I COSACCHI IN ITALIA – 10

a cura di Cornelio Galas

CONCLUSIONE

I cosacchi e i carnici

L’occupazione cosacca in Carnia, terra di per sé povera ed avara, costituì un vero e proprio martirio per la popolazione locale, già provata dalle privazioni, dai lutti di quattro anni di guerra e dai provvedimenti punitivi del Supremo Commissario tedesco Rainer motivati dalla presunta, totale solidarietà della popolazione carnica alle formazioni partigiane.

Alla brutalità e alle violenze delle prime settimane dell’occupazioni, seguì una fase di progressiva moderazione da parte dei nuovi arrivati. Requisizioni, ruberie, percosse ed occupazione di alloggi privati proseguirono, ma più rari si fecero i delitti più efferati (omicidi di civili, stupri) e la forzata convivenza degli inizi si stemperò progressivamente in reciproca tolleranza e, in taluni casi, anche in amicizia.

Si trattava di due comunità diverse per cultura, tradizioni, religione, entrambe vittime di eventi che sfuggivano non solo al loro controllo, ma anche alla loro comprensione. I cosacchi, in particolare, erano al tempo stesso vittime e complici della politica delle autorità tedesche, della quale non compresero le storture e i fini egoistici.

Non avevano cioè capito di essere anch’essi, ai loro occhi, degli untermeschen da usare per esigenze militari di basso profilo finchè potevano essere utili, per poi essere abbandonati al loro destino di “sub-umani” quando non lo fossero più. Pensavano di essere i padroni in Carnia, ma erano solo liberti, comandati a governare un popolo di schiavi.

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I Cosacchi furono certamente brutali e inclini a commettere soperchierie, ma non sempre e non tutti. Così vi fu chi si comportò correttamente ed in questi casi si stabilirono rapporti cordiali e amichevoli tra occupanti ed occupati, come risulta dalle testimonianze e dai ricordi dei locali specie in occasione della loro partenza dalla Carnia per raggiungere l’Austria. Alcuni eloquenti esempi:

  • a Villa Santina, la famiglia Masieri, presso la quale aveva preso alloggio il Gen. Solamachin, Capo di Stato Maggiore del Corpo speciale cosacco, invitò il Generale a rimanere in Italia, loro ospite, invito che egli rifiutò ritenendo suo dovere condividere il destino della comunità cosacca;
  • nella zona di Trasaghis, malgrado più gravi fossero stati colà i soprusi e le violenze dei cosacchi nell’ottobre 1944, c’erano stati due matrimoni misti e parecchi cosacchi, alla fine di aprile 1945 furono nascosti e protetti dai residenti locali e successivamente poterono emigrare;
  • a Paluzza, la moglie di un Maggiore cosacco, all’atto della partenza, forse presaga del tragico destino che attendeva la comunità, chiese alla padrona di casa ove alloggiava se poteva affidarle il proprio unico figlio, undicenne, fino a quando le fosse stato possibile ritornare a riprenderlo. La signora carnica acconsentì e disse che lo avrebbe tenuto come un figlio, anche per sempre. Le due donne si abbracciarono. Più tardi, si presentò il Maggiore che ringraziò la padrona di casa, si scusò a nome della moglie che aveva agito in un momento di debolezza e disse che il bambino era un cosacco e avrebbe seguito il destino della comunità;
  • a Villa Santina, un rozzo, soldato cosacco che nell’ottobre 1944 si era installato, con il proprio cavallo, con una certa arroganza, presso una famiglia del luogo. Si era poi gradualmente adeguato alle esigenze e alle abitudini dei suoi ospiti. Quando fu il momento di partire salutò la famiglia piangendo. Nessuno parlò. Se il soldato avesse chiesto di restare e di nasconderlo, la famiglia gli avrebbe risposto di restare;
  • anche a Prato Carnico, vi furono singoli esempi di cordiali rapporti tra locali e caucasici;
  • ad Artegna, non lontana da Gemona del Friuli, un Capitano cosacco con il figlio, aveva trovato ospitalità presso la famiglia Comoretto. Il figlio Herman Ermolaev, ventenne, aveva stretto amicizia con le giovani figlie Comoretto. Alla partenza verso l’Austria, il 2 maggio 1945, durante una sosta a Zuglio (valle del But) egli scrisse una lettera ad una di queste, Adalgisa Comoretto, per salutare e ringraziare lei e la famiglia tutta della benevola ospitalità e dell’amicizia dimostratagli. Sottrattosi con la fuga alla triste sorte toccata al padre e al suo popolo, riuscì a raggiungere gli Usa ove si laureò e divenne Prof. ordinario di lingua e letteratura russe presso l’Università di Berkley (California). Alcuni anni fa inviò il figlio Michael in Friuli a rintracciare la famiglia Comoretto e nel 2001 venne lui stesso ad Artegna accolto calorosamente dalla numerosa ed estesa famiglia di Adalgisa Comoretto. Il 24 aprile 2004, in occasione della proiezione del documentario “Kosakenland in Italien” della regista RAI – Sede regionale Friuli Venezia Giulia, Noemi Calzolari, era presente anche il figlio Michael Ermolaev che lesse una commossa lettera del padre, ancora vivente, tuttora riconoscente e legato al ricordo dell’amicizia stabilita sessant’anni prima, per lui bene prezioso da tramandare ai figli. La lettura della lettera è stata accolta dagli spettatori, la maggior parte anziani locali che avevano memoria diretta della occupazione cosacca, con calorosi applausi. La serata era stata aperta dal coro di Artegna con una canzone cosacca sul tema della nostalgia per la terra lontana. Canzone non improvvisata per la circostanza, ma che faceva parte del repertorio del coro locale.
  • Certo, i carnici videro con enorme sollievo la partenza dei cosacco-caucasici dalla Carnia, anche perché questo significava la fine della guerra.La favorirono senza interferirvi, dando prova di grande civiltà e di profonda carità cristiana – a parte l’insensata iniziativa dei partigiani della Osoppo a Ovaro – in luogo di attuare vendette contro quella massa di disperati, che pur sarebbero state ampiamente comprensibili. Ne ebbero pietà, avendo letto nei loro volti lo smarrimento e l’angoscia di quell’ultimo viaggio verso il loro tragico destino.
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  • E’ tuttora difficilmente comprensibile il fatto che la maggioranza dei carnici non ricordi con odio, orrore o risentimento l’occupazione cosacco-caucasica dell’ottobre 1944-maggio 1945, occupazione che portò lutti, drenò le scarse risorse disponibili e sconvolse la vita della società carnica. Eppure è così, forse perché ne percepirono le tragiche vicende che avevano accompagnato nei secoli quella comunità e ne presagirono l’imminente infausta sorte e, con grande generosità, alla fine seppero capire e, in certa misura, perdonare.
  • I cosacchi e gli inglesi

