a cura di Cornelio Galas
- documenti raccolti da Enzo Antonio Cicchino
ROBERTO FARINACCI
di Enzo Antonio Cicchino
Non è amato dagli operatori dell’Istituto Luce. Questo è l’unico vero primo piano che gli dedicano in tutto il Ventennio. Roberto Farinacci il porcospino del fascismo; dal dente amaro e gli aculei forti come chiodi ruspanti e rumorosi. Un massimalista furbo, fazioso, impaziente. Sempre all’attacco.
A volte cinico, infido, ma non privo pure di una certa coerenza morale supportata più da vizi ostinati che da principi filosofici. Angusto nel pensiero. Un capobanda di provincia che vede il bene unicamente nel proprio bene, nel successo della sua parte. Rancoroso. Aggressivo. Circondato da amici che colma di generosità. Ma volubile, alla minima lite li aggredisce con l’arma del ricatto.
Figlio di un Commissario di Pubblica Sicurezza, nasce nell’oscuro Molise, ad Isernia, il 16 ottobre 1892. Di quella terra conserva la schiettezza, il carattere aspro, la freddezza nei confronti della paura. Ha otto anni quando la famiglia si trasferisce a Tortona, in Piemonte, poi in Lombardia a Cremona. I continui spostamenti creano non poco disagio alla vita scolastica di Roberto. Troppe volte bocciato, a 17 anni si impiega come capostazione a Cremona, sede che terrà per tutti i dodici anni che trascorre nelle ferrovie.
Istintivamente preso dalla lotta politica si avvicina al socialismo riformista di Leonida Bissolati, curando la riorganizzazione del sindacato contadino socialista che si contrappone a quello cattolico di Guido Miglioli.
Giornalista, pubblica corrosivi articoli su “L’Eco del Popolo”. Esagitato donnaiolo, con riluttanti passi, nel 1910, accompagna sua moglie all’altare, costretto ad un matrimonio riparatore. Allo scoppio della Grande Guerra, appoggia l’intervento armato dell’Italia, partecipando alle molteplici manifestazioni contro l’Austria. Intanto riesce a diventare corrispondente da Cremona per il “Il Popolo d’Italia” di Mussolini.
Nel maggio del 1915, volontario, combatte eroicamente congedandosi dopo solo un anno, con una croce militare ed il grado di caporale. La guerra non è ancora finita, ma per lui -ferroviere – sì. Obbligato nella leva ferroviaria, trascorre il resto del suo servizio militare come capostazione a Cremona, per cui si becca il nomignolo di “onorevole Tettoia”.
Nel ’19 abbandona il gruppo di Bissolati per entrare nel movimento fascista. A Milano il 23 marzo è tra i settanta con i quali Benito Mussolini fonda i Fasci di Combattimento. Minacce, purghe, bastonature sono il suo metodo per ottenere il consenso. Con Starace e settemila squadristi si adopra per convertire al fascismo Trento e Bolzano.
Diviene segretario del Fascio di Cremona. Contemporaneamente profittando del caos in cui vive il Paese riesce ad ottenere la licenza liceale, si iscrive alla Facoltà di Legge a Modena. Sempre chiassoso, violento nell’attaccare e colpire i socialcomunisti. Mussolini ne rimane affascinato, lo include fra i membri del Comitato Centrale Fascista.
Nel 1921 Farinacci si dimette dalle Ferrovie e nel maggio con il sostegno degli agrari viene eletto Deputato alla Camera. Il rapporto con Mussolini è complesso, contraddittorio: Farinacci si contrappone come Antiduce. Battaglieri entrambi, indisponenti, soprattutto ambigui anche nel loro essersi ostili.
E’ un continuo travaglio di complotti, di intrighi, di accuse infamanti. I due non si amano, né si fidano. Si scrutano. Ma al tempo stesso sono costretti a convivere come una perenne coppia litigiosa alla quale neppure i tradimenti porranno fine. C’e’ molto di stravagante, di controcorrente. Pur se l’Antiduce Farinacci fa del tutto per sostituirsi al primo, in realtà lo rafforza con il suo pedante zelo di fargli constatare le debolezze.
Forse nessuno degli uomini che hanno fatto il fascismo ha sofferto come lui per questo complesso di inferiorità, per quel non so che di primitivo che fa possedere alle sue azioni lo stesso ribrezzo di un guanto coperto di scaglie (di vetro).
Ottobre del ’22. Farinacci torna a Cremona la fa insorgere durante i giorni della Marcia su Roma. Ma lo fa di sua iniziativa, contro i patti, un giorno prima, il 27 ottobre invece del ’28. “Cremona e Mantova non può rinviare” si giustifica, inviando questo telegramma a Mussolini. E di Cremona, d’ora innanzi, rimarrà il Ras indiscusso fino alla morte. E’ difficile con lui trovare un accordo stabile, un linguaggio, una linea di condotta diversa dal massimalismo, o dal manganello, e dalla violenza.
Più di una volta il futuro Duce deve sottostare alle sue ire, alle sue opinioni, come quando nel dicembre del ’22 è costretto a rinunciare alla fusione dei sindacati fascisti con quelli socialisti per creare una Confederazione Generale del Lavoro apolitica e solo sindacale. Per evitare uno scisma Mussolini è costretto a rassicurarlo, gli garantisce che se i socialisti vogliono un sindacato non devono far altro che iscriversi a quello fascista.
Neanche le opposizioni ritengono che le liti fra i due abbiano conseguenze. “Mussolini deve la propria forza proprio a Farinacci…” scrive Gobetti “…La violenza dei Ras gli è cara e necessaria, egli sa dosarla!”
In effetti Benito apprezza le sue indubbie qualità di timone dello squadrismo, però non lo ama, lo teme, vorrebbe tenerlo lontano. Se ci riesce – dal Governo! – non può altrettanto dal Gran Consiglio, il nuovo organo che ha sostituito il vecchio Comitato Centrale dei Fasci di Combattimento. Deplora: “… L’onorevole Farinacci non è soddisfatto se non stronca un uomo al giorno!”
Alla saggia decisione di costituire la Milizia, con la quale imbrigliare lo squadrismo più facinoroso è di nuovo Farinacci ad opporsi, lo fa testardamente, minaccia le dimissioni e non solo sue ma anche di alti ufficiali della Milizia a lui fedeli. Questa volta però è Mussolini ad averne ragione. Gli manda Emilio De Bono con l’ordine di arresto, e lui ritira le dimissioni.
Il giornale satirico il “Becco Giallo” lo chiama “Onorevole Nitroglicerina” . E scrive: “Non studiò in nessun luogo, ma in sei mesi conseguì licenza elementare, ginnasiale, liceale e laurea …scrive cocomero con la “q”. Ma lui riesce a laurearsi in legge. E per dimostrare che non è l’ignorante di cui lo accusano, pubblica vari libri, tra cui la “Storia della Rivoluzione Fascista”. I suoi avversari però diranno che non l’ha scritta lui, che l’ha copiata, come ha fatto per la tesi di laurea.
Solo con il delitto Matteotti Farinacci torna ad essere il protagonista. Con abnegazione si pone a difesa di Mussolini. Fa appello alla determinazione di tutto l’estremismo di cui è rimasto leader. Minaccia le opposizioni, che intanto si sono ritirate su l’Aventino, ed invoca da parte del Governo decreti eccezionali che consentano l’arresto di tutti i deputati antifascisti.
La strategia di Farinacci a sostegno del Duce si attua da un lato con il propagandare una netta cointeressenza tra il Capo ed il fascismo, dall’altra garantendo la totale abnegazione degli estremisti a difenderlo.
Il prezzo che Mussolini paga per salvarsi è alto: deve assumersi la responsabilità politica dell’assassinio di Matteotti. Il Duce tentenna su questa decisione che non si sa fino a quanto ripugni, fatto è che, dopo l’incontro con Farinacci ed i consoli della Milizia estremista, il 3 gennaio 1925 pronuncia il famoso discorso con il quale accoglie in pieno le richeste farinacciane, oltretutto, annuncia anche l’emanazione di provvedimenti speciali che saranno le leggi liberticide presupposto della dittatura.
Se con il superamento dell’affare Matteotti il fascismo ha vinto una battaglia importante, questa non è ancora risolutiva; per la stabilizzazione del potere v’è ancora un cammino colmo di insidie. E’ un consiglio inutile, inconciliabile con il neosegretario, la cui totale assenza di diplomazia riesce ad irritare tutti, perfino il Vaticano che ritarderà di alcuni mesi le trattative per il Concordato.
Mussolini si irrita. Non sopporta questo confronto felino da nuora a suocera, cui lo obbliga Farinacci! con quelle prove di forza spesso velate da cerimoniosi omaggi. Come quando, con l’intento di portare in dono un toro, un cavallo, due mucche ed una cassa di violini fabbricati a Cremona, organizza lo spostamento in massa, con treni speciali, di 20.000 rurali lombardi.
