D A UNA FOTO, UNA STORIA
di Maurizio Panizza
Ci sono immagini che nascondono segreti. Saperle osservare, senza pre-giudizio, collegare più elementi, interpretare il contesto, consultare altre fonti, può diventare un’operazione molto interessante. Un’operazione che a volte può rivelare sorprese inaspettate.
IL NAUFRAGIO DEL MAFALDA
25 ottobre 1927
La testimonianza di un trentino: Isidoro Adami.
(Terza parte)
Il magnifico sogno del transatlantico più lussuoso della Marina italiana, in poche ore finì in tragedia.
E malgrado il coraggio dimostrato dal comandante Gulì e dall’equipaggio, prodigatisi fino all’estremo sacrificio, l’affondamento del Principessa Mafalda ebbe conseguenze disastrose.
314 furono le vittime, su 1256 passeggeri, escludendo un numero imprecisato di clandestini che poi si scoperse erano a bordo. I morti, furono soprattutto di terza classe, quella degli emigranti. Fra questi, molti di quelli che non avevano trovato posto sulle scialuppe finirono orrendamente in bocca agli squali che infestavano le calde acque di quell’oceano antistante il Brasile.
La notizia del disastro fece presto il giro del mondo suscitando grande sgomento, tuttavia la stampa italiana dell’epoca diede alla tragedia un taglio marcatamente retorico, ponendo l’accento sui vari episodi di eroismo e nient’altro. I principali giornali, controllati dal regime fascista, ricevettero le consuete veline in cui si suggerì di dare notizie vaghe e quindi vi furono diverse versioni in cui si parlò di fatalità, di incendio a bordo, di scoppio delle caldaie, sempre comunque diminuendo grandemente il numero reale delle vittime.
Una plausibile motivazione per minimizzare le conseguenze del grave disastro fu soprattutto quella economica.
l’Italia di quegli anni, infatti, investiva fortemente nell’industria navale e quindi sarebbe stato sconveniente spaventare la cospicua percentuale di emigranti che rappresentavano una sicura fonte di guadagno per le compagnie di navigazione.
Con le false notizie che si diffusero venne quindi comunicato che il maggior numero delle «poche decine di vittime» (Corriere della Sera) erano da contare soltanto tra gli ufficiali dell’equipaggio.
Il ministro delle Comunicazioni, Costanzo Ciano, dal canto suo dichiarò che la nave alla partenza era in perfetta efficienza, insistendo che quanto accaduto era da attribuirsi unicamente al fato avverso.
La verità, come abbiamo visto, era però ben altra. La Principessa Mafalda, al suo ultimo viaggio, era ormai ridotta ad una carretta del mare e la prima causa dell’affondamento fu dovuta allo sfilamento dell’albero dell’elica di sinistra.
Quella rottura produsse una falla che in altre circostanze non avrebbe provocato ingenti danni, ma nella situazione di scarsissima manutenzione in cui versava la nave – da qui la seconda causa – le porte a tenuta stagna costruite per impedire l’allagamento delle varie sezioni, non riuscirono a fare il loro dovere. Così, in venti minuti, la Mafalda imbarcò 350 tonnellate d’acqua e inutili furono tutti i tentativi per salvarla.
Molte testimonianze raccolte in seguito, concordarono nell’affermare che il comandante Gulì restò al suo posto fino alla fine, affondando con la sua nave.
Il salvataggio dei pochi superstiti che tentavano di rimanere a galla, proseguì poi fino a tarda notte e all’una anche l’Alhena, una delle navi accorse in aiuto, lasciò il luogo del disastro. Due ore dopo sopraggiunsero anche dei piroscafi brasiliani che però non trovarono più alcun sopravvissuto, solo un’infinità di cose galleggianti e il rumore delle onde che si si infrangevano contro gli scafi.
Isidoro Adami, il protagonista di questa storia, come sappiamo venne recuperato da una nave francese che fece tappa prima in Brasile, per poi proseguire la navigazione verso l’Uruguay.
Qui, Isidoro, poté finalmente ricongiungersi ai suoi fratelli, i quali, fino all’ultimo, non sapevano se fosse sopravvissuto dal naufragio.
E il destino che prima l’aveva portato su quella nave, poi buttato in mare e poi ancora salvato dai pescecani, alla discesa a terra nel porto di Montevideo gli riservò un’altra sorpresa: una fotografia che andò sulla prima pagina del giornale “El Diario” del 4 novembre del 1927, in cui lui, zoppicando, viene sorretto dai fratelli.
A questo punto, devo svelare ai lettori una pagina diversa, e più personale, di questa storia: Isidoro Adami era il fratello di mia nonna. Un fratello che, dopo quel viaggio di andata, la nonna non rivide più perché lui, Isidoro, non volle rifare mai quel viaggio a ritroso. Si tennero però in contatto tramite lettera, all’inizio numerose, poi sempre più rade nel tempo, fino a quando la nonna morì più di cinquant’anni fa e le comunicazioni si interruppero per sempre.