Alla luce di quanto previsto nel protocollo segreto dell’accordo di Yalta, febbraio 1945, sul rimpatrio dei cittadini sovietici, è opportuno ricordare che la comunità cosacca, militari e profughi, giunta nell’alta valle della Drava, agli inizi di maggio, era costituita da almeno 3.000 membri i quali, pur di sangue russo, non erano cittadini sovietici.

Infatti, non avevano riconosciuto e avevano anzi combattuto il regime sovietico e, dopo la sconfitta delle Armate Bianche, avevano lasciato la Russia per stabilirsi in vari Paesi europei: Francia, Germania, Inghilterra, Jugoslavia, Bulgaria, Italia. Molti di questi membri avevano anche assunto la cittadinanza del Paese in cui vivevano esuli o possedevano il certificato “Nansen” di apolidi, rilasciato dalla Società delle Nazioni.

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Tutti questi non-cittadini sovietici erano quindi esclusi dal rimpatrio, secondo il predetto accordo. La massa della comunità era invece costituita da cittadini sovietici e come tali ne era prevista la restituzione ai sovietici. Nel testo dell’accordo di Yalta non figurava la clausola secondo la quale i prigionieri di un Paese, liberati dalle truppe di altro Paese dovevano essere restituiti al Paese di appartenenza anche contro la loro volontà.

Tuttavia, vi fu un accordo non scritto secondo il quale si sarebbe proceduto alla consegna dei russi anche contro la loro volontà il che voleva dire che si sarebbe usata la forza nei confronti di chi si fosse opposto al rimpatrio.

D’altra parte, gli inglesi avevano accettato questa politica dall’ottobre 1944, nel rimpatriare i russi catturati in uniforme tedesca dopo lo sbarco in Normandia, aderendo alle precise richieste delle autorità sovietiche. Gli americani, inizialmente riluttanti, nel dicembre del 1944, si erano uniformati alla prassi seguita dagli inglesi.

