GLI UOMINI DI MUSSOLINI – 7 – ALESSANDRO PAVOLINI

a cura di Cornelio Galas

  • documenti raccolti da Enzo Antonio Cicchino

Alessandro Pavolini

ALESSANDRO PAVOLINI

Mussolini e Pavolini

di Enzo Antonio Cicchino

Pavolini. Di Faust possiede il genio, il cuore, il tormento. Di Mefistofele l’acutezza del conoscere, i fini reconditi, il trucco per ridurre a servo l’uomo. Fascista per impazienza. Per esser contro. Per l’ambizione di scalfire. V’è una purezza estetica nelle sue azioni. E come un gatto si muove per le vie di Firenze sfiorando il marciapiede con il suo sguardo arpionico.

Vive sospeso in una elevazione principesca. E’ figlio del grande Paolo Emilio, Accademico d’Italia, professore di sanscrito, glottologo, studioso di fama internazionale. Fin da ragazzo, Pavolini è subito protagonista. Un capobanda che sa essere il centro. Enigmatico. Agitatore. Aggressivo… quanto basta per veder roteare bastoni ed urla.

Alessandro Pavolini, giovane

E come Faust è malato di insoddisfazione, del non possedere il tutto. Entra nei circoli letterari. Collabora a “Solaria”. Pubblica i primi racconti. Suo intento è scrivere versi e bastonare i sovversivi. E’ ammirato. Coccolato. Odiato. Per la sua pancetta prominente lo chiamano “Buzzino”.

Diventa centurione della Milizia ma anche promettente campione del ciclismo. E’ da questa precocità, forse, che rimane travolto… Non possiamo comprendere Pavolini se non lo immaginiamo come un terribile eterno adolescente.

Il 28 ottobre del 22 si trova per caso a Roma per un esame all’Università, si accoda alle squadre dei fascisti fiorentini che entrano nella Capitale. Un colpo di fortuna che gli permette di fregiarsi della sciarpa littoria ed essere un veterano. Vince premi di poesia. Di tutti i gerarchi che si atteggiano ad artisti è l’unico che lo è per davvero.

La sua arte incede con naturalezza come un uccello in un refolo di vento. Pubblica un romanzo “Giro D’Italia” sul ciclismo, poi “Scomparsa d’Angela” una raccolta di racconti fortunatissima che riceve il plauso della critica, anche non fascista.

Amico dei fratelli Rosselli, Alberto Carocci.  Nel ’24 si laurea contemporaneamente in scienze sociali a Roma ed in legge a Firenze. Frequenta i salotti della ricchissima famiglia ebrea e fascista Giorgio ed Elisa Uzielli. Elisa diventerà la grande pasionaria del fascismo toscano, Giorgio – pur esule in Francia – per motivi razziali, si farà seppellire a Parigi con in dosso la camicia nera.

Da giovane si distingue come attore di teatro, brillante; presto deciderà per tavole di ben altro palcoscenico. Dirige l’assalto fascista all’Università di Firenze per impedire a Gaetano Salvemini di tenere una sua lezione di storia. “Con gli occhi pieni di acuminato odio, come fossero occhi di un rettile” dirà Piero Calamandrei, presente.

La fortuna, imperterrita, lo assiste. E’ l’amicizia intellettuale con il federale Luigi Ridolfi, che lo fa emergere per la prima volta nella carriera politica. Fonda il giornale della Federazione Fascista di Firenze: “Il Bargello”, che pur essendo una testata di partito diventa subito una rivista culturale capace di dar voce anche ad intellettuali in odore di eresia. Al tempo stesso diventa giornalista del “Popolo d’Italia”.

Nel ’27 affianca Ridolfi come Vicefederale, nel 1929 gli succede. A 26 anni Alessandro Pavolini è uno dei piu’ giovani Federali d’Italia; non ne ha alcun imbarazzo, anche se la gelosia dei fascisti più retrivi tempesta la direzione del partito di lettere anonime. La sua condotta è integerrima. Ottiene le simpatie del segretario Augusto Turati, il quale fa sapere che proprio di talenti come Pavolini il fascismo dovrebbe circondarsi.

Vien da chiedersi, perché – Pavolini – scrittore di successo, corra così precipitosamente fra le braccia della politica, dai sentieri così scivolosi invece di godere della propria arte. Perché ha così bisogno di incertezza!? L’insoddisfazione è forse il tarlo. Ma questo lo porta anche a dare sempre il meglio si sè.

Deciso a far tornare Firenze capitale dell’arte, stimola con forte slancio oculate sinergie fra economia e cultura. Fa rinascere il Calcio in Costume. La odierna Mostra dell’Artigianato. Il Maggio Musicale Fiorentino. Il circuito Automobilistico del Mugello. Fa costruire da Luigi Nervi lo Stadio Comunale. Da Giovanni Michelucci la Stazione di Santa Maria Novella. Completa l’autostrada Firenze – Mare. Non ultimo realizza anche un vastissimo piano di edilizia popolare.

Pavolini e l’Ambasciatore tedesco Rahn a Milano per le manifestazioni della Giornata del Balilla

E’ cresciuto nella Firenze di ieri, ma quando – nel ’34 – eletto deputato, Pavolini parte per Roma, lascia la Firenze di oggi. Ciclista per passione, applica il suo spirito agonistico anche alla cultura. In polemica con Starace, l’inventore delle parate oceaniche, commenta: “…Inquadrare i giovani ai quali piace essere nel coro è semplice, non è semplice inquadrare i talenti a cui piace discutere!”

