Acquappesa: l’eccidio dell’8 settembre 1943
LE VITTIME
- MICHELE BURELLI nato a Cinquefronti il 16/10/1908 fu Francesco e Mezzatesta Annunziata, coniugato, contadino
- SAVERIO FORGIONE nato a Sinopoli 17/12/1912, fu Vincenzo e Lanello Teresa, coniugato, contadino
- SALVATORE DI GIORGIO nato a Cittanova il 12/12/1908, di Giuseppe e Molino Maria, coniugato, cestaio
- FRANCESCO ROVERE nato a Polistena il 3/12/1908,di Giuseppe e Calcopietro Pasqualina, contadino
- FRANCESCO TRIMARCHI nato a Cinquefronti il 6/10/1908, di Michele e di Zuccoli Caterina
La vicenda, ricostruita da Antonio Orlando per la «Rivista calabrese di storia del ’900», in collaborazione con l’ICSAIC (Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia Contemporanea) mostra l’aspetto disumano e banale della guerra. Ma dal primo momento la pietà popolare ha accompagnato questi morti che per le stesse cicostanze – caduta del regime fascista, sbandamento dell’esercito ed armistizio – non considerava disertori ma vittime d’una immane tragedia.
di Antonio Orlando
Venerdì 3 settembre 1943
Alle due e trenta del mattino i Dukw – i mezzi da sbarco che gli italiani chiamano «anatra» – dell’ 8ª Armata del gen. Montgomery attraversano lo Stretto e danno avvio all’«Operazione Baytown». All’alba le prime avanguardie comunicano che stanno perlustrando le strade devastate di Reggio Calabria, ma non c’è traccia né di tedeschi né di italiani. Il comandante inglese tocca terra alla 10,30, festeggiato dai suoi uomini e omaggiato dai pochi ufficiali italiani rimasti. Si insedia nella sede del Partito Fascista e rilascia interviste alla BBC e ai giornali americani.
Alle truppe canadesi viene ordinato di salire verso l’altipiano e di raggiungere quei paesini abbarbicati sulle colline per poi ridiscendere sulla litoranea per ricongiungersi alle truppe che nel frattempo stanno tentando di sbarcare a Bagnara, a Gioia Tauro, a Pizzo. La notizia dello sbarco degli Alleati si diffonde velocemente, in pratica confermata dal comportamento delle truppe tedesche che non pare abbiano intenzione di opporre alcuna resistenza effettiva e si preparano ad abbandonare la provincia.
La sensazione che la guerra, questa volta, sia pure con una sconfitta, sia veramente finita, sta diventando una certezza che pervade subito le truppe italiane stanziate lungo tutto il litorale tirrenico calabrese.
Sabato 4 settembre 1943
I soldati della XIII Armata britannica ripristinano l’aeroporto di Reggio Calabria da dove partono immediatamente i «Baltimore» che bombardano i depositi dell’Asse situati a Gambarie. Un commando inglese del 1° Squadrone speciale sbarca a Bagnara e dopo uno scontro con il 15° Reggimento della «Panzergrenadier» riesce a occupare il paese e cerca di risalire rapidamente verso Palmi. Il terzo programmato sbarco a Gioia Tauro, invece, fallisce poiché i fondali sono troppo bassi; comunque, lentamente e con molta cautela – le strade sono minate e i ponti sono stati fatti saltare dai tedeschi in ritirata – le truppe britanniche marciano indisturbate lungo la Statale 18.
A questo punto la tattica dei tedeschi comincia a farsi più chiara: rallentare l’avanzata delle forze armate alleate per guadagnare tempo per lo sgombero lungo la dorsale calabrese e poi attestarsi a nord in un’area più sicura e meglio difendibile. È il principio della «terra bruciata», tanto caro a Hitler, sostiene lo storico tedesco Friedrich Andrae. Distruggere e annientare tutto ciò che in qualche modo potrebbe essere utile al nemico; sganciarsi rapidamente dalle zone dello sbarco alleato e impadronirsi di ciò che può tornare utile per la prosecuzione della guerra, uomini compresi.
