“FERMATE QUEL GIUDICE DI TRENTO” – 4

a cura di Cornelio Galas

In questa quarta puntata sull’ex magistrato Carlo Palermo, vorrei cercare, se possibile, di approfondire le “conseguenze” delle scottanti indagini partite, come detto più volte, dalla scoperta di un notevole quantitativo di droga in Trentino. E per conseguenze intendo innanzitutto il tragico attentato di Pizzolungo e una serie di atti – giudiziari ma anche politici – contro l’ex giudice.

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Ecco quanto ha scritto Marco Birolini il 29 marzo 2015 sul giornale “L’Avvenire”:

«Non ho mai smesso di cercare la verità, nemmeno per un giorno. Lo devo a chi in un istante ha perso tutto». 2 aprile 1985, 8.35 del mattino. Il sostituto procuratore Carlo Palermo sta percorrendo la strada che lo porta verso il palazzo di giustizia di Trapani. È arrivato da 40 giorni, trasferito su sua richiesta da Trento per proseguire le inchieste del giudice Ciaccio Montalto, ammazzato due anni prima.

Ciaccio Montalto

Ciaccio Montalto

Lungo il tragitto, a Pizzolungo, lo aspetta un’autobomba. L’autista del giudice la scorge mentre supera una piccola Volkswagen guidata da Barbara Rizzo, 30 anni, che accompagna a scuola i suoi gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta. L’esplosione investe in pieno l’utilitaria, che fa da schermo all’auto blindata di Palermo. Per la mamma e i bambini non c’è scampo. Due agenti della scorta restano feriti, il giudice esce dai rottami sotto choc. Ma vivo.

Carlo Palermo

Carlo Palermo

Trent’anni dopo, Carlo Palermo è seduto sul divano del suo studio di Trento. Parla lentamente per mettere bene a fuoco una storia che fa ancora male a sentirla e a raccontarla. «Ricordo tutto di quel giorno…Come ricordo uno a uno quei 40 giorni vissuti a Trapani. Impossibile dimenticare la tensione di quei giorni, la rabbia che provavo e quel senso di impotenza: avevo capito che qualcosa stava per succedere.

Lo scrissi anche, ma non mi ascoltarono». La voce si incrina, le frasi gli si inceppano in gola. «Fui messo fuori dalla base militare che mi ospitava e costretto a trovarmi una sistemazione a 10 km da Trapani, con tutti i rischi del caso, perché nessuno mi aveva offerto un posto più vicino. Trovai casa a Bonagia: doveva restare segreta, ma iniziò a suonare il telefono appena entravo. Rispondevo e riattaccavano».

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Palermo scuote la testa, agita le mani. «Era chiaro ciò che si stava preparando. Arrivarono messaggi del tipo: “Facciamo saltare il giudice Palermo e la sua scorta”, “il regalo sta per essere consegnato”…

Ma lo Stato, proprio nel momento di maggiore necessità, non credette alle minacce e abbandonò me e la scorta, che nemmeno munì di un’auto blindata. Anche dopo l’attentato, quando decisi di tornare a Trapani, nessuno mi indicò un alloggio. Ma presi lo stesso l’aereo. Mi piazzarono dai vigili urbani, in una stanzetta senza bagno».

Carlo Palermo

Carlo Palermo

Poi fu trasferito in un appartamento blindato realizzato in fretta nel palazzo di giustizia. L’incubo, però, non era ancora finito: «Minacciarono le mie figlie, perciò accettai il trasferimento al Ministero di Grazia e Giustizia. Ma finii tra le scartoffie. Non era più vita. Così, quando mi dispensarono dal servizio per motivi di salute, detti il mio consenso».

Le minacce sono proseguite per anni, ma lui non si è fermato. «Dal 1985 mi porto dentro un enorme senso di colpa, perché altri sono morti al posto mio. Scoprire il perché dell’attentato è diventata la mia ragione di vita. Negli ultimi tempi avevo perso la speranza di riuscirci».

Margherita Asta e Carlo Palermo sul luogo dell'attentato

Margherita Asta e Carlo Palermo sul luogo dell’attentato

Poi l’anno scorso Margherita Asta, sorella dei gemellini (il giorno della strage non era in macchina solo per caso), è passata da Trento. «Mi ha detto: arriva il 30° anniversario, devi esserci. Cerca ancora… Allora ho iniziato a rileggere i vecchi fatti con uno sguardo nuovo. E finalmente credo di aver capito: le tessere del mosaico stanno andando a posto».

