I COSACCHI IN ITALIA – 6

a cura di Cornelio Galas

Organizzazione amministrativa, economica e culturale degli insediamenti cosacco e caucasico in Carnia

Russland, Kosaken in der Wehrmacht

Dal momento della loro fuga dai territori della Russia meridionale e nel corso delle successive tappe del loro peregrinare, in Ucraina, Bielorussia e Polonia, le comunità cosacca e caucasica, costituite di uomini in armi, loro famiglie, profughi di ogni età, per sopravvivere in un ambiente socio-economico diverso  dal proprio  e  talvolta ostile, avevano dovuto darsi un minimo di organizzazione, sul piano amministrativo, economico e culturale oltre che su quello militare.

Dell’organizzazione militare si è già trattato: anziani ufficiali zaristi ne avevano assunto il controllo costituendo Reggimenti di fanteria e di cavalleria sulla base della provenienza territoriale ed etnica. Fu una soluzione non soddisfacente tenuto conto della:

  • impreparazione professionale dei Quadri  che per più di vent’anni avevano svolto tutt’altre attività;
  •  scarsa disponibilità di sistemi d’arma  e di materiali moderni.

Quando i tedeschi decisero il loro impiego in Carnia, questi aspetti negativi apparvero in tutta la loro gravità alle autorità militari tedesche dell’Adriatisches Kűsterland  che cercarono di porvi rimedio cercando di standardizzare le armi individuali e di reparto, a sostituire i pochi e obsoleti pezzi d’artiglieria con altri più adatti all’ambiente montagnoso carnico. I tedeschi imposero altresì l’istituzione di una Scuola di Guerra per gli ufficiali cosacchi con corsi intensivi di  aggiornamento professionale.

Inadatte e impreparate a confrontarsi con  Grandi Unità  alleate in campo aperto, queste  unità cosacco-caucasiche  erano però uno strumento efficace nelle  operazioni  di controguerriglia contro formazioni partigiane,  anch’esse poco e male armate, in un ambiente rotto e compartimentato, come quello carnico. Facevano premio, infatti, le loro doti di  robustezza fisica, frugalità, audacia,  naturale ed istintiva abilità nelle  azioni di agguato e di sorpresa  e nel  combattimento notturno.

Sul piano amministrativo, importante data la consistente massa di profughi, si cercò di costituire le strutture basilari di una  comunità, come istituti scolastici, ospedali, luoghi di culto con propri pope e imam, organi giudiziari etc.

Sul piano economico, nella lunga permanenza  in Bielorussia, alla comunità cosacca erano stati assegnati colà 18 villaggi con relative terre coltivabili. Al loro seguito, i cosacchi avevano, oltre ai cavalli, circa 1.000 bovini per cui fu possibile dare vita a ad un’economia agricola autonoma.

Questa soluzione aveva reso  quasi autosufficienti i cosacchi, limitando al minimo gli interventi di supporto e di integrazione delle risorse alimentari da parte delle autorità tedesche. Questa donazione di terre, a disposizione della comunità cosacca era stata formalizzata, nel già ricordato proclama  del 10 novembre 1943, siglato dal Ministro per i Territori dell’Est Europeo, Rosenberg e dal Maresciallo Keitel Capo di Stato Maggiore della Wehrmacht.

il maresciallo Keitel

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Il proclama recitava, tra l’altro, “[…] Qualora gli eventi bellici dovessero rendere temporaneamente impossibile il ritorno nelle terre di origine dei vostri padri, noi faremo risorgere la vostra vita di cosacchi nell’Europa Orientale, sotto la protezione del Fuhrer, ponendo a vostra disposizione la terra e tutto ciò che è necessario per una vita autonoma […]”.

Era stato creato anche  un diffuso artigianato con fucine di fabbri, botteghe e laboratori di maniscalchi, sarti, falegnami, carpentieri, calzolai, carrai, sellai etc.

Il ministro Rosenberg

Il ministro Rosenberg

Per il Ministro Rosenberg, i cosacchi costituivano uno strumento, al servizio dei tedeschi, per la lotta anti-bolscevica; egli riteneva,  tuttavia, che fosse opportuno concedere spazi di autonomia anche sul piano culturale ed amministrativo, per mantenerne vivo lo spirito e salda la lealtà verso il protettore tedesco. Perciò, egli  stimolò iniziative intese a valorizzare le tradizioni proprie del popolo cosacco attraverso rappresentazioni teatrali, cori, musica, balletti, giornali.

Sul piano economico amministrativo, con il trasferimento della comunità cosacco-caucasica in Carnia, vi fu un radicale mutamento rispetto alle precedenti esperienze di insediamento,  in Podolia, Bielorussia e Polonia. In Carnia infatti, pur disponendo di un’area tre volte più grande di quella avuta per esempio in Bielorussia, 650 kmq. contro 195,  la terra coltivabile era pochissima, limitata a pochi fondovalle ed inoltre, era presente sul territorio una popolazione di circa 60.000 persone che le autorità tedesche decisero di non evacuare,  come avevano invece fatto in Bielorussia,  ad eccezione di  Alesso e Bordano e, in parte, Trasaghis.

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La Carnia, in sostanza non era possesso pieno dei nuovi venuti, ma in comproprietà con la popolazione residente.  Per questi due motivi, l’autonomia economica di cui al proclama di Rosenberg risultava limitata al settore artigianale essendo quasi inesistente quella agricola che avrebbe dovuto garantire la sopravvivenza.