Nel caso dei cosacchi e caucasici, che avevano combattuto la Rivoluzione Russa ai suoi inizi e che erano stati ostili, anche dopo, al regime sovietico con sporadiche eruzioni di guerriglia, non vi erano dubbi che il problema dell’uso della forza sarebbe emerso perché tutti si sarebbero opposti al rimpatrio, ben consci delle inevitabili punizioni che li attendevano in patria.

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Nessuno, peraltro, nell’alta valle della Drava, nel maggio 1945, conosceva l’esistenza del protocollo di Yalta in merito alla restituzione dei russi alle autorità sovietiche, né i cosacchi nè gli inglesi tranne forse il Gen. Keightley, Cte del V CA e qualche ufficiale del suo Stato Maggiore.

Il punto di vista cosacco

I cosacchi, pur ignorando quanto era stato concordato a Yalta in merito alla restituzione dei prigionieri di guerra, intuivano che la loro posizione era equivoca. Essi infatti si erano schierati con i tedeschi in funzione anti-sovietica, ma poiché l’Urss si era alleata con gli Stati Uniti e con l’Inghilterra, formalmente essi risultavano essere stati nemici anche di quei Paesi.

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Paventando quindi la loro consegna alle autorità sovietiche, cosa d’altronde prevista dall’articolo 75 della Convenzione di Ginevra, i Comandanti cosacchi si affrettarono a rendere noto alle autorità militari inglesi, Gen. Arbuthnott Cte della 78a Div. e Gen. Musson Cte della dipendente 36a Brg, cui si erano arresi, che essi non avevano mai combattuto contro gli anglo-americani nè lo avrebbero fatto se i tedeschi lo avessero ordinato.

L’atamano Gen. Krassnov, in una lettera indirizzata al Maresciallo Alexander, scritta appena giunto a Lienz, il 9 maggio, spiegava appunto che lo scopo che si erano prefissi i cosacchi era quello di liberare la Russia dal regime sovietico. I tedeschi, nel 1941, avevano attaccato l’Urss e solo allora, e non prima, i militari zaristi esuli erano accorsi a Berlino e offerto la loro disponibilità ai tedeschi.

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Krassnov ne scrisse una seconda analoga intorno al 25 maggio, quando ormai il destino dei cosacchi era stato segretamente deciso dagli inglesi, ed indirizzò un ultimo disperato appello, la notte tra il 28 e il 29 maggio poche ore prima di essere consegnato ai sovietici, con le stesse argomentazioni, al Re Giorgio VI d’Inghilterra, a Re Pietro II di Jugoslavia, al Pontefice, alla Croce Rossa Internazionale.

In breve, dal loro punto di vita, i cosacchi non avevano tradito la loro patria, essi si erano ribellati fin dal 1918 alla presa di potere del regime sovietico, impostosi con la violenza, e lo avevano da allora combattuto.

Il punto di vista inglese
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Le truppe inglesi dell’alta valle della Drava, alle quali i cosacchi si erano arresi, ignari della loro storia e delle motivazioni che li avevano portati nel cuore delle Alpi, li trattarono con una certa cordialità, suscitata dal loro aspetto pittoresco e dalla presenza di numerosissimi profughi civili di ogni età.

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Nessuno, agli inizi sapeva quale sarebbe stato il destino dei cosacchi. Perciò li sistemarono nell’area di Lienz e concessero loro una certa autonomia disciplinare interna, in virtù della loro esemplare aderenza alle disposizioni impartite ed anche per motivi pratici, perché mancava il personale necessario ad assicurare una capillare sorveglianza dell’ampia area degli accampamenti.

Come precedentemente detto, permisero loro perfino di trattenere le armi individuali per il mantenimento dell’ordine interno e la vigilanza esterna dei vari campi. La prima indicazione sulla loro destinazione emerse il 10 maggio quando, durante la visita del Gen.

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al Comando sovietico di Voitsberg per concordare la linea di demarcazione tra il settore inglese e quello sovietico, fu alla fine rivolta al Generale la richiesta di consegnare i prigionieri cosacchi nel suo settore in aderenza all’accordo di Yalta.

Il Generale rispose in forma interlocutoria. Il giorno successivo, i sovietici gli fecero pervenire un elenco nominativo dei prigionieri cosacchi che volevano fossero consegnati in via prioritaria. I primi nominativi dell’elenco erano quelli dei Generali zaristi, da Krassnov in giù. Il Gen. Keightley, alla vista dell’elenco si indignò commentando che mai li avrebbe consegnati.

Questa sua netta presa di posizione si modificò radicalmente dopo la visita, al suo Comando, da parte del Ministro consigliere inglese, presso AFHQ, Macmillan, il 13 maggio. Da quel giorno, il Cdo V CA iniziò a pianificare e a predisporre la consegna dei cosacchi eccedendo le stesse richieste sovietiche.