E’ un modo per lusingarlo il suo Duce, ma anche per dimostrare che ha tutti i diritti per essere l’Antiduce, quelle sono le “sue” masse. E non solo a Cremona ha sostenitori, ma anche a Trieste, a Udine; la folla spesso grida: “Viva Farinacci Ministro degli Interni, viva la Repubblica!”, mettendo in evidenza tutto il suo potere su quell’ala del fascismo antimonarchico che vorrebbe la totale eliminazione del Re.
La nomina di Farinacci alla Segreteria, per Mussolini è anche un atto di compromesso verso gli intransigenti, nella speranza di poterli controllare, riportandoli alla disciplina. Il braccio di ferro durerà a lungo. Più di una volta il Duce è costretto ad intervenire presso il Prefetto di Cremona per sequestrare i numeri del suo giornale per i loro contenuti faziosi, per le denunce non sempre vere.
Grave è l’episodio – anni dopo – quando fa intendere, senza averne le prove, di essere a conoscenza di finanziamenti illeciti in cui sarebbe coinvolto nientedimeno che Arnaldo, il fratello di Mussolini, allora direttore de “Il popolo d’Italia”. Nonostante i suoi difetti Farinacci riamane simpatico alla gente. Lo sente un uomo del popolo. Lo chiamano “Il superfascista!” , “Il Selvaggio Farinacci”, “Il capo più focoso del rassismo provinciale”.
La prima volta che le cineprese italiche ne danno testimonianza è in occasione della visita ufficiale delle autorità fasciste a Predappio, alla casa natale del duce. Lo stesso anno, partecipa alle esibizioni del saggio ginnico di cui sono protagonisti gli ufficiali della Milizia.
Intanto il segretario non dimentica neppure di coltivare qualche buon investimento. Trasforma “Cremona nuova” su cui scrive da giornale di provincia a testata di livello nazionale, col nome di “Regime Fascista”. E’ l’evento di maggior rilievo della sua storia giornalistica ed è quello che gli permetterà di dominare la scena politica italiana pur rimanendo a Cremona.
D’altro canto facendo valere il suo ruolo di avvocato ha occasione di curare gli affari di molte imprese, ottenendone laute provvigioni. Un altro aspetto che risulta inaccettabile per Mussolini è quel suo strano ambiguo e arbitrario motto “disubbidire il Duce per servirlo!” che se ha avuto una sua utilità nei giorni critici del delitto Matteotti, appena un anno dopo risulta eccessivo, sicuro inopportuno.
Nell’ottobre del ’25 infatti vengono compiute vergognose violenze a Firenze e con il placet di Farinacci. E’ un precedente gravissimo, talmente inconciliabile con la nuova linea del Paese che Mussolini lo rampogna, affermando che tra gli squadristi ce ne sono molti di dubbia fama ed è ora di farla finita: “I fascisti, con i fascisti! I delinquenti con i delinquenti!” E dà ordine al Prefetto di sequestrare i numeri di “Regime Fascista” nei quali, il riottoso gerarca, incurante delle raccomandazioni tesse gli elogi agli autori dei misfatti fiorentini.
Ma è con il processo Matteotti che Mussolini decide che al più presto deve liberarsi del Segretario. Divenuto difensore di Amerigo Dumini, imputato principale per quel delitto, durante l’arringa sfoggerà una tale arroganza e demagogia da infastidire non solo gli avversari ma tutto il fascismo moderato, di cui il Duce teme di alienarsi le simpatie! Appena spenti i riflettori sul processo, il 30 marzo ’26, durante la seduta del Gran Consiglio è costretto a dimettersi. Ma protesta. Ne segue perfino una polemica tra lui e Mussolini sui rispettivi giornali, comunque deve accettare il fatto compiuto.
Creano una tale costernazione queste parole che è costretto a rimangiarsele pubblicamente. Lo fa obtorto collo ma non scompare dalla scena, come si potrebbe credere. In agosto del ’29 eccolo di nuovo insieme al Duce, con Balbo e Grandi, passare in rassegna i balilla in visita a Villa Torlonia. Ed ancora, il 23 marzo 1930 è a Verona per la commemorazione dei Fasci di Combattimento.
E tra l’altro neppure trascura il suo ruolo stimolante di organizzatore economico, rieccolo a Cremona, con il ministro Belluzzo: inaugura la mostra agricolo zootecnica. Graffi reciproci continueranno per tutto il ventennio. Non mancano sgarbi, ma anche gesti da galantuomini, che spesso affiorano sulla stampa.
Come quando dopo l’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, a Bologna il 31 ottobre del 1926, la polizia nel tentativo di risolvere aspetti oscuri della vicenda, ritiene vi siano implicati componenti del fascismo estremista… Alcuni fanno il nome di Farinacci. Ed è solo la assoluta fiducia di Mussolini in lui che lo scagiona. E’ stato il momento più vulnerabile della sua carriera.
Il rapporto resta però in latente crisi almeno fino al 21 novembre 1932, data di un incontro fondamentale per la quasi definitiva rappacificazione, che sembra sia stato sollecitato ancora una volta dal ras di Cremona tramite una lettera velatamente di ricatto. In ogni modo l’esilio forzato di Farinacci termina, non è più in disgrazia; sicuro il Duce ha intenzione di servirsene per qualche compito nuovo e delicato. D’Oltralpe giungono echi di marce e canti provenienti da un popolo la cui amicizia porrà aspetti davvero spinosi: quello nazista!
Nell’agosto del 1933, si intravede tra la folla dei gerarchi a seguito di Mussolini al rientro di Balbo dalla Crociera Nordatlantica. La guerra d’Etiopia trova in lui un vero alleato. Mussolini se ne serve per organizzarne la campagna politica e militare. E alla guerra Farinacci non esita a parteciparvi lui stesso. Nel febbraio del 1936 si arruola nello squadrone dei bombardieri al comando di Galeazzo Ciano. Qui lo vediamo il 12 febbraio a Napoli, insieme a Starace e Ciano in partenza per l’Africa. Il 4 marzo sbarca all’Asmara.
Non ha fortuna con le guerre. In Africa risulterà operativo solo poche settimane, perde la mano destra in seguito ad una esplosione, pescando con delle granate in un lago vicino Dessie. Voleva procurare del pesce fresco alla mensa ufficiali. In seguito si vanterà essere una ferita di guerra, ne riceverà una pensione, il cui ricavato però devolve ad un’opera di beneficenza.
Ciò non toglie che il 3 giugno venga decorato insieme agli altri gerarchi durante le celebrazioni della virtù guerriera italica.
Scoppiata le guerra civile spagnola viene inviato da Franco per valutare la situazione bellica, ed è in Spagna proprio nei terribili giorni della sconfitta italiana a Guadalajara. Di ritorno fa una relazione del tutto realistica, mettendo in luce come l’azione di Franco possa divenire a breve immediatamente critica e fallire senza una nuova e più concreta partecipazione italiana e tedesca a quel conflitto.
Difficile dire se è davvero una scelta convinta la sua ammirazione per il nazismo, fatto è che vi identifica molti degli aspetti che lui avrebbe voluto si fossero sviluppati in Italia, scaduta – a suo dire – in un fascismo da rivoluzione borghese. E’ su questa linea che stringe amicizia con Himmler e Goebbels.
Mussolini, che ha sempre visto con preoccupazione l’ascesa della Germania, chissà perché si convince che Farinacci possa essere proprio l’uomo giusto per trattare con i gerarchi del Führer. Ed il suo compito diventa ancora più delicato quando nell’ottobre 36 viene firmato l’Asse Roma Berlino.
1937. Viene scelto per guidare la delegazione italiana al congresso del partito nazista a Norimberga. Qui incontra per la prima volta Hitler. I cinegiornali ce lo mostrano fra il pubblico durante quella colossale manifestazione. Merito di questa amicizia, in ottobre viene insignito della Gran Croce dell’Aquila tedesca.
A scopo di propaganda, come tutti i gerarchi, non trascura l’attenzione per i giovani. Intitola a suo nome una colonia estiva per 1500 ragazzi tra i quali si fa filmare orgogliosamente. E amante delle adunate, il 21 settembre 1938 accoglie a Cremona 6000 dopolavoristi della provincia.
Mussolini lo strumentalizza ancora una volta per un lavoro sporco, la campagna antisemita. Farinacci vi aderisce non tanto perché ne è convinto, ma perché ritiene sia una scelta politicamente opportuna. In privato difende ed aiuta gli ebrei, alcuni dei quali sfrutta pure economicamente nel curarne l’arianizzazione, facendo loro ottenere documenti truccati. Va ascritto a suo onore che si rifiuterà sempre di licenziare la sua segretaria Jole Foà, nonostante fosse ebrea e contro le insistenze di Mussolini e altri gerarchi.
La sua visione dell’arte, contestataria, antimoderna, contraria alle visioni pittoriche care a Bottai e Margherita Sarfatti, lo porta ad inventare il Premio Cremona, con il quale si ispira al figurativo realististico della vita sociale e politica del paese. 17 maggio 1939: presenzia le gare ginniche del II Gran Premio delle legioni allo Stadio civico di Soresina.