Il quadro che si va delineando è inquietante. «Per l’attentato sono stati condannati boss mafiosi. Ma non erano i soli a volermi eliminare. Mi ero avvicinato ad alcuni nomi intoccabili e che infatti non sono mai usciti». Il riferimento è a quell’intreccio di affari sporchi scoperchiato nell’inchiesta di Trento. «Dalla Turchia arrivava la droga, che poi finiva in Sicilia e da qui era smistata in Francia e Stati Uniti.

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Armi e terrorismo costituivano parti inscindibili di quei patti segreti. La prova, già allora, che la grande criminalità è un fenomeno globale e complesso. I giudici, frenati dal criterio della territorialità, giocano una sfida impari. Servirebbe un reale coordinamento internazionale delle indagini. Altrimenti è impossibile venirne a capo».

Lui ci ha provato «ed è finita come è finita». Non solo per l’attentato, ma anche «per la contrapposizione di pezzi dello Stato e la sparizione di documenti». Inquietante quel che accadde nel 1996. «I pm di Torre Annunziata indagavano su un traffico d’armi e personaggi da me inquisiti tanti anni prima: mi chiamarono per testimoniare, li accompagnai a Venezia dove erano custodite le mie carte.

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Aprimmo l’archivio e la scena fu drammatica. C’erano pochi fogli sparsi per terra, il grosso delle 300 mila pagine era sparito». Non è stata l’ultima amarezza. «Nel 2011 mi hanno dato la medaglia d’oro per le vittime del terrorismo. Mi spettava per legge. Ma ho dovuto chiederla io». Adesso andrà fino in fondo.

«Sono scampato a un attentato e a due infarti. L’unica paura che avevo ed ho è quella di sprecare la mia seconda vita senza trovare risposte. A lungo ho sperato che fossero altri a scoprire tutta la verità. Ben presto ho capito che non sarebbe accaduto. Ho cercato di farlo io, anche se non sono più un giudice. E sono sicuro che presto la verità uscirà».

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La storia. Da Trento alla Sicilia: intrighi e tradimento. Carlo Palermo diventa giudice istruttore di Trento a 33 anni. Nel 1980 scopre un traffico internazionale di droga e di armi da guerra, in cui spunta anche il ruolo di alcuni ufficiali dei servizi segreti stranieri e italiani, in particolare legati alla P2.

«Scenari oscuri, che solo il tempo mi ha aiutato a chiarire – ricorda oggi –. Quasi tutto avveniva attraverso operazioni estero su estero. Si può dire che la storia d’Italia sia transitata su banche straniere, in particolare svizzere». L’indagine di Palermo sfiora società vicine al Psi. L’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, presenta un esposto al Csm, che avvia un’azione disciplinare. Dopo altri esposti, la Cassazione trasferisce l’inchiesta a Venezia.

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Gli imputati vengono condannati in primo grado, assolti in secondo. «In Italia ci sono state pochissime inchieste sui traffici d’armi e nessuna ha raggiunto la verità – riflette Palermo -. C’è una grande ipocrisia di fondo: siamo tra i più grandi esportatori di armi al mondo, in qualche modo bisogna pur venderle». Privato dell’inchiesta, il giudice chiede di andare a Trapani.

Sopravvive all’attentato e nel 1990 viene dispensato dal servizio. Inizia la carriera di avvocato, assiste le parti civili nei processi legati a stragi e misteri che hanno colpito il nostro paese: Gladio, Ustica, Moby Prince e Capaci. Entra anche in politica (Sinistra Indipendente e Rete), ma capisce che non fa per lui. «Troppi compromessi. Denunciai i rimborsi gonfiati della Regione Lazio, sembra storia di oggi. Ma fu tutto archiviato.

Barbara Rizzo e i suoi due bambini morti nell'attentato

Barbara Rizzo e i suoi due bambini morti nell’attentato

Nel 1992 fui eletto deputato, ma non mi fu consentito di far parte né della Commissione Antimafia né della Commissione Stragi. Fu un anno terribile: gli attentati di Capaci e di via D’Amelio riaprirono in me i vecchi traumi e mi dimisi per occuparmi del Trentino, dove mi hanno sempre voluto bene. Tanti magistrati sono andati avanti in politica, io non mi sono sentito adatto. Forse ero troppo intransigente».

Roberto Saviano

Roberto Saviano

Questo invece l’articolo di Roberto Saviano (26 marzo 2015) su “La Repubblica”:

Ci sono alcune storie che porto dentro, che percepisco come zavorra, come se mi intasassero il respiro, eppure sono memoria necessaria, perché dimenticare significherebbe perdersi. Quella zavorra e quel peso sono pilastro e la radice della mia vita. Sono storie che tendono a essere dimenticate per istinto di conservazione; è come dimenticare la guerra, lasciar perdere il dolore, far finta che tutto sia superato. E Sola con te in un futuro aprile di Margherita Asta e Michela Gargiulo (Fandango) racconta una storia da dimenticare, una storia preziosa.