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Ignorando la disponibilità dei Comandi superiori a favorire i cosacchi, magari differendone la consegna nella speranza che si individuasse una soluzione politica o diplomatica che permettesse di salvare loro la vita, senza violare l’accordo di Yalta, il Cdo del V CA proseguì pervicacemente la sua azione intesa a consegnare al più presto ai sovietici tutti i cosacchi, militari e profughi, cittadini sovietici e cittadini non – sovietici, ricorrendo anche all’uso della forza se necessario. A questo fine, il Cdo V CA non esitò a trarre in inganno i Comandi superiori, ad ignorare e a disobbedire agli ordini ricevuti.

Secondo Tolstoy, a responsabilità di tutto questo che egli definisce “cospirazione”, è da attribuirsi a Macmillan, che giustificò questa linea di condotta con la necessità di compiacere i sovietici ottenendo in cambio il sollecito rimpatrio dei prigionieri inglesi liberati dall’Armata Rossa, e al tempo stesso di non turbare le imminenti, difficili e delicate trattative con l’Urss sull’assetto politico europeo del dopoguerra ed, in particolare, sulla questione polacca.

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Macmillan accennò anche all’opportunità di decongestionare l’area carinziana ove si stava concentrando una enorme massa di prigionieri, cosacchi, tedeschi, croati, sloveni, cetnici, ucraini etc, cui le limitate risorse umane e materiali del V CA non riuscivano a far fronte. Per raggiungere il suo scopo, Macmillan si avvalse dell’intelligente ed ambizioso Gen. Toby Low, Ca. SM del Cdo V CA, candidatosi nelle file del partito Conservatore, di cui lo stesso Macmillan era autorevole membro, nelle imminenti elezioni per il rinnovo della Camera dei Comuni.

Macmillan trovò facile influenzare il Cte del V CA, Gen. Keightley, persona capace sul piano professionale, ma dai limitati orizzonti intellettuali per quanto esulava dal campo strettamente militare.

La posizione sovietica

I motivi, alla base delle richieste sovietiche di restituzione di tutti i cittadini sovietici collaborazionisti e degli ufficiali zaristi, furono fondamentalmente due: il primo motivo era la vendetta, la punizione cioè che doveva colpire chi aveva collaborato con il nemico tedesco tradendo la madrepatria.

Il secondo motivo era basato sulla persistente, ossessiva diffidenza di Stalin, condivisa da altri membri della Dirigenza sovietica, nei confronti degli alleati occidentali e sul suo costante timore che questi, una volta sconfitta la Germania nazista, potessero rivolgersi contro l’Urss per abbatterne il regime comunista.

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Se il temuto attacco si fosse materializzato, gli anglo-americani avrebbero potuto avvalersi di una consistente massa di due milioni di prigionieri sovietici, liberati dagli anglo-americani – in aggiunta alle centinaia di migliaia di russi collaborazionisti in armi, come i cosacchi – che si sapeva essere poco inclini a rientrare in Urss dove, quali presunti disertori, li attendeva, nel caso più favorevole, un futuro più o meno lungo di rieducazione comunista nei campi siberiani.

Per guidare questa massa, gli alleati occidentali si sarebbero potuti avvalere delle prestigiose figure di cui disponevano, come Vlasov, Krassnov, Shkurò Ghirey, Naumenko e gli altri ufficiali zaristi.

A fronte di questa fantasiosa ipotesi, suggerita dalla paranoia della Dirigenza sovietica, c’era la realtà di una Unione Sovietica prostrata,. esausta, che non avrebbe potuto sostenere il peso di un’altra guerra. Anni dopo, Nikita Kruscëv ammise che nel 1945, dietro la potenza espressa dai sei milioni di soldati dell’Armata Rossa piantati nel cuore dell’Europa, c’era un Paese stremato, con focolai insurrezionali nei Paesi baltici e in Ucraina ove gruppi nazionalisti stavano infliggendo pesanti perdite alle unità dell’Armata Rossa.

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La posizione dei sovietici era quindi chiara: era necessario ed urgente ottenere quanto prima la consegna dei cosacchi e soprattutto dei Generali zaristi, per i motivi di cui sopra, ma anche per uso interno, per dimostrare cioè all’opinione pubblica sovietica che il regime comunista sapeva attendere, anche 25 anni, ma alla fine la giusta punizione avrebbe colpito inesorabilmente tutti i traditori, o presunti tali.