In uno dei momenti di successo torna ad Isernia, tra la sua gente. Invece che ascoltarne il discorso questa però comincia a fischiarlo, amichevolmente, ricordandogli che è uno di loro, essendo stato messo a balia da una famiglia di contadini: i Cardiglio. Farinacci, indispettito dall’accoglienza fa emettere l’ordinanza di soppressione del Tribunale, mandando così tutti gli isernini, a far le loro cause a Campobasso.
Ricava grande soddisfazione nell’apprendere dell’attacco alla Polonia da parte di Hitler il primo settembre del 1939. Perciò quando il 7 dicembre il Gran Consiglio decide per la non belligeranza dell’Italia, il suo intervento di protesta è cosi’ energico che il Duce e’ costretto a rimproverarlo.
Mussolini è rabbioso contro di lui, che sostiene una guerra che nessuno vuole. C’e’ dell’ostico nell’uno che l’altro non riesce a digerire, dell’inaccettabile e quasi ripugnante. Ma imprevedibilmente anche del generoso e dell’umano, devoluto da parte di Farinacci alla causa del Capo quasi con disinteresse. E’ una schermaglia eterna fatta di sotterfugi e di polizia, che Benito non esita a mettergli continuamente alle calcagne.
Lui sa d’essere controllato, eppure lo snobba, non ne tien conto, imperterrito si ostina a dire e fare quello che crede e nei modi che crede. Nonostante i sequestri del giornale, gli altolà repressivi. Per paradosso, proprio le leggi fascistissime che lui ha voluto sono quelle che gli vengono mosse contro!
10 giugno del 1940, la guerra alla Francia ed Inghilterra è approvata con entusiasmo da Farinacci, così come pure è d’accordo per la politica aggressiva nei confronti dei Balcani e dell’Egitto.
Con l’avvento del conflitto le manie del suo carattere diventano ancor più ossessive. Visti gli insuccessi militari, tra il ’41, ’42, ’43 esaspera di continuo Mussolini, informandolo di ogni sorta di tradimenti da parte di generali e gerarchi a danno delle forze italo tedesche.
Agli inizi del 1941 si fa mandare in Albania come Ispettore Generale della Milizia ed anche qui la sua critica contro la totale disorganizzazione che vige nelle Forze Armate è feroce. Sta per renderne pubblica la relazione sul suo giornale quando Mussolini ne ordina il sequestro perché le informazioni, oltre ad essere dannose, risulterebbero anche inesatte.
La verità è che Farinacci ha il grave difetto di dire quel che pensa e di dirlo senza perifrasi, con sincerità. Ma un risultato lo ottiene. Per le gravi sconfitte subite in Grecia, Pietro Badoglio – Capo del Comando Generale – viene rimosso e fatto sostituire con il suo amico Ugo Cavallero.
In questi anni di guerra la sua ambizione è sfrenata, spererebbe in un rimpasto di Governo, con il quale, sostenuto dai tedeschi, assumerebbe la carica di Ministro degli Interni. Mussolini ancora una volta gli rimette la polizia politica alle costole. E più la situazione militare si aggrava, più si intensificano i sospetti su di lui.
Se le prove di forza fra i due durano tutto il ventennio con rotture più o meno ricucibili, il fatto grave però che lo incrinerà per sempre è quando, il 10 giugno 1943, Mussolini -inspiegabilmente- autorizza l’ammiraglio Pavesi, responsabile della piazzaforte dell’isola di Pantelleria, ad arrendersi agli Alleati senza combattere! Troppo inconsistente è per Farinacci la scusa che non ci siano forze sufficienti, la difesa non è neppure tentata!
Quell’ordine di resa, significa che il Capo del Governo non è più all’altezza della situazione. Bisogna sostituirlo! E ritiene che l’uomo giusto non possa essere che se stesso! Tra l’altro poi, è sconcertato del fatto che ovunque la gente sparli del Regime e del partito senza che il governo reagisca.
Mussolini ribatte che deve smetterla con quella sua mania di persecuzione; quanto alla crisi militare poi, assicura che gli Alleati prenderanno una batosta fenomenale appena porranno piede in Sicilia.
Ma Farinacci non gli crede, il 27 giugno riparte alla carica informandolo di aver saputo dell’esistenza di un complotto a cui non sono estranei uomini delle Forze Armate e di Casa Reale. Ancora una volta Mussolini reagisce con ironia. Lui, disperato, si rivolge ai tedeschi perchè ne riferiscano al Führer, ma l’ambasciatore von Makensen non gli dà credito. Troppe volte ha gridato “al lupo”!
Dopo lo sbarco alleato in Sicilia. Farinacci si rende conto che non c’è più nulla da fare. Prospetta al Capo del Governo che se neppure lui crede che la Germania vinca la guerra, è il caso di rimettere il Comando Supremo delle Forze Armate nelle mani del Re perché tratti una pace separata gli Alleati. La franchezza pone il problema per quel che è, esplicitamente, senza neppure tutto quel burocratese di cui sarà farcito l’Ordine del Giorno Grandi.
Alla presenza di Ciano e Scorza mostra un biglietto che ha appena ricevuto da Cavallero in cui gli scrive: “Caro Farinacci, fai sempre molta attenzione a Grandi e Compagnia, congiurano per scalzare Mussolini, ma il loro gioco sarà in ogni modo vano, perché Casa Reale, con Acquarone, conduce la lotta in proprio e li giocherà tutti”. Al che il Duce “Calmati e tranquillizzati” risponde “Il Re mi ha dato la sua parola d’onore di essermi amico e di sostenermi!”
Ma questa solidarietà verso il Duce è anche un gioco pieno di contraddizioni, ambiguo, nel quale Farinacci nasconde un proprio piano. Infatti quando il 16 luglio viene dato l’ordine a tutti i gerarchi di parlare nelle Piazze d’Italia per rassicurare il popolo quanto alla difficile situazione bellica, lui inizia a fare accuse pesanti, radicali. Ne seguono animose discussioni. Per uscirne, il gruppo di gerarchi decide di recarsi da Mussolini e lui per porre fine alle critiche convoca il Gran Consiglio per il 24 luglio sera. Di questa decisione ne viene informato il Führer.
La crisi morale ed umana di Mussolini si accentua con il fallimento del suo incontro con Hitler, a Feltre. Il Duce ha tentato invano di chiedere nuovi aiuti germanici per le truppe italiane, e soprattutto non è riuscito a parlargli del necessario sganciamento dell’Italia dal conflitto. Il colloquio peraltro viene interrotto dalla tragica notizia del bombardamento di Roma il 19 luglio.
Sulle prime la convocazione del Gran Consiglio non è gradita a Dino Grandi, pensa che sia uno stratagemma dei tedeschi per realizzare appunto il piano di Farinacci. Grandi opterebbe che il Duce rimetta il potere nelle mani del Re, rinunciando alla convocazione del Gran Consiglio. Mussolini però rifiuta.
E’ convinto tra l’altro che i nazisti hanno ancora qualche possibilità di vittoria; a Feltre, Hitler, gli ha parlato di armi segrete che avrebbero rivoluzionato le sorti della guerra. Assiste a questo colloquio tra Mussolini e Grandi anche Kesselring, che per caso si trovava in anticamera.
Alle ore 17 del 24 luglio i 28 membri del Gran Consiglio siedono di fronte a Mussolini ed incomincia la seduta. “Dal volto” riferisce Bottai “Emergono i segni di una volontà rassegnata alla gran resa dei conti. La sua voce non ha più i timbri provocanti e beffardi degli assalti polemici. Si difende. Afferma che nessuna guerra è stata popolare, men che mai questa!”
Dopo l’intervento di Grandi, il cui ordine del giorno pone Mussolini con le spalle al muro, si alza Farinacci per illustrare il suo. L’incipit è identico a quello di Grandi: un ringraziamento alle eroiche Forze Armate italiane che combattono in Sicilia, ma poi prosegue, ricordando anche: le Forze Armate tedesche, le Camicie Nere, i fascisti di tutta Italia, categorie dimenticate da Grandi.
Continua, chiedendo il ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo al Re, al Gran Consiglio, al partito, al Governo ed a tutte le altre istituzioni le responsabilità stabilite dallo Statuto e dalla legislazione. Infine invita il capo del Governo a chiedere al Re di assumere l’effettivo comando di tutte le Forze Armate per dimostrare che il popolo italiano è ancora capace di combattere. E soprattutto chiede che non si dimentichi il dovere di tenere fede alle alleanze concluse, vale a dire con i tedeschi.
Durante il dibattito che ne segue, rivolto al Duce, ancora afferma: “La mia fedeltà è stata sempre lontana dagli incensamenti e non ha mai ridotto l’indipendenza del mio giudizio. Tu sai che resterò al tuo fianco con una solidarietà totale ed assoluta. Tu non hai mai creduto di fidarti interamente di noi vecchi. Ad uno ad uno ci hai allontanati, mentre noi non chiedevamo che di servire il nostro paese ed il Regime.