Le comunità cosacca e caucasica   dipesero pertanto dalle insufficienti assegna zioni  di viveri da parte dei tedeschi e in prevalenza dalle requisizioni di viveri operate sulla popolazione residente.

Per i settori amministrativi e culturali, è opportuno operare una differenziazione tra le strutture cosacche, più articolate e complesse, e quelle caucasiche più rudimentali.

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L’area carnica occupata dai cosacchi era frammentata in 54 presidi disseminati lungo le valli e non sempre ben collegati tra loro a causa dell’aspra conformazione orografica della Carnia. L’insediamento cosacco era articolato in Distretti   denominati per luogo di provenienza originaria: Distretti del Don, del Donec, del Kuban, del Terek, etc. Ciascun Distretto, a sua volta, si articolava  in stanicy (paese, villaggio) rette o da un atamano o da un Vojskvoj Staršina (grado corrispondente a quello di Maresciallo Maggiore). Esisteva anche una banca cosacca, la Feldbank, e un Tribunale militare cosacco.

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Il servizio sanitario era assicurato da un Ospedale Militare, a Tolmezzo, con quattro medici, ospitato parte nel Collegio Salesiano e parte in locali dell’Ospedale Civile di Tolmezzo. A seguito di un bombardamento aereo, nel febbraio 1945, l’Ospedale cosacco fu trasferito a Luint (Ovaro).

L’organo di stampa cosacco diede ampio risalto all’inaugurazione dell’Ospedale vantando il fatto che tutti, personale medico e paramedico, erano cosacchi. L’Ospedale era   dotato di un reparto medicina e di un reparto chirurgia e, alla fine di dicembre 1944, ospitava 109 degenti.

A Tolmezzo, c’erano  anche un ambulatorio medico, un ambulatorio dentistico, locali di isolamento e quarantena per le malattie infettive.

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Ad Alesso, c’era un’infermeria e un laboratorio dentistico; ad Enemonzo si ha notizia di un’infermeria. E’ probabile che infermerie o posti di pronto soccorso fossero in tutti i maggiori presidi come Villa Santina, Ovaro, Ampezzo.

Per il settore culturale si registra la presenza di scuole (elementari) in quasi tutte le località ove erano presenti civili cosacchi: Tolmezzo, Trasaghis, Alesso, Cavazzo Carnico, Avasinis, Osoppo etc.

L’istituzione scolastica in Carnia da parte dei cosacchi, al di là del recupero di mesi e forse anni di inattività dovuta a eventi bellici e al continuo peregrinare nell’Europa orientale, rappresentò per tutta la comunità cosacca un ritorno alla normalità, un segno della  ritrovata serenità e tranquillità.  A Chiaulis, frazione di Verzegnis, c’era anche un Istituto di studi superiori.

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I cosacchi  disponevano anche di un teatro, nel Collegio Salesiano di Tolmezzo, con tre compagnie filodrammatiche, una a Verzegnis, una a Tolmezzo, una a Cavazzo Carnico. Erano anche presenti ed attivi cori, balletti, bande musicali, il tutto ispirato al folklore cosacco ed all’esaltazione delle tradizioni cosacche. Questi artisti non si limitarono ad esibirsi in Carnia, ma dettero spettacolo anche al Politeama Rossetti di Trieste, a Udine  e a Verona.

Occasioni di coesione e di aggregazione nell’esaltazione della tradizione dei padri, specie nei presidi minori, erano anche i matrimoni, i battesimi, i funerali.

Altre iniziative culturali pubbliche, con inviti a stampa  alle autorità tedesche e a quelle italiane locali,  furono organizzate a Tolmezzo, il 7 gennaio 1945, in occasione del Natale ortodosso e in febbraio 1945 quando fu organizzata una mostra dell’artigianato artistico cosacco con la presentazione degli  esiti di un concorso indetto nell’ambito dell’Armata cosacca nel novembre 1944.

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La mostra riguardava opere pittoriche e plastiche, lavori di cucito e a maglia, articoli in cuoio, tutti ispirati alla tradizione ed al folklore cosacchi. La mostra, molto apprezzata dai tedeschi, si apriva con un ritratto del Fuhrer con una didascalia che recitava: “Di generazione in generazione, i cosacchi pronunceranno con gratitudine il nome di Adolf Hitler“.

Secondo quanto riferito dall’organo di stampa cosacco, nell’ottobre 1944, risulta che nel Distretto del Don (Tolmezzo), su iniziativa dell’atamano locale, fu attivato un reparto militare, composto da artigiani, nel quale si  praticavano i mestieri di cappellaio, sarto, fabbro, sellaio. Il reparto era anche riuscito a organizzare  una lavanderia, una tintoria ed un saponificio. Produzione e prestazioni erano offerte ai cosacchi, militari e civili delle  stanicy del Distretto.

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A Paluzza, lavorava, presso la Cooperativa carnica di consumo, una squadra di panettieri  cosacchi che approntava  il pane per la truppa.

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Si ha notizia che a Tolmezzo e a Villa Santina, furono requisiti due laboratori di falegnameria, a Raveo, le attrezzature di un fabbro e di un calzolaio  A Enemonzo, i cosacchi aprirono una bottega di calzolaio e  una di sellaio.