Responsabilità della soluzione adottata dal Cdo del V CA. per la consegna dei cosacco-caucasici ai sovietici

Secondo Nikolai Tolstoy

Stando alla ricostruzione fatta da Nikolai Tolstoy, fu Macmillan ad imporre al Gen. Keightley, Cte del V CA, la soluzione che prevedeva la consegna ai sovietici di tutti i cosacchi, senza distinzione e ricorrendo anche all’uso della forza, se necessario. La prevista consegna fu comunicata ai Comandanti in sottordine il 21 maggio ed a nulla valsero le loro proteste e riserve sulla liceità e sulla correttezza dell’operazione. L’ordine scritto fu emanato il 24 maggio.

Da un lato, quindi, il Maresciallo Alexander si adoperava, per quanto possibile, per una applicazione dell’accordo di Yalta in senso favorevole ai cosacchi, dall’altro il Cdo del V CA emanava disposizioni scritte, solo in parte conformi alle direttive da lui emanate, ed altre orali in netto contrasto con esse. Per esempio, nell’ordine scritto venivano esclusi dalla consegna i cittadini non-sovietici, mentre le disposizioni impartite verbalmente dal Cdo del V CA prevedevano la consegna di tutti i cosacchi senza eccezione.

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Gli ufficiali inglesi coinvolti nell’operazione, il Gen. Arbuthnott Cte della 78a Divisione e il suo subordinato, Gen. Musson, Cte della 36a Brigata, intervistati da Tolstoy negli anni ’70, sostennero che la selezione non era stata effettuata per non mettere in allarme la comunità cosacca e anche perchè mancava il tempo materiale per farla. Giustificazione debole, dice Tolstoy, perché altrove essa era stata fatta senza gravi inconvenienti.

La conclusione di Tolstoy è che Macmillan ordì la trama dell’intera operazione, il Gen. Keightley ne fu il tenace e ottuso esecutore, mentre l’astuto e ambizioso Gen. Toby Low, suo Ca SM, politicamente legato a Macmillan, ne curò i dettagli organizzativi con cinico zelo. I punti fermi sui quali egli pone la sua ricostruzione sono i seguenti:

  • ci fu una cospirazione il cui principale obiettivo fu quello di soddisfare la richiesta sovietica di consegna degli ufficiali zaristi, in primis i capi carismatici. Macmillan indusse il Cdo V CA ad ignorare le direttive che prevedevano la selezione dei cosacchi da rimpatriare la quale, se fosse stata attuata, li avrebbe esclusi;
  • il Maresciallo Alexander fu sempre contrario alla consegna indiscriminata dei cosacchi, così come all’uso della forza per coloro che vi si opponevano, pur rientrando nell’accordo di Yalta;
  • gli ordini scritti emanati dal Cdo V CA erano volutamente ambigui: per esempio, il paragrafo iniziale che precisava essere interessati al rimpatrio solo i cittadini sovietici era contraddetto dall’ultimo che enfatizzava la necessità, politicamente assai rilevante, di assicurare la consegna ai sovietici di tutti i Comandanti cosacchi di grado elevato, nessuno dei quali, tranne Domanov, era cittadino sovietico. Questo senza parlare degli ordini verbali del Cdo V CA di ignorare la selezione e di attuare invece la consegna indiscriminata di tutti, militari e civili;
  • il Cdo V CA, resosi conto del fatto che il proprio arbitrario comportamento nell’operazione consegna e i gravi incidenti che ne erano derivati, a Peggetz e altrove, avevano suscitato allarme ad AFHQ, in Caserta, ed avvertito che vi sarebbe stata una ispezione da parte del Maresciallo Alexander in Carinzia, il giorno 4 giugno, per rendersi conto di persona della situazione, modificò la propria politica ordinando l’attuazione della selezione prevista dalle direttive dei Comandi superiori;
  • il Maresciallo Alexander, dopo aver visitato i campi di prigionia nell’area del V CA, espresse agli ufficiali inglesi riuniti a rapporto la propria irritazione e disapprovazione per quanto era accaduto. E probabilmente Alexander vide solo la punta dell’iceberg, non avendo avuto l’opportunità o il tempo di rendersi conto degli aspetti più riprovevoli della cospirazione attuata.

Una interpretazione meno passionale

Nikolai Tolstoy è cittadino inglese, ma di sangue russo, discendente da nobili zaristi, riparati a Londra a seguito della Rivoluzione d’ottobre, e quindi avverso per tradizione famigliare al regime comunista sovietico.