Domenica 5 settembre 1943
19 soldati italiani, tutti calabresi, appartenenti al 76° Battaglione del 141° Reggimento Costiero di stanza ad Acquappesa, in provincia di Cosenza, si allontanano dalla caserma. È chiara la loro intenzione di tornare a casa. Le loro famiglie non sono molto distanti, alcuni abitano in provincia di Reggio, altri sono di Catanzaro e qualcuno di Vibo Valentia. I loro paesi sono a qualche centinaia di chilometri di distanza, li aspettano i genitori, le mogli e i figli.
La guerra oramai è chiaramente perduta; il fascismo è caduto, Mussolini non si sa dove sia finito e soprattutto giungono notizie di una avanzata indisturbata degli Alleati lungo la costa. Forse la loro è un’azione concordata, forse si sono consultati, forse è solo un caso che si siano ritrovati a pensarla allo stesso modo e siano tutti arrivati alla stessa conclusione. Forse non hanno piena consapevolezza di quello che stanno facendo.
In fin dei conti la loro è diserzione, in guerra è un reato gravissimo, da pena capitale, ma hanno già deciso. È fatta! Quel che importa è che non vedono l’ora di buttare la divisa, trovare magari qualche straccio da borghese e raggiungere casa. Il gruppetto si sparpaglia in diverse direzioni e così si ritrovano insieme i cinque che sono residenti nella stessa zona, nella Piana di Gioia Tauro.
Quei cinque militari sono: Salvatore De Giorgio di Cittanova, Francesco Rovere di Polistena, Francesco Trimarchi di Cinquefrondi, Saverio Forgione di San Eufemia d’Aspromonte e Michele Bonelli di Sinopoli. Tutti gli altri si dileguano velocemente, questi cinque invece rallentano la marcia, probabilmente si soffermano a riflettere sul da farsi. I loro paesi distano circa centocinquanta chilometri, percorrendo le strade interne, chiedendo un passaggio a qualche carrettiere e magari con l’aiuto di qualche contadino, in tre-quattro giorni si può essere a casa.
Quel rallentamento, però, è fatale. Una pattuglia, comandata dal cap. Antonino Crucitti, messa sulle tracce dei fuggitivi per espresso e perentorio ordine del colonnello Remo Ambrogi, li intercetta poco fuori dal paese. Vengono fermati, ammanettati e riportati in caserma.
Lunedì 6 settembre 1943
I cinque militari vengono rinchiusi in una cella e sorvegliati a vista . Il col. Ambrogi, senza neanche sottoporli a una parvenza di processo, intende fucilarli per diserzione di fronte all’avanzata del nemico.Tuttavia l’intervento degli altri ufficiali che fanno notare al loro comandante che gli Alleati stanno avanzando velocemente, che i tedeschi stanno smobilitando e, soprattutto, che non è ancora giunto nessun ordine da parte del Comando di zona circa il comportamento da tenere sia nei confronti dei tedeschi che degli Alleati, provoca un certo sbandamento nell’animo dell’alto ufficiale. A farlo desistere poi dal suo proposito è il deciso intervento del cappellano militare che quasi gli impone di informare i suoi diretti superiori e consultarsi con loro.
Il col. Ambrogi si rivolge al gen. Luigi Chatrian, comandante della 227° Divisione di fanteria con sede a Castrovillari. In serata arriva la risposta: «Fucilateli immediatamente». Con in mano quel foglietto che è una sentenza di morte, il col. Ambrogi predispone il plotone di esecuzione. Ancora una volta è il cappellano a chiedergli un rinvio, almeno al giorno dopo. Il sacerdote chiede di poter confessare quei poveri giovani, dare loro la comunione, raccogliere le loro ultime volontà, cercare in qualche modo di confortarli. Il permesso gli viene accordato.