L’economia cosacca si reggeva anche sull’attività di commercio, realizzata attraverso mercatini nei maggiori centri. Venivano offerti  prodotti di artigianato, salgemma, di cui i cosacchi erano fornitissimi, in cambio di foraggio,  oggetti vari di incerta provenienza, talvolta anche cavalli.

L’economia cosacca alimentava anche quella dei locali, con gli stipendi dei militari, ancorchè modesti,  in media lire italiane 1200 per gli ufficiali, 700 per i sottufficiali, 500 per la truppa. Con una stima prudente  di circa 15.000 militari, inclusi i caucasici che si presume avessero lo stesso trattamento, ed una media di 700 lire per ciascuno di essi, si perviene a un totale circa 11,5 milioni mensili, parte dei quali doveva necessariamente finire sul mercato.

Donne cosacche andavano in piazza a vendere il latte delle loro mucche ed i prodotti dei campi che avevano occupato: granturco, patate, legumi.

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Gruppi di profughi cosacchi, insediati nella Carnia meridionale, svolsero durante l’inverno e la primavera  attività retribuita, anche se si trattava di modesta retribuzione, presso locali industrie di legname; essi provvedevano al trasporto di tronchi dai boschi alle segherie, utilizzando carrette e cavalli. Pur essendo civili, giravano sempre armati .

A Tolmezzo, dove erano concentrati Comandi e consistenti contingenti cosacchi,  centro di smistamento e di transito di truppe cosacche e caucasiche, vi erano anche numerosi negozi, o meglio bazar, requisiti o affittati,  dove civili cosacchi vendevano articoli militari come colbacchi, mostreggiature, flanelle per camice e icone, minuscoli corani ed altri ricordi della Russia.

Tolmezzo,  affollatissima  di soldati  che spesso bivaccavano sulle strade innevate, lordata del letame delle loro cavalcature, impregnata degli  acri effluvi della cucina russa e di stallatico, ove si sentivano il prevalente vociare  russo e le nenie del folklore cosacco, si era trasformata in una cittadina, disordinata, maleodorante, chiassosa e lutulenta, ai confini tra Europa e Asia.

Nel settore dell’economia agricola, i cosacchi stavano progettando l’acquisto o la requisizione di  numerosi terreni agricoli nella valle del Tagliamento. Un loro agronomo aveva misurato le aree seminative disponibili, accertato il numero e tipo di vigneti esistenti e pianificato il complesso dei lavori da effettuare, in primavera, nei campi.

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Egli aveva studiato, in particolare, nuovi metodi di coltivazione  della patata, da sempre il più diffuso prodotto della Carnia, come di tutta la fascia alpina. 

Come già  riferito, al seguito del popolo cosacco, vi erano ministri del culto ortodossi (pope), presenti in quasi tutti i Comuni della Carnia occupata. Di solito, vennero adibiti a luoghi di culto edifici pubblici, scuole, asili, caserme, anche latterie, e privati.

La Diocesi di Udine aveva infatti  espressamente proibito l’uso delle chiese per riti religiosi  non  cattolici. Al riguardo aveva emesso un Decreto […] In praesentibus rerum adiunctis fieri potest, et revera jam factum est, ut nostrae ecclesiae pro culto acatholico requirantur, seu protestantico, seu ortodoxo. Menimisse igitur oportet  talem usum haud licitum esse: obstant  enim prohibitiones tum ex lege naturali, tum ex lege positiva Ecclesiae […].

Il Decreto si concludeva con tre clausole da rispettare,  ove non fosse possibile impedire l’uso della chiesa: proibire l’uso dell’altare consacrato,  togliere il SS Sacramento, vietare ai cattolici di assistere alle funzioni ortodosse.

Naturalmente l’ultima clausola non fu rispettata perchè le funzioni religiose degli invasori erano così suggestive da suscitare l’interesse e la curiosità dei locali che si stupivano vuoi per il solenne ed elaborato cerimoniale,  vuoi  per la maestosità dell’accompagnamento canoro.

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Marina Di Ronco riferisce che vi fu un solo caso dell’uso cosacco di un edificio cultuale cattolico: a Chiaulis di Verzegnis,  ove fu concesso l’uso della locale chiesa .  

Pieri Stefanutti, invece, sostiene che solo nel Comune di Trasaghis  i cosacchi usarono le chiese di Alesso, Trasaghis, Braulins, Interneppo, Mena.

Ciò si verificò anche  nella bassa pianura; si sa, per esempio, che  il pope di un gruppo di cavalleria cosacca,  giunto  nel marzo 1945 a Castions e Morsano di  Strada, nella bassa pianura friulana,  officiò  nella vicina chiesa di San Martino.

Nelle stanicy, si svilupparono rapporti di reciproca comprensione,  tra locali e occupanti, delle rispettive esigenze. Giovani e vecchi  della Carnia, in assenza di mezzi pubblici di trasporto, approfittarono spesso delle carrette cosacche o caucasiche per spostarsi da una località ad un’altra, specie da e per Tolmezzo. In determinati casi, vi furono rapporti di conoscenza e perfino di amicizia con i locali.

Nell’area di Cavazzo e di Trasaghis vi furono almeno due matrimoni misti: un giovane  di Cavazzo aveva sposato una cosacca e un cosacco una ragazza di Somplago di Cavazzo. Parecchi cosacchi, dopo la Liberazione, vennero nascosti dalla gente di Somplago, Braulins etc. e poi, normalizzate le cose, emigrarono.