Nel 1932 ha l’idea di creare una specie di Olimpiade del sapere a cui dovrebbero partecipare tutti gli studenti universitari. La prima edizione si tiene a Firenze. L’iniziativa, sponsorizzata dal Regime, diverrà poi famosa con il nome di “Littoriali della Cultura”. Tra i vincitori Pietro Ingrao, Franco Fortini, Aldo Moro, Michelangelo Antonioni.

Pavolini conosce l’ambiente universitario, sa che i ventenni criticano il Regime per lo scarso coraggio nell’attuare il corporativismo. E col tempo diventano sempre meno fascisti. I Littoriali hanno l’effetto bruciante di stimolare l’incontro fra i migliori cervelli che diverranno oppositori del Regime. Forse lui se ne rende conto, ma è proprio qui che emerge il suo essere che sconfina. Anche nel ruolo dell’incendiario Pavolini è l’unico a saper essere unico.

E’ l’incontro con Ciano che lo stravolge. La sua carriera politica balza a livello nazionale. Eppure tutto nasce da un giuramento falso che Alessandro compie a favore del coetaneo Galeazzo per fargli ottenere il distintivo di squadrista Ante Marcia. Ciano nel ’22 è ancora un pacifico liberal nittiano, ma Alessandro Pavolini giura che ha fatto parte, a Firenze, della sua stessa squadra di picchiatori:“La Disperata”.

Alessandro Pavolini appoggiato alla fusoliera di uno dei Caproni Ca.101 della 15ª Squadriglia di bombardieri “La Disperata”, 1935

La loro complicità è profonda. Stesso anno di nascita 1903, stessa estrazione borghese, entrambi scrittori innamorati di una letteratura fatta di trappole, spirali, versi e capoversi, In pubblico Alessandro ha sempre l’accortezza di esaltare Ciano, ponendosi, se necessario, in disparte. Ne riceve una protezione disinteressata. Dal “Popolo d’Italia” balza a inviato speciale per il “Corriere”.

Le sue corrispondenze dalla Scandinavia diventano un libro ancor oggi pubblicato: “Nuovo Baltico”. Subito dopo, Pavolini, diventa Presidente della Confederazione fascista dei Professionisti e Artisti. E’ un incarico di grande prestigio, che gli permette da un lato di essere uno degli artefici, dall’altro uno dei controllori, della cultura italiana. Non riceve che consenso. I letterati lo riconoscono uno di loro, lo amano per le sue idee liberali e antinaziste.

Giornalista dell’azione. E’ in Germania nel luglio del ’34, appena qualche giorno dopo la Notte dei Lunghi Coltelli. Ne rimane indignato, non tanto per l’orrore quanto per la gratuità con cui i delitti sono commessi. V’è un che di felino nella sua cronaca, da lasciare interdetti. Settembre ’35: Pavolini viene scelto da Ciano come tenente aviatore e giornalista nella sua squadriglia operante in Abissinia.

Particolare il suo atteggiamento verso gli etiopi. “…Distanti, o vicini, fanno un mondo a se’, che non ci riguarda” scrive “Li vediamo passare, lontano, con quel loro bellissimo passo, alto contro il cielo… Troppo alti per essere forti. …Al ritmo tende la loro fatica, come il rematore al banco. Ritmiche e soltanto ritmiche sono nell’amore le loro donne…”

Di quella guerra lui ne diventa l’aedo, anche se le atrocità italiane sono continue. Spesso si fa uso di bombe all’iprite. Nella squadriglia, in volo, è un falco avvolto da altri uccelli nervosi. Ama la guerra. Eppure non la ama da futurista, con i suoi scoppiettanti orrori. Lui la ama per l’intensità del dolore vissuto. Per la sofferenza inferta e la crudeltà empia che lo affligge!

Foto di gruppo: 2° da sinistra Alessandro Pavolini, al centro Benito Mussolini, a destra del duce Vincenzo Costa, ufficiali e comandanti della Brigata Nera

Sente il piacere del tiratore scelto, che mira verso inermi dalle fessure dell’aereo su cui vola. Non ha turbamento per i massacri. Il suo è un razzismo sottile, impietoso. Nell’azione si astrae. Tutto è luce, parola, suono; e la guerra… possiede lo stesso malessere di un racconto. “Ad un certo punto non vedo più uomini e tiro a certi cavalli, poi a un gregge lontano. Un cenno di piede mi richiama, solo allora mi accorgo che tutti hanno finito di sparare, che tutto è finito!” scrive, senza aver nulla di cui pentirsi.

Nella primavera del ’37 partecipa all’ultimo volo intercontinentale del dirigibile Zeppelin, recandosi a Buenos Aires, dove per incarico di Mussolini vi celebra il primo anniversario della fondazione dell’Impero. Sfumata è la sua posizione nei confronti dell’antisemitismo, “un odio quasi raccapricciante” definisce quello nazista.

Il ministro della Cultura Popolare italiano Alessandro Pavolini incontra Joseph Goebbels il ministro della propaganda tedesco

Nel ’38 entra a far parte della Commissione per la bonifica libraria con il compito di impedire la circolazione di libri scritti da autori di origine ebraica, o comunque non in linea con le direttive del Ministero della Cultura Popolare. Nel luglio del ’39 accompagna Galeazzo Ciano in Spagna, per presenziare i festeggiamenti per la vittoria franchista.

31 ottobre 1939. La svolta. Mussolini lo nomina Ministro della Cultura popolare. Ha 36 anni ed un potere immenso che tocca i destini della radio, cinema, teatro, editoria, giornali. D’ora innanzi è la sua volontà il polso emotivo del paese. Ed è questa l’occasione per porre in atto il suo talento di prestigiatore della comunicazione. Occupa in Italia lo stesso ruolo di Goebbels in Germania.

