FASCISMO AD ARCO – 3

a cura di Cornelio Galas

Terza ed ultima puntata sul fascismo ad Arco (Trentino). Per bibliografia ed altri riferimenti basta consultare il testo della prima puntata. Allego anche il video sulle leggi razziali nell’Alto Garda, sempre in riferimento al volume edito dal Comune di Arco nel 2014.

Riduzione della spesa e assedio economico

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Contadina al lavoro in un campo coltivato a tabacco. L’ingrandimento mostra come il Duce fosse nei suoi pensieri! (Archivio Cooperativa Valli del Sarca)

Scorrendo la ricca documentazione riferita agli interventi economici compiuti dal regime fascista si incontrano anche delle circolari che attualmente noi definiremmo di “spending review”. Scrive il Prefetto di Treno il 3 settembre 1928 ai Podestà del Trentino: «D’ordine di Sua Eccellenza il Capo del Governo le SS.LL. non dovranno aggravare per alcun motivo la pressione fiscale e dovranno quindi sopprimere o rinviare tutte le spese non strettissimamente indispensabili”.

In sintonia con queste misure sono le raccomandazioni che arrivano dal Duce stesso di cessare da qualsiasi manifestazione, ricorrenza o festeggiamento che prevedesse banchetti o rinfreschi di qualsiasi genere. Rispondendo ad una circolare datata 4 settembre 1935 del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa che richiedeva l’elenco dei mercati tenuti nel comune, il Podestà di Arco redige un elenco. Lo riportiamo:

1) Tutti i primi mercoledì di ogni mese mercato di animali e mercerie;

2) Il terzo mercoledì di ogni mese mercato di animali;

3) Il 25 e il 27 luglio S. Anna fiera di animali e mercerie; il giorno 9 settembre fiera di animali e mercerie, il giorno 25 ottobre fiera di animali e mercerie.

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Le conquiste coloniali in Africa che avevano portato l’Italia ad occupare l’Etiopia nel maggio 1936 e a fondare l’impero dell’Africa Orientale Italiana, suscitano la condanna dell’opinione pubblica internazionale e le “sanzioni” economiche da parte della Società delle Nazioni. Il boicottaggio dell’esportazione ed importazione di determinate merci convince Mussolini ad accelerare la politica economica che tendeva all’autarchia.

La “battaglia del grano” è l’esempio più eclatante di questa scelta. Ecco l’avviso emanato dal podestà di Arco il 22 luglio 1936: «Con richiamo a precedente avviso n. 4975 del 17 giugno usc. si rende noto che il Ministero dell’Agricoltura ha confermato che le vendite di grano direttamente tra produttori e commercianti al di fuori dei centri ammassi e della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari sono assolutamente vietate. Possono essere consegnate soltanto le vendite urgenti purché, senza eccezione, avvenga per il tramite del centro ammassi e della Federazione Italiana dei Consorzi Agrari col visto prefettizio e del Segretario Federale».

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Il fascismo definisce “assedio economico” le sanzioni stabilite dagli stati stranieri e lo celebra con solennità. Il Prefetto di Trento, Felice, invia a tutti i Podestà una circolare: «Comunico alle SS.LL. che per disposizione superiore il giorno 18 novembre corrente alle ore 12, debbono aver luogo in tutti i Comuni d’Italia le inaugurazioni delle lapidi a ricordo dell’iniquo assedio economico. Le cerimonie devono essere brevi e solenni e avranno luogo alla presenza delle autorità delle camicie nere in armi e delle organizzazioni del Regime. Le lapidi devono essere scoperte e nessun discorso deve essere pronunciato”.

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Qualche giorno dopo, sempre in merito all’inaugurazione delle lapidi arriva una seconda circolare che raccomanda che alla cerimonia prevista per il 18 novembre «devono essere invitate tutte le associazioni femminili, riservando loro il posto d’onore, in considerazione che le donne italiane hanno potentemente contribuito alla resistenza durante l’assedio medesimo meritando l’elogio del Duce».

