DA UNA FOTO,UNA STORIA
di Maurizio Panizza
Ci sono immagini che nascondono segreti. Saperle osservare senza pre-giudizio, collegare più elementi, interpretare il contesto, consultare altre fonti, può diventare un’operazione molto interessante. Un’operazione che a volte può rivelare sorprese inaspettate.
IL NAUFRAGIO DEL MAFALDA
25 ottobre 1927
La testimonianza di un trentino: Isidoro Adami.
(Prima parte)
Il transatlantico Principessa Mafalda, dal nome della sfortunata principessa di Casa Savoia, varato nel 1908, fu in quegli anni la più grande nave costruita per una compagnia italiana di navigazione. Dopo quasi vent’anni di servizio affondò il 25 ottobre 1927 a poche miglia dalla costa del Brasile, provocando almeno 314 morti secondo i dati forniti dalle autorità fasciste dell’epoca, mentre a detta del “Clarin”, il giornale di Buenos Aires, furono 657, un numero di vittime più che doppio. Seppur minimizzato dagli organi di informazione del tempo, il naufragio del Principessa Mafalda può essere considerato il disastro navale italiano più grave del Novecento tanto da essere tristemente ricordato come il Titanic italiano.
In anni in cui quello dell”emigrazione era un fenomeno in crescente aumento, l’industria navale italiana si trovò a dover soddisfare una considerevole domanda di nuove navi che fossero all’altezza della concorrenza nordeuropea.
Nel 1904 Il cantiere navale Riva Trigoso, su commissione del Lloyd Italiano, prese dunque parte ad un grande progetto di investimento che comprendeva la realizzazione di una coppia di transatlantici gemelli destinati alle remunerative rotte verso le Americhe: il Principessa Mafalda e il suo gemello Principessa Jolanda. Le due navi, caratterizzate dall’allestimento di gran lusso, avrebbero sicuramente contribuito ad aumentare il prestigio della flotta nazionale, divenendo le più grandi navi sino ad allora costruite per una compagnia italiana.
Tuttavia, il 22 settembre 1907 il Principessa Jolanda, che fu ultimato per primo, affondò a pochi minuti dal varo di fronte ai cantieri Riva Trigoso, con grande sgomento della folla e delle autorità riunitisi per il festoso evento.
Chiarite le cause tecniche dell’incidente, baricentro troppo alto dovuto al fatto che la nave era stata varata con gli allestimenti interni già in opera ma senza zavorra, il cantiere si concentrò sul completamento del Principessa Mafalda.
Visto il destino della nave gemella, che sembrava un funesto presagio, l’attesa del varo del Principessa Mafalda si fece particolarmente pregno di tensione ma, il 30 marzo 1909 al viaggio inaugurale, il duca Emanuele Filiberto d’Aosta elogiò le doti tecniche e il grande sfarzo della nave.
Costruito su progetto dell’ingegner Erasmo Piaggio, in effetti il Principessa Mafalda era caratterizzato per l’allestimento di gran lusso e per avere per la prima volta nella storia della navigazione, un salone delle feste e vari altri ambienti estesi in verticale su due ponti. Di quest’ultima caratteristica il Lloyd Italiano andava particolarmente fiero, poiché aveva suscitato l’ammirazione di tutta l’Europa e faceva del Principessa Mafalda il più prestigioso piroscafo della flotta italiana.
La nave era inoltre dotata di telegrafo e lo stesso Guglielmo Marconi effettuò a bordo i primi esperimenti radiofonici. Dal 1909 in poi fu dapprima impiegata per effettuare la traversata dell’oceano Atlantico da Genova a Buenos Aires, con scalo a Rio de Janeiro e Santos, divenendo per svariati anni la miglior nave italiana. Infatti, sulla Mafalda avevano viaggiato lo scrittore italiano Pirandello, amico dello scrittore argentino Borges, Arturo Toscanini e Carlos Gardel, la voce d’Argentina. Tra loro, nella terza classe, c’erano sempre stati anche gli emigranti italiani. Quelli poveri che avevano venduto il poco che avevano per cercare di risorgere altrove dopo la prima guerra mondiale o di sfuggire a una seconda guerra, ormai in agguato.
Dal 1914 al 1922 fu utilizzata per la traversata da Genova a New York, per poi riprendere a servire la rotta Genova-Buenos Aires. Nell’ultimo viaggio, compiuto nell’ottobre del 1927, sulla nave venne imbarcato un forziere di monete d’oro per un valore complessivo di 250.000 lire dell’epoca. Esso rappresentava un dono del governo italiano a quello argentino come riconoscente gesto di ringraziamento per l’accoglienza dei numerosi emigranti italiani che ogni anno raggiungevano lo Stato sudamericano. Seppur non ve ne sia la conferma, il carico dovrebbe ancora giacere nella stiva del relitto a circa duemila metri di profondità.
Gli interni del piroscafo erano riccamente decorati e arredati; nei ponti di Prima classe vi era un salone delle feste, una sala della musica completa di pianoforte a coda, un jardin d’hiver, un fumoir, un ristorante, una sala da gioco, vari salotti e cabine con servizi interni per 180 persone. Inoltre, il transatlantico fu fra i primi ad essere dotato di illuminazione elettrica, telegrafo senza fili e telefono in ogni cabina di Prima classe.