Martedì 7 settembre 1943
Il Col. Ambrogi, che naturalmente ha passato una notte insonne, non se la sente di eseguire quella sentenza. Giungono notizie di una rapida avanzata degli Alleati che hanno già raggiunto Rosarno e Nicotera e sono sbarcati, pur con qualche difficoltà, a porto Santa Venere, vicino Pizzo. Al termine di un drammatico colloquio con il cappellano è lui stesso a chiedergli di recarsi dal gen. Chatrian per scongiurarlo di sospendere la terribile decisione. Il sacerdote parte immediatamente per Castrovillari, viene ricevuto solo dopo molte insistente e più per rispetto all’abito che porta.
La sua è una difesa accalorata e forte. Tocca tutti i temi possibili: che la fine della guerra è questione di ore; che gli americani sono già a Vibo Valentia e nel pomeriggio potrebbero essere a Catanzaro e l’indomani a Cosenza; che le «note caratteristiche» dei cinque militari sono ottime; che non hanno mai avuto una punizione; che hanno tenuto sempre una condotta esemplare e hanno servito la patria con onore e fedeltà e che, in fondo, sono cinque bravi ragazzi che sono stanchi e depressi, che hanno solo voglia di rivedere le loro famiglie.
Il generale ascolta infastidito, sta per congedarlo quando, al sacerdote, come in un lampo, viene da dire: «Vi siete chiesto perché sono riusciti a riprenderli? Tutti gli altri sono riusciti a scappare, a quest’ora saranno nascosti in qualche casolare se, addirittura, non sono già a casa, questi, invece, li hanno presi a pochi chilometri dal paese. Non è possibile che si siano pentiti? Non è forse possibile che stessero tornando indietro per riconsegnarsi spontaneamente? Diamoglielo questo beneficio del dubbio. Generale, la guerra è persa».
Chatrian mostra qualche segno di indecisione. Il cappellano tenta l’affondo: «considerate che il più vecchio dei cinque, che ha quasi trentacinque anni, è padre di un bambino di neanche sei mesi, non l’ha ancora visto, si chiama Salvatore De Giorgio; vogliamo che quel bambino della nuova Italia sia già un orfano per mano nostra?». Altro attimo di smarrimento, poi il generale Chatrian si riprende. Né le considerazioni né le suppliche del sacerdote sono riuscite a smuovere il comandante che nel congedare il prete dice: «È proprio in casi come questo che ho il dovere di dare un esempio».
Partito il cappellano, il gen. Chatrian ordina di comunicare al col. Ambrogi di far eseguire subito il suo ordine. Il povero colonnello, ancora una volta, non è nelle condizioni di poter ubbidire. La notizia si è diffusa nel piccolo paese, forse sono stati i militari stessi a informare i cittadini. Fatto sta che nelle prime ore del pomeriggio si raccoglie davanti alla caserma una piccola folla di persone.
A sera, quando rientra il cappellano, l’assembramento è diventato un vero e proprio assedio della caserma. C’è aria di sommossa, qualcuno lancia pietre contro i vetri della caserma, altri urlano che ci penseranno gli americani a liberarli, gli animi sono accesi e il col. Ambrogi fa comunicare dal cappellano che l’esecuzione è “sospesa”. Questo è il termine che usa il sacerdote nell’informare i manifestanti, il col. Ambrogi aveva detto «rinviata», ma se il cappellano avesse detto questo probabilmente sarebbe scoppiata una rivolta.
Mercoledì 8 settembre 1943
Alle ore 15,00 giunge un dispaccio riservato a firma del gen. Chatrian indirizzato al col. Ambrogi: «Pena gravi sanzioni vostro carico datemi assicurazione entro 24 ore aver eseguito fucilazione». Non resta che obbedire. Il col. Ambrogi predispone il plotone di esecuzione, affida ai suoi sottoposti il compito di individuare un luogo appartato dove eseguire la condanna mediante fucilazione.
Viene concordato pure l’orario; il più tardi possibile propone il Colonnello, magari alle due di notte poi si stabilisce che sarà dopo le 23. Alle 19,45 dalla radio del Reggimento i soldati apprendono la firma dell’armistizio e ascoltano col fiato sospeso quelle ultime parole: «La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza».