Il listino dei prezzi

I prezzi massimi dei generi alimentari erano stabiliti in un listino dalla Sezione Provinciale per l’alimentazione, fatto proprio dalla Commissione comunale per l’alimentazione. Di quest’ultimo organismo, presieduto dal podestà, facevano parte il segretario del Fascio, la Segretaria del Fascio femminile, il maresciallo dei Carabinieri e i Fiduciari delle varie categorie (commercianti, industriali, agricoltori). Questa Commissione si riuniva mensilmente e valutava il listino prezzi inviato da Trento. Ad esempio il 29 dicembre del 1942 la Commissione decide che dal mese di gennaio del 1943 il prezzo del latte doveva aumentare per la popolazione da Lire 2 a Lire 2.10 e per i sanatori da Lire 2.20 a Lire 2.30.

listino dei prezzi massimi in vigore dal 29 luglio 1935, stabilito dalla Federazione dei Fasci di Combattimento – Comitato Intersindacale di Trento

listino dei prezzi massimi in vigore dal 29 luglio 1935,
stabilito dalla Federazione dei Fasci
di Combattimento – Comitato Intersindacale di Trento

 

Il saluto romano e il sabato fascista

Il 2 dicembre 1925 il Segretario comunale di Arco invia agli impiegati del comune un ordine di servizio: «Per disposizione di S.E. Il Presidente del Consiglio dei Ministri dal 1 dicembre 1925 in poi nelle Amministrazioni Comunali nei rapporti fra superiori ed inferiori è obbligatorio il saluto romano fascista. Da oggi in poi tutti gli impiegati e salariati dovranno uniformarsi a quanto sopra».

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Seguono per presa visione le otto firme degli impiegati comunali. In una successiva circolare viene chiarito che il saluto era dovuto sia in servizio che fuori servizio. Un altro regio decreto (n. 1010 datato 20 giugno 1935) ha segnato per anni la vita di milioni di italiani e riguardava l’istituzione del “sabato fascista”. Stabiliva all’articolo 1 che «l’orario normale di ufficio degli impiegati civili e quello di lavoro dei salariati dello Stato ha termine nei giorni di sabato non oltre le ore 13». Gli articoli 2 e 3 prevedevano che le disposizioni stabilite con l’art.1 dovevano essere applicate negli istituti scolastici pubblici e privati e al personale che prestava la propria opera alle dipendenze altrui, salvo le eccezioni previste dai contratti collettivi di lavoro. In ogni caso ai minori di anni 21 doveva essere garantito il pomeriggio di sabato libero.

L’art. 5 del Regio Decreto stabiliva come dovevano essere impiegate le ore libere da impegni di lavoro: «Le ore pomeridiane di sabato sono destinate alle attività di carattere addestrativo prevalentemente premilitare e postmilitare, come ad altre di carattere politico, professionale e culturale e sportivo. All’uopo il personale lasciato libero in applicazione delle norme del presente decreto dovrà mettersi a disposizione delle rispettive organizzazioni del Regime per le attività che il Segretario Federale, sentiti le autorità ed i dirigenti responsabili, preordinerà tenendo conto particolarmente delle esigenze della istruzione premilitare e postmilitare».

Manifestazione con i giovani fascisti nel piazzale a nord del Casinò Municipale (Foto Francesco Emanuelli, Archivio Fabio Emanuelli, Arco)

Manifestazione con i giovani fascisti nel piazzale a nord del Casinò Municipale
(Foto Francesco Emanuelli, Archivio Fabio Emanuelli, Arco)

L’art. 6 chiarisce qual era l’importanza che il Regime attribuiva al sabato fascista; erano stabilite infatti delle sanzioni per chi contravveniva: «Il datore di lavoro che contravvenga alle disposizioni circa la cessazione del lavoro nel pomeriggio del sabato è punito con l’ammenda sino a L. 10 per ogni persona occupata nel lavoro al quale la contravvenzione si riferisce. L’ammenda in ogni caso non può mai essere inferiore a L. 20».

L’Opera Nazionale Dopolavoro

Il regime fascista si occupa anche del tempo libero dei cittadini e crea un Ente che assume dentro la propria organizzazione tutte le attività che erano state volute dalla libera iniziativa di gruppi di volonterosi. Con Decreto Legge 1 maggio 1925 convertito in Legge il 18 marzo 1926 n. 562 viene istituita l’Opera Nazionale Dopolavoro. Il Bollettino Mensile dell’O.N.D., pubblicato nel marzo 1927, chiarisce che l’istituzione era «investita dell’ufficio preciso di collegare, coordinare e conciliare le attività e le iniziative sporadiche e sovente contrastanti delle associazioni e dei sodalizi locali che si occupano di alcuni aspetti del programma del Dopolavoro.