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Anche a Ravascletto vi fu una ragazza ventenne, Maria Plazzotta,  che si unì in matrimonio con un caucasico. Le nozze furono celebrate con rito musulmano e nel presidio vi fu una gran festa con pranzo nuziale, canti, spari e cavalcate sino a notte fonda. La giovane seguì il marito durante la ritirata in Austria e ne divise il tragico destino.

I caucasici

La distribuzione dei caucasici nella Carnia tendeva a preservare  l’unità e l’identità etnica degli occupanti. Per esempio, a Sutrio c’erano gli osseti, a Cercivento i cabardini, etc. All’interno di ogni insediamento si cercava di mantenere i legami di clan e di parentela.

Anche la sepoltura dei caduti avveniva nei cimiteri dei Comuni ove l’etnia di appartenenza aveva sede, indipendentemente dal fatto che la morte fosse avvenuta in altri paesi ove il caduto prestava servizio. Così, per esempio, il già ricordato Comandante del presidio di Comeglians, ucciso nell’area di Muina, il 31 ottobre 1944,  venne sepolto non a Comeglians, ma a Sutrio in quanto si trattava di un osseto.

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Anche i caucasici avevano un Tribunale con sede a Paluzza. Esso aveva giurisdizione su tutta la fascia montana occupata dai caucasici. La sua competenza riguardava la comunità  caucasica, ma a volte essa era estesa ai locali, per reati commessi dalle truppe a danno di soggetti carnici.

Anche i caucasici avevano un loro ospedale che fu installato, a Treppo Carnico, nei locali dell’asilo e di una attigua palestra. Esso constava di un reparto medicina, un reparto chirurgia, per 35 posti letto complessivi, e  di un reparto isolato per le malattie infettive.

Il personale medico e paramedico era russo, mentre i servizi (cucina e pulizia) erano assicurati da personale locale che veniva pagato 600 lire al mese. A Paluzza c’era invece un ambulatorio medico ed una farmacia.

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In campo culturale, si segnala l’esistenza certa di una scuola elementare a Paluzza e di una a Sutrio, ma è probabile che ve ne fossero altre  ed, inoltre, un teatro a Ligosullo ed una orchestra ed una scuola di danza a Sutrio.

Per quanto concerne il culto, occorre tener presente  che la maggioranza dei caucasici era musulmana e che i loro riti potevano essere svolti in qualsiasi luogo, anche in case private; bastava stendere sul pavimento tappeti o pelli di pecora che, una volta terminata la preghiera venivano rimossi restituendo il locale al suo uso abituale.

Si trattava di riti cultuali  meno appariscenti di quelli ortodossi e privi di qualsiasi apparato iconografico, per cui  ne sono rimaste solo poche tracce limitate a qualche immagine fotografica di tumulazioni e di cippi tombali con le scritte azere (persiano), turche o cirilliche, e con la mezzaluna.

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Per quanto concerne il settore economico,  i nordcaucasici erano autonomi, tranne per i prodotti caseari e per modeste quantità di foraggio,  in quanto essi usufruivano evidentemente di razioni alimentari fornite dall’intendenza tedesca. Scarso il commercio, praticato con il sistema del baratto.

Scarse anche le attività artigianali, limitate ad esigenze basilari: una bottega di calzolaio  a Sutrio e una a Paluzza, una bottega di fabbro ferraio sempre a Paluzza. Ancora a Paluzza, si ha notizia di una tipografia che stampava il foglio bisettimanale “Severokavkazec”.

Non vi fu, da parte caucasica, la capacità o la volontà di organizzare attività economiche più articolate che coinvolgessero la collettività., nonostante uno specifico appello delle autorità caucasiche in tal senso apparso sul loro organo di stampa.

L’appello esortava i caucasici ad apprendere e a praticare mestieri ed anche attività artistiche per mantenere e migliorare quei saperi che potessero essere utili alla collettività, per il miglioramento delle sue condizioni di vita in Carnia ed anche in previsione  dello sperato ritorno in patria.

La stampa  dei cosacchi e dei  caucasici, in Carnia

Anche in questo settore, cosacchi e caucasici erano autonomi gli uni dagli altri. Materiale propagandistico e riviste letterarie giungevano dal Governo cosacco in esilio dislocato a Berlino ed anche dal Consiglio delle truppe cosacche inserito nel Comitato di liberazione dei popoli della Russia (KONR) del Gen. Vlasov.

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Anche il Movimento per l’indipendenza del Caucaso settentrionale, in Berlino, provvedeva all’invio  di materiale letterario e propagandistico alle truppe del Gen. Ghirey, in Carnia

L’Armata cosacca pubblicava, in proprio, un bisettimanale “Kazač’ja Zemlja del quale, in realtà, uscirono solo quarantaquattro numeri nei sette mesi di permanenza in Italia. Il titolo del bisettimanale era “Gazeta Štaba Pochodnogo Atamana Kazač Vojsk” (Giornale dello Stato Maggiore dell’atamano di campo degli eserciti cosacchi).

A fianco del titolo, c’era un simbolo raffigurante un vessillo ed una sciabola incrociati con tre scudi affiancati  ciascuno recante nel campo interno gli stemmi dei tre eserciti del Don, del Kuban, del Terek. Si trattava di due fogli e di quattro pagine.

