FOTO E STORIE DI GUERRA – 5

a cura di Cornelio Galas

di Wladimiro Settimelli

In queste povere, misere, piccole fotografie di personaggi, “banditi” e ufficiali, fucilati o impiccati, non c’è sventolio di bandiere e non arrivano gli echi delle bande militari che sbuffano e suonano per “l’Italia nuova”, “l’Italia unita”, “l’Italia di tutti”. C’è invece un mondo terribile, durissimo, fatto di repressione e di sangue, di sadiche e terribili manipolazioni di corpi, di falsi fotografici incredibili e sconvolgenti.

È il mondo del “banditismo meridionale” nel corso dell’unità d’Italia, un fenomeno andato avanti per anni (in pratica dal 1861 al 1870) e del quale, nei libri di testo delle scuole, non si parla quasi mai. Anche la storiografia ufficiale postunitaria ha sempre fatto finta di nulla e il fenomeno, dunque, è rimasto in parte clandestino.

Nella foto di copertina: Il bandito Antonio Curcio fucilato nel 1870. Operava nel Casertano. Probabilmente Curcio, nella foto, è già morto ed è legato alla sedia. Ma c’era bisogno di una foto “assolutamente in regola”: la legge e la religione sono presenti come previsto dal codice.

Sì, certo, carte, lettere, documenti, ordini, sono negli archivi a testimoniare il primo e terribile approccio dello Stato sabaudo con i problemi del Sud, dopo il crollo del regno borbonico. Ma i musei storici, purtroppo, continuano a rimanere deserti e in pochi sanno o hanno visto.

Ed eccole le piccole fotografie “carte de visite”, del formato 6 x9 che occhieggiano dalle vetrine del Museo dell’Arma dei Carabinieri a Roma, o da quelle del vecchio e malandato Museo torinese fondato da Cesare Lombroso. Ma anche quelli da quanti italiani sono stati visitati? Tante di quelle “fotine” sono ormai consunte, labili, appena guardabili e “consumate” dalla luce alla quale sono state esposte per anni.

Un tempo le ho riprodotte per documentare qualcosa che non avevo mai visto nel nostro Paese. Così come ne ho riprodotte, altre, all’Istituto di Storia del Risorgimento di Roma in collezioni sparse. Le foto, me ne rendevo conto per la prima volta durante quelle ore di lavoro a riprodurre, non erano state scattate per documentare un avvenimento nella sua totalità, ma semplicemente come “testimonianza visiva” dell’avvenuta uccisione di uno dei banditi da parte di qualcuno e quindi del suo legittimo diritto a riscuotere una taglia, ad avere un compenso, una “mercede”.

Insomma, il “bounty-killer” non è nato in America, ma qui da noi: in Campania, in Abruzzo, in Molise, in Calabria, durante la caccia ai banditi-contadini, ai ribelli borbonici, ai “prezzolati” dal “Papa re”. Già, perché è tutto vero, anche questo. Come è vero che nella Guardia nazionale, subito costituita dopo la fuga a Roma di Francesco II, erano entrati molti garibaldini smobilitati dal generale con la partenza da Napoli, così come molti soldati borbonici rimasti senza lavoro. Poi erano arrivati molti cacciatori di taglie anche dall’estero.

Tra l’altro andavano in giro vestiti nelle fogge più strane ed erano abituati a vivere e operare da soli. Quindi ecco moltissimi italiani del Nord e la “Legione ungherese”, utilizzata per incendiare paesi e fucilare all’istante chi veniva trovato con le armi in pugno. Tutti, tutti, oltre l’esercito regolare, a caccia dei banditi-contadini.

Così, da una parte, dal 1860 in poi, i generali “legittimisti” Josè Borjes, Tommaso Clary e Rafael Tristany, pagati direttamente da Francesco II, che cercavano di “manovrare” i banditi, adeguatamente legittimati, contro i Savoia usurpatori e dall’altra i generali Enrico Ciadini, Emilio Pallavicini di Priola e il generale Giuseppe Govone che operavano a nome del Regno d’Italia.

È lo stesso Govone, in un rapporto al governo piemontese, che non manca di dire la verità. Scrive: «In nessun Paese del mondo l’agricoltore è tanto povero ed infelice quanto in queste contrade. Egli è macilento, lacero, sudicio, sfinito, triste e muto, e il suo sguardo torvo e fulvo vi dice i suoi rancori ed il suo odio contro i suoi signori, o meglio oppressori…».

Non sono pochi gli ufficiali piemontesi ad accorgersi di come stanno davvero le cose e a segnalare a Torino la situazione. Ma… non ci sono soldi per investimenti, strade, aiuti ai contadini. È molto più facile e semplice ammazzare. Così si sceglie subito la strada della durezza e dell’aperta repressione, con i tribunali militari e la giustizia spiccia spiccia, in tutte le zone del Sud. I generali di Francesco II falliscono l’operazione di trasformare i briganti e tagliagole in ribelli contro gli “usurpatori”.