L’esultanza dei militari è enorme: soldati e ufficiali urlano e saltano per la gioia, si abbracciano felici; i cittadini di Acquappesa scendono in strada e il parroco del paese fa suonare le campane a distesa. Tutti pensano che la fucilazione dei cinque soldati verrà sospesa. Poco dopo le 20 il cappellano militare inizia la celebrazione della messa per invocare l’intervento della Provvidenza diretto a salvare quelle cinque giovani vite. Si rivelerà inutile.
Alle 23 il tenente Vittorio Navia si presenta davanti al col. Ambrogi per dire che tutto è pronto e che reputa che il posto più adatto sia dietro il cimitero. Dimentica di aggiungere che dall’ordine del gen. Chatrian sono appena passate 9 ore, ne restano ancora altre 16 e in tempi di guerra non sono poche. Si potrebbe traccheggiare ancora un poco, aspettare il nuovo giorno. Con lo sguardo basso e con voce rotta dall’emozione, il col. Ambrogi ordina: «Entro un’ora devi passare per le armi quei cinque soldati disertori». L’ordine viene eseguito intorno alla mezzanotte, quando già le navi alleate hanno iniziato lo sbarco a Salerno.
Cinque giovani, tutti intorno ai trent’anni, cadono crivellati di colpi dietro il muro del cimitero di Acquappesa, ai piedi di un vecchio albero di olivo. I cinque corpi vengono deposti in altrettante bare già pronte e seppelliti, in fretta e furia, nel piccolo cimitero del paese.
Giovedì 16 settembre 1943
A Cittanova, già occupata dalle truppe canadesi il 7 settembre, giunge la notizia che Salvatore De Giorgio è stato fucilato dai tedeschi mentre cercava di rientrare a casa, forse insieme con lui, si dice, sono stati fucilati anche altri italiani. Le informazioni sono incerte, vaghe, frammentarie; si parla di un generale tedesco, un certo «Shattriann» che ha voluto a tutti i costi farli ammazzare, per vendetta dopo aver ascoltato la notizia dell’armistizio. Bisogna che qualcuno lo dica alla giovanissima moglie, ma nessuno ha il coraggio di farlo.
La notizia passa di bocca in bocca, viene sussurrata agli angoli delle strade, nella chiesa di San Rocco dove è in corso la novena per la festa del santo più caro e più venerato del paese, le donne non parlano d’altro. Non appena Rosa Bruzzì entra, accompagnata dalla madre, ignara di tutto, viene subito additata. La madre avverte che il brusio alle loro spalle in qualche modo le riguarda, ma non osa chiedere, finchè finalmente qualcuno s’incarica di comunicare loro la terribile notizia.
La famiglia originaria di De Giorgio conta altri sei figli, cinque maschi e una sola femmina, di mestiere sono tutti cestai come il loro padre. Il più piccolo, Pasquale è emigrato negli USA intorno al 1933. Salvatore è il più grande, è nato il 12 dicembre del 1908, si è sposato nel gennaio del 1942 con Rosa Bruzzì con la speranza, non tanta segreta, di non essere richiamato anche perché lui il servizio di leva l’ha fatto nel lontano 1927. E poi ci sono altri quattro fratelli più giovani e più adatti. Quando è dovuto partire ha rassicurato la moglie: «Vedrai, resterò poco, ho trentacinque anni, sono tra i vecchi e poi mi hanno assegnato nella Territoriale, farò qualche guardia, non vado certo in prima linea. Appena posso chiedo di essere trasferito qui in zona; sono sposato, tra poco avrò un figlio, questo almeno mi tocca». Non andò così.
Per non rimanere sola, Rosa rientra nella sua famiglia paterna. Piano piano apprende che non i tedeschi hanno ucciso suo marito, bensì gli italiani e per di più dopo poche ore dall’armistizio. Quel generale che ha dato l’ordine ha un nome strano, ma è italiano così come sono italiani il colonnello e il tenente che hanno eseguito la fucilazione del suo povero marito. È una beffa; è una vergogna e soprattutto un abuso, un’ingiustizia. La fucilazione di quei cinque giovani militari è un errore gravissimo compiuto dal comando militare italiano proprio nel momento in cui l’esercito, privo di ordini e di direttive, era totalmente allo sbando. Nessuno, però, aiuta questa povera vedova a ottenere giustizia; né l’Amministrazione Comunale, né le istituzioni, né la Chiesa, né la Croce Rossa, né i partiti antifascisti prendono a cuore la sua situazione.