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La prima pagina del giornale era generalmente dedicata alla politica, incentrata sul tema dell’antibolscevismo, dell’antisemitismo, identificato come promotore del bolscevismo, e sullo spirito della eroica  tradizione dei cosacchi.  Spesso, era lo stesso Krassnov a scrivere articoli di natura politica  e relativi alla storia dei cosacchi.

Uno spazio veniva anche dedicato alla situazione militare della guerra in corso.  Nella seconda pagina vi erano le notizie internazionali tratte da agenzie di stampa, con particolare riguardo quelle che mettevano in cattiva luce l’Urss. Anche in terza e quarta pagina si privilegiavano le notizie tratte dalla stampa internazionale con particolare riguardo alle misure repressive ed oppressive delle Armate sovietiche nei Paesi occupati come la Romania, l’Ungheria, la Bulgaria.

La seconda e terza pagina contenevano anche una rubrica “Eroismo cosacco”  con le cronache degli scontri tra cosacchi e partigiani e della vita degli insediamenti cosacchi in Carnia. C’era anche un supplemento letterario che però cessò subito le pubblicazioni, nell’ottobre 1944.

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Nella terza o quarta pagina, di norma c’era anche  una rubrica riguardante la vita interna dell’insediamento cosacco in Carnia e nella fascia pedemontana.

Essa era intitolata “Zisn’stanic” (vita delle stanicy) oppure Vkazač’ em stane (nello stan cosacco) o ancora, se si trattava di episodi della lotta anti-partigiana, “Bloknot voennogo Korresponenta” (block – notes del corrispondente di guerra).

Di questa rubrica si segnala un articolo riguardante l’ambiente naturale carnico che l’estensore mostra palesemente di non amare perchè area montana,  angusta e nebbiosa, troppo diversa dalle vaste e pianeggianti steppe cosacche. Molto più favorevole il giudizio espresso sulla pianura friulana  perchè, ancorchè infinitamente più piccola, risveglia in lui il ricordo degli  aperti orizzonti delle sue terre,

In conclusione, i temi dominanti del bisettimanale  erano costituiti dalla lotta al  bolscevismo con riferimenti antisemiti (quasi un’identificazione bolscevismo= ebraismo), della incrollabile fede nella vittoria finale della Germania, nell’esaltazione della fede cristiano-ortodossa.

Anche i caucasici disponevano di un giornale bisettimanale dal titolo “Severkavkazec-Organ Dobrovol’č  Brigade Severny Kavkaz” (Nord-caucasico, organo della Brigata di volontari “Caucaso del Nord”). Il giornale era nato nel 1942, quindi era al terzo anno di pubblicazione. Durante la permanenza dei caucasici in Carnia, uscirono solo quindici numeri del giornale su  circa cinquanta previsti.

Il Severkavkazek-Organ Dobrovol’č  Brigade Severny Kavkaz” consisteva in un solo foglio con due pagine. La prima pagina  era dedicata alla situazione militare sui vari fronti europei. Le notizie venivano riprese da quelle pubblicate dal Comando della Wehrmacht. Venivano inoltre trattati temi politici internazionali.

Nella seconda pagina, trovavano posto organizzazione e cronache della vita interna dell’insedia mento caucasico. Mancava, nel giornale caucasico il costante riferimento alla tradizione ed alla storia dei popoli del Caucaso settentrionale. Trovava spazio solo l’aspirazione all’indipendenza, non importa se per ottenerla ci si doveva alleare con i tedeschi o con altri.

A differenza dei cosacchi, più sognatori, i caucasici erano pragmatici ed erano consapevoli di non avere alcuna voce in capitolo nel grande gioco internazionale ove si stavano forgiando i destini dell’Europa nel dopoguerra, o nei lavori di preparazione del nuovo assetto mondiale,  in corso a San Francisco nella primavera del  1945.

In sostanza, i  caucasici riconoscevano  la precarietà della loro situazione e la loro impotenza nel determinare il proprio futuro politico. Anche nei rapporti con la ROA (Armata di liberazione delle Russie) del Gen. Vlasov, i caucasici si differenziavano dai cosacchi: freddi e diffidenti questi nei confronti della ROA,  i caucasici invece erano aperti alla  collaborazione,  sia con la ROA sia on l’Armata cosacca,  per il conseguimento del comune fine del rovesciamento del regime bolscevico.

La lettera al giornale di un lettore propugnava proprio l’unione ed il coordinamento, in tal senso, degli sforzi di tutte le forze russe collaborazioniste dei tedeschi.  Sia i cosacchi che i caucasici nei loro giornali parlavano poco gli uni degli altri.

Pur vivendo in due aree contigue, infatti, scarsi erano i contatti ufficiali e personali tra le due comunità. Dagli inizi dell’Ottocento, da quando i caucasici entrarono nell’Impero zarista, cosacchi e caucasici erano stati nemici acerrimi, come testimonia nel suo “I cosacchi”, Lev Nikolaevič Tolstoj che prestò servizio militare, nel Caucaso dal 1851 al 1854.

Novanta anni dopo, in Carnia, tra cosacchi e caucasici non vi fu alcun episodio di aperta ostilità, ma nemmeno di cameratesco trasporto. Vivevano e operavano come separati in casa. I motivi di questa separatezza  erano svariati: l’antica ostilità reciproca di cui sopra, il fatto che i cosacchi  avessero coscienza e fossero orgogliosi di avere avuto un posto significativo nella storia dell’Impero zarista, di esserne stati parte non secondaria,  mentre i caucasici erano  un’entità anonima, spesso turbolenta, una delle tante  minoranze della Russia meridionale di più  recente acquisizione da parte dell’Impero zarista.