L’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, plenipotenziario nominato da Hitler, con alla sua sinistra il segretario del partito fascista Alessandro Pavolini

In principio tutto pare facile. Non v’è più bisogno di apporre censure. La macchina del consenso è cosi’ oliata che chi scrive sa già cosa scrivere; eppoi il Regime finanzia i giornalisti con laute prebende per rinforzarne lo zelo. Strane semmai sono talvolta le sue “veline” che invia ai direttori dei giornali. Famosa quella con cui si invita a non pubblicizzare il “Digestivo Impero” perché abusa di quel nome così importante. Oppure quando chiede che le cronache ed i commenti delle partite di calcio si limitino al solo giudizio tecnico senza epiteti offensivi all’arbitro.

Una domanda imbarazzante per i più intransigenti del partito è come mai Mussolini abbia scelto un intellettuale così accomodante per un posto dove per natura moralmente bisogna essere dei perfidi. Solo dopo il 10 giugno 1940 si accorgono quanto il Duce abbia visto giusto. Pavolini è riuscito ad ammaestrare così sottilmente gli italiani al punto da far loro volere la guerra, accettandola come imprescindibile e necessaria.

Mussolini, Antonio Maraini, Alessandro Pavolini

Da quel giorno Pavolini sposa la guerra, ne fa il suo inno, lo strumento con cui comporre le mille cantiche ed i cento romanzi che non ha più scritto!  E comincia a menar menzogne in pasto alla gente con la stessa efficacia che se fosse un menar le mani! Filtrare, ignorare, volgere il senso della realtà. Trasforma le sconfitte in ripiegamenti, le distruzioni in vittorie, la penuria di viveri in capacità di resistere, ogni male in bene ed ogni bene nel delirio di credere fino in fondo nel successo e nel Duce. Vive un autoaffondamento della ragione.

Inventa trasmissioni radiofoniche: “Radio Combattente”, “L’ora del Soldato”. Ma alla radio si ascolta ancora jazz, swing, musical; e nei cinema si proiettano i film di Hollywood, nonostante gli Alleati siano i nemici. E’ un esperto di mass media. Elettrizzante, flessibile. Consapevole che per tenere incollato il pubblico alla propaganda bisogna offrirgli le cose che ama. Guarda al sodo. All’effetto.

Roma – Cinecittà – Il Ministro della Cultura Popolare, Pavolini tiene rapporto

Riesce ancora a stupire. Nel dicembre ’41, presentata da Emilio Cecchi, tradotta da Cesare Pavese, permette che esca in libreria “Americana” la prima grande antologia di letteratura statunitense nel Novecento. Eppure da qualche giorno l’Italia è in guerra contro gli Stati Uniti.

Dai microfoni dell’EIAR rassicura le truppe garantendo servizi di informazione essenziali e promette: “La radio vi farà da posta, porterà a vostra moglie le vostre notizie e dando a voi le sue. E se non avete moglie, ve la troverà!” Il ‘Mussolini pensiero riesce ad infondere al “Pavolini scrittore” il suo bisogno… di parole sensibili che tocchino il cuore della gente. Che infondano forza.

In buona parte Pavolini ci riesce almeno fino a quando la catastrofe è rimediabile. Si è spesso riflettuto sulle scelte di quest’uomo. Il perché sia caduto in quella caleidoscopica gabbia del potere! Tuttavia, a suo modo, rimane un uomo libero, non è uno strumento nelle mani del Duce. Lui crede nello stato etico. Per lui la parola del Capo è la parola dell’anima, è la parola della Legge.

Firenze – Cerimonia della leva fascista celebrata in piazza della Signoria presenti il Ministro Pavolini e il Segretario del Partito Ustascia

Ai giornalisti radiofonici non solo chiede una indiscussa lealtà ma soprattutto “Spirito virile e fede nella vittoria”. Ama il famoso Mario Appelius, Giovanni Ansaldo, Asvero Gravelli, tuttavia di costoro non condivide lo stile. “Un radiocommentatore deve parlare col tono di chi si intromette in un conversazione tra una piccola cerchia di amici, non deve tenere un comizio, fare il tenore, o il tribuno, come spesso avviene!”

Insoddisfatto. Annoiato dal suo essersi perso fra le maglie di un dio crudele che gli dona il potere ma gli toglie l’arte. “Che equivoco essermi messo in questo ufficio!” mormora. E per qualche settimana partecipa alla campagna di Grecia con una squadriglia da bombardamento, ma non è esperienza esaltante.

Percepisce i frantumi, la sconfitta, la vergogna di perdere. Forse è qui sull’Acropoli di Atene che gli tornano in mente gli eroi omerici, e carezza l’idea del grande gesto, pensa alla bella morte cui, confuso, immagina lo condurrà il meritato inferno della vita.

Il segretario del PFR Alessandro Pavolini e il comandante della “MUTI” Franco Colombo in visita alla caserma della Legione Autonoma “ETTORE MUTI”

A Roma, di ritorno dalla Grecia, ha un violento alterco con il Maresciallo Badoglio, che incontra per caso a Palazzo Venezia nell’anticamera di Mussolini. Per poco non giungono alle mani, ritenendolo il responsabile del collasso militare nei Balcani. E’ un gesto avventato di cui dovrà pentirsi.

Nel ’42 concede il placet a Luchino Visconti per realizzare “Ossessione”. “Siamo di fronte ad un film crudo ed audace, di avanguardia, che segna l’inizio di un’epoca!” lui stesso scrive quando lo vede la prima volta agli inizi del 1943. Nonostante le critiche continuerà a farlo proiettare nel Norditalia anche durante la Repubblica di Salò.