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Nella sua ricostruzione delle vicende dei cosacchi che combatterono il comunismo a fianco dei tedeschi, non si può fare a meno di avvertire una marcata, ancorché comprensibile, empatia per la causa cosacca ed una violenta critica delle autorità inglesi, a suo dire alcune non tutte, che tradirono la fiducia in loro riposta dai cosacchi consegnandoli con l’inganno e con la violenza ai sovietici, ben sapendo quale sarebbe stato il loro destino.

In particolare, Tolstoy indica come responsabili e artefici del forzato rimpatrio della comunità cosacca tre personaggi: Harold Macmillan, rappresentante di Churchill presso l’AFHQ del Maresciallo Alexander, il Gen. Charles Keightley, Cte del V CA, e il Gen. Toby Low, suo Ca. SM.

Sulla base degli stessi elementi e circostanze storiche forniti da Tolstoy, ma depurandoli delle sue forzature e considerazioni preconcette, mi propongo di esporre, di seguito, una serie di osservazioni/riflessioni e formulare infine, con maggior serenità e distacco, una credibile ipotesi su responsabilità e colpe, che certamente vi furono, in merito alla indiscriminata e coatta consegna dei cosacchi ai sovietici.

Il Maresciallo Alexander, irritato a causa della arbitraria occupazione della Venezia Giulia, operata alla fine di aprile-primi di maggio, dalle forze jugoslave e preoccupato per la contestuale, confusa ed aggrovigliata situazione esistente in Carinzia, il 12 maggio inviò il Ministro consigliere Macmillan, presso il Cdo dell’8a Armata a Treviso, per rendersi conto di persona della situazione.

Il giorno 13 maggio, dopo un breve incontro con il Gen. McCreery, Cte dell’8a Armata, Macmillan volò a Monfalcone ove si intrattenne con il Gen. Harding, Cte del XIII CA, responsabile della Venezia Giulia. Tolstoy trova strano e sospetto il successivo spostamento di Macmillan a Klagenfurt, in Carinzia, area di responsabilità del V CA ma è normale che, dovendo rendersi conto della situazione in questa seconda area di crisi, egli abbia voluto avere un colloquio anche con il Gen. Keightley, Cte del V CA.

A maggior ragione doveva vederlo perchè la situazione in Carinzia era esplosiva, molto più complessa di quella dell’area di crisi giuliana. C’era infatti, in atto, un ininterrotto afflusso di consistenti unità militari tedesche, croate, slovene, cetniche con largo seguito di profughi civili, tutti provenienti dalla Jugoslavia e che intendevano consegnarsi agli inglesi.

Bande partigiane jugoslave, indisciplinate, avevano superato il confine jugoslavo e imperversavano nel territorio austriaco affermando la sovranità jugoslava su tutta la Carinzia sud-orientale. Infine, a circa 40 km ad est di Klagenfurt, era insediata l’Armata sovietica del Gen. Buzukhova la cui zona di occupazione era contigua a quella del V CA inglese.

Il giorno 10 maggio, al Gen. Keightley, giunto al comando sovietico per concordare la linea di demarcazione tra inglesi e sovietici, era stata richiesta la consegna dei cosacchi presenti nel suo settore. Keightley diede una risposta interlocutoria.

Il giorno successivo, i sovietici gli fecero pervenire la lista nominativa di ufficiali cosacchi zaristi dei quali volevano la consegna. Non è escluso che il Gen. Keightley, di fronte alle impudenti richieste dei sovietici che violavano i termini dell’accordo di Yalta, abbia chiesto istruzioni in merito. Macmillan fu probabilmente il latore di queste istruzioni che, in pratica, imponevano a un riluttante Keightley di aderire in toto alla richiesta sovietica.

E’ impensabile che queste istruzioni fossero un’iniziativa personale di Macmillan. Secondo Bethell, non è possibile stabilire esattamente a chi risalga la responsabilità della decisione, perché i verbali delle riunioni del Gabinetto dei Ministri per il mese di maggio non trattano l’argomento, né si è trovato alcun ordine scritto al riguardo.

E’ noto e documentato, invece, l’atteggiamento del Foreign Office, da sempre ostile ai russi collaborazionisti e sempre pronto a compiacere la Dirigenza sovietica. Già nel 1944, questo era il punto di vista del Foreign Office, al riguardo: “Il trattamento riservato ai russi collaborazionisti è una questione che riguarda solo le autorità sovietiche e non il Governo di Sua Maestà […] Tutti i russi, collaborazionisti o meno, in mano nostra, che le autorità sovietiche ritengono utile avere, devono essere loro consegnati e non ci riguarda il fatto che essi vengano giustiziati oppure trattati con brutalità e violenze contrarie alla legge inglese” .