Infine, gli uni erano slavi,  legati alla Russia anche dalla comune fede cristiano-ortodossa,  gli altri erano in gran parte di etnia iranica o turca  e musulmani.

La stampa friulana del tempo

Appare opportuno fare un cenno alle notizie della stampa locale, in merito al quadro generale carnico nel periodo agosto 1944-aprile 1945 ed in particolare in merito all’arrivo ed all’insediamento della comunità cosacco-caucasica nella Carnia e nella fascia pedemontana.

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Scelta del quotidiano

Nel periodo considerato, la scelta era limitata, in Friuli,  a due  quotidiani: “Il Gazzettino” che però era principalmente orientato sulle province venete, ed  “Il Popolo del Friuli”, stampato ad Udine e centrato sulla cronaca della provincia che al tempo comprendeva anche Sacile e Pordenone.

Il “Gazzettino”, dal settembre 1943, constava di un solo foglio: nella prima pagina erano riportati gli eventi internazionali, in particolare gli eventi bellici in Europa e nell’Estremo Oriente, mentre la seconda pagina  conteneva il “Notiziario del Litorale Adriatico” (solo le province di Udine, Gorizia e Trieste), avvisi pubblicitari e necrologi.

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Le rare notizie di cronaca della provincia di Udine  erano tratte dal “Popolo del Friuli”, o meglio, un unico estensore redigeva i testi da pubblicare sul quotidiano friulano; qualcuno di questi, di tanto in tanto,  veniva inviato  anche al “Gazzettino” per la pubblicazione.

E’ sembrato, quindi,  più razionale utilizzare “Il Popolo del Friuli”  che deve supporsi essere stato particolarmente  attento ad eventi,  come quelli  relativi all’insediamento dei cosacco-caucasici,  che si svolgevano nel territorio della provincia di Udine e che coinvolgevano  parte cospicua della popolazione non solo carnica ma anche di quella della pianura friulana.

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Anche “Il Popolo del Friuli”, nato nel 1932 per trasformazione dal “Il Giornale del Friuli”, constava nel 1944  di un foglio di due pagine. Nella prima  erano riportate notizie sulle operazioni militari in corso e gli eventi internazionali. La  seconda era dedicata alla cronaca di Udine, a quella della provincia, alla cronaca sportiva, alla pubblicità ed ai necrologi.

Vi erano tre edizioni,  una per ciascuna area: quella  udinese, quella  carnica e quella pordenonese; quindi, ad una prima pagina comune a tutte tre le edizioni, corrispondeva  la seconda pagina che privilegiava  la cronaca locale di ciascuna delle tre aree.  

“Il Popolo del Friuli” – come d’altronde tutti gli organi di stampa dell’Italia del nord occupata – era una emanazione diretta delle autorità nazifasciste, il loro strumento propagandistico funzionale alla formazione di una opinione pubblica allineata, o che si intendeva allineare, alla politica militare della Germania, come si rileva dagli stralci  di seguito riportati.

“Il Popolo del Friuli” cessò la pubblicazione nel 1946, contestualmente alla nascita e all’affermarsi de “Il Messaggero del Friuli-Venezia Giulia”.

Successione delle notizie

Nei  numeri relativi ai primi giorni di agosto non c’era alcun cenno riguardo ai  convogli ferroviari con contingenti   cosacco-caucasici le cui avanguardie  dovevano  essere già giunti nella piana di Amaro.

Vi erano  invece notizie che davano conferme indirette ed oblique della esistenza della Zona Libera della Carnia e dell’impossibilità  o delle difficoltà, da parte dell’amministrazione del Litorale Adriatico, di accedervi.

“Il Popolo del Friuli” del 7 agosto portava infatti le seguenti notizie:

  • il Prefetto di Udine esonerava l’esattoria consorziale di Tolmezzo dall’invio di un incaricato alla   riscossione delle imposte in scadenza il 18 agosto, nei Comuni di Cavazzo Carnico, Lauco, Verzegnis., Villa Santina. I versamenti delle imposte da parte degli aventi obbligo residenti nei predetti   Comuni dovevano essere effettuati o direttamente dagli interessati presso l’esattoria di Tolmezzo,   oppure tramite boni fico bancario;
  • a Verzegnis, le istruzioni militari degli iscritti al Corpo della Riserva della Milizia Territoriale, previste per il 13 agosto erano rinviate al 20 agosto.

Nei numeri del 15 e 18 agosto, nessun cenno alla presenza di militari e civili russi. La cronaca provinciale dava invece risalto ai concerti dati, a Tolmezzo e a Udine.dalle Bande musicali della Milizia Territoriale di Cividale e di Pordenone.

Il 22 agosto, silenzio assoluto sui russi. Si dava invece risalto alla commemorazione del trigesimo della morte di un imprenditore silvopastorale di Paluzza, proprietario della malga Pramolz (o Pramosio). Si trattava della stessa malga, investita appunto il  22 luglio 1944, da una controbanda nazifascista proveniente dall’Austria.