Tu molte volte hai scelto i meno preparati, i meno intelligenti ed anche i meno fedeli, solo perché dicevano sempre di sì… e giuravano falsamente sulla tua infallibilità. Il Duce stesso mi è buon testimonio che io mai ho nascosto a lui il mio pensiero!”
Mussolini abbassa il capo, quasi ad ammettere la verità delle sue parole. E Farinacci prosegue: “I soldati tedeschi muoiono accanto ai nostri… Col tedesco bisogna parlar franco, mostrarsi uomini e non cortigiani; ma una volta scelta una linea di condotta, quella bisogna seguire con la massima lealtà”
Sia chiaro, l’ordine del giorno Farinacci, non esprime nulla sul ruolo futuro di Mussolini, se debba rimanere a capo del Governo, o andarsene, ne demanda semplicemente la responsabilità al Re. Proprio per questa uscita, che getta un ponte fra le varie posizioni, Ciano ad un certo punto si alza, proponendo che vengano ritirati tutti e tre gli ordini del giorno, ce n’era un terzo, stilato dal Segretario del partito Scorza per conto di Mussolini, e chiede che se ne faccia uno di comune accordo.
Ma Farinacci, ostinato, non ritira il suo. Il compromesso è respinto. Mussolini tace. In ultimo prende la sconcertante decisione di mettere ai voti proprio l’ordine del giorno Grandi, quello che in principio aveva raccolto più adesioni. Ed è la sua fine.
I tedeschi non perdoneranno mai a Farinacci di non essere stato capace di far porre ai voti il suo ordine del giorno, che di sicuro avrebbe obbligato la nuova soluzione politica ad impegni più concreti nei loro confronti. I quali, anzi, speravano in una delega totale per condurre la guerra senza intralci ed anche per conto dell’Italia.
Ma sarebbe stato molto difficile per Farinacci farsi strada tra le vecchie volpi del Gran Consiglio. Se l’uomo aveva sì la coerenza e la perseveranza di portare avanti le sue idee, difettava però della strategia e della perspicacia di valutare gli avversari. Nei momenti decisivi, pur attuando iniziative concrete, per il suo essere un provinciale difetterà sempre di quella sicurezza di sè che lo avrebbe potuto far essere determinante.
La sera del 25 luglio, arrestato Mussolini a Villa Savoia, Farinacci si rifugia all’ambasciata tedesca e la stessa notte, per motivi di sicurezza è trasferito, con indumenti da ufficiale presso la sede del comando di Kesselring a Frascati. Per sua richiesta, il mattino dopo è in volo per Monaco.
Il 27 luglio è da Hitler. Scandalizza il Führer per la sua totale assenza di rammarico per la sorte di Mussolini verso cui il ras di Cremona non risparmia critiche, e la cosa indispone il Führer, il quale è turbato dal suo irrefrenabile desiderio di esserne il successore. L’unica soddisfazione che gli si permette è quella di rivolgersi – da radio Monaco – al popolo italiano, invitandolo ad una strenua resistenza contro gli Alleati invasori.
L’immagine di Farinacci si deteriora ancor più. Dopo l’8 settembre, viene alla luce il memoriale del maresciallo suicida Ugo Cavallero, per le cui gravi affermazioni anche lo stesso Farinacci è messo in cattiva luce come uomo inaffidabile, per aver anche lui complottato contro il Duce.
Liberato Mussolini il 12 settembre, costituitosi il governo della RSI, Roberto Farinacci torna in Italia. Non ha più speranze. Inesorabilmente escluso da ogni incarico politico. Torna nella sua Cremona, torna ad essere il ras di provincia e, con il suo giornale, torna a far polemica con la corrente socialista del nuovo Governo, di cui fa parte lo stesso Mussolini. Del resto, “Regime Fascista” diventa il reggicalze dei tedeschi, dei loro proclami, dei loro avvertimenti e delle loro minacce alla popolazione.
E’ incredibile. Nonostante le polemiche gravi il loro rapporto rimane vivo. Di tanto in tanto, da Cremona, irrompe a Gargnano, presso la residenza di Mussolini, maniaco, chiedendo un colloquio. E di nuovo lo riassilla con le sue manie complottardi di vedere traditori ovunque. Eppoi si lamenta della emarginazione in cui è tenuto a Cremona. Del suo essere un reietto. Dopo vent’anni ancora non abbandona quel ruolo di “suocera del Regime”, maldicente, pettegolo, troppo sincero!
E neppure Mussolini è cambiato verso di lui. Ora che lo ha prigioniero vorrebbe perfino processarlo per tradimento, ma poi ci ripensa. Entrambi hanno ancora bisogno l’uno dell’altro. La ragione è che forse, Mussolini è stato sempre convinto che l’altro, nonostante i tentativi non avrebbe mai potuto scalzarlo. E forse, Farinacci, pur consapevole di questo, è rimasto sempre appagato dall’idea che avrebbe potuto farlo e non ha voluto.
Quel che rimane dell’uomo affiora dalle parole del suo ex nemico Guido Miglioli, che Farinacci ha avuto la soddisfazione di far catturare ma nei confronti del quale si comporta generosamente.
“Egli è in piedi, nel vano di una finestra piena di sole, con l’occhio vagante sulla piazza deserta. Noi siamo soli ed egli tace. -Non siamo ancora alla fine!- urla -Ho quattromila camicie nere e mille tedeschi disposti a tutto; in due ore possiamo spianare la città”!- Parla di ingratitudine del popolo, della vigliaccheria dei sedicenti amici. E poi ricorda una sequela di nomi e di fatti contro i quali si scaglia con disprezzo feroce.
Una storia ventennale rigurgita dal suo pensiero e dal suo animo. …L’ora di una fine oscura lo sovrasta, ma reagisce… e pur tra i dubbi incalzanti dell’agonia, si erge e grida -Verrà, verrà l’ora per tutti!- Possiede una confusione spirituale fra malvagità e indifferenza. Una maschera di superiorità e di ostentazione, su un cumulo di miserie”.
Il 27 aprile, lasciata Cremona con la sua colonna di fascisti, diretto in Valtellina, lungo la strada – con un atto gentile – decide di accompagnare a casa la segretaria dei fasci femminili che è insieme a lui in macchina, così imbocca la strada per Oreno, da solo, senza scorta. A Beverate la sua auto viene fatta segno di colpi di mitra dal partigiano Angelo Gerosa. Farinacci è l’unico a rimanere illeso, essendo riparato dalle valigie.
E’ l’alba di un giorno piovoso quando compare presso il Municipio di Vimercate. La folla lo aggredisce con gli ombrelli ed è soltanto il prologo del breve processo a cui stanno per sottoporlo. La giuria è composta da familiari di partigiani uccisi. Nella improvvisata aula volano insulti e spari, confusi come l’accusa: collaborazionismo con i tedeschi, propaganda antisemita, eccidi durante lo squadrismo.
Farinacci, bianco in volto, ma calmo, ribatte punto per punto. Si difende. Dice che certo ha commesso degli errori, ma si professa estraneo agli assassini. Afferma che dal 1926 non ha ricoperto più alcun incarico politico. E poi se certo ha commesso degli errori bisogna anche riconoscergli dei meriti. Conclude che non spetta ai giudici che ha di fronte condannarlo, ma almeno a quelli di Cremona.
Alla richiesta della pena di morte sorge una certa esitazione, ma l’intervento di una madre a cui da poco è stato ucciso il figlio fa decidere unanimemente di fucilarlo alla schiena. Farinacci mantiene un comportamento dignitoso. Scorge un prete tra la folla, gli fa un cenno. Don Attilio Bassi chiede al pubblico di essere lasciati soli. Scrive un biglietto di addio alla figlia, poi si libera di tutti i soldi che ha in tasca chiedendo che vengano distribuiti fra i poveri di Cremona.
Così muore il vecchio massone Roberto Farinacci. Con i conforti religiosi. Ed in un modo quanto mai inatteso. Crudelmente i partigiani la prima scarica la sparano in alto perchè lui si è voltato d’improvviso per offrire il petto. Ne segue un battibecco, lui si ribella, dice di non essere un traditore. Sarà l’unica concessione. Poi, gli sfondano il petto di colpi.
***
Tre lettere tra Farinacci e Mussolini
1926/27
Caro Presidente,
l’altro ieri l’Onorevole Turati, all’Ing. Orefici di Cremona membro della Federazione Provinciale fascista Cremonese chiamato appositamente a Brescia, ha dichiarato che tanto lui quanto i membri del Direttorio sono tutti miei affettuosi amici, ma che essi nulla possono fare per frenare la campagna malvagia, idiota, ed inutile che si sta subdolamente conducendo contro di me, perché la tolleranza viene dall’alto alludendo quindi evidentemente a te.
Fino a che i miei avversari nel fascismo sono Federzoni, Balbo, Barattolo, Scarfoglio, Sukert, Bottai ed altri la cosa non può farmi dispiacere, in quanto ho sempre avuto fiducia nella mia dirittura morale e politica e nel tempo che, con me, si è dimostrato piú volte galantuomo; ma quando vengo a sapere che l’uomo che vuole assassinarmi moralmente e politicamente è Benito Mussolini, la cosa mi sembra talmente enorme e grave da lacerarmi l’animo dal dolore.
