La criminalità comune nei giorni del «rebaltòn»
a cura di Cornelio Galas
Parliamo ancora di «Rebaltòn». Un termine dialettale trentino che – come già detto nella prima puntata – ricorre spesso nella memoria popolare in riferimento sia al crollo istituzionale, politico e militare dell’8 settembre 1943, sia alla conclusione della prima guerra mondiale e della seconda, nelle fasi d’intermezzo cioè tra la sconfitta degli eserciti dislocati sul territorio trentino e l’arrivo sulla scena dei vincitori e di una nuova autorità. Per conoscere meglio quanto accadde in quel periodo faccio sempre riferimento alla tesi di laurea (Dottorato di ricerca in studi storici – Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università degli Studi di Trento) di Lorenzo Gardumi dal titolo “Violenza e giustizia in Trentino tra guerra e dopoguerra (1943-1948)”. Elaborata nel 2009. Questa volta il tema è quello della criminalità comune. Spesso e volentieri “mescolata”, usata come alibi, in quei giorni di grande confusione. Non solo politica.
La tipologia dei soggetti autori di furti e saccheggi nei giorni della liberazione è molto varia. Secondo Luigi Ganapini, la guerra e soprattutto il biennio 1943-1945 misero in «movimento» il Paese. La fine del conflitto accentuò sempre più questo viaggio, questo flusso di persone, non solo per la presenza di sfollati provenienti da ogni parte d’Italia e di reduci che tornavano alle loro case. Negli ultimi giorni delle operazioni belliche, significativa fu la presenza di disertori, di militari sbandati di diversa nazionalità (tedeschi, italiani, cecoslovacchi, ecc.), di partigiani e di civili che, dai paesi di residenza, si portavano verso i luoghi della ritirata tedesca. Alcune di queste categorie d’individui, spesso, si confondevano.
Vittorio C. Borgo Valsugana, (28 febbraio 1924. Contadino), Giuseppe P. Rovereto,(10 dicembre 1921. Meccanico disoccupato) e Paolo R. Bleggio,(18 settembre 1924. Contadino), disertori della 10. Compagnia del CST di stanza a Bleggio, furono accusati di «rapina a mano armata». I primi due, inoltre, erano ritenuti responsabili del furto di oggetti e materiali appartenenti alla stessa unità della polizia trentina che avevano abbandonato. La Corte d’assise ordinaria di Trento, nel luglio 1948, condannò tutti e tre gli imputati per rapina a cinque anni di reclusione. Vittorio C. e Giuseppe P., inoltre, si videro aumentare la pena di un anno per il furto. Gli stessi furono amnistiati in virtù del decreto presidenziale del 22 giugno 1946.
I due episodi si erano svolti tra il 20 ed il 30 aprile 1945. Nel corso dell’interrogatorio, Paolo R. dichiarò di aver collaborato con le formazioni partigiane dal 26 aprile al 10 maggio 1945 partecipando a rastrellamenti di soldati tedeschi e interrompendo le strade tra Tenno, Riva e Lomaso. Due diversi piani che, nel quadro generale, complesso e contraddittorio, si mischiano l’uno con l’altro. Armando Mario G., ex internato militare di ritorno dalla Germania (A seguito dell’armistizio italiano del settembre 1943, circa 600 mila soldati italiani furono catturati dai tedeschi e detenuti presso campi di concentramento dislocati in Francia, Jugoslavia, Grecia e soprattutto Germania.
Non potendo definirli quali «prigionieri di guerra», le autorità tedesche alla fine utilizzarono per i soldati in cattività i termini di «internati militari italiani»), fu accusato assieme ad altri due complici di un furto avvenuto a Riva del Garda verso la fine di aprile del 1945. Il soldato tedesco Enrico H. fu arrestato nel giugno 1945 per una serie di reati compiuti a partire dal maggio precedente, quando aveva rapinato alcuni cittadini di Stumiaga di Lomaso. Nel febbraio 1947, cinque persone, tra cui tre donne, furono giudicate per vari reati avvenuti a Borgo Valsugana il 2 maggio, «profittando delle speciali circostanze di guerra del momento».
Vigilio L. , autore di un furto compiuto nella notte tra il 29 ed il 30 aprile, fu arrestato il 4 maggio 1945 dalla Polizia partigiana di Fiera di Primiero. Non si trattava unicamente di reati di lieve entità. In alcuni casi, il bottino fu effettivamente considerevole. Alla fine di aprile del 1945, nove persone s’impossessarono a Riva del Garda di una somma pari a 28 milioni di lire che, spettante all’Erario italiano, era stata sottratta da un camion militare «approfittando delle circostanze prodotte dallo stato di guerra». Nella fase finale del conflitto, divennero obbiettivi del saccheggio anche i magazzini della cooperativa alimentare di Bleggio – il 28 aprile – il caseificio di Condino – il 5 maggio – o i locali dell’ex Opera nazionale balilla ONB ( Organizzazione fascista il cui scopo principale era quello di educare la gioventù italiana con marce militari, esercitazioni, sfilate e parate. di Trento) – ancora il 27 aprile.