Il trafiletto parlava di “tragico destino”, ma in realtà l’imprenditore era stato una delle 17 vittime  sterminate dalla controbanda, in quella malga. Evidentemente si trattava di persona nota e di rilievo in Carnia della cui morte era necessario dare notizia e tuttavia non si poteva dire la verità ed allora si ricorse alla formula generica del “tragico destino”.

Il 29 agosto, mentre persisteva il silenzio sui 15.000-18.000 russi, certamente giunti e temporaneamente insediatisi nella piana di Amaro e nei Comuni di Gemona, Osoppo, Tarcento, Nimis ove sostennero scontri con le formazioni partigiane  già il 20 agosto, il  quotidiano forniva altre indirette conferme dell’esistenza della Zona Libera di Carnia e dell’impotenza delle autorità  di Tolmezzo ad esercitarvi il proprio controllo.

Il giornale, infatti, nel riportare il calendario degli esami di ammissione alla scuola media  e quello degli esami di riparazione presso l’Istituto Tecnico, l’una e l’altro dislocati  nel capoluogo carnico, lasciava facoltà agli studenti residenti nelle valli carniche (= Zona Libera) di presentarsi in un giorno, a loro scelta, tra tre giorni proposti.

Non così invece per gli studenti residenti a Tolmezzo. Evidentemente, nel cercare di evitare la perdita dell’anno scolastico agli studenti delle valli, si prendeva atto  della anomala situazione creata in Carnia dall’istituzione della Zona Libera.

Il 3 settembre, la cronaca di Tolmezzo riportava la drammatica situazione idrica della cittadina, “A causa della situazione militare della zona”  il Commissario prefettizio ordinava agli sfollati non residenti a Tolmezzo, di trasferirsi altrove anche per la imminente  sospensione dell’assegnazione di viveri minacciata dalle autorità germaniche.

Il 5 settembre, la cronaca  della Carnia riportava l’uccisione, a Tolmezzo, di una donna colpita dal fuoco di “fuorilegge” mentre   recava la colazione al  marito che lavorava alla cartiera. Vi era anche un trafiletto che trattava  in dettaglio la  situazione meteorologica di Ovaro, mettendo a confronto la scarsa piovosità di quell’agosto rispetto al corrispondente mese degli anni passati.

Una situazione  non particolarmente drammatica, l’ultimo dei pensieri della popolazione carnica in genere, che   era stata pubblicata  probabilmente per distrarre l’opinione pubblica dai ben più gravi eventi politici e militari del momento e dare un’impressione di normalità della vita in Carnia.

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L’ 11 settembre: era riportata l’ordinanza  del Commissario prefettizio di Tolmezzo, derivata da specifiche disposizioni delle autorità germaniche, in merito al coprifuoco (chi lo avesse violato, sarebbe stato passato per le armi immediatamente) ed in merito all’obbligo del taglio della vegetazione su una fascia profonda 200 metri tra l’abitato di Tolmezzo e il monte Strabut che lo sovrasta.

Il 13 settembre: la cronaca di Tolmezzo riportava il rinvio degli esami dell’Istituto  Magistrale dal 20 settembre ai primi di ottobre (data non precisata). Per coloro che per motivi bellici non avessero potuto presentarsi alla prima sessione, era prevista una seconda sessione all’inizio dell’anno scolastico.

Il 17 settembre: Il Commissario prefettizio di Tolmezzo ringraziava i volonterosi tolmezzini che avevano saputo rispondere all’appello loro rivolto (non esplicitato) e a proprio rischio personale avevano evitato alle loro famiglie e alla cittadinanza intera più gravi e dolorose sciagure.

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Ad Amaro: il Podestà ordinava il censimento delle biciclette! A  Venzone: si fissava l’orario del coprifuoco. Per tutti i Comuni, venivano fornite precisazioni in merito al rinnovo dei permessi di soggiorno per i non residenti nella Zona di operazione Litorale Adriatico.

Il  21 settembre: compariva per la prima volta il termine “cosacchi”. Si trattava di un trafiletto relativo al Comune di Venzone, nel quale si avvertiva la popolazione che era proibito guadare il Tagliamento al di fuori dei previsti passaggi su passerelle. Soldati tedeschi e cosacchi avrebbero sparato a vista, senza preavviso, contro i trasgressori.

Il  27 settembre: il giornale riportava l’ordine delle  autorità germaniche  al Podestà di Amaro di rimuovere i cespugli, il granturco ed i covoni lungo le strade comunali per una profondità di 200 metri.

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Il  3 ottobre: favorevole commento all’esibizione al teatro Puccini, in Udine, dei cori e dei balletti dei cosacchi del Don, del Kuban e del Terek.

Il 12 ottobre: nessuna notizia relativa all’operazione Waldlaüfer, cioè l’investimento della Zona Libera di Carnia  da parte di massicce forze  nazifasciste, affiancate da forti contingenti cosacchi, operazione iniziata l’8 ottobre  ed ancora in corso il 12 ottobre.

Contestualmente all’offensiva  contro la Zona Libera,  avveniva l’occupazione  dell’intera Carnia da parte dei cosacco-caucasici, con il suo corollario di uccisioni, violenze, distruzioni indiscriminate, rapine. Al riguardo, silenzio assoluto sulla cronaca di Tolmezzo  che invece riportava il necrologio di un giovane alpino tolmezzino, della Divisione Tagliamento morto in combattimento.

Il 20 ottobre: a Tolmezzo, comunicazione in merito al trasferimento degli uffici dell’Ispettorato scolastico e della Direzione didattica  in altri locali della città.