Manifesto per la promozione di una serata di arte varia a beneficio della Colonia alpina sul monte Velo, in località Castil

Manifesto per la promozione di una serata
di arte varia a beneficio della Colonia alpina
sul monte Velo, in località Castil

Ad esempio il 3 novembre (data non casuale!) del 1929 il Circolo mandolinistico è la “colonna sonora” di una serata a beneficio della Colonia Alpina, voluta dal partito fascista sul Monte Velo, in località Castil. A fare richiesta d’uso del Salone Municipale è la signora Manfreda degli Altamer contessa Compostella. Sono parte attiva nello spettacolo il coro dei Balilla e delle Piccole Italiane, il dottor Gino Ossana (medico di spicco del Centro Sanatoriale), le signorine Elia Bertamini e Tecla Minatti e al piano il maestro Scarpellini. L’organizzazione è del Fascio Femminile.

Il controllo della stampa

Il fascismo, come qualsiasi altra dittatura, cercò di assicurarsi il controllo degli organi di stampa perché era attraverso la lettura dei giornali che si poteva creare una forma mentis. In Trentino l’organo di stampa di sicura fede fascista era il quotidiano “Il Brennero”.

Dettaglio della prima pagina di una copia del giornale “Il Brennero – Quotidiano fascista tridentino” (5 febbraio 1940). Si noti la scritta in alto a destra “Col Duce, per il Duce”

Dettaglio della prima pagina di una copia del giornale “Il Brennero – Quotidiano fascista tridentino” (5 febbraio 1940). Si noti la scritta in alto a destra “Col Duce, per il Duce”

Il 14 dicembre 1928 il Commissario della Federazione Provinciale Tridentina del PNF, così scrive ai Fiduciari di zona, a tutti i Fasci della Provincia e ai Podestà: «Dopo un non facile lavoro di assestamento “Il Brennero” ha avuto la sua definitiva sistemazione. Il giornale – di esclusiva proprietà del Partito – vivrà amministrativamente di vita propria. Ogni fascista ha il dovere di aiutare in ogni forma “Il Brennero” che dovrà essere sempre più e sempre meglio uno strumento di propaganda e di penetrazione fascista».

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Il Commissario invita tutti i fascisti ad abbonarsi al quotidiano fascista, dando disdetta di eventuali altri abbonamenti ed impegnandosi in prima persona nella “campagna – abbonamenti”. Prosegue la lettera: «I fascisti che fossero già corrispondenti di altri giornali non di proprietà del Partito devono essere invitati a dimettersi. La loro opera sarà utilizzata dal “Brennero” ove non abbia ancora propri corrispondenti o quelli attuali non corrispondano convenientemente. Tutti i comunicati di Partito, i resoconti ed il notiziario del Partito e degli Enti di Organizzazioni fasciste devono essere comunicati esclusivamente al “Brennero”. […] Da tali disposizioni, naturalmente, è escluso il “Popolo d’Italia” che prima ancora di essere un giornale fu ed è una bandiera cara a tutti i fascisti. Desidero essere informato dell’opera che ciascuno Segretario Politico si propone di svolgere in questo campo».

Quest’ultima frase sottolineata testimonia come il Commissario ritenesse quel suo messaggio non una semplice informativa; ad esso dovevano corrispondere concrete iniziative da parte delle persone a cui era stato destinato.

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La “restituzione” in lingua italiana di cognomi e insegne

Visto il Decreto Legge datato 10 gennaio 1926 n. 17, il 5 agosto dello stesso anno il Ministro Guardasigilli Rocco dispone la restituzione in forma italiana dei cognomi delle famiglie della provincia di Trento. Il prefetto aveva il dovere di compilare gli elenchi dei cognomi e dei “predicati nobiliari” in lingua straniera e quindi ordinare, con tanti decreti separati e distinti, ai vari membri delle famiglie la “restituzione” in lingua italiana. Ai capi comune spettava «l’obbligo di curare e provvedere affinché il decreto suddetto ricevesse applicazione agli effetti demografici (anagrafe e movimento della popolazione del Comune), delle liste di leva e dei giurati, delle liste elettorali e dei ruoli delle imposte erariali, provinciali e comunali, degli elenchi degli alunni nelle scuole pubbliche e degli ammessi alla pubblica beneficenza. Essi daranno altresì comunicazione della ordinata restituzione del cognome o del predicato nobiliare in forma italiana agli uffici postali, per evitare disguidi nel recapito della corrispondenza agli interessati, ed eventualmente ai competenti uffici consolari all’estero per i cittadini emigrati».