Il 18 aprile del 1942 invia questa velina alquanto irritata: Il “Popolo di Roma” in una cronaca da Chieti parla di un soldato che tornato in licenza ha ucciso la moglie adultera. Tali notizie non vanno pubblicate!”  E neppure che operai italiani sono vittime dei bombardamenti Alleati in Germania.

Pavolini con Galeazzo Ciano

E di nuovo parole! Dinanzi a corpi ammassati in coda sulla porta dei negozi! Alle sconfitte continue, alle navi che affondano, ai soldati congelati per il freddo, o bruciati nel deserto dal sole … lui non risponde che con grandi illusioni! conforto avaro per i muti greggi di fanciulli e donne… che ruspano fra le macerie alla vana ricerca di un congiunto!

Nessuno si sarebbe aspettato da un intellettuale come lui una così golosa forza di manipolazione. Poco passa …ed ecco le fasulle verità del Regime galleggiare sulle onde della storia come relitti espugnati!

Agli inizi del ’41 organizza un incontro fra la attrici cinematografiche ed i soldati feriti che rientrano dal fronte. Una ingenuità enorme. Sarebbe dovuto essere un incontro di propaganda invece fa emergere solo l’incresciosa distanza tra chi muore al fronte e chi è ancora felice, lontano dalla guerra.

MUTI, PAVOLINI E RICCI

Senza che lui lo sappia tra questi volti ce n’e’ uno che ancora non conosce ma che lo segnerà di un amore profondo sino al resto della vita: Doris Duranti. Il loro incontro però avviene solo sul finire del ’41, mentre in incognito, entrambi, si aggirano tra quel che resta delle macerie di Livorno bombardata.

Lei non sa neppure chi sia quell’uomo che le si avvicina e le parla; svagato, assorto, incupito da efferati silenzi. E’ un amore che nasce d’istinto, fra incognite voragini. Ed intessuto di furtivi incontri. Con Alessandro, Doris, perde ogni stereotipo di donna mangia uomini, rimarrà soltanto donna. Innamorata di un uomo che le creerà sempre piu’ pericoli.

E non sarà facile neppure per Pavolini averla nascosta amante. Lei è di origine ebrea e questo desta scandalo, Mussolini stesso chiede perentorio di lasciarla, ma al fermo diniego del ministro ha l’idea di farsi proiettare in privato il film IL RE SI DIVERTE dove lei compare a seno nudo. “Ti capisco” mormora il Duce. Un consenso inatteso, tacito, che fa nascere tra i due una singolare complicità; solo con Pavolini, forse, Mussolini parla di Claretta, una confidenza avuta con nessun gerarca.

Mussolini e Pavolini

“Capii subito che Alessandro era un uomo tormentato” racconterà Doris Duranti anni dopo “Diceva di aver rinnegato – per la politica – la sua vera vocazione, la letteratura. Borbottava che faceva il ministro per dovere. Il suo ideale era quello di vivere in un luogo scosceso e deserto, con una penna e una candela. …Come amante non aveva mai una lira. Mai visto regali. Un Natale fui io stessa a comprare i regali ai suoi bambini”.

L’amicizia con Goebbels nasce invece nel giugno ’41 durante un viaggio in Germania, si rivedranno poi più volte, al Festival del Cinema, a Venezia. Pavolini: ogni suo pensiero è spesso fuori dalle regole. Quando nel gennaio del ’43, riceve le confidenze del suo amico Romano Bilenchi, ormai antifascista, gli risponde “Tu puoi aver cambiato idea, io no. Io sono salito sulla tigre, non posso scenderne!”

Doris Duranti, la Diva che divenne amante di Pavolini e lo seguì a Salò

Viene a sapere che Mussolini ha deciso di rimuoverlo da Ministro della Cultura il 6 febbraio del 1943. E’ in casa di Doris Duranti quando riceve una telefonata da un funzionario del Ministero il quale ha la premura di avvertirlo, prima che l’Agenzia Stefani ne divulghi la notizia. Mussolini sta cercando di salvare il salvabile del Regime, allontanando, con un rimpasto di Governo, gli uomini che hanno fatto il Ventennio. Non è un discredito per il loro operato. E’ solo un disperato tentativo.

Pavolini non rimane disoccupato, Mussolini gli affida la direzione del giornale della Capitale “Il Messaggero”.  E così, giornalista, torna ad essere la farfalla che rotea nella spirale abbagliante. Non riesce, come il collega Bottai, o Grandi, a spezzare i ponti con il Regime. Lui ne ha bisogno. Non può farne a meno. Per lui, nel mentire è l’arte! Ha bisogno di continuare a convincersi che le lacrime sono lucciole di cristallo e non… semplice pianto.

Badoglio non ha dimenticato. Ora deve fuggire. Subito dopo il 25 luglio, la folla assale Il Messaggero, Pavolini riesce a salvarsi appena in tempo. Ha paura della vendetta, si nasconde. Nel buio le pupille degli occhi sono spine luminose. Per non farsi riconoscere si è tagliato i baffi. Sua intenzione è trasferirsi in Germania, continuare la lotta. Ma è senza una lira. Ancora una volta è Doris Duranti che lo aiuta, staccando 32 sterline in oro dal suo braccialetto ed inviandogliele di nascosto.