E il Ministro Eden, nel raccomandare al Governo inglese l’approvazione dell’accordo di Yalta del febbraio 1945, riconobbe che rimpatriare i russi catturati avrebbe significato mandarli a morte certa ma aggiunse: “non è affare nostro preoccuparsi delle misure che i nostri alleati, incluso il Governo sovietico, attuano nei confronti dei loro cittadini […] Non possiamo permetterci di essere sentimentali al riguardo”.

E’ anche noto che il Ministro del Foreign Office, Antony Eden, era un ammiratore di Stalin sin da quando lo aveva incontrato per la prima volta nel 1935. Alla conferenza di Mosca, (10-16 ottobre 1944), durante una riunione conviviale al Cremlino, Stalin si era rivolto informalmente ad Eden, confidandogli che gli stava molto a cuore il sollecito rimpatrio dei collaborazionisti russi catturati dagli inglesi sul fronte occidentale. Ma non fu solo Eden ad essere condiscendente con i sovietici, anche molti suoi funzionari lo furono tra i quali Christopher Warner, Capo del Dipartimento dell’Europa nord-orientale.

Sembra quindi di poter estendere anche al Foreign Office la responsabilità della piena adesione inglese alla richiesta sovietica di consegna di tutti i cosacchi presenti in Carinzia.

L’ approvazione del Primo Ministro Churchill può esserci stata, ma in ogni caso essa era ininfluente perché si trattava di una decisione in linea con la politica sul rimpatrio dei cittadini sovietici concordata, da lui stesso e da Eden, con Stalin e Molotov, nella Conferenza di Mosca dell’ottobre 1944 e confermata nello specifico e noto accordo esteso anche agli Usa, a Yalta, nel febbraio 1945.

E’ molto probabile che Churchill abbia discusso la questione con il suo rappresentante presso AFHQ, Macmillan, che fu suo ospite a Londra il 20 e 21 maggio, giorni cruciali per la decisione sul destino dei cosacchi di Krassnov e di von Pannwitz.

Anche le autorità militari lungo tutta la catena gerarchica erano al corrente del previsto rimpatrio dei cosacchi. Sostenere che il Maresciallo Alexander sia stato tenuto all’oscuro della “cospirazione” o, peggio, che sia stato ingannato dal suo ministro consigliere e dal Cte del V CA, farlo apparire inconsapevole e incolpevole, quasi un burattino nelle mani dei suoi subordinati, costituisce un insulto alla sua intelligenza ed al suo prestigio di Comandante Supremo.

Il Maresciallo Alexander, in realtà, non poteva ignorare, tra l’altro, la richiesta di consegna di tutti i cosacchi, emigrati zaristi compresi, avanzata dai sovietici al Cdo V CA il giorno 11 maggio. Intervenne infatti presso il Ministero della Guerra britannico per limitare il provvedimento di consegna ai soli cittadini sovietici e per vietare l’uso della forza, ma la secca risposta fu che la consegna di tutti i cosacchi, inclusi gli emigrati zaristi, era stata decisa dal potere politico ed era ineludibile.

Negli ambienti politici londinesi, particolarmente nell’ambito del Foreign Office, era opinione diffusa e radicata che era assurdo provocare Stalin proteggendo russi che avevano tradito l’Urss e combattuto a fianco delle truppe tedesche.

Il 17 maggio 1945, egli cercò allora di guadagnare tempo inviando al Comitato dei Capi di Stato Maggiore Combinati (americani e inglesi) il noto messaggio in cui chiedeva direttive in merito, enfatizzando l’aspetto umanitario della questione. Stando così le cose, Alexander avrebbe dovuto coerentemente sospendere ogni iniziativa al riguardo, in attesa della risposta dei Capi di Stato Maggiore Combinati. Così non fu.

Il Maresciallo Alexander dovette evidentemente cedere alle forti pressioni politiche del Governo britannico affinché la consegna dei cosacchi avvenisse nei termini richiesti dai sovietici: tutti e subito, cittadini sovietici ed esuli zaristi.

Solo il 2 giugno 1945, quando trapelarono le notizie sui gravi incidenti occorsi a Peggetz, fu ordinata l’applicazione della selezione, limitando così la consegna dei cosacchi ai soli cittadini sovietici, ma ormai gli ufficiali zaristi erano stati consegnati e pochi e di trascurabile o nessun interesse per i sovietici erano i cosacchi che beneficiarono di questo tardivo provvedimento.