Eppure basterebbe poco, basterebbe, per esempio, accodarsi, magari come parte civile, al procedimento che nel marzo 1945 viene avviato davanti all’Alto Commissariato per le epurazioni contro il col. Ambrogi. Al termine dell’istruttoria la Commissione chiede al Tribunale Militare di Napoli che gli ufficiali responsabili della fucilazione dei cinque militari italiani vengano rinviati a giudizio per omicidio. Il Pubblico Ministero inizia le indagini.
Il gen. Chatrian viene interrogato e si giustifica affermando (e non è un’invenzione) di non aver riconosciuto alla radio la voce del maresciallo Badoglio e di avere avuto notizia della famosa «Memoria 44 op» solo l’11 settembre. Il col. Ambrogi affermò di aver ubbidito all’ordine di un suo diretto superiore. Il gen. Chatrian venne prosciolto da ogni addebito, mentre il col. Ambrogi venne rinviato a giudizio per omicidio colposo ed usufruì, in un primo momento, dell’amnistia.
Il Pubblico Ministero interpose appello contro tale decisione, ma non fu possibile avviare alcuna attività istruttoria contro il gen. Chatrian perché mancò l’autorizzazione ministeriale per procedere penalmente nei suoi confronti in quanto, in quel periodo, era sottosegretario al Ministero della Difesa, mentre la condanna nei confronti del col. Ambrogi venne confermata.
Nel corso dell’istruttoria era emerso a suo carico un particolare agghiacciante: Ambrogi aveva dato ordine, fin dalla mattina dell’8 settembre, di procurare cinque bare di legno! La difesa del gen. Chatrian, a fronte di un’indagine più approfondita e severa, sarebbe miseramente crollata. Come fa a non riconoscere la voce di Badoglio uno che, fin dall’inizio della guerra, è stato a diretto contatto con le alte sfere militari; uno cui venne affidata, su indicazione di Badoglio, la difesa della Sicilia, uno a contatto diretto perfino con il Comando Alleato per aver fatto parte del gruppo che trattò l’armistizio; uno, infine, che nell’agosto del ’43, si recò ad Altavilla Milicia per vedere come il gen. tedesco Rommel stava predisponendo il ritiro delle sue truppe verso la Calabria.
Quanto poi alla famosa «Memoria 44 op» essa venne diffusa segretamente il 2 settembre e conteneva indicazioni in ordine «…al contegno da tenere per reagire ad eventuali atti aggressivi del nemico», senza, tuttavia, precisare chi fosse da considerare «nemico». Tutti gli ufficiali superiori e i comandanti di Divisone ne ricevettero una copia. Alla vigilia dello sbarco in Calabria, molti comandi interpretarono l’ordine come un incitamento a rivolgere le armi contro i tedeschi o, quanto meno, a reagire contro eventuali azioni di aggressione da parte degli ex alleati.
È vero che il documento richiamava l’attenzione dei Comandi su possibili azioni di guerriglia da parte di fantomatici comunisti, ma appariva a tutti un’ipotesi remota e improbabile. La sua concreta applicazione era subordinata all’emanazione di un ordine successivo che fu effettivamente impartito l’11 settembre; tale ordine affidava «all’iniziativa individuale» dei vari comandi il compito di decidere caso per caso tutte le questioni che si presentavano ai reparti dell’esercito dislocati sia nelle zone di occupazione alleata che in quelle sottoposte al controllo tedesco.