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Ad essere interessato dal sopracitato decreto legge è anche il podestà di Arco che trasforma il proprio cognome da Umech in Savini. Qualche settimana prima, il 27 luglio 1926, dalla  sottoprefettura di Riva del Garda era partita una circolare che riguardava invece le insegne pubbliche: «Giusta l’art. 1 del D.P. 28 ottobre 1923 n. 14718 manifesti, avvisi, indicazioni, segnalazioni,tabelle, cartellini, insegne, etichette, tariffe, orari e in genere tutte le scritte e legende comunque rivolte e destinate al pubblico, anche se concernano interessi privati, debbono essere redatti esclusivamente in lingua italiana. Per ragioni di indole pratica, si possono tuttavia tollerare le parole di uso internazionale come hotel, restaurant, garage, sport, tennis, club, golf … Si possono altresì, in via eccezionale, consentire targhe, insegne o tabelle in parecchie lingue, dettate dagli Uffici dell’Ente Nazionale per le Industrie Turistiche (ENIT) trattandosi di una istituzione che, per la sua finalità ed attività, ha prevalenti rapporti con gli stranieri. […] Fedele interprete degli ordini ricevuti, intendo che le norme sopra citate abbiano sollecita e piena applicazione. Tuttavia, non potendosi escludere che gli interessati ne ignorino l’importanza, le SS. LL. dovranno subito invitarli a modificare o rimuovere le tabelle, insegne ecc… entro il perentorio termine del 6 agosto 1926, disponendo che, a decorrere da tal giorno, siano accertate formalmente le contravvenzioni».

ETTORE TOLOMEI

ETTORE TOLOMEI

Così scriveva il sottoprefetto Gabetti, fedele interprete degli ordini ricevuti. Arriveranno, negli anni a seguire, altri ordini dalle autorità superiori, di ben altra gravità, e troveranno purtroppo tanti fedeli esecutori! Questo processo di italianizzazione forzata, sostenuta principalmente dall’opera del senatore Ettore Tolomei, investirà soprattutto l’Alto Adige e ancora adesso se ne pagano le conseguenze con le forti diatribe sorte attorno alla questione della toponomastica bilingue.

Riproduciamo un’ordinanza datata 28 giugno 1941 del prefetto di Trento Foschi il cui contenuto può far oggi sorridere. Considerando che si era in piena guerra mondiale, il vietare alle donne di circolare o mostrarsi con pantaloni lunghi e corti doveva essere l’ultima preoccupazione di chi aveva responsabilità di governo. Ma, a leggere le prime righe dell’ordinanza, sembra che proprio il “clima” di guerra avesse sollecitato questa nuova restrizione.

Ordinanza del prefetto di Trento che fa divieto alle donne di indossare i pantaloni (

Ordinanza del prefetto di Trento che fa divieto alle donne di indossare i pantaloni

La “tessera del pane”

I dipendenti pubblici per poter esercitare il loro lavoro erano obbligati ad essere iscritti al Partito Nazionale Fascista. Impiegati dell’amministrazione pubblica, insegnanti, infermieri e medici, tutti dovevano possedere la “tessera del pane”.

Negli Atti del 1936, conservati nell’Archivio storico, è stato trovato un carteggio che mette in luce come quest’obbligo potesse contrastare con gli interessi dell’utenza. Il 30 marzo 1936 il podestà di Arco scrive al Presidente del Civico Ospedale: «L’articolo 235 del T.U. della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 3 marzo 1934 N-° 383 prescrive che il personale nuovo assunto da parte di Enti Comunali e paracomunali, deve essere da quella data in possesso della Tessera del Partito Nazionale Fascista. Prego la S.V. di darmi assicurazione a stretto giro di posta che la legge anche per quanto riguarda l’Ospedale è stata interamente applicata».