Anche se il potere temporale del Papa riesce a suscitare un’ondata di pubblicazioni nelle quali i banditi vengono presentati come i “romantici sostenitori della fede e della famiglia”, costretti a rifugiarsi sulle montagne. Così nasce, anche all’estero, la fama di Ninco Nanco, Curcio o Chiavone, delle loro donne e dei loro amori.

Alla fine, spariti e fucilati i generali legittimisti, contro gli “italiani” resteranno a combattere solo i contadini poveri e disperati, i veri banditi e i “piccoli signori della guerra”, in Abruzzo, in Campania e in Molise. Arriva dunque il momento della repressione senza quartiere e senza pietà: si bruciano interi paesi e si massacrano parenti e amici dei banditi. Viene punita anche la popolazione che non aiuta i bersaglieri a trovare i ricercati.

Provincia dopo provincia si impone lo stato d’assedio che permette tutto e oltre ancora. Le esecuzioni sono pubbliche e senza appello. Quanti morti? Diverse migliaia tra banditi, popolani e ufficiali e soldati del regio esercito. Cifre ufficiali non ce ne sono. In pratica, la verità è stata sempre nascosta. Ma quelle “fotine”, le piccole “carte de visite” (grandi come un biglietto da visita) raccontano e spiegano molte cose. Certo, bisogna vederle da vicino e “leggerle”, magari con una piccola lente “contafili”.

Solo così si scopriranno dettagli e particolari incredibili per la nostra sensibilità di oggi e forse anche per quella di allora. Molto spesso i corpi dei banditi uccisi sono legati, in piedi, ad un albero e hanno lo schioppo in mano. Dovevano, evidentemente, sembrare vivi. Altri sono seduti da qualche parte e ancora una volta legati nelle posizioni più assurde. Corde e cinturoni appaiono quasi sempre nascosti.

Vengono organizzate anche terribili messe in scena. Il corpo di un bandito già morto viene posato su una sedia mentre, accanto, un sacerdote benedice. Insomma, come per far vedere che l’assistenza religiosa non è mancata. In altre “fotine” il bandito, come al solito, è morto, ma qualcuno ai lati degli occhi ha sistemato stecchini di legno per mantenere gli stessi occhi aperti. Furono i cacciatori di taglie a far scattare quelle foto orrende?

Forse pensavano che comandi militari avrebbero potuto avere da ridire sul fatto che i banditi non erano stati presi vivi. Altre volte, evidentemente, sono gli stessi comandi militari ad organizzare messe in scena per motivi propagandistici. Le foto, questa volta, sono tutte brutte, miserevoli, non certo eseguite da solidi professionisti.

Hanno lavorato, tra gli spari e le urla, solo il fotografo di paese o il precario dilettante del Sud. Ma, come al solito, le “fotine” raccontano, raccontano. Un pezzo di storia d’Italia è stato tenuto da parte, ma eccola qua. Anche tutto questo è Risorgimento e racconta, comunque, la nascita dell’Italia unita e quel che costò al Sud. Non c’erano solo Cavour, il Re, Garibaldi con i Mille e Mazzini. C’era e c’è stato anche tutto questo.

Uomini della banda “Volonnino” uccisi in combattimento. L’ultimo a destra è Luigi Parnufiello da Trevigno, considerato il capo. La banda operava in diverse località della Basilicata.

Nunzio Tamburini, pastore di Roccaraso. Operava tra il Chietino e il Molise. Sconfinò negli Stati Pontifici e venne arrestato dai francesi che lo consegnarono alle autorità italiane. Fucilato nel 1868 a Teramo.

Donne bandito forse della banda Crocco. Sono, comunque (da sinistra), Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito. Furono catturate e condannate a molti anni di prigione.

Un presunto cacciatore di taglie: il tenente Santarelli, poi arruolatosi nella Guardia nazionale mobile. La sua divisa è assolutamente fuori da ogni regola e piena di fantasia. Accanto, ha il cagnolino che lo accompagnava sempre.

Michelina De Cesare, donna di Francesco Guerra, uccisa in combattimento, nel 1868, in Terra di Lavoro. Probabilmente era amica del fotografo e non esitò a farsi riprendere vestita da banditessa, con tanto di schioppo a portata di mano.

Antonio Cozzolino, detto Pilone. Era uno scalpellino di Boscotrecase ed ex soldato borbonico. Mise insieme, sui Monti Lattasi, una grossa banda. Era il 1861. Nel 1870 venne ucciso alle porte di Napoli.

Gaetano Manzo operava nei pressi di Giffoni e sui monti di San Cipriano, fin dal 1866. Nel 1872 era ancora libero. Pare che sia riuscito a scampare alla fucilazione rifugiandosi in Francia.