“Dal Regime ho avuto tutto. Intendo restituirgli tutto!”. Al fratello Corrado, che lo va a salutare, dice con un sorriso: “So perfettamente come andrà a finire: in fondo a questa strada mi aspetta il plotone di esecuzione”. Dopo una sosta all’Ambasciata tedesca, il 28 luglio – all’alba – decolla per Konigsberg, un piccola cittadina della Prussia Orientale; vi trova anche il figlio del Duce, Vittorio.

E’ qui, a Konigsberg, che – secondo la testimonianza di Edmondo Cione – Pavolini comincia ad assumere la sua terza dimensione, quella di vate della purificazione fascista. Chi ha tradito deve morire in un lavacro di sangue. Gli uomini del 25 luglio sono i grandi accusati.

Lui non ha fatto parte del Gran Consiglio, vede la complessa operazione del voto contro Mussolini dall’esterno. Non sa che in un certo senso di quel risultato ne è complice lo stesso Duce, il quale dopo l’arresto ha inviato un telegramma di congratulazioni a Badoglio, offrendo collaborazione.

Il 12 settembre i paracadutisti del generale Kurt Student recuperano, in un albergo di Campo Imperatore, sul Gran Sasso, Benito Mussolini: ormai abbandonato a se stesso dal Re e Badoglio in fuga. Il 14 settembre il Duce viene condotto a Berlino. Per volontà di Hitler nasce la Repubblica Sociale.

Mussolini, contro le attese di tutti, nomina proprio Alessandro Pavolini Segretario del nuovo Partito Fascista Repubblicano. Ancora oggi pare misteriosa questa scelta, visto che il fascismo per risorgere avrebbe avuto bisogno di un uomo di fegato e non di un intellettuale che fino a ieri è stato giudicato troppo raffinato e salottiero.


Alessandro Pavolini legge il messaggio di Mussolini all’assise di Verona

Se questa osservazione è vera, quale ragione avrebbe motivato il Duce!? Vittorio Mussolini anni dopo azzarda: “Mio padre ha scelto Pavolini forse… perchè amico di Ciano”. E’ infatti la sorte di Galeazzo, il marito di sua figlia e padre dei suoi nipoti che sta a cuore segretamente al Duce, ma è un segreto che non potrà mai esprimere chiaramente. Spera solo che Pavolini, amico, riconosca l’amico.

E’ una scelta fatta di non detto. Di desideri. Parole oscure. E come tutti i sogni che si fondano sul mistero dell’anima… destinato al nulla. Forse neppure Mussolini si rende conto di quanto sia stato cattivo maestro per il suo geniale ministro.

Il cuore è un regno di spirali. Inconciliabile. Il suo confine è la coerenza assoluta. Ogni perdono, impossibile. Non è più di questa terra, anche se continua a vivere, mangiare, incontrare sporadicamente Doris e combattere a monosillabi rumorosi d’urla e ordini. S’ingolfa in gesti marziali esatti dalla virtù guerriera di un popolo, il cui entusiasmo di lottare, ormai, si è liquefatto.

In un incontro, rapido, avuto con lei, cerca di convincere Doris Duranti a non seguirlo al Nord, dove risiede il Governo, vuole che resti a Roma, gli dispiace che anche lei corra rischi inutili… solo per amore. Ma lei, è donna. E solo per amore… Lo segue.

27 settembre 43, durante la prima riunione del Governo di Salò incrocia nell’anticamera della Rocca delle Caminate il volto disperato di Edda. Non si dicono nulla. Forse, in questo rancore profondo per l’amico e contro tutti, si percepisce il tormento mai risolto verso il padre: il potente professore Paolo Emilio Pavolini, quando, bambino, lo vide fuggire per seguire una donna finlandese per cui prova amore e lo lascia solo.  E’ un tradimento, negli affetti, che non perdona.

E’ il ricordo di questo abbandono del padre, forse, che riaffiora in molti dei suoi strani comportamenti verso Mussolini. Nella realtà di Salò è forse un uomo più importante del Duce. Ha preteso, con la nomina a ministro, che tutte le decisioni della Repubblica Sociale passino tra le sue mani, ogni legge deve portare la sua firma.

18 settembre 1943: Pavolini rientra a Roma

Ed in molti si chiedono: perché!? Perché il fascista Pavolini lo è – fascista – così accanitamente!? Il motivo è nel fatto che alcuni, degli uomini ragionevoli del Governo vorrebbero sviluppare, all’interno della RSI un patto di pacificazione e di fratellanza tale da ridurre i conflitti politici. A questa idea è favorevole lo stesso Mussolini.

C’è chi propone soluzioni politiche somigliantissime a libere elezioni. Ed a Milano lo stimatissimo Carlo Borsani suggerisce, per rendere tutto più semplice, di eliminare addirittura l’aggettivo “fascista”. A Pisa viene impedita la fucilazione di alcuni partigiani da parte dei tedeschi. Ed a Venezia il federale Eugenio Montesi, dopo aver liberato gli antifascisti, durante una riunione in piazza, concede a tutti la parola, compreso il comunista Giaquinto.

Ma per Pavolini “Ormai i ponti alle spalle sono bruciati” e trova indecorose queste novità. Però sono solo gli attentati dei Gap e le rispettive rappresaglie nazifasciste che cancellano ogni proposta di moderazione. Quel più che indigna i fascisti di buon senso è la continua uccisione dei loro esponenti più illuminati, i meno guerrafondai, come il federale di Milano Aldo Resega.

Alessandro Pavolini ferito dopo l’attentato di Ceresole Reale (12.08.1944)

“Le squadre del partito procedano all’immediato arresto degli esecutori materiali e dei mandanti morali degli assassinii. E previo giudizio dei tribunali speciali, detti esecutori, o mandanti siano passati per le armi!” alla fine si ordina. Quanto all’organizzazione militare, Pavolini, al contrario di Graziani, insiste per un esercito politico fortemente motivato e combattivo. Vorrebbe il partito in armi, visto che gli iscritti sono circa 250.000.