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Il 7 aprile il Presidente dell’Ospedale Civile di Arco risponde al podestà: «[…] comunico che, per quanto riguarda l’iscrizione al P.N.F. del personale di questo Ospedale sono state prese le disposizioni di licenziamento per il personale non inscritto». Alcuni degenti dell’Ospedale Civile di Arco però scrivono al podestà di Arco Malesani: «Noi sottoscritti, invalidi e mutilati di guerra, degenti nell’Ospedale Civile, presa notizia che l’infermiere Vittorio Costa è stato licenziato perché non appartenente al P.N.F. – preghiamo umilmente la S.V. voglia ponderare e verificare se realmente stiano a carico del detto infermiere delle pendenze sovversive o attività contrarie al Partito; in questo, come fascisti e invalidi di guerra, lasciamo a Lei il compito di giudicare come crede. Ci permettiamo però far osservare alla S.V. che, per quanto ci consta e per informazioni assunte, questo infermiere non solo è buono e valente nel suo ramo, ma zelante e premuroso e molto necessario per noi ammalati gravi e obbligati a letto, ma è anche un buon cittadino di sentimenti italianissimi e a quanto ci riferisce lui stesso, non si è inscritto al Partito perché ha sempre pensato al proprio dovere di lavoratore e cittadino, senza mai ritenere che questo avrebbe costituito quella mancanza che oggi purtroppo deve riscontrare, nella persuasione che la tessera dei Sindacati fascisti – essendo questi emanazione del Regime – fosse sufficiente per poter dimostrare che lui è un buon patriota. Noi le saremo assai grati se, dopo assunte le debite informazioni, e risultate queste come da noi si afferma, vorrà fare in modo che il detto infermiere possa restare al suo posto, perché a noi di somma necessità».

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Non sappiamo come la vicenda si sia conclusa; se il buon infermiere sia stato integrato nel suo posto o se invece abbia dovuto cercarsi un altro posto di lavoro. Chi dimostrava avversione per il fascismo veniva penalizzato anche in altri modi. Ad esempio una nota, datata 20 agosto 1927, del maresciallo Comandante della Stazione dei Carabinieri di Arco informa il Podestà di Romarzollo che «F. L., già inscritto al partito comunista e facente parte della cellula comunista di Chiarano, a parere dell’Ufficio scrivente non ha dato ancora sufficienti prove di ravvedimento né ha dimostrato di avere abbandonato le idee professate in precedenza. Quest’Arma, pertanto, non ritiene il caso rilasciargli il necessario nulla-osta per l’espatrio». Con tutta probabilità il dissidente di Chiarano desiderava recarsi all’estero in cerca di lavoro e questo diniego glielo impediva.

La difesa dello stato

Nel novembre del 1926 il Governo fascista dichiara lo scioglimento di tutti i partiti e le associazioni antifasciste e stabilisce una serie di “provvedimenti per la difesa dello stato”: ad esempio, pena di morte per gli attentati contro la monarchia o il capo del governo, reclusione fino a quindici anni per chi tentava di ricostituire i partiti o le associazioni disciolte, istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello stato.

Gli esiti di questi provvedimenti colpiranno decine e decine di antifascisti. Una comunicazione del 31 ottobre 1928 del prefetto di Trento Vaccari viene indirizzata a tutti i podestà del Trentino: «Trasmetto un congruo numero di copie della sentenza del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, con la quale il 17 corrente veniva inflitta la pena di morte, mediante fucilazione, a Della Maggiora Michele. Prego la S.V. disporre perché detta sentenza sia affissa nel Comune (o Comuni) da V.S. amministrati. Quindi ai tranquilli cittadini di Arco bisognava far sapere che la giustizia fascista aveva il pugno di ferro e che colpiva duramente chi era contrario al regime. Era un avvertimento!

MICHELE DELLA MAGGIORA

MICHELE DELLA MAGGIORA

Ma chi era Michele Della Maggiora? Nella storia dell’antifascismo e del movimento operaio egli occupa un posto di rilievo per essere stato il primo condannato a morte del Tribunale speciale fascista. Della Maggiora era un povero bracciante comunista di Ponte Buggianese, piccolo centro agricolo della Toscana, costretto all’esilio dalla miseria e dalle persecuzioni dei fascisti.

Affetto da una grave tubercolosi polmonare contratta in guerra, era rimpatriato alla fine del 1927 perché bisognoso di cure. Al ritorno in paese, i suoi avversari politici lo accolgono con nuove persecuzioni accanendosi contro di lui. Le ripetute vessazioni dei fascisti, che oltre a sottoporlo a minacce e provocazioni gli rifiutavano gli aiuti materiali di cui aveva bisogno per vivere, lo portano ben presto all’esasperazione ed in un impeto d’ira uccide due fascisti. Sottratto al giudizio del tribunale ordinario, Della Maggiora viene inviato davanti al Tribunale speciale sotto l’incredibile imputazione di «strage per attentare alla sicurezza dello Stato». Il processo si svolge a Lucca dal 13 al 17ottobre 1928 e si conclude con la prevista sentenza di morte che viene eseguita il giorno successivo a Ponte Buggianese.