Dunque dopo la diffusione via radio della firma dell’armistizio, il col. Ambrogi (che la voce del maresciallo Badoglio l’aveva riconosciuta!) avrebbe potuto legittimamente rinviare l’esecuzione o, quanto meno, aspettare la scadenza del termine assegnatogli dal suo superiore. Oppure, meglio ancora, avrebbe dovuto chiedere ulteriori informazioni visto che l’Italia aveva firmato l’armistizio e la guerra contro gli angloamericani doveva considerarsi conclusa. La «Memoria 44», scrive Battaglia, «…richiedeva agli alti quadri dell’esercito la cosa più difficile da attuare date le stesse tradizioni della nostra casta militare educata…ad eseguire gli ordini senza discutere, a considerare l’iniziativa individuale come un pericolo per la saldezza delle istituzioni».
In altri termini quei cinque sfortunati giovani vennero fucilati per l’ottusità di comandanti che stavano per arrendersi al nemico senza combattere dopo aver consapevolmente condannato un intero esercito alla dissoluzione e alla rotta completa. Qualche mese dopo, agli inizi del 1947, il Tribunale Militare, su impulso della procura militare che ha ricevuto i rapporti del col. Ambrogi, prende in esame la posizione di quei 14 soldati calabresi che erano riusciti a scappare e che non erano stati ripresi. Vengono tutti assolti con formula piena.
«L’assenza dal servizio alle armi – scrivono i giudici – rientra nel quadro disastroso del generale sbandamento che avvenne a seguito degli eventi bellici verificatesi nel settembre del 1943. […] In quei momenti ed in quelle circostanze quel fatto non può costituire un reato». La signora Rosa, che certo non si era arresa di fronte alle prime difficoltà, ha la fortuna di incontrare, intorno alla metà degli anni Cinquanta, la signora Tarsitani, originaria di Cittanova e moglie di un alto funzionario del Ministero della Difesa, addetto proprio alle pensioni di guerra. Questa prende a cuore la triste situazione della giovane vedova e racconta al marito l’intera vicenda. Questi, che a sua volta ha sentito parlare di questa «strana» vicenda, la mette in contatto con il sen. Domenico Schiavone il quale, dopo aver attentamente studiato il caso, imbocca senza esitazioni la via della giurisdizione amministrativa attraverso la Corte dei conti.
Al termine di un lunghissimo iter, avviato intorno al 1957, la Corte dei conti con sentenza del 4 aprile 1968, riconosce alla signora Rosa Bruzzì, vedova De Giorgio, il diritto alla pensione di guerra a decorrere dal 1° agosto 1946. La Corte considera la fucilazione del De Giorgio e dei suoi quattro commilitoni, «un gravissimo errore» e valuta l’ordine di fucilazione «un atto illegale grave». Dichiara poi, ribaltando tutte le precedenti considerazioni, che «… la morte del soldato Salvatore De Giorgio verificatasi in data 8 settembre 1943 è avvenuta per cause dipendenti da servizio di guerra».
L’Amministrazione Comunale di Acquappesa, sindaco l’on Giuseppe Pierino, ha dedicato ai cinque sfortunati militari una stele in ricordo del loro sacrificio. Nel settembre del 2006 l’Amministrazione Comunale di Polistena, sindaco il prof. Giovanni Laruffa, ha ricordato con una lapide il sacrificio del suo concittadino Francesco Rovere, fucilato a 31 anni insieme con gli altri quattro giovani conterranei: «La logica ingiusta della guerra e la confusione scaturita in quel momento buio della nostra storia – si legge nella motivazione dell’apposizione della lapide – stroncarono la vita di quei cinque giovani militari, tutti cittadini della Piana di Gioia Tauro».
Le salme dei cinque, nei primi anni sessanta, furono traslate nel cimitero di Condera a Reggio Calabria e ivi riposano insieme a migliaia di altri caduti, vittime di un conflitto che non avevano voluto. Ringrazio la signora Rosa Bruzzì De Giorgio e suo figlio Pasquale per le informazioni che mi hanno gentilmente fornito. Tutte le altre notizie sono state attinte dal testo della sentenza della Corte dei conti del 4 aprile 1968 e da un articolo pubblicato sul quotidiano «Momento-sera» di Roma del 27 aprile 1968 a firma di Mario Biasciucci e intitolato «Pazzesco! Cinque soldati fucilati dopo l’annuncio dell’armistizio».