E’ solo il successo inatteso della leva militare indetta da Graziani nell’autunno ’43 che per il momento blocca la sua richiesta. 14 novembre: l’atteso giorno! Congresso del Partito Fascista Repubblicano, a Castel Vecchio, in Verona. Sarebbe dovuto essere il preambolo di una Assemblea Costituente, invece è una riunione così caotica che quando nella sala si alzano espressioni volgari, il raffinato segretario urla: “Queste sono espressioni da caserma!” “Questa è una caserma!” rispondono.

Piero Pisenti, Ruggero Romano, Silvio Gai e Renato Ricci all’assise di Verona

Il manifesto politico approvato, in 18 punti, è stato redatto da Mussolini, Nicola Bombacci e Pavolini, con la supervisione dell’ambasciatore germanico Rahn. E’ una bozza che sostanzialmente riprende il tema del corporativismo, piatto forte: la socializzazione delle aziende! che questa volta sarebbe dovuta avvenire sul serio.

Nella sala di Castelvecchio troppe volte rimbomba il tetro “Morte a Ciano!” Un grido colmo di rancori, tessuto con lividi applausi. Pavolini per calmare gli animi illustra come la morte di un fascista, a Brescia, sia stata vendicata con l’uccisione di undici comunisti. L’assemblea ne è entusiasta. Al che lui, sorpreso, ribatte di non voler essere un sanguinario ma che è solo una necessità.

Il Congresso non è neppure finito che giunge notizia della proditoria uccisione del Federale di Ferrara Igino Ghisellini. Parte, feroce, una spedizione punitiva. Altri morti si aggiungono sulla coscienza dello scrittore Pavolini che scrive, ormai, solo con il crepitio del mitra.

Alcune raffiche gli sono rimproverate in modo particolare, quelle del plotone di esecuzione dei cinque condannati a morte a Verona. Si è dibattuto a lungo su questa tragica vicenda. Poteva Pavolini salvare l’amico!? Non ha voluto? Non ha potuto?!

Già, il processo di Verona, celebrato subito dopo la festa della Befana del ’44 è una mostruosità giuridica! possibile soltanto per effetto di una Legge Speciale che ha valore retroattivo. Non era la prima volta infatti che il Gran Consiglio votava contro Mussolini. La penultima era stata nel dicembre del 1939, quando si espresse contro l’entrata in guerra dell’Italia!

E come capo d’accusa ci s’inventa un reato incredibile: il “tradimendo dell’idea”! che non esiste in nessun codice penale del mondo. Eppoi la legge è cosi’ speciale che non ha previsto neppure che possano essere inoltrate domande di grazia a Mussolini. Di questa dimenticanza ne è colpevole anche Pavolini. Ma è proprio questo orrore che – in qualità di Segretario del Partito -, lo pone a decidere di quelle domande: che farne?!

Ciano ancora si illude di un suo aiuto. Trasferito dalla Germania nel Carcere degli Scalzi, confida a un amico: “Buzzino mi deve molto, senza di me sarebbe rimasto un giornalista!”
Ignora che l’amicizia è un rasoio affilatissimo che bisogna stare ben attenti a non prendere dalla parte sbagliata.

Emilio De Bono dopo la fucilazione a Verona

Ma Pavolini, storicamente parlando, forse non ha scelta. Hitler ha espressamente detto a Mussolini che una commutazione della pena capitale per gli imputati sarebbe stata accolta molto male dalla Germania.

Ma a parte il Führer, anche i fascisti di Salò vogliono Galeazzo Ciano morto. Minacciano continuamente di assalire il Carcere dove è rinchiuso, per ucciderlo! Solo l’intervento energico del Segretario del Partito evita che ciò avvenga. Ciano ormai deve essere la vittima sacrificale che il Fascismo Repubblicano immola sull’altare della nuova patria. Forse invece è solo l’ultima ferocia di un fanatismo che vuole vendere cara la pelle!

E’ il 10 gennaio sera quando viene emessa la sentenza di morte. E gli imputati dovrebbero essere uccisi per un’azione che non era neppure reato nell’attimo in cui veniva commessa! La notte Mussolini rimane sveglio fino all’alba, in attesa che la richiesta di grazia del genero giunga sul suo tavolo.

Le domande di grazia: con quei brandelli di carta angosciosi tra le mani, Pavolini, non sapendo come uscirne, intraprende un lungo increscioso peregrinare fra i personaggi più in vista della Repubblica di Salò, cercando una soluzione accettabile. Ma quando tutti gli dicono che solo Mussolini può decidere la vita, o la morte, lui tergiversa, ambiguo.

Ma ignoriamo fino a che punto non sia sincero. Infatti avrebbe l’autorità di dire “No!” subito!? Invece insiste in quel girovagare tutta la notte. Una morsa lo stringe. La paterna figura di Mussolini nell’ombra, in attesa di quei miseri scritti dei morituri. La rabbia dei fascisti, l’odio dei tedeschi.

Si fa quasi l’alba, quando dal gelo della notte emerge un oscuro Console della Milizia di Verona, Vianini. L’uomo formalmente abilitato a dire “No”. Ma forse e’ piu’ vero che sia stato lo stesso Pavolini, alla fine, a decidere. Le domande di grazia non vengono inoltrate.