Io verso di te non ho nessun torto, dico nessun torto. Ne ho dato la prova nei momenti estremamente delicati e pericolosi, per te e per il Regime. Non voglio ricordarti che nel 1914 abbandonai il socialismo per seguirti, neppure voglio ricordarti che nel 1919 fui tra i primi a rispondere al tuo appello e che, prima ancora, nelle sere tumultuose, molte volte ho atteso la tua uscita da Via Paolo da Cannobbio, per seguirti a distanza, come un cane fedele, per difenderti dagli agguati.
Ma mi voglio riferire all’ottobre del 1922, quando giocai il tutto per tutto, per iniziare il movimento rivoluzionario a Cremona, che costò la vita a dieci persone e il sangue di altre cinquantadue gloriose camicie nere, e mi voglio riferire alle giornate del giugno 1924, quando solo, dico solo, ti ripeto solo, ero al tuo fianco in quelle indimenticabili giornate di Palazzo Chigi, quando io per alleviare la pressione avversaria su di te, incominciai a strepitare contro tutto e contro tutti, sí da riuscire nell’intento: quello di attirare su di me tutti gli odi e tutte le minacce.
I pavidi, i senza fede e gli opportunisti del fascismo si schierarono contro di me; essi furono allora vinti. Oggi soltanto ritornano sulla scena per vendicarsi di me e fatalità vuole, che tu, senza saperlo ti presti al loro gioco.
E non devi dimenticare che costoro sono quei tali che, mentre noi facevamo veramente la rivoluzione, patteggiavano con Salandra e mentre noi nel giugno e nel dicembre del 1924 dichiaravamo che per arrivare a te bisognava passare sui nostri corpi, essi o rassegnavano le dimissioni nel tuo Gabinetto o altri, a Bologna, volevano convincere molti dirigenti della provincia ad abbandonarti e dar vita ad un nuovo movimento.
Come già ti dissi altra volta, ti ripeto ancora in questa amarissima ora, che non ti rifiuterei tutta la mia attività e tutta la mia purissima fede, se un giorno, ti vedessi ancora tradito come Cristo. Tu non puoi dimenticare questa mia stessa frase che io ti telegrafai nell’autunno del 1923 quando tu autorizzavi Massimo Rocca e permettevi a Filippelli sul «Corriere Italiano», ad attaccarmi a fondo per «bucare la vescica di Cremona».
Anche tuo fratello, sul «Popolo d’Italia», di allora mi lanciava il famoso «monito» mentre l’Onorevole Giunta mi minacciava di provvedimenti disciplinari. I fatti han dimostrato poi che Rossi e Filippelli ti volevano trascinare nel carcere; io invece avrei dato la mia vita per la tua salvezza. Sapevo, fin da quando ero Segretario, che tu ti eri ingiustamente ed ingenuamente adombrato della mia forza.
Sapevo che molti hanno alimentato le tue ombre, ma ho sempre sperato che col continuare a servirti devotamente, tu ti saresti persuaso della mala fede altrui e della mia lealtà. E non vi fu manifestazione giornalistica o popolare in cui io non dichiarassi la tua assoluta supremazia su tutti, fino al punto di dire a Milano il 28 marzo 1926, che solo Gesú Cristo ti poteva sostituire.
E soffocai in silenzio la profonda amarezza che provai quando seppi le ragioni per cui mi proibisti di tenere il noto discorso a Milano, di partecipare alla manifestazione di Torino, nonché di accettare l’invito delle città Sarde. Cosí pure mi ero imposto di non dirti mai nulla circa la diversità di trattamento che tu hai fatto a me e quelle che fai a Turati. Per Turati si danno ordini categorici alla stampa di soffiettare ogni sua manifestazione ed ogni suo discorso, per me si davano ordini perché la stampa mi trascurasse.
Tu mi dirai subito che questo è avvenuto quando non esisteva piú un accordo completo fra me e Federzoni. Ma tu sai bene anche che ciò è avvenuto per troppo amore, da parte mia, alla tua persona; è avvenuto per l’attentato Zaniboni, quando io sono rimasto poco tranquillizzato del Viminale e quando in quel periodo la Direzione Generale di PS aveva disposto un equivoco e misterioso servizio intorno a me ed aveva ordinato a due persone, che tu ben conosci, di sequestrare nella mia camera all’Hotel Bristol di Roma, alcuni documenti che io tengo, che nessuno riuscirà a rintracciare e che un giorno mi potranno servire di conforto.
Ricorderai anche quanti pettegolezzi, anche intimi, più volte falsificati o ingranditi, ti ha riferito sul mio conto, il Ministero degli Interni. Se io avevo diritto di avere un fratello, se io avevo diritto di avere un amico, questo fratello e questo amico non potevano essere che te. Invece no; montato dagli altri, dico «montato» perché non ritengo il tuo animo capace di tanto, hai voluto lasciarti trascinare dalla più nera ingratitudine.
Non appena lasciato il Segretariato del Partito, da alcuni giornali e da alcuni uomini come Balbo, Bottai, Sukert, – la tua avversione verso i quali dovetti io un giorno attenuare, – mi hai fatto aggredire violentemente e si è continuato per un pezzo con il proposito di farmi perdere le staffe – come Balbo ha più volte detto in Toscana – per indurre Turati a prendere dei provvedimenti disciplinari nei miei riguardi.
Poi, hai raccolto alcune voci del pagliaccesco fascismo di Parma città ed hai col tuo atteggiamento, con le tue dichiarazioni – pur senza che tu ne avessi la volontà – indotto la Magistratura di Parma a compiere le piú grandi bestialità che non trovano precedenti negli annali giudiziari. È stato tale il disorientamento dei Giudici, che si è spiccato un unico mandato di cattura con un’unica imputazione per venticinque persone!
E tale è stato lo spavento dei minacciati traslochi annunciati dal Corriere Emiliano, che gli stessi Magistrati anziché accertarne, anche sommariamente le responsabilità, hanno spiccato i mandati di cattura anche contro due morti. Stimati cittadini e professionisti come l’Avv. Montanari di Piadena, sono stati gettati nel carcere troncando in tal modo la loro attività, che fu sempre basata sull’onestà.
E questo perché, caro Presidente? Si era dichiarato, e lo stesso Turati confidenzialmente a qualche suo amico lo ha affermato, che cosí procedendo si sarebbe scoperto che Roberto Farinacci era implicato nella faccenda della Banca Agricola Parmense. Ora che tutti sono in carcere, ora che tutti i documenti di quell’Istituto sono in mano delle autorità si comproverà che io non ho mai, dico mai, ripeto mai, avuto rapporti di carattere bancario o affaristico con chicchessia.
Ho lanciato piú volte dalle colonne del mio giornale delle sfide; nessuno le ha mai raccolte.
Se non avessi la preoccupazione che, per ragioni politiche e per causa mia, vi sono delle oneste persone in carcere, potrei essere contento perché in questo modo mi si creano i migliori entusiasmi e gli affetti piú profondi.
Lo scopo a cui si mirava era di isolarmi completamente, di distruggermi; invece si è moralmente rafforzata presso gli onesti, la mia personalità. Ma di tutto questo mi riservo un giorno di parlarne in Parlamento e di dimostrare a tutti, te compreso – perché io sono sicuro che sei all’oscuro di tutto – che lo scandalo finanziario di Parma è stato voluto per malvagia manovra politica, la quale si è ripercossa, non certo a vantaggio del prestigio all’interno e all’estero, sulle povere spalle dei risparmiatori.
Dice il vecchio ma sempre saggio proverbio: non tutte le ciambelle riescono col buco. Il dissesto della Banca Agricola di Parma ha portato con se il fallimento Cuppini. Ebbene, perché le indagini giornalistiche del Partito e del Governo, non sono state estese anche a questo fallimento? Si sarebbe potuto cosí provare che proprio gli uomini che volevano colpire me, risultano i sostenitori ed i beneficati dal Cuppini.
Domanda a S. E. l’Onorevole Generalissimo Italo Balbo quali rapporti ha avuto con il Cuppini per la bonifica di Comacchio e se egli e il suo giornale non sono mai stati lautamente compensati. E Balbo è uno dei dirigenti della cosidetta Santa Crociata! È cattiveria volermi fare un appunto perché io sono stato amico di Lusignani.
Lo conobbi alla fine del 1922. Egli, quando si presentò a me per chiedere il mio intervento quale membro del Direttorio Nazionale, mi mostrò delle lettere di Rocco e di Federzoni i quali gli attestavano tutta la loro stima e mi fece anche vedere ricevute di denaro versato all’«Idea Nazionale», al «Popolo d’Italia» e ad altri giornali amici. Non solo, ma mi dimostrò anche che egli era stato Presidente del comitato elettorale dell’Emilia nel 1921 e versò anche la discreta somma di 100 mila lire per la riuscita di Corgini, Terzaghi, Vicini, Lancellotti.