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È il 2 aprile di trent’anni fa, Carlo Palermo è arrivato in Sicilia da quaranta giorni. A Trapani aveva preso il posto di un magistrato coraggioso ucciso dalla mafia, Giangiacomo Ciaccio Montalto. Due macchine della scorta parcheggiano davanti al cancello di una villetta vicino a Bonagia, a 3 chilometri di distanza dalla casa della famiglia Asta.

Il giudice vive lì da appena una settimana, prima alloggiava all’interno di un aeroporto militare, a Birgi, che aveva dovuto lasciare da un giorno all’altro proprio quando le minacce contro di lui si erano fatte più concrete. La sua stanza, gli dissero, sarebbe servita al ministro della Difesa Spadolini, in visita alla base.

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Si mise a cercare una nuova sistemazione, ma nessuno voleva affittare la propria casa a una persona scortata e sotto minaccia. L’unico posto che riuscì a trovare era in un complesso residenziale abitato solo d’estate.

C’era un giardino e finalmente avrebbe potuto tenere con sé i suoi cani, ma per arrivare in tribunale doveva percorrere sempre la stessa strada, senza possibilità di variare il percorso. Inoltre, per avere rapporti di buon vicinato era stata data disposizione alle auto di scorta di non mettere in funzione le sirene. In quel contesto arriva l’ultima telefonata di minacce che era stata ancora più esplicita e definitiva: “Dite al giudice che il regalo sta per essergli recapitato”.

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Carlo Palermo, la mattina del 2 aprile 1985 scende di casa alle 8 e qualche minuto per andare al Tribunale di Trapani. Normalmente sale dal lato destro dell’auto, ma quella mattina per fare in fretta il suo autista, Rosario Maggio, parcheggia troppo vicino al muro. Quel giorno il giudice si accomoda dietro il sedile di guida. Prova a bloccare lo sportello, ma la sicura non funziona.

Sul rettilineo di contrada Pizzolungo la macchina trova davanti a sé un’altra auto, una Volkswagen Scirocco, dentro ci sono Barbara Rizzo, giovane madre di 31 anni, e due dei suoi tre figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe di 6 anni. Sta accompagnando i piccoli a scuola. L’autista del giudice aspetta il momento giusto per iniziare il sorpasso; c’è un’altra auto ferma, parcheggiata vicino a un muro di contenimento, che non ostacola la manovra. Le tre auto, per un unico istante, si trovano perfettamente allineate. È in quel preciso momento che viene azionato il detonatore.

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L’esplosione è devastante. Una bomba fatta di tritolo, T4, pentrite e Semtex, un esplosivo militare utilizzato per potenziare l’innesco. (Vengono utilizzati candelotti di brixia b5, lo stesso tipo di esplosivo del fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone e della strage avvenuta neanche quattro mesi prima, il 23 dicembre 1984, quella del rapido 904).

L’utilitaria fa scudo all’auto del sostituto procuratore che si ritrova scaraventato fuori dalla macchina, in piedi, ferito ma miracolosamente vivo. Muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Di loro restano pochi brandelli ritrovati poi a oltre cento metri dal luogo dell’esplosione. In alto, su di un muro, una macchia rossa di sangue, l’impronta terribile lasciata dal corpo di uno dei due bambini.

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Il botto è fortissimo, si sente fino in città. Nunzio Asta, il marito di Barbara e padre dei due bambini, è ancora a casa in quel momento. In quei giorni va a lavoro un po’ più tardi, ha avuto un intervento al cuore e si sta ancora rimettendo. Sente il boato, pensa abbiano fatto esplodere una palazzina lì vicino, va in giardino e vede la colonna di fumo.

Esce per andare a prestare soccorso, ma non lo lasciano avvicinare. La Volkswagen di sua moglie è stata polverizzata, non sospetta che la sua famiglia sia rimasta coinvolta. Margherita, l’altra figlia di dieci anni, in quel momento è già a scuola. Avrebbe dovuto essere a bordo anche lei, ma quella mattina i due fratellini ci mettevano troppo tempo a vestirsi, volevano indossare entrambi gli stessi pantaloni, e per non fare tardi chiede un passaggio in macchina alla mamma di una sua amica. I carabinieri arrivano in classe per contare i bambini presenti, è in questo modo che si rendono conto che almeno lei è viva.

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Margherita e la sua famiglia con la mafia non c’entravano niente. Per questo le parole pronunciate dal vescovo nell’omelia risuonano incomprensibili alle sue orecchie di bambina. Parlano di una “mente perversa” e di una “mano omicida”, della “rabbia mafiosa” tornata a insanguinare le strade. Vorrebbe chiederne il senso a suo padre, che le stringe la mano e non sa smettere di piangere, ma ha solo dieci anni, e quella è una domanda troppo difficile da formulare.

