi in pericolo e dovevano essere affidati al giuoco delle influenze dei messi imperiali sul capitolo della cattedrale.
L’imbastardimento del Trentino
La casa d’Absburgo, ereditando le prime usurpazioni dei conti del Tirolo e aggiungendone delle nuove, aveva reso la sua posizione nel Trentino sempre più stabile ed immanente. Questo paese, a differenza del resto d’Italia, era entrato nella concentrazione austriaca, sia pure come semplice Stato protetto, fin dal secolo decimoquarto ; e vi era entrato conservando la sua antica importanza di presidio avanzato dell’Impero in Italia. Con tutti i mezzi si era poi l’Austria sforzata di assimilare il paese ai suoi domini tirolesi; la lingua, i costumi, le tradizioni, gli ordinamenti municipali del Trentino erano rimasti prettamente ed esclusivamente italiani, ma intanto quel continuo ribattezzarlo per Tirolo, quella continua invasione di leggi, di ordinanze, di prescrizioni fatte peli Tirolo, quella terribile trascuranza della lingua italiana nelle scuole, quel costante incitamento ed aiuto ai giovani che volevano completare la loro istruzione in centri di cultura tedeschi; perfino i testi di catechismo bilingui dati a leggere a poveri contadini che nulla di tedesco comprendevano: tutti questi eran tentativi di imbastardimento, eran pericoli di corruzione che potevan passare inosservati, senza destare le preoccupazioni di un popolo ancora del tutto impreparato alle idee di nazionalità, ma che non dovevano lasciar indifferente uno spirito cosi schiettamente e aristocraticamente italiano come quello di Clementino Vannetti.
La visione orribile di una bastarda anima tirolese in due corpi diversi uniti e cozzanti produce un senso di raccapriccio nella sua anima di poeta. E prima che nel resto d’Italia sorga chi gridi alto e forte contro tutti i barbarismi della favella e del costume, il Vannetti ritto come un soldato in vedetta sui confini, dà a perdifiato l’allarme contro i tedeschi, contro i tirolesi, e sveglia i suoi connazionali dall’ oblio. Egli informò alla sua anima nazionale l’Accademia degli Agiati, della quale fu quasi sempre il segretario, e che divenne il covo dei misoteutoni del Trentino.
Tedeschi, “estrania gente”
Già l’accademico Francesco Frisinghelli, nel gennaio 1753, aveva letto agli Agiati un poemetto che chiamava i tedeschi “estrania gente/Sol dal nostro languir fatta beata”. Ma il Vannetti diviene il più strenuo campione della campagna contro i tedeschi e contro i tirolesi: col ragionamento, coll’ invettiva, col ridicolo, in versi e in prosa, su lettere private e su gazzette, in riunioni accademiche ed in pubblici ritrovi egli li colpisce instancabile, ricordando le tradizioni italiche e le glorie romane del Trentino, suscitando amore per la patria coltura e odio contro la prepotenza straniera.
Girolamo Tiraboschi, il famoso storico ed erudito del secolo decimottavo, rimproverò una volta il Vannetti della eccessiva acredine posta nelle sue invettive contro i tedeschi: fuori del campo della lotta nazionale com’egli era, non ne avvertiva l’importanza. Al che il Vannetti rispondeva vibratamente: “Oh, se voi foste cosi vicini a costoro come sono io, e sentiste ogni dì i nuovi ordini veramente bestiali, non so se per un sonetto ne scrivereste una corona. Vi dico che ci siam per la gola non che per la borsa”.
È celebre, e corre ormai sulle cartoline illustrate, il sonetto che il Vannetti, in collaborazione con l’abate Giuseppe Pederzani indirizzava nel 1790 al comico fiorentino Antonio Morrocchesi “da alcuni mal informato della situazion del paese”:
Del Tirolo al Governo, o Morochesi,
Fur queste valli sol per accidente
Fatte suddite un di: del rimanente
Italiani noi siam, non tirolesi.
E perché nel giudizio de’ poeti
Tu non la sbagli con la losca gente
Che le cose confonde e il ver non sente,
Una regola certa io qui ti stesi.
Quando in parte verrai dove il sermone
Trovi in urlo cangiato, orrido il suolo,
Il sole in capricorno ogni stagione,
Di manzi e carrettieri immenso stuolo,
Le case aguzze e tonde le persone;
Allor di’ francamente: ecco il Tirolo.
Ma questi non son che scherzi. L’invettiva diviene insulto sanguinoso allorché il Vannetti, verseggiando sulle origini dei tedeschi, scrive esser questi nati da una donna e da un somaro accoppiati, cui Giove abbia detto:
I figli vostri umana abbian figura/Abbian d’asino poi cranio e natura.
Quando il Vannetti riscontra negli scritti del suo tempo errori e pregiudizi riguardo alla condizione politico-nazionale del suo paese, egli non ristà dal notarlo: e biasima a più riprese il Saggio della biblioteca tirolese di Iacopo Tartarotti perché vi son mescolati insieme scrittori italiani e tedeschi, e si scaglia con ironia sottile e pungentissima contro un’opera anonima, sussidiata probabilmente dall’Austria e tendente a dimostrare che la provincia trentina era naturalmente compresa nella Germania, e non nell’Italia:
“Frutto di grandi ricerche, e uno stillato della più fine dialettica dee dirsi questa dimostrazione la quale è tutta appoggiata sulla natura e sulla storia. Quanto alla natura, l’autore riflette, che i popoli trentini beono col latte il linguaggio italiano, il che prova che essi sono tedeschi. Quanto alla storia, egli si riporta all’ultimo concilio generale, il quale non essendosi voluto dal papa tenere in Germania per giusti motivi, ma sibbene in Trento, ci fa fede che Trento è una città di Germania … Aggiunge forza a questa dimostrazione un’appendice, in cui si nota, che tutti i gazzettieri, i giornalisti e gli scrittori di storia letteraria sogliono parlare di Trento e di Rovereto come di città d’Italia; con che si dichiarano di comprenderle nel Tirolo naturale. Noi ci congratuliamo col sig. conte N. N., e coi suoi fautori unitamente”.
Vietata l’importazione di libri e giornali
E che la coscienza nazionale del Vannetti non sia puramente letteraria e linguistica, ma anche politica, lo provano le continue sue invettive contro le leggi imposte da Vienna e da Innsbruck per limitare la libertà del pensiero, per opprimere i popoli sotto le tasse, per vietare l’ introduzione in paese di manifesti, di giornali, di libri. Vissuto in un tempo nel quale ancora non si nutrivano aspirazioni di unità nazionale e di indipendenza, neppure nel resto d’ Italia, egli non poteva dar forma concreta al suo sentimento, ma la ribellione contro la oppressione straniera vibra eloquente nelle seguenti parole di una sua lettera al Tiraboschi: “No, noi siamo in Italia, e l’accidentale dipendenza del Tirolo non può farci cambiar nazione, né luogo. Dall’altro canto noi abbiam tutta la ragione di non amar troppo una razza di gente, da cui non ci vengono che de’ tristi riflussi distruttori del commercio, delle scienze e della felicità”.
La lettera è del 1780. Quarant’anni dopo, gli stessi sentimenti, espressi in diversa forma dalla musa patriottica, avrebbero iniziato l’opera di risveglio della coscienza nazionale e aperto, l’èra gloriosa del Risorgimento italiano.