Perché dopo tutto ciò non dovevo ritenerlo amico, tanto piú sapendo che a Parma i suoi avversari erano Picelli, Micheli e Berenini? Però ti posso dichiarare sulla mia parola di gentiluomo che né io né il giornale che io dirigo, hanno avuto da lui un centesimo, dico un centesimo.
Si mentisce sapendo di mentire, quando si fa circolare la voce che esistono delle mie cambiali. In vita mia non ho mai visto cambiali; soltanto studiando Diritto Commerciale ho appreso che essa è un titolo di credito.
Ed è tale la mia avversione per tutto ciò che è attività commerciale, bancaria ecc. ecc. che io mi occupo come avvocato soltanto di penale e che i nove decimi delle mie cause si riferiscono a fascisti che pagano la parcella salutando romanamente. Voglio anche dirti che povero sono nato e povero sono rimasto. Non posseggo né un metro quadrato di terra né di case.
Piú volte sono stato vivamente pregato di entrare a far parte di Consigli d’Amministrazione; mai ho voluto accettare per mantenere integra la mia figura di uomo politico. Sai come il Regime mi ricompensa? (Dico Regime per alludere al Governo). Con lo stroncare anche la mia attività professionale.
A Savona le autorità avevano dato ordine ai giornali di Genova di non pubblicare nulla della mia arringa pronunciata ad un processo per diffamazione. Non solo, ma a qualche eventuale mio cliente si va dicendo che l’Onorevole Farinacci è in disgrazia e quindi il suo patrocinio è dannoso.
Caro Presidente, questo riguarda la mia persona come privato e non mi preoccupa. Ho sempre vissuto con stipendi irrisori, ho cercato sempre di fare il passo secondo la gamba, sono sempre riuscito a non compromettere quel patrimonio morale che mio padre, modesto impiegato dello Stato, mi ha dato. Mi preoccupa invece la situazione politica, non tanto nei miei riguardi quanto nei riguardi tuoi e della Nazione.
Questa lotta che si conduce contro di me da persone equivoche, l’ostracismo che si dà a tutti i dirigenti del fascismo provinciale legati a me d’amicizia, il dipingere ai fascisti un Farinacci diverso da quello che è stato fino ad oggi, non è compiere opera di compattezza e di entusiasmo nella massa!
Questa, abituata ad amare i suoi capi e poi ridotta a disprezzarli è invasa da sfiducia e scoramento che purtroppo, se non si corre ai ripari, avranno delle fatali conseguenze. Quell’unità che, con tanta abilità ed energia io riuscii a ricondurre nel partito, è stata infranta. Federzoni, Balbo, Turati ed Arpinati ne sono i colpevoli.
In tutte le provincie, almeno in quelle che hanno un passato fascista, la situazione è critica. Non credere ai rapporti dei Prefetti i quali hanno l’ordine di intonare le loro informazioni all’antifarinaccismo e nascondono la realtà delle situazioni. Se ti vuoi convincere di quanto io ti dico, manda riservatamente un tuo fiduciario nelle varie zone che possa esaminare e riferirti con precisione del come stanno veramente le cose.
Io cerco continuamente di fare opera di calma e se ti riferiscono l’opposto, ciò è completamente falso. Ti avviso da buon camerata, col massimo disinteresse e ti dichiaro che io non ho ambizioni e che non intendo di ritornare mai piú a capo del Partito. Sarei diversamente anche poco furbo, dopo la situazione che si è creata!
E sai che se io fossi un ambizioso, lo avrei accettato quando tu me lo offrivi, un posto di Governo. Intendo solamente collaborare come per il passato con uomini che sappiano interpretare l’anima del fascismo. Turati, per volontà sua o degli altri, è fuori strada. Egli ha dimostrato di avere poco buon naso, sebbene lo abbia lungo; è questione di qualità. E finisco parlandoti brevemente della situazione Cremonese. Qui Turati ha cercato di far di tutto per minare la compattezza del fascismo locale.
Anziché con i dirigenti ha avuto contatti, e tutt’ora è in corrispondenza telegrafica, con degli espulsi taluno dei quali condannato per spaccio di cocaina o per falso in atto pubblico. Una commissione, pure di espulsi è stata non solo ricevuta da lui a Roma, ma è stata presentata poi a Federzoni!
Tu potrai comprendere quale enorme impressione, questo modo di agire, susciti a Cremona. A Crema e a Soresina, qualche elemento indisciplinato cerca di creare noie ai fasci locali. Non mi è possibile intervenire energicamente perché i colpiti ricorrerebbero subito a Turati e sarebbero ascoltati.
La situazione nel cremonese è generalmente ottima; gli scocciatori non sono piú di trenta. Bisogna uscire dall’equivoco: o si vuole che il nostro fascismo rimanga nella sua granitica compattezza come per il passato e si dia tutta l’autorità alla Federazione respingendo gli espulsi; o si vuol gettare anche qui fra noi l’anarchia che vi è a Trieste, Udine, Treviso, Torino, Rovigo, Genova, Spezia, Firenze, Napoli ed allora lo si dica chiaramente, ché cosí ognuno di noi dirigenti saprà regolarsi.
Caro Presidente, considera questa mia come uno dei miei soliti sfoghi personali. Ti prego leggerla attentamente e, se tu mi vorrai dire una parola, te ne sarò fraternamente grato.
Tuo affettuoso Farinacci
Il capo del governo
Caro Farinacci,
alla tua lettera sfogo rispondo molto brevemente e semplicemente quanto segue:
A) Non è vero che io ti voglia assassinare moralmente e politicamente. Il vero è piuttosto il contrario. Io da tre mesi faccio il possibile per salvarti politicamente e moralmente. Ma tu non sei stato a posto. Dopo le tue dimissioni da Segretario Generale del Partito hai dimostrato di non sapere stare tranquillo nei ranghi, ma hai assunto arie le quali hanno sollevato un disagio abbastanza notevole nel Partito speranze eccessive in tutti gli avversari.
B) Nel mio atteggiamento verso di te dal gennaio del 1926 in poi non giocano affatto i motivi cui alludi – alcuni dei quali assolutamente ridicoli – bensì la tua campagna contro il Ministero dell’Interno; campagna che ritengo profondamente ingiusta e dannosa al regime non fosse altro per le soddisfazioni e speranze che regala agli avversari.
C) La nera ingratitudine, non esiste né verso di te né verso chicchessia; né oggi, né nel secondo semestre del ’24, né mai. Può darsi che io debba qualche cosa a qualcuno te compreso; ma gli altri mi debbono una infinita gratitudine, te compreso. Io sono di gran lunga creditore di tutti, indiscutibilmente.
Tutti in Italia e fuori sanno te compreso che se il regime vive e vincerà le tremende battaglie alle quali va incontro gli è perché io vivo e lavoro sedici ore al giorno come un negro. Lasciamo stare il tasto dell’ingratitudine! E ricorda piuttosto che io ti chiamai a reggere il Partito quaranta giorni dopo il mio discorso del tre gennaio appunto per darti una prova solenne di riconoscimento per quanto avevi fatto per il partito nel periodo quartarellaro e ricorda che l’ordine del giorno del Gran Consiglio del 30 marzo ’26 di plauso alla tua opera fu dettato da me.
Tale riconoscimento confermo oggi aggiungendo però che da sei mesi tu non cammini piú sul retto sentiero della disciplina silenziosa. Da tre mesi ti ripeto queste parole. S. E. Terruzzi può testimoniarlo.
D) Negare l’esistenza del fattaccio bancario di Parma è un colmo! Per ciò che riguarda il «Popolo D’Italia» ti hanno venduto del fumo. Ricordo perfettamente che durante il processo Candiani il conte L fece un’offerta al mio giornale, ma ricordo altrettanto perfettamente che io – proprio io – pregai l’avv. intermediario di restituire la somma – venti mila lire – al signor Conte.
Il regime, cioè il Governo e se vuoi il sottoscritto non si occupa affatto della tua professione. Ho veramente altro da fare io, specie in questo momento nel quale tutto il mondo dell’antifascismo è in agguato nella speranza vana di far tracollare il regime sul terreno economico finanziario.
E) Il disagio nel Partito è originato in gran parte dal tuo atteggiamento di indisciplina spirituale, di monopolizzatore della purezza della salvezza del Partito, dal tuo continuo lanciare accuse generiche alle quali, non fai seguire precisioni concrete; dai tuoi contatti e dai tuoi discorsi anche sul treno Milano-Genova e sopratutto dai discorsi dei tuoi amici i quali hanno la lingua troppo lunga.
Ancora una volta ed è l’ultima ti ripeto: obbedisci a Turati smettendo quell’aria di Antipapa che aspetta o fa credere di aspettare la sua ora; riconciliati con Federzoni che non ha rancori di sorta verso di te e che non merita i tuoi sospetti e che è un servitore devoto del regime.