A Dro, nel Basso Sarca, la popolazione smantellò letteralmente «l’ex Casa Balilla». Non contenti, portarono dai magazzini degli ammassi granicoli, circa 200 quintali di grano, quando dagli stabili saccheggiati non rimasero che le strutture si accanirono contro le costruzioni elettriche; baracche, e contro le stesse finestre e porte della ex Casa Balilla. Il caos generalizzato e diffuso su gran parte del territorio provinciale permise a determinati soggetti, dalla fedina penale non immacolata, di saldare qualche conto in sospeso con le forze dell’ordine. Nel settembre 1945, Bernardo E. (Riva del Garda, 18 marzo 1924. Meccanico) fu denunciato per detenzione illegale di armi e munizioni. Gli antefatti, tuttavia, risalivano ai giorni della Liberazione. Il 30 aprile 1945, Bernardo e Valerio B. ( Riva del Garda, 1 marzo 1920. Impiegato) si erano presentati nella caserma dei carabinieri di Riva del Garda «armati di fucile automatico», mentre un altro gruppo di armati stazionava nei pressi della caserma senza intervenire.
«Sotto pena di morte», i due obbligarono il maresciallo Egidio Spagnol «a consegnare […] i verbali di denuncia all’autorità giudiziaria compilati dal sottufficiale a loro avviso». Bernardo, complice il padre, aveva già compiuto un furto nel novembre 1943. L’azione del 30 aprile, avvenuta al momento della Liberazione e approfittando del momento di confusione prodotto dagli eventi, serviva a cancellare le tracce di quel reato. I giudici del Tribunale di Rovereto, nel settembre 1948, ricostruirono dettagliatamente gli avvenimenti.
Il 30 aprile 1945, occupata dai partigiani la città di Riva del Garda in attesa dell’ingresso delle truppe alleate, venne dato ordine, da parte del comando dei partigiani, di arrestare il maresciallo dei carabinieri Spagnol Egidio ritenuto, a torto o a ragione, già connivente con i tedeschi. Per eseguire l’ordine si portarono nella Caserma dei carabinieri il partigiano B. Valerio e tale E. Bernardo, più volte condannato per furto, il quale nei giorni dell’insurrezione si era aggregato alle formazioni partigiane. Senonché [sic!] i due armati, anziché […] eseguire l’ordine ricevuto, mentre procedevano a disarmare il maresciallo Spagnol e poi a condurlo al Comando dei partigiani, lo costrinsero altresì a consegnare loro alcuni verbali di denuncia per reati comuni redatti precedentemente dallo Spagnol a carico di E. Bernardo e del di lui padre, nonché di B. Valerio. Per tali fatti nonché per detenzione abusiva di armi, su denunce in data primo settembre e 8 novembre 1945, si iniziava contro E. Bernardo e B. Valerio procedimento penale con istruzione formale per i reati di sequestro di persona, violenza privata e soppressione di atto pubblico, nonché a carico del solo E., per detenzione illecita di armi. I giudici condannarono Bernardo «solo» ad otto mesi di reclusione forse perché valutarono anche il preciso momento storico in cui l’episodio si era svolto.
Ancora una volta, è possibile notare questa sovrapposizione di piani: un pregiudicato che, profittando dell’occasione, si unisce all’insurrezione quale partigiano dell’ultima ora. Comandanti e responsabili delle varie formazioni che a Riva contribuirono attivamente, assieme ai soldati americani, a liberare la città dalle truppe tedesche non potevano valutare dal punto di vista etico-morale tutti gli uomini che entravano nelle fila partigiane. Era inevitabile che qualcuno traesse vantaggio dalla situazione, come in questo caso.
Ciò che avvenne in Trentino nelle giornate della Liberazione è del tutto simile a ciò che accadde nelle province e regioni limitrofe a partire dal 25 aprile 1945. Secondo Grassi Orsini, l’Italia settentrionale fu «teatro di un numero incredibile di rapine, estorsioni, aggressioni personali, reati contro il patrimonio compiuti da gruppi di sbandati che colpirono nelle persone e nei beni la borghesia». Come recenti saggi e contributi hanno messo in luce, la difficoltà consiste proprio nel distinguere tra violenza politica e criminalità comuni, connubio che, d’altra parte, si era generato come ha sottolineato Dianella Gagliani già nel corso del conflitto bellico che si stava concludendo. In questo quadro, «le violenze comuni – furti, rapine, irruzione nelle abitazioni private, devastazioni, incendi, spari inconsulti, pestaggi e così via – erano ingenerate dalla guerra ai civili e dalla volontà di dominio assoluto sui loro corpi e sui loro averi». Violenza politica e violenza comune si trovarono «inserite in un particolare contesto di guerra» in maniera tale da essere comunque riconducibili alla «violenza scatenata a livello centrale».
BIBLIOGRAFIA E FONTI (vedi “El REBALTON” IN TRENTINO – 1)