Sua madre, Barbara Rizzo, e i suoi fratellini, Salvatore e Giuseppe, sono morti in un incidente. È questo che le hanno detto, ma è successo tutto così in fretta, non ha avuto neanche il tempo di fermarsi a pensare. Di chiedersi, ad esempio, che fine avessero fatto i loro corpi, non le hanno permesso di vederli, di poterli salutare un’ultima volta.

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Le bare chiuse, sono ora davanti a lei, al centro quella scura, di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto le due più piccole, bianche, con i gigli. Margherita non può saperlo, ma lì dentro oltre ai loro vestiti non c’è quasi niente. C’è una corona di fiori con la scritta Pertini, vista così da vicino sembra immensa, e ce n’è un’altra del presidente del Consiglio Craxi.

Ci sono i gonfaloni del comune, fasce tricolori, e uomini delle forze dell’ordine ovunque. Se ne rende conto solo adesso, Margherita, della folla che c’è nella cattedrale di Trapani. Tanta gente per un funerale l’ha vista solo in televisione, ma quelle erano morti importanti: celebrità, capi di Stato.

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Oggi, invece, sono tutti lì per sua madre e i suoi fratelli, persone normali. Forse, pensa, è per i miei fratelli, erano così piccoli che tutti avranno voluto partecipare al nostro dolore. Dopo i funerali, ritornando a casa, la macchina è costretta a rallentare. È il luogo dove è successo l’incidente, la strada è stata riaperta da poche ore. Margherita ha il tempo per guardare fuori dal finestrino: “C’è una buca enorme sull’asfalto, sembra sia esploso un vulcano”. In alto, troppo in alto, sul muro di una casa c’è una macchia rossa. Margherita la vede appena, ma questa volta ha una domanda impossibile da trattenere: “Papà, è sangue nostro questo?”.

Carlo Palermo

Carlo Palermo

Margherita pensa per anni che la colpa sia del giudice, di Carlo Palermo. Ma crescendo capisce che lui non c’entrava niente, che era stata la mafia a uccidere sua madre e i suoi fratelli e a distruggere le loro vite. Lei e il giudice erano entrambi dei sopravvissuti, per loro aveva deciso il destino. Non è stato facile per Margherita cercare “quel signore”. Ancor meno facile per lui è stato lasciarsi trovare, provando a superare un terribile senso di colpa.

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C’è un elemento su cui convergeranno le dichiarazioni dei pentiti: per uccidere Carlo Palermo non c’era bisogno di un’autobomba. Palermo viveva in una villetta isolata, gli era stata negata la vigilanza armata per mancanza di uomini e mezzi e la sera usciva da solo per portare fuori i cani. Ma l’attentato doveva essere un ammonimento, spettacolarizzare la morte moltiplica la paura. È questo che hanno fatto (e fanno) le mafie ben prima dei gruppi islamisti.

Sola con te in un futuro aprile è un libro devastante e assume in alcuni momenti il profilo di un manuale di sopravvivenza a un dolore impossibile da contenere. La strada che ha trovato Margherita per sopravvivere al suo dolore è quella di raccontare la propria storia, la storia di sua madre e dei suoi fratelli, vittime innocenti. Trova un’immagine Margherita, per raccontare il modo in cui ha rimesso insieme i pezzi della sua vita.

La strage di Pizzolungo

La strage di Pizzolungo

È una tecnica giapponese, il kintsugi, che si usa per riparare i vasi di ceramica che si sono rotti. Non si cerca di rincollare i pezzi nascondendo i segni della lacerazione, ma anzi si esaltano, utilizzando una pasta d’oro. Il vaso, in questo modo, diventa più prezioso. Quell’intreccio di linee dorate restituisce il mondo andato in frantumi e nasce una nuova forma, più solida di quella che c’era prima.

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Il 27 gennaio 1993 la Camera dei Deputati accoglie la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Carlo Palermo. La proposta, che veniva dalla giunta ed era stata sollecitata dallo stesso Palermo ottiene 407 voti favorevoli e 49 contrari. I reati ipotizzati erano quelli di falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale e abuso di ufficio.

L’episodio risale ad una decina di anni prima, quando Carlo Palermo si impegnò in un’inchiesta sul traffico di armi. Nel ’91 un ex ufficiale dei carabinieri, Massimo Pugliese, presentò una denuncia nei confronti di Palermo, collegata agli atti dell’inchiesta sulle armi, ipotizzando i reati per i quali la Camera accoglie la richiesta di autorizzazione.

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