I ponti di Seconda classe erano collocati a poppa e ospitavano anche aree all’aperto con sedie sdraio e cabine per 150 persone. La Terza classe era disposta ai ponti inferiori con spazi estesi di concezione piuttosto innovativa, suddivisi in ampi stanzoni forniti di servizi igienici, che potevano ospitare fino a 1.200 passeggeri, solitamente migranti. Ai ponti inferiori trovavano posto anche i locali tecnici, la stiva, magazzini, la sala macchine e gli alloggi per circa 300 membri dell’equipaggio.
L’ULTIMO VIAGGIO
La nave partì per il suo ultimo viaggio da Genova l’11 ottobre 1927 al comando di Simone Gulì, un esperto comandante siciliano sessantaduenne, con a bordo 1.259 persone tra cui una nutrita minoranza di emigranti siriani e soprattutto emigranti piemontesi e liguri, qualche trentino e numerosi veneti, tra cui il pasticciere Ruggero Bauli, che sopravvisse alla sciagura. Sarebbe dovuto essere l’ultimo viaggio del transatlantico prima del suo smantellamento. Dopo anni di usura e scarsa manutenzione il piroscafo non era più considerato sicuro dagli addetti ai lavori, ma secondo la società armatrice la nave era in perfette condizioni e poteva ancora godere del prestigio di un tempo. Malgrado ciò durante quest’ultimo viaggio si verificarono innumerevoli contrattempi, prima del tragico epilogo.
Già alla partenza vi fu un ritardo poiché necessitarono delle riparazioni ai motori che richiesero alcune ore. I guasti furono riparati e, seppur con un ritardo di cinque ore, il piroscafo partì; tuttavia i problemi si ripresentarono non appena lasciata la costa ligure, al punto da costringere il comandante Gulì a fermare i motori ben otto volte nel solo tratto tra Genova e Barcellona.
La tappa nello scalo spagnolo si prolungò per ulteriori ventiquattr’ore, poi la navigazione riprese alla volta dell’arcipelago di Capo Verde, ma a due ore dallo stretto di Gibilterra subentrò un nuovo guasto, costringendo il piroscafo a navigare con il solo motore di dritta. Lasciato il Mediterraneo si guastò anche il motore di sinistra e quindi si procedette alla ricerca dell’avaria lasciando il piroscafo a motori spenti per circa sei ore. Riparato il guasto il Principessa Mafalda ripartì con il solo motore di sinistra navigando lievemente piegato a sinistra e a velocità ridotta per un giorno intero.
Si rese dunque necessaria una tappa non prevista al porto di Dakar per effettuare la riparazione all’asse dell’elica sinistra. Il 18 ottobre, dopo la partenza da Dakar, tuttavia si dovette effettuare un’altra tappa forzata di quasi ventiquattr’ore presso lo scalo di São Vincente, dove si dovette rimediare alla riparazione delle celle frigorifere che, essendosi guastate durante la navigazione, avevano fatto deperire le scorte di alimenti e di carne, provocando principi di intossicazione ai passeggeri. Furono quindi acquistati e macellati in loco suini e un bue per garantire nuovamente la corretta fornitura dei pasti.
La navigazione nell’oceano Atlantico procedette con relativa normalità anche se con forti vibrazioni e costanti problemi al motore di sinistra. Questi problemi indussero il comandante Gulì a chiedere alla compagnia di mandare un altro transatlantico in sostituzione del Principessa Mafalda per trasbordare i passeggeri; la richiesta fu però respinta e gli venne ordinato di proseguire fino alla successiva tappa prevista al porto di Rio de Janeiro, in attesa di nuove istruzioni
Una foto scattata a bordo: il secondo da destra è Isidoro Adami
La mattina di martedì 25 ottobre, la nave procedeva ad una velocità di soli 13 nodi e con un visibile rollìo che la faceva inclinare verso sinistra. Venne anche superato dal cargo olandese Alhena che però, non ricevendo particolari segnalazioni, proseguì indisturbato. Alle 17.10, quando la nave era a circa 80 miglia al largo della costa del Brasile, tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro, in tutto il bastimento fu percepita una fortissima scossa; i passeggeri, preoccupati, uscirono sui ponti per cercare di capire cosa stesse accadendo nonostante la nave procedesse in modo apparentemente regolare, seppur rallentando visibilmente.
Il primo pensiero degli uomini dell’equipaggio fu che la scossa potesse essere causata dalla rottura di un’elica, fatto certamente grave ma non necessariamente pericoloso. Tuttavia il direttore di macchina, Scarabicchi, salì in plancia ed informò il capitano che aveva individuato il vero problema: si era completamente sfilato l’asse dell’elica sinistra che, continuando per inerzia il suo moto rotatorio, aveva causato un grave squarcio nello scafo di poppa.
L’acqua stava quindi entrando copiosamente, allagando la sala macchine. Presto avrebbe invaso anche la stiva, poiché i congegni delle porte stagne non funzionavano correttamente; subito si tentò, inutilmente, di riparare la falla con pannelli di metallo. Dopo le prime rassicurazioni ai passeggeri, Gulì ordinò di fermare le macchine e di suonare l’allarme per radunare l’equipaggio, mentre il primo ufficiale Maresco dava ordine ai marconisti di lanciare l’S.O.S. (Continua)
© Il cronista della Storia
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