Il bandito Paolino Lovarco ucciso in combattimento. La fotografia, come tutti sapevano in quel periodo, era considerata una “cosa importante” della vita e, per questo, per andare in uno studio, ci si vestiva bene. Lovarco ha preso alla lettera la tradizione.

Una foto terribile. Al centro, Domenico Fuoco, capo di una banda assai grande che agiva tra l’Aquilano e il Casertano. Gli altri due sono gli aiutanti. Fuoco venne ucciso nel sonno da tre suoi prigionieri il 16 agosto 1870. I corpi furono poi consegnati alle autorità.

Una tra le più note fotografie del banditismo meridionale: Nicola Napolitano, detto il Caprariello, che agiva nell’Avellinese. Probabilmente è già morto e il bersagliere che lo ha ucciso lo tiene fermo per i capelli perché la testa non cada in avanti. Il soldato, se ce ne fosse bisogno, è comunque pronto a colpire il bandito con il calcio del fucile.

Un gruppo di banditi della banda Volonnino, prima di essere fucilati, si sono messi in posa con le loro armi e i loro vestiti. Essere ripresi dal fotografo, probabilmente, faceva sentire più importanti i quattro personaggi. Per questo avrebbero accettato la sceneggiata.

Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, da Avigliano, bracciante. Era evaso dal carcere nel 1860, tentando poi di aderire ad un movimento politico locale. Divenne, per il coraggio e la capacità di combattimento, il braccio destro di Carmine Crocco. Rimase ucciso in uno scontro a fuoco con i soldati, nel marzo del 1864.

Foto di gruppo agli uomini della banda Ciccone, appena catturati sul Monte Pizzuto, a Caserta. Si arresero ai soldati e furono tutti fucilati nel 1868.

Un altro personaggio celebre della vicenda del banditismo meridionale dopo il crollo del regno borbonico. Si tratta del capitano dei carabinieri Chiaffredo Bergia, detto “il mastino”, per l’incessante lotta contro i “lazzaroni”. Da semplice graduato Bergia arrivò al grado di capitano per tantissime capacità. Le cronache raccontano che “il mastino” era inflessibile con i banditi, ma aveva doti di profonda umanità verso i miserabili e i poveracci dei piccoli paesi del Sud dove operava. Qui è ripreso nella più classica delle fotografie: quella di famiglia, con moglie e figli.

I morti della banda Ciardullo che operava sui monti del Salernitano.

Uno dei comandanti della repressione contro il banditismo. Si tratta (al centro) del generale Emilio Pallavicini di Priola. Le divise, come hanno sempre sottolineato gli esperti, sono quanto di meno regolamentare era possibile all’epoca. È un po’ come se tutti, operando in un ex “territorio straniero”, o in una specie di Africa, si sentissero meno legati alla disciplina. Nella foto, in alto a destra, c’è persino un ragazzo nero, attendente del comandante delle Guide, marchese Serristori.

Un gruppo di ufficiali della Guardia Nazionale addetti alla lotta contro il banditismo contadino. Al centro, con un kepi fornito di pennacchio bianco e le gambe accavallate, il colonnello comandante del gruppo Michele Leonetti.

Il generale Enrico Cialdini esercitò sempre una durissima repressione contro le rivolte contadine e quelle organizzate dagli ex ufficiali del disciolto esercito del Regno di Napoli. Si scatenò anche contro i civili che, in qualche modo, avevano appoggiato i “banditi”.

Ecco raffigurato, in un disegno realizzato sulla base di una fotografia, il generale Emilio Pallavicini di Priola, uno dei comandanti della repressione al Sud, in particolare in Basilicata e nel Beneventano. Usò forti somme di denaro per pagare i delatori.

La serie degli “amori briganteschi” pubblicata dall’editore Ferdinando Bideri nel 1890 e composto da otto volumetti. Furono un grande successo di vendite. Si trovano presso la Biblioteca Nazionale di Napoli e presso la Biblioteca Lucchesi-Palli.

romanzi di appendice sul brigantaggio conobbero un grandissimo successo anche sui quotidiani e le riviste. Se ne trovano tutta una serie presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e presso la Biblioteca Marucelliana, sempre a Firenze. Ecco la copertina di una delle pubblicazioni.

La famigerata banda Manzo colpevole di aver rapito il turista inglese Moens e lo svizzero Federico Wenner. La foto, scattata da Raffaele Del Pozzo di Salerno, appartiene ad una collezione privata.

Ecco immagini di un album fotografico sul banditismo. C’è anche una donna. Si tratta di “carte de visite” forse scattate dal celebre fotografo Alphonse Bernoud. Sono gli uomini della banda Masini ripresi nel carcere di Potenza nel 1866. L’album è conservato a Napoli, presso la Biblioteca Nazionale, Fondo Piccirilli e presso il Museo di San Martino. Abbiamo ripreso la foto, come altre, dal catalogo della mostra “Brigantaggio Lealismo e Repressione”, Gaetano Macchiaroli editore, 1984.

 

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