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La legge elettorale

Nel maggio del 1928 viene promulgata la legge elettorale plebiscitaria. Ecco alcuni brani del contenuto in una circolare del Ministero dell’Interno avente per oggetto “Nuovo testo unico della legge elettorale politica. Formazione di nuove liste”:«Al suffragio universale, fondato su di un criterio astratto di capacità, presunta soltanto in funzione di un limite minimo di età, è stato sostituito un suffragio, egualmente molto largo, che ha il suo fondamento nelle attività produttive di ciascun individuo, in modo che potrà essere considerato elettore soltanto chi concorra, in qualsiasi forma, alla creazione della ricchezza nazionale».

E quindi erano ammessi al voto coloro che pagavano un contributo sindacale, gli amministratori di una società che pagavano un contributo sindacale, chi pagava 100 lire di imposte dirette allo Stato, chi era proprietario di titoli di Stato, chi percepiva uno stipendio da amministrazioni pubbliche e i membri del clero cattolico, o i ministri di un culto ammesso nello stato.

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Bisognava iscriversi alle liste elettorali. Fra le varie domande di iscrizione nella Lista Elettorale Politica per l’anno 1928 figura anche quella dell’arciprete di Arco, mons. Giacomo Depellegrin, il quale si dichiara “membro del clero cattolico”. Ma come si svolgevano le elezioni cosiddette “plebiscitarie”?

Il manifesto prestampato che riproduciamo lo chiarisce molto bene. Chi era iscritto nelle Liste elettorali faceva parte del Collegio unico nazionale ed aveva diritto, esclusivamente, di approvare la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio Nazionale del Fascismo. Anche gli orari per le votazioni e lo scrutinio sono significativi. Le operazioni di voto infatti si concludevano alle sette di sera; dopo di che si procedeva allo scrutinio che doveva terminare al più tardi entro le ore 24. D’altronde doveva essere sicuramente uno scrutinio rapidissimo perché si trattava di verificare l’approvazione di candidati proposti dal Partito Nazionale Fascista.

Manifesto prestampato che indica le modalità di voto di chi era iscritto nelle liste elettorali. Risulta evidente che non vi era alcun margine di scelta per gli elettori

Manifesto prestampato che indica le modalità di voto di chi era iscritto nelle liste elettorali. Risulta evidente che non vi era alcun margine di scelta per gli elettori

 Confinati e internati

Nel 1926, oltre al Tribunale Speciale, vengono istituite anche le Commissioni provinciali per l’assegnazione al Confino di Polizia. L’allontanamento e l’incarcerazione coatta degli oppositori politici in realtà erano già in essere e semplicemente vengono ufficializzate, anche nelle procedure, grazie ad un decreto legge. Durante il regime fascista vengono condannati al confino i più importanti intellettuali e politici antifascisti, spesso mandati in isole (Pantelleria, Ustica, Ventotene, Tremiti,Ponza) in modo da separarli anche geograficamente dal resto del paese. La pena del confino poteva durare fino a cinque anni, ma per qualche antifascista venne rinnovata.

Foglio di via obbligatorio per il confinato politico Ezechiele Venturini da Chiarano di Arco. Doveva raggiungere le isole Tremiti, scortato da due agenti di Pubblica Sicurezza

Foglio di via obbligatorio per il confinato politico Ezechiele Venturini da Chiarano di Arco. Doveva raggiungere le isole Tremiti, scortato da due agenti di Pubblica Sicurezza

Un nome che ricorre negli Atti conservati nell’Archivio storico di Arco è quello di Ezechiele Venturini,antifascista dichiarato. Egli viene confinato alle isole Tremiti; sono conservati i fogli di viaggio dei suoi trasferimenti, solitamente accompagnato da due agenti di Pubblica Sicurezza. L’arcipelago aveva svolto fin dall’antichità la funzione di confino o di prigione e durante il fascismo continua a svolgere tale ruolo, ospitando tra l’altro anche il futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini.