Che Mussolini non abbia scelta: che – certo – avrebbe graziato il marito di sua figlia ed i suoi colleghi, Pavolini lo sa. E non può permettere ai fascisti di Salò una rivolta contro il Duce! E neppure potrebbe permettere ai tedeschi di destituirlo e processarlo, come certo sarebbe avvenuto!

Non è una fanatica impertinenza che dribbla il buon senso, il “No!” di Pavolini. E’ solo costretto dalla storia ad assumere su di sè il terribile compito. Non se ne sottrae. Eppoi un aspetto è chiaro. Se la famiglia Mussolini deve pagare un prezzo per le sue incoerenze, con la morte di Ciano questo prezzo lo paga, e alto!

L’arresto di Pavolini da parte dei partigiani

Seppur venga a rivelarsi ottimo complice, i nazisti di Pavolini non si fidano. Per ordine della Gestapo, il 15 novembre ’43, e’ redatto a Roma, da Kappler, un minuzioso rapporto contro di lui. Gli si rimprovera l’amicizia giovanile con gli Uzielli, l’aiuto generoso agli amici di Ciano, il matrimonio del fratello Corrado con una donna ebrea. La sua relazione con Doris Duranti.

La ragione che sconcerta i tedeschi è che, a loro, la sua violenza non basta. Troppo poco prevedibile. Troppo fuori dalle righe! …come il vento… di una umiltà spartana… Fiera. Lazzaro dell’anima. Garzone della morte. Uccide, o non uccide, per lui l’onore non può essere dischiuso che con la punta del pugnale.

Nella primavera del ’44 i nazisti fermano a Firenze Doris Duranti, vorrebbero deportarla. Prima di condurla in prigione però non esitano a pretendere le sue grazie; la costringono a danzare per l’intera notte. Solo a prezzo di forti umiliazioni Pavolini riesce a farla liberare. E la manda a Venezia. Dove sono approdati gli attori e le maestranze del cinema che hanno lasciato Cinecittà.

Nel giugno del ’44 Pavolini torna ancora nella sua Firenze, l’esercito degli Alleati, dopo aver liberato Roma sta riprendendo la strada verso il Nord. Vi organizza una forte resistenza, schierando 400 franchi tiratori; appostati nei viali e sui lungarni. Poi, per far saltare in aria i depositi di materiale alleati, arruola diverse squadre di sabotatori, tutti volontari.

Il gruppo dei gerarchi, scortato dai partigiani di Valerio, si avvia verso il lungolago di Dongo

Alla fine di giugno si incontra con l’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa per informarlo che lascia tutte le opere d’arte concentrate nelle Gallerie e nei musei là dove sono, senza trasferirle altrove, perché vuole che esse non costituiscano preda bellica ma un omaggio ai diritti inalienabili di Firenze.

Quando gli Alleati vi entrano, la resistenza fascista è stata organizzata così bene che l’azione dei cecchini continuerà a lungo, mettendo in guai seri la polizia partigiana. Molti di questi volontari finiranno davanti al plotone di esecuzione.

Insoddisfatto per le continue diserzioni che affliggono sia le truppe di Graziani che la Guardia Nazionale di Ricci, non smette di rivolgersi a Mussolini per ottenere la nascita di un esercito politico. E’ Troskij il suo modello: “Come Troskij occorre trasformare il partito in una armata rivoluzionaria!”

Mussolini, con l’autorizzazione di Hitler, il 25 luglio ’44 finalmente annuncia la nascita delle Brigate Nere. Pavolini ne è emozionatissimo. Armate dai tedeschi, formate da fascisti antemarcia e giovani fanatici, le Brigate Nere sono la risposta di Salò alle brigate partigiane. Sarà loro rimproverato di essere gran canaglie, senza disciplina, protagoniste di orrendi delitti.

A ciascuna brigata è assegnato il nome di un fascista repubblicano ucciso. Sarà tristemente famosa quella di Ravenna, denominata Ettore Muti. Con la barba mal rasata, il mingherlino mefistofele un tempo arrampicato sui camion del vetero squadrismo, ora è a bordo di una macchina veloce, scoperta.

Prima della fucilazione

Se ne corre indolente al freddo e al caldo, al sole ed alla pioggia, per gole dell’Appennino e delle Alpi, dalla Valle Padana al Piemonte, ovunque le sue Brigate siano in azione. Spesso, in macchina, è alla guida, solo, o accompagnato dal fido Enzo De Benedictis: uno scampato di Bir El Gobi, sua guardia del corpo.

“Non mi resta che l’azione” confida alla moglie Teresa che tiene lontana dalla guerra, a Cortina. Doris, invece, fa di tutto per essergli accanto, si trasferisce da Venezia a Como. Testardamente. I loro incontri sono rari, rapidi, nervosi. Quanto basta.

Il 12 agosto del ’44 mentre è in corso, in Piemonte, presso Ceresole Reale, un attacco delle Brigate Nere contro formazioni partigiane, per una erronea valutazione delle forze resta prigioniero di un agguato. Ha contro la 77a Brigata Garibaldi.

Valerio Borghese, che è con lui, ed altri ufficiali fascisti, benché feriti, riescono a tornare indietro. Pavolini ed il suo attendente, che si sono spinti troppo avanti, cadono a terra gravemente feriti, con la certezza di essere subito uccisi dal sopraggiungere dei partigiani. Quando Enzo De Benedictis ha una idea: “Eccellenza, per carità non muovetevi, devono crederci morti!”  Si salvano.