Il Maresciallo Alexander non poté far nulla per salvare i cosacchi, malgrado i suoi tentativi in tal senso. Tuttavia è chiaro che sapeva della loro consegna indiscriminata e dell’autorizzazione all’uso della forza, da parte delle truppe inglesi, nei confronti di chi si fosse opposto al rimpatrio.

Lo dimostra il fatto che, giunto in Carinzia il 4 giugno, per rendersi conto della gravità della situazione, egli si irritò per gli eccessi di violenza delle truppe inglesi, ma non prese alcun provvedimento contro i responsabili dell’”operazione consegna”, in particolare nei confronti del Gen. Keightley che anzi propose – al momento di lasciare l’incarico di SACMED – quale Comandante in Capo delle forze inglesi dell’Estremo Oriente; segno evidente che, a parte gli eccessi di cui sopra, Alexander aveva trovato corrette ed aderenti agli ordini ricevuti dai Comandi superiori l’organizzazione e l’esecuzione della consegna dei cosacchi da parte del Gen. Keightley.

Si può pertanto concordare con Tolstoy che si trattò di un complotto, ma i protagonisti non furono solo i tre personaggi da lui indicati; vi furono infatti coinvolti il Governo inglese e tutta la struttura gerarchica militare inglese; dal Ministro della Guerra James Grigg fino ai soldati che materialmente caricarono i cosacchi sugli autocarri e sul treno.

Fu, in sostanza, una operazione tutta inglese a salvaguardia degli interessi politici inglesi: inglese il Gen. Keightley, Cte del V CA, inglese il Gen. McCreery, Cte dell’8a Armata, inglesi il Maresciallo Alexander, il suo Ca. SM Gen. Morgan e il Ministro consigliere Macmillan.

Il Ministro consigliere americano di Alexander. Kirk, contattato il giorno 14 maggio, aveva espresso parere contrario all’operazione e da quel momento non era stato più consultato. Anche il Gen. americano Mark Clark, Cte del XV Gruppo d’Armate, livello intermedio tra il Maresciallo Alexander e l’8a Armata inglese del Gen. McCreery, fu completamente circuitato.

Non vi è dubbio che, non tanto la decisione quanto la gestione della consegna della comunità cosacca ai sovietici, rappresenta una brutta pagina della politica inglese alla fine della II Guerra Mondiale. Si è già trattato delle opinabili motivazioni che la determinarono.

D’altro canto, occorre anche tener presente il contesto storico in cui tale gestione fu pensata ed organizzata. L’Europa era solo da pochi giorni uscita dal più grande conflitto della Storia che in sei anni aveva provocato milioni di morti; la sorte di 50.000 o 60.000 cosacchi non poteva avere, al loro confronto, una particolare rilevanza. Interpretare e giudicare un evento storico, isolandolo dal suo contesto e adottando canoni e criteri della realtà attuale, costituirebbe un metodo antistorico di valutazione, un fuorviante esercizio di ex-postismo.

Il concetto fu sintetizzato con efficace semplicità, nel corso di una intervista del 1978, dal Ten. Col. Alec Malcolm, Cte dell’8° Btg. Argyll and Sutherland Highlanders, che aveva avuto la responsabilità dello sgombero dei cosacchi da Lienz.

Egli così si espresse: “Gli eventi di Lienz si verificarono nelle prime tre settimane di pace dopo sei anni di guerra. La valutazione fatta allora della questione cosacca fu necessariamente diversa da quella che si può fare ora, a 33 anni di distanza […] Riconosco che allora cercavamo in tutti i modi di mostrarci amici dei sovietici, non solo per effetto della propaganda di sinistra, ma soprattutto perchè riconoscevamo all’Urss il merito di aver combattuto con grande eroismo in Europa […] e che, senza il suo contributo, non avremmo mai messo piede in Europa e probabilmente avremmo perso la guerra. L’Urss era stata ed era un nostro essenziale alleato. Non si può cambiare, in tre settimane, una opinione maturata in quattro anni di comuni sacrifici”.

Il comportamento delle truppe che procedettero alla consegna dei cosacchi ai sovietici risulta così comprensibile. Difficile invece giustificare ed assolvere dalle sue responsabilità la Dirigenza politica britannica che ordinò tale provvedimento, andando anche al di là delle stesse richieste avanzate dalle Autorità sovietiche.

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