Ci fu anche chi non tornò ad Arco, ma morì laddove era confinato. È il caso, ad esempio, di Lodovico Signoretti di San Martino, confinato politico e deceduto a Castelsaraceno in Basilicata. Il Commissariato del Pubblica Sicurezza di Riva del Garda comunica il 17 agosto 1939 al podestà di Arco che il Ministero aveva autorizzato la vedova signora Santa Amistadi di visitare la tomba del marito in quello sperduto paese in provincia di Potenza. Si chiede quindi al podestà di munire la signora dei mezzi occorrenti per il viaggio, ossia del foglio di via per indigenti, valido per la sola andata perché per il ritorno ci avrebbe pensato l’Autorità di P.S. di Castelsaraceno. Come ben si vede non viene attivata alcuna forma di rispetto, nemmeno per le vedove! Il 13 ottobre il Comune di Arco comunica al Commissariato di P.S. di Riva che la signora Signoretti aveva rinunciato, per ora, al viaggio verso Castelsaraceno «in attesa di momenti più propizi».

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Ma Arco era anche luogo di confino. Citiamo qui due carteggi che riguardano due situazioni diverse. La prima riguarda un sacerdote, don Giuseppe Pöder della Val d’Ultimo in provincia di Bolzano che, con ordinanza del 18 novembre 1940, viene condannato a tre anni di confino «per aver dimostrato avversione per l’Italia e per il Nazismo pur avendo optato per la cittadinanza germanica». Il giorno 29 gennaio 1941 egli viene accompagnato a Bolognano di Arco e destinato quale cooperatore del parroco del paese. Presso l’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Riva del Garda egli riceve le tassative indicazione su come doveva comportarsi durante i tre anni di residenza a Bolognano. Egli doveva presentarsi una volta alla settimana (di giovedì, alle ore undici) dal podestà di Arco per far vistare il foglio di permanenza.

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Non poteva allontanarsi dalla sua abitazione o dal paese di Bolognano senza l’autorizzazione del Commissario di P.S. di Riva del Garda. Non poteva frequentare osterie o assistere a pubbliche riunioni, spettacoli o intrattenimenti pubblici. Doveva tenere buona condotta, non dar adito a sospetti, non tenere armi o oggetti atti ad offendere. Si stabiliscono per lui orari molto rigidi; ad esempio l’estate doveva ritirarsi al più tardi alle 20. Doveva portare con sé sempre la carta di permanenza; non doveva giocare d’azzardo né prestare soldi ad usura. L’ultimo articolo del documento, controfirmato dallo stesso don Giuseppe Pöder, era il più significativo: non doveva discutere di politica o fare propaganda politica in modo anche occulto. Se avesse contravvenuto anche ad una sola di queste regole sarebbe stato arrestato e denunciato.

Qualche mese dopo il questore Feliciangeli (!) comunica al podestà di Arco e al Comando Tenenza dei Carabinieri di Riva del Garda, che su richiesta del parroco di Bolognano, il prete confinato poteva recarsi per esercitare il suo ministero sacerdotale anche nelle frazioni di Vignole, Pratosaiano e Maza. Scrive anche il questore: «Non occorre aggiungere che, se egli di questo riguardo alle sue funzioni e all’abito che indossa dovesse abusare, lo sottoporrete al trattamento comune come un qualsiasi confinato riferendo a questo Ufficio» (lettera datata 8 aprile 1941).

Don Pöder non rimane per i prescritti tre anni a Bolognano; egli viene trasferito a Valfloriana, vicino a Castello di Fiemme. Nel riferire all’Ufficio Segreteria del Comune di Arco delle spese sostenute per il viaggio e il trasporto bagagli, egli ringrazia «per tutta la bontà ed amichevolezza durante l’anno passato che mi è stata mostrata da parte vostra» (lettera datata 16 gennaio 1942).

Ad Arco vi erano anche internati e per loro le regole di vita imposte dal regime erano assai più severe. Il giorno 11 settembre 1940 si presentano davanti al podestà di Arco i sudditi polacchi, membri di una stessa famiglia: de Guttry Alessandro fu Leone, de Powa Irene in de Guttry, moglie, de Guttry Luciano figlio, de Guttry Alessandra, figlia e de Guttry Sofia fu Leone, sorella, già internati nel comune di Nepi (Viterbo) ed in seguito a provvedimento del Ministero dell’Interno internati nel comune di Arco. Anche ad essi sono letti gli obblighi a cui dovevano attenersi. Vengono ritirati i passaporti ed altri documenti e si stabiliscono in modo preciso i confini del territorio entro cui potevano muoversi.