Riconciliati con Balbo che ha anche lui meriti indiscutibili verso il partito e che fu durante il periodo quartarellaro particolarmente preso di mira dagli avversari del regime e fa la polemica soltanto contro i nemici del Fascismo. E sopratutto evita la Massoneria. L’atmosfera si chiarirà; l’avvenire ti sarà aperto e gli avversari non avranno la gioia di vederti bandito dalla vita politica.
Ricordati che chiunque esce dal Partito decade e muore.
Cordiali saluti
Mussolini
Roma, 10 luglio 1926.
PS. Ci sono molte altre sciocchezze nella tua lettera, ma non le rilevo. Ti avverto che le prime dieci righe e soltanto le prime dieci righe della tua lettera, le ho lette all’On. Turati. E si capisce!
Mussolini
***
-
- Farinacci
Caro Presidente,
mercoledí scorso, dietro tuo invito telegrafico venni a Roma per parlarti di varie questioni, per dissipare cretinissimi e malvagissimi equivoci creati ad arte da altri, e per chiarire una volta per sempre la mia posizione di uomo privato e politico.
Alle 12,30 ora del colloquio, mi fu detto di venire al pomeriggio verso le ore 17,30 a Palazzo Chigi; qui dopo essere stato sballottato da un usciere all’altro, seppi da Mameli che il colloquio era stato rinviato ad altro giorno. Prima di lasciare Palazzo Chigi, vidi Chiavolini, al quale aprii il mio cuore e dissi tutto il mio risentimento per questo tuo agire verso chi ha il vanto di averti seguito con fedeltà ed entusiasmo da circa tre lustri.
È umiliante che nel 1927 per arrivare a te bisogna dare la precedenza a molti di coloro che io ho un giorno combattuto per difendere il Regime! Sono però di tale fede e di tale forza che riesco a rinchiudere nel mio animo tutta l’amarezza, senza serbarti il minimo rancore. Non appartengo alla schiera dei Cesarino Rossi, dei Fasciolo e dei Rocca, verso i quali tu, strana fatalità, usavi tutte le tenerezze e tutte le premure che io mai ho conosciute.
Gli amici veri, coloro che ti hanno dato le prove migliori di fraternità e fedeltà, coloro che si sono stretti attorno a te nel momento in cui a farlo si passava per assassini, coloro che ti offrirono la vita senza nulla chiedere, sono oggi, non solo calpestati, ma sospettati e perseguitati, come non lo sono i nemici provati del fascismo.
Piú volte in momenti di esasperazione chiedo ripetutamente a me stesso quale colpa io abbia commesso. Quello che mi addolora profondamente e che qualche volta mi spingerebbe fino al punto di diventare un anarchico fascista, ripeto fascista, è la persecuzione che si conduce contro tutti coloro che sono sospettati di essere i miei amici.
E gli amici miei, caro Presidente, sono precisamente i fascisti di vera tempra fascista, che mi coadiuvarono nel periodo quartarellista a sostenere l’urto avversario e a vincere senza condizioni. Sono traslochi in località disagiate, si nega a certi impiegati statali il diritto alla promozione, si levano dai posti di comando uomini onesti e capaci e si sostituiscono con opportunisti della piú brutt’acqua, con tutti quei fifosi che nel secondo semestre 1924 si sbandarono e si tolsero dall’occhiello il distintivo del Partito.
Tutto avrei immaginato, ma mai che il trionfo del nostro programma rivoluzionario dovesse risolversi in una cuccagna per tutti coloro che ebbero il caso di coscienza, che pretendevano che il fascismo divenisse accomodante e che combattevano persone che, come me, affermavano l’intransigenza piú assoluta. Perché questo? Mistero! Le voci che mi arrivano sono disparate. C’è chi dice che il Duce dubiti della mia devozione, c’è chi dice che io voglia fare il frondista contro il Partito, c’è chi dice che io mantengo vivo un certo movimento dissidentista.
A qualcosa di tutto questo tu devi certamente credere; non si spiegherebbe altrimenti il tuo atteggiamento, che poi, esageratamente interpretato da coloro che ti stanno vicino si tramuta in: caccia all’uomo.
Eccoti alcuni episodi:
Mesi fa andai a Torino a difendere dei fascisti. Qualcuno degli amici che mi venne a salutare, fu chiamato poi da un funzionario incaricato dal Questore e gli fu detto che non era politico farsi vedere assieme all’Onorevole Farinacci.
A Milano la sera dell’insediamento al Lirico, del Segretario Federale, essendomi incontrato all’Hotel Corso nel pomeriggio, con Turati, Marinelli, e Giampaoli, credetti mio dovere di partecipare alla cerimonia assieme a tutti gli altri Deputati.
Alla porta trovai un energumeno, il quale mi disse che gli ordini ricevuti erano precisi: io non dovevo assolutamente entrare. Attesi l’arrivo di Turati e di Giampaoli ai quali denunciai l’accaduto. Essi non mi dissero nulla né provvidero a richiamare l’imbecillissimo fascista. Tuo fratello presente, in vero, deplorò l’atto indegno.
Sí, indegno, Presidente, perché non bisogna dimenticare quel che ho fatto io per Milano e non bisogna dimenticare quante volte io ho appoggiato le azioni con colonne di fascisti cremonesi. Cremona, prima della rivoluzione, fu la città ospitale per tutti i milanesi colpiti da mandati di cattura. Al processo Oldani, svoltosi in momenti non simpatici per il fascismo, fui io che assunsi la parte più grave di difendere quelle povere camicie nere.
E non si doveva poi dimenticare che io sono uno dei pochi superstiti dei fondatori del fascismo (23 marzo 1919) e che sono il Deputato della circoscrizione Lombarda che ebbe, dopo di te, i maggiori suffragi. Se fossi stato uno di quegli uomini impulsivi, avrei quella sera protestato energicamente, avrei trovato migliaia di sostenitori, avrei potuto creare seri incidenti; invece no, rassegnato me ne ritornai in albergo dove vennero poi numerosi amici a dichiararsi nauseati di certi sistemi.
Vado a Napoli dove mio padre trovasi gravemente ammalato e prendo alloggio all’Hotel Vesuvio, per un giorno e mezzo. Appena ripartii per Roma, seppi che le autorità chiamarono tutti gli amici che mi vennero ad ossequiare, pretendendo da essi di sapere quale complotto politico era stato organizzato.
Qualcuno che copriva cariche politiche, per il solo fatto di essere stato visto con me, fu invitato a rassegnare le dimissioni. A Napoli non si è parlato che della salute di mio padre, delle regate internazionali che si dovevano svolgere a Nizza, e di Foot?Ball. A qualcuno che mi voleva informare di una inchiesta che si stava svolgendo a carico di un certo Clementi, amico di Turati e di sua moglie, imposi il più assoluto silenzio e dissi questa precisa frase:
Non parliamo di politica perché domani a Roma si dirà che noi abbiamo complottato. A Codogno da parte del Comando della Legione Ferroviaria di Milano, si rimproverano quei ferrovieri perché tengono nella loro Sezione il mio ritratto. Se non mi sbaglio io ho fatto undici anni il ferroviere ed ho capeggiato sempre in Lombardia il movimento di resistenza contro tutti gli scioperi.
Alcuni ferrovieri di Treviglio credo tre o quattro, acquistarono presso la Colonia Balilla dei ferrovieri fascisti di Cremona, una spilla riproducente la mia fotografia. Contro questi agenti, venne aperta immediatamente una inchiesta e furono minacciati di licenziamento.
A Bergamo si inaugura la Casa del Fascio. Vengono invitate le rappresentanze delle Federazioni Fasciste delle provincie limitrofe, Corno, Brescia, Milano e si escludono solo i rappresentanti del fascismo cremonese, come se essi fossero un’accolita di rognosi. Si dimentica facilmente che Cremona fu maestra a tutte le provincie vicine, compresa Brescia e l’Onorevole Turati, che hanno sempre fatto capo a Cremona.
A Trieste chi è visto leggere «Regime Fascista» viene redarguito dal Questore De Martino. Gli strilloni vengono diffidati. Ovunque si tenta poi di boicottare la vendita del mio giornale. A Cremona, a carico di due capistazione, già compagni miei di lavoro e che furono a fianco mio quando gli altri scioperavano, viene improvvisamente inviata da Milano un’inchiesta.
Messi sotto accusa, l’uno per essersi finto ammalato ed invece partito per Roma, l’altro per essere pure partito per Roma senza regolare congedo e con un biglietto irregolare di servizio, viene a risultare invece che il primo, trovavasi all’ospedale sotto i ferri del chirurgo per operazione, il secondo partito sí per Roma, ma con regolare congedo e con regolare biglietto di viaggio.
Ti lascio immaginare le impressioni nel campo ferroviario! Certe umiliazioni non si subivano neppure quando trionfava il sindacato rosso. Quali ragioni giustificano, caro Presidente, questa lotta malvagia, contro fascisti di fede ed onesti? Non riesco a capirlo. Il fatto che non si distrugge è che fino ad ora non si è potuto muovermi un appunto e che il lavorio degli informatori, (te li raccomando per la loro serietà e per il loro disinteresse!) le delazioni interessate di uomini che ti stanno vicino, non hanno potuto precisare alcunché contro la mia attività sia politica che privata.