A metà dicembre 1944, da un lato l’illusorio attacco vittorioso dei tedeschi nelle Ardenne, dall’altro la tenuta della linea Gotica ed il successo in Garfagnana dei soldati di Graziani, fanno riaccendere una esigua speranza in Mussolini, che da Gargnano si trasferisce a Milano, in cerca di un ultimo disperato bagno di folla. Pavolini è con lui.

Piu’ di 50.000 persone per tre giorni fanno loro ala per le strade. Dei partigiani e degli antifascisti neppure l’ombra. Un fenomeno popolare ancora oggi inspiegabile. Mussolini è felice. Ed anche Pavolini gli è accanto a goderne. Sono i due uomini più odiati d’Italia.

Mussolini parla al Lirico, parla ancora in Piazza San Sepolcro, e dinanzi al Castello Sforzesco. Pavolini è costretto a proteggerlo dalla folla. Esperienza incresciosa è invece un altro viaggio, quando riceve da Mussolini il compito di portare alle popolazioni locali della Venezia Giulia il saluto e la solidarietà dello stato italiano.

Dopo l’otto settembre è accaduto che la Germania nazista abbia incorporato nel Reich parte del Veneto, del Trentino, della Venezia Giulia e del Litorale Adriatico comprendente l’Istria. Parte della Dalmazia poi l’ha ceduta alla Croazia di Ante Pavelich, creando con questo precedente molti dei presupposti per cui a fine guerra questi territori rimarranno in mani jugoslave definitivamente.

Il cadavere di Pavolini

E’ un deliberato arbitrio da parte di Hitler, ed è la spina nel fianco per Mussolini, che – dai tedeschi – pretende invano la restituzione. In gennaio del ’45 perciò decide di inviare in quei territori appunto il Segretario del Partito per portare un suo personale messaggio di solidarietà. Il modo in cui Pavolini viene accolto dai tedeschi durante la sua visita a Udine, Gorizia, Fiume, Trieste è però decisamente così ostile, umiliante, che viene costretto ad abbandonare e tornare indietro.

Ma il maggior avvilimento è quando, tornato a Maderno, trova il Generale delle SS Wolf che, freddamente gli dice che le Brigate Nere hanno davvero esagerato in crudeltà nelle loro azioni e che i tedeschi non intendono più rifornirle, d’ora in poi non riceveranno più armi né benzina. Disperato Pavolini comincia ad indagare su quali possano essere i motivi del voltafaccia, essendo i nazisti, quanto a ferocia, non certo inferiori ai fascisti.

La verità è che Wolf, per conto di Himmler, sta trattando in Svizzera la resa delle truppe tedesche in Italia e non vuole che ci siano incidenti che incrinino i già difficili rapporti con gli Alleati. Pavolini e Mussolini non sanno nulla.

I cadaveri di Mussolini, con la Petacci e alcuni gerarchi fascisti esposti a Piazzale Loreto. Quello di Pavolini è il secondo da destra

Scampo di tutti, con l’approssimarsi della fine, è la creazione del Ridotto Alpino Repubblicano, in Valtellina, un territorio strategicamente difendibile ove impegnarsi nell’ultima resistenza, che sarebbe dovuta essere le Termopili della Repubblica Sociale. A Mussolini questa idea piace.

Nel suo delirio romantico però, Pavolini sogna anche di trasferirvi, da Ravenna, le ceneri di Dante, in modo che le vette alpine si trasformino in simbolico altare di cultura e italianità. Il 24 aprile 45 con uno stratagemma costringe la sua amata Doris Duranti a porsi in salvo, riparando in Svizzera.

Per vie diverse, sia lui che Mussolini, il giorno dopo, lasciano Milano per dirigersi verso Como, percorrendo il lungolago, la strada che porta in Valtellina appunto. Le strategie della storia per condurre gli uomini all’epilogo, sono semplici. A nulla serve… la fertile immaginazione.

L’autocolonna dei gerarchi ha l’imprudente idea di unirsi ad alcune compagnie di germanici in ritirata, le quali, a Musso, vengono fermate da uno sparuto gruppo di partigiani. Con una soluzione molto ambigua, i cui contorni sono ancora oscuri, dopo aver fatto salire Mussolini su uno dei camion, i tedeschi abbandonano i fascisti a se stessi.

Pavolini

Dopo una breve sparatoria vengono costretti tutti ad arrendersi e ad uscire da un artigianale autoblindo in cui gli uomini piu’ importanti si sono nascosti. Pavolini non cede, con un’ultima raffica di mitra si libera dall’accerchiamento e si rifugia su uno scoglio nel lago. Qui viene, ancora una volta ferito, gravemente. Solo a notte tarda riescono a catturarlo, mezzo assiderato, ma vivo.

Portato nel municipio di Dongo, nel pomeriggio del 28 aprile, ecco farglisi incontro, nelle vesti di capo partigiano, il nervoso ragioniere Walter Audisio, passato alla storia col nome di Colonnello Valerio, che legge, per lui ed i suoi infelici compagni la sentenza di morte.

Audisio è nervoso, a Giulino di Mezzegra ha trovato Benito Mussolini e Claretta Petacci, che si era recato a fucilare, inspiegabilmente già uccisi. Da chi? E’ ancora un mistero. Sotto il ringhio dei mitra, nell’aria tersa tutto sembra essersi compiuto, nella morte. Parte dei colpi si imprimono sulla ringhiera prospiciente il lago, a Dongo, nella piazza.

Quando, all’improvviso, animato, sul groviglio dei corpi, qualcuno ancora annaspa, terrificante, col suo impermeabile scuro: è Pavolini… come un Faust ritroso ad abbandonarsi nell’inferno… alza ancora il braccio, insanguinato, con lo sforzo di un saluto… bruciato dall’ultima raffica.

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