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ARCO, 1930

Essi risiedevano a Villa Altamer; non potevano percorrere la strada di Prabi dalla villa verso nord, non potevano oltrepassare il ponte sul fiume Sarca, superare la stazione verso sud e ad ovest non andare oltre “La Rotonda” (Largo arciduca Alberto d’Asburgo) e la villa Miravalle sulla via Lomego. Tutti i cinque conoscevano la lingua italiana; comprendono quindi pienamente le regole stabilite per la loro situazione di internato e sottofirmano il documento che le indica.

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Il 27 novembre 1940 il Commissariato di Pubblica Sicurezza di Riva comunica al podestà a al Comando Carabinieri di Arco ulteriori misure restrittive stabilite dal Ministero degli Interni. I De Guttry dovevano essere controllati tre volte al giorno dai vigili urbani di Arco. Nel carteggio che riguarda questa famiglia vi è un documento di grande interesse. Il giorno 14 ottobre 1940 viene convocata davanti al podestà di Arco, per incarico della Questura di Trento, la suddita polacca signora Marjla Neumann, contessa Tyszkiewicz … Dopo la necessaria premessa, la signora Neumann Marjla viene seriamente ammonita e diffidata ad astenersi dal contrarre relazioni con persone sottoposte all’internamento e viene avvertita che in caso contrario saranno adottati nei di lei confronti provvedimenti di rigore. La suddetta signora Neumann Marjla si è quindi dichiarata edotta del divieto ad essa imposto, dato che conosce e parla correntemente la lingua italiana».

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Con ogni probabilità la signora, esperta d’arte, aveva conosciuto i connazionali membri della famiglia de Guttry, stabilendo con loro un rapporto di amicizia; ma questo aveva destato i sospetti dell’amministrazione fascista che si premura di stroncare sul nascere questa relazione politicamente pericolosa!

Alla fine di novembre del 1940 l’Ufficio Prigionieri Ricerche e Servizi Connessi della Croce Rossa Italiana chiede informazioni al Comune di Arco circa la situazione della signora de Powa Irene baronessa de Guttry; di lei chiedeva notizie il Comitato Internazionale per l’Organizzazione degli Europei Immigrati in Cina – Shangai. Da Arco vengono inviate notizie tranquillizzanti. Irene ottiene anche il permesso di poter assistere il figlio Luciano, gravemente malato, in ospedale a Trento; purtroppo il giovane muore.Il 20 agosto 1941 arriva dalla questura di Trento la comunicazione che Irene Powa de Guttry con la figlia Alessandra e la sorella Sofia potevano fare ritorno a Marina di Massa, dove possedevano una villa. La “liberazione” avviene sulla base di una nota del Ministero dell’Interno. La lettera si conclude però con un’annotazione che illustra bene come vi era un controllo sulle persone comunque sospettate di essere contrarie al regime. «Con l’occasione, poiché la R. Prefettura di Teramo comunica che, in via confidenziale, è stato riferito al Direttore del Campo di concentramento di Corropoli che la De Powa Irene sarebbe in intimi rapporti con l’internato Spitzmann Samuele di Elia, ebreo straniero e che nutrirebbe sentimenti ostili all’Italia, si prega il Comando Tenenza di Riva esperire in proposito accertamenti facendo conoscere quanto risulti e specificando quale atteggiamento abbia serbato la De Powa in De Guttry Irene durante il periodo di internamento ad Arco. Il Questore Feliciangeli”.

L’Italia entra in guerra; vincere e vinceremo …

Il 10 giugno 1940 Mussolini annuncia agli italiani radunati nelle piazze ad ascoltare il suo discorso che «un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra Patria: l’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli Ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente […] Italiani! In una memorabile adunata, quella di Berlino, io dissi che secondo le leggi della morale fascista quando si ha un amico si marcia con lui fino in fondo. Questo abbiamo fatto e faremo con la Germania, con il suo popolo, con le sue vittoriose forze armate […] La parola d’ordine è una sola, categorica ed impegnativa per tutti: essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere! E vinceremo!».

Prima pagina del giornale “Il Brennero” del giorno 11 giugno 1940; reca l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia

Prima pagina del giornale “Il Brennero” del giorno 11 giugno 1940; reca l’annuncio dell’entrata in guerra dell’Italia

Riproduciamo al riguardo la prima pagina del giornale “Il Brennero” (11 giugno 1940) per far cogliere l’enfasi con cui venne presentata al popolo italiano l’entrata in guerra dell’Italia.

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