«Regime Fascista» è il giornale ortodosso per eccellenza. Dopo il «Popolo d’Italia», nessun altro giornale sostiene con ardore ed energia tutta l’opera del Regime. I miei discorsi, pochissimi in vero, sono sempre intonati alla disciplina ed alla devozione per il Duce. All’infuori di questa io non spiego altra azione. Tutt’al più potrò lamentarmi con qualche intimo del come è stata ricambiata tutta la mia fervente opera data a favore del fascismo. Comprendo però che se l’ingratitudine esiste, essa vuole anche le sue vittime.
Io so già che tu, a quanto ti ho detto risponderai: che io sono colpevole di non essere in cordiali rapporti di amicizia con l’Onorevole Turati. Dico cordiali rapporti di amicizia, perché il fatto solo di aver accettato la carica di Segretario Federale, è la prova che intendo rimanere disciplinato agli ordini delle Supreme Gerarchie. Ma, per carità, non pretenderai che io ad ogni affronto che ricevo dal Segretario del Partito, debba gridare: Evviva Turati.
Ti sei mai chiesto perché, dopo averlo chiamato da Brescia, dove era abbandonato da tutti e dove tu stesso un giorno lo volevi far arrestare per lo sciopero dei metallurgici, e messo nel Direttorio Nazionale, dopo averlo io stesso designato a te come mio successore, non abbia io oggi per lui lo stesso entusiasmo di allora? Se non lo sai te lo spiegherò subito.
Turati non doveva permettere che dopo quarant’otto ore che io avevo lasciato il Partito, dei libelli come La Conquista dello Stato, lo smercio Italiano di Bologna, Il Mattino di Napoli, mi aggredissero in modo volgare.
Anziché ricordarsi che io fui il suo Segretario, se ne compiaceva con Curzio Sukert, che veniva poi nuovamente ospitato alla sede del Partito dove io lo allontanai per tuo volere, quando egli dava la sua prosa alla Stampa di Torino e quando andava a Forlí, a Ravenna, a Firenze a scocciare il prossimo con la sua repubblica.
Turati non doveva subito mettere al bando i dirigenti di certe provincie come l’Avv. Tecchio di Napoli, i quali avevano servito con grande fedeltà la grande causa e ai quali non si poteva fare colpa se avevano dell’ammirazione per me, e se avevano preso sul serio i comunicati del Gran Consiglio, con i quali piú volte mi si esprimeva il plauso piú entusiastico.
Rileggi, caro Presidente, la tua lettera inviatami in risposta alla mia nel 1925, anniversario della morte di Casalini. Turati ebbe il torto di chiamare a se, cinque dei peggiori cittadini di Cremona, espulsi da noi per ragioni non politiche, ma morali e proclamarli gli interpreti sinceri del fascismo cremonese.
Questi cinque signori, o meglio figuri, caduti nel ridicolo generale, oggi si affrettano a dichiarare che ricevettero da Roma gli ordini di minare la mia posizione a Cremona e ricevettero ordini dall’Onorevole Torrusio, intimo dell’On. Turati, di creare a Cremona incidenti tali, da richiamare l’attenzione della Direzione del Partito.
Fu Turati che tollerò la scandalosa campagna parmense per quella Banca Agricola, campagna che non si preoccupava se quell’Istituto avesse un passivo di appena 4 o 5 milioni, irrisorio però di fronte ai dissesti contemporanei della Banca Adriatica, della Banca Garibaldi e della Banca delle Colonie di Napoli; né doveva preoccuparsi di far punire i colpevoli, ma soltanto tendeva a creare dei dubbi sulla mia persona. Forse perché la mia onestà e la mia dirittura morale, debbono essere per molti un incubo tremendo?
E si è fatto scrivere alla Magistratura una pagina nerissima che non ha precedenti nei passati Regimi; si volevano perfino arrestare i morti! Fascisti che ricoprivano posti di carica in Enti non di Farinacci, ma del Regime, furono clamorosamente arrestati ed espulsi dal Partito per poi vederli assolti e riammessi nel fascismo, a distanza di qualche mese.
Si parlò di mie cambiali, di somme da me percepite, si fecero delle indagini, si chiamarono alla Direzione del Partito uomini che dovevano deporre chissà quali grandi cose, ma tutto è finito con un palmo e mezzo di naso da parte di chi sperava che le cose fossero andate diversamente.
Ed oggi Turati mi telegrafa, un po’ tardi in vero – inquantoché la polemica era già stata chiusa da me – di non dimenticare i doveri di fraternità. Non ho mai considerato per fratelli i vili che tentano di colpirmi alla schiena. Avrei voluto anzi che questi vili, che questi calunniatori, secondo certi deliberati del Gran Consiglio, fossero stati puniti.
A Parma trionfa in pieno la massoneria; questo è il risultato della lotta. E se ne vuoi una prova, domanda al Console Forti se ha rifiutato il grado di Fratello vendicatore 30 conferitogli il 1° Gennaio 1926 – dico 1° Gennaio 1926. Suardo mi disse, in un fugace colloquio, che tu eri seccato anche per il fatto che io non mi reco a Palazzo del Littorio, ad ossequiare Turati.
Io ci vado quando mi chiama. Una volta sola ci sono andato di mia iniziativa – e l’Onorevole Starace ne può essere buon testimonio – ma il Segretario del Partito non mi volle ricevere. Tu capirai che io posso umiliarmi davanti a te, ma davanti agli altri perdio, No! Non appartengo alla schiera degli impostori che fanno lingua in bocca ad ogni piè sospinto, salvo poi dirsi corna dietro le spalle.
Poi vi è in fine la questione professionale. I non iscritti al partito mi si vieta di difenderli anche quando si tratta di reati comuni, per i fascisti mi si dice che non è opportuno che io li difenda. L’attuale processo di Chieti, ne è la prova migliore. A giorni avanzerò domanda di assistere degli amici fascisti a Trieste, implicati nei noti incidenti. Vedrai che mi si risponderà: «Non è opportuno che tu vada».
Allora ti rivolgo il quesito: Un uomo che ha moglie e due figli, come deve vivere? A te la risposta. Per finire ti parlo dei fatti di Genova. L’avermi inviato copia del rapporto del Prefetto, debbo ritenere che tu voglia far ricadere anche su di me una parte di responsabilità. Ebbene, ti prego di prendere atto che io in quei fatti, c’entro come c’entri tu, e se quei fascisti hanno gridato Viva Farinacci, io ho in questo grido la stessa responsabilità che hai tu quando i fascisti gridavano: Viva Mussolini Re.
Mi si dice che ti hanno riferito che quei dirigenti sono sempre a Cremona. Ciò è completamente falso. Qui a Cremona viene soltanto qualche rara volta il fascista Mutti, che è di Cremona e viene a trovare la sua famiglia. Quando l’ho visto, l’ho pregato di dire a tutti i fascisti di Genova, di lasciarmi in pace e di non adoperare mai il mio nome. Ho poi dichiarato su «Regime Fascista» che io non ho nessuna intenzione di ricoprire il posto che ho tenuto in altri momenti.
Quando, caro Presidente, si è fatto il Segretario del Partito come l’ho fatto io in tempi difficili e con gli evidenti risultati, si può essere contenti una volta per sempre. E quelli che gridano: vogliamo Farinacci Ministro degli Interni, sono agenti provocatori, non certamente stipendiati da me!! Un certo senso politico credo di averlo e non sarei cosí fesso a permettere cose che mi danneggiano.
Questo volevo dirti. Non ti parlo della situazione politica in genere perché ti dovrei fare un quadro un po’ sconfortante. I migliori fascisti sono messi al bando, gli odi fra dirigenti e dirigenti, gregari e gregari, si vanno intensificando, in ogni provincia è difficile trovare due Deputati che vadano d’accordo; chi comanda localmente esercita una tale pressione che soffoca ogni voce onesta.
La diffidenza tra personalità politiche va aumentando, uno parla male dell’altro, uno fa la guerra all’altro. Non c’è da augurarsi che una cosa sola: che tu possa vivere mille anni, altrimenti non so come finirebbero i risultati di tanti nostri sacrifici. È necessario che tu dica a chi ti circonda, di cambiare sistema. Occorre fare opera di fusione, non di divisione, opera di avvicinamento, non di allontanamento, opera di amore non di odio, opera di fede non di opportunismo.
Per conto mio sono come sempre ai tuoi ordini. Se credi che la mia carica di Segretario Federale sia in contrasto con quella direttiva che bisogna tenere nei riguardi del Segretario del Partito, dimmelo francamente, io sono disposto a cedere le armi a qualche altro uomo di fede che in provincia potrebbe mantenere integra la tradizione del nostro fascismo e che avrebbe tutta la mia collaborazione.
Se poi ragioni di Stato volessero da me l’estremo sacrificio, sono anche disposto a presentarti domanda, non per il confino, ma per l’esilio. Come vedi, piú disciplinati di cosí si muore!
Saluti fascisti affettuosamente
Farinacci