Così quello zio, che mio padre non aveva mai conosciuto, si perse nel tragico e avventuroso ricordo del Mafalda. Fino a quando nel 2002, io e papà, non decidemmo di cercare la figlia Palma, di cui sapevamo solo il nome. Oltre a quello, avevamo anche il nome di un piccolo paese dell’Uruguay, recuperato da una delle poche lettere ancora rimaste. E lì scrivemmo un’email a caso, alla quale una ventina di giorni più tardi venne data risposta da una sconosciuta agenzia del luogo. Con grande sorpresa, ci venne così comunicato che il nostro appello era stato consegnato e che al più presto ci sarebbe stata scritta una lettera a mezzo posta. Alcune settimane dopo, infatti, arrivò una lunga missiva, scritta in spagnolo, della cugina Palma. Lei diceva di avere 67 anni, di essere vedova e di avere due figlie sposate; il padre, Isidoro, morto già da una ventina d’anni, spesso ricordava Volano, suo paese natale, e la sorella Candida. Ci raccontava, inoltre, che quando era arrivata la nostra richiesta via email, in contemporanea una delle sue figlie aveva ricevuto dall’Istituto Italiano di Cultura di Montevideo una telefonata che le comunicava di aver ottenuto il terzo posto al concorso letterario “I ricordi della memoria”.
Incredibile la coincidenza e meraviglioso il testo con cui Nancy (questo il suo nome) ha ottenuto il riconoscimento.
Commovente, delicato, ricco di sensazioni e sentimenti, è il ricordo di una bambina cullata dal nonno su di un vecchio dondolo cigolante. Leggiamolo insieme.
BAJO EL PARRAL (SOTTO IL PERGOLATO)
Ancora sento nella freschezza del giardino, le uve, i gelsomini, i fiori d’arancio, l’infanzia. Danzano i profumi al cigolare delle vecchie catene. Viaggio in una nave per gli infiniti mari verdi macchiati dal sole. Il nonno canta, canta e mi culla. La sua voce rauca e soave, il suo accento italiano, ondeggiano assieme alle verdi ali del pergolato. Profumo di vino, di lavoro e di poesia, di nostalgia e di ottimismo: tutto si confonde, si fonde nel sangue della vite.
Vecchi ricordi, vite lontane, sogni, insuccessi e speranze si respirano nell’ombre. Dalla radice emerge la forza: “Avanti giovani, sempre avanti”, si sente profondo, intenso, inevitabile, come la vita.
Sapore di miseria, si alimenta Isidoro dal seno di Prassede. Infanzia fredda, di bianca allegria, infanzia senza giocattoli, mondo di neve. Passa la luce, viene la guerra.
Oscurità di scantinato, pianti di madri, di bambini, di vecchi. Freddo, fame, fuoco, corse di ragazzi che cercano tra i morti e i campi vuoti, qualche alimento. Tristezza che strappa le viscere, immensa solitudine… muore la mamma. Isidoro si sommerge, si sommerge e lotta, lotta e vince, ammirabile gagliardìa di gioventù. Il servizio militare, il futuro… America, terra giovane, terra fresca. Porto di Genova,
undici ottobre del 1927, nave di speranza «Principessa Mafalda», milleduecento passeggeri, terza classe, ventiquattro anni, destino America, Volano nel cuore. La notte del venticinque, il mare attacca e affonda le vite, assieme a memorie e a illusioni. Sensazione interminabile, vuoto estremo, muscoli forti. Ottiene ricompensa l’audacia, luce la fatica, ossigeno lo sforzo; le tenebre si rompono, il cuore si agita, il silenzio spaventa. Solitudine che libera, vinti che muoiono, lotta che palpita, vita che nasce.
Porto di Montevideo, sguardo triste, sguardo forte, un solo obbiettivo: lavoro e sudore, lavoro e progresso. Corpo giovane, mani forti, schiena curva, chiara la mente. Sudore che bagna, che brilla, che onora, che forma e trasforma.
Uomo solo, uomo e sole, sole e campo, campo e sudore, sudore e vino, sudore salato, sale del mare. Arrivasti dal mare, immigrante sconosciuto, nonno amato. Donasti le tue ore, i tuoi giorni, la tua stanchezza a questo sole e a questo campo. Fosti parte di questa terra come essa fu parte del tuo lavoro, fu l’Uruguay la tua patria ma non la tua culla. Avesti i tuoi frutti, i tuoi campi, le tue vigne, il tuo orgoglio, il tuo sangue, il tuo vino, la tua vita, tua figlia, mia madre.
Dalle tue mani violacee, consumate dal profumo del grano, imparai l’onestà dell’uomo buono, l’orgoglio di essere onesto, il valore della parola, il senso della giustizia, la moderazione, il rispetto e soprattutto la gratitudine.
A questo popolo fosti grato per la generosità delle sue terre, e persino ti sentisti offeso quando qualche uruguayano si lamentava della sua sorte senza apprezzare i doni che questa terra gli offriva.
Ti trovai un giorno, curvato dagli anni, mentre assaporavi con tranquillità, sotto il pergolato della tua casa, la pace del tuo vino che alleviava la ferita causata dalla vita passata lontano dalla tua Italia. Non volesti ritornare, non potevi immaginarti come turista a Volano; come partire due volte se soltanto si muore una? Però ad ogni festa decoravi la tua tavola con la tovaglia bianca italiana. Prima di iniziare il pasto invocavi tua sorella, le tue grandi mani, violacee, profumate non smettevano di lisciare i rosai ricamati sulla seta bianca.
Oggi nessuno accarezza più la tua tovaglia italiana, ed essa riposa tranquilla, sicura che nel tuo volo ritornasti a Volano per unirti ai tuoi fratelli in un eterno abbraccio.
Nonno canta, canta e sorridi, il dondolo piange, i pergolati tremano.
Nancy Urdampilleta Adami
© Il cronista della Storia
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