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Il 25 ottobre: nella cronaca di Tolmezzo, era annunciata la festa di Sant’Ilario martire, patrono della città e nell’occasione una giornata di speciali preghiere propiziatorie per “la nostra martoriata Carnia”, chiaro riferimento ai drammatici eventi che avevano sconvolto la vita della popolazione carnica.

Il 1 novembre: rapina di partigiani, a Buia (pedemontana) ai danni di tre fratelli benestanti. Nessun cenno invece all’uccisione,  da parte di partigiani, del Comandan te del presidio caucasico di Comeglians, avvenuta presso l’abitato di Muina (Val Degano) il 31 ottobre, e nemmeno delle dure e reiterate rappresaglie attuate  dai cosacchi e dai caucasici, nei tre giorni successivi, 1, 2 e 3 novembre,  contro la popolazione di Muina.

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Il 21 novembre: direttive del  Commissario prefettizio di Tolmezzo in merito a disposizioni e procedure relative a danni causati da “reparti militari”. I danni riguardavano mobili, suppellettili, biancheria, attrezzature, provviste, veicoli etc.

L’11 dicembre: sulla cronaca di Udine, ma con validità che si ritiene dovesse essere estesa a tutta la provincia, un bando disposto dalle autorità germaniche  in merito alla chiamata delle donne delle classi 1925 e 1926 per prestazioni di lavoro obbligatorio. La chiamata interessava  donne nubili, coniugate senza figli, vedove senza figli.

Il 21 dicembre: la cronaca sportiva di Tolmezzo riportava l’esito di un incontro di calcio che vedeva opposte le  squadre locali delle SS e della Difesa Territoriale. Si trattava  di un episodio del campionato “Coppa Litorale Adriatico” che vedeva partecipare rappresentative militari delle SS, Wehrmacht, Luftwaffe, Milizia Territoriale, Waffen SS Karsjäger,  dei vari presidi  della provincia di Udine.

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Il 22  dicembre: morte della cinquantaduesima vittima del bombardamento alleato effettuato il 22 novembre 1944, ad Osoppo.

Il 17 gennaio: il rappresentante, a Tolmezzo, del Deutscher Berater  di Udine, Conte di Manzano, riuniva i Podestà e Commissari prefettizi della Carnia  ascoltando per due ore i loro desiderata. Alla fine ha assicurato il suo interessamento per la soluzione dei problemi che più interessavano la popolazione carnica.

In sostanza, due sole volte apparve sulla stampa friulana il termine “cosacchi” ed in nessun caso furono esplicitamente annunciati  o notificati alla popolazione friulana l’arrivo, l’insediamento e la funzione delle truppe cosacco-caucasiche nell’Alto Friuli e in Carnia.

Vi sono solo i  riferimenti indiretti  sulla loro presenza in Carnia ma niente più. Per cui, un abitante della bassa pianura friulana, per esempio di Mortegliano, che  avesse voluto aggiornarsi sulla situazione politico militare  nel Litorale Adriatico basandosi esclusivamente sulla stampa locale, mai avrebbe saputo della presenza di militari e profughi russi  collaborazionisti in Friuli, sino almeno  alla primavera 1945, quando  tale presenza si estese quasi fino alla costa adriatica, quindi anche a Mortegliano.

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Avrebbe pensato ad un probabile errore del proto il riferimento a militari cosacchi a Venzone (“Il Popolo del Friuli” del 21 settembre 1944) e per quanto riguarda  il trafiletto comparso sullo stesso quotidiano del 3 ottobre, relativo all’esibizione del coro e del balletto cosacchi  a Udine, al Teatro  Puccini, avrebbe concluso che doveva trattarsi di  una compagnia artistica di passaggio, assoldata dai tedeschi per sollevare il morale della popolazione con un evento culturale.

In conclusione,  la cronaca locale de “Il Popolo del Friuli”, come anche del “Gazzettino”, riguardava  argomenti e aspetti del deterioramento della vita quotidiana, sottoscrizioni per sfollati, sinistrati e profughi dall’Istria, ordini e imposizioni, furtarelli, rapine, etc, senza però mai fare un quadro chiaro della situazione militare, ivi inclusa la presenza dei cosacco-caucasici, che lo aveva determinato.

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Quasi ogni giorno c’era l’annuncio della morte o delle esequie di  uno o più militari della provincia friulana, deceduti al fronte, sulla linea gotica,  o più spesso sul confine orientale del Friuli oppure uccisi in attentati dai partigiani. La notifica di  partigiani catturati, condannati a morte e giustiziati,  nonchè i bandi di presentazione per prestazioni di lavoro obbligatorio erano sempre riportati come prima notizia della cronaca di Udine.

Infine, c’erano, infortuni, rapine di partigiani o pseudo partigiani,  in banca o in case private,  orari di apertura e di chiusura dei negozi,  orari del coprifuoco, ordini di censire animali da cortile e biciclette, disposizioni riguardo tessere annonarie, varianti alla razione viveri, morti accidentali per  incauto maneggio di ordigni inesplosi, annunci economici, spettacoli e programma radio Litorale Adriatico (solo il Gazzettino), risultati delle partite di calcio delle squadre militari, tedesche e italiane, partecipanti al campionato “Coppa del Litorale Adriatico”.

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Per completezza di esposizione, si precisa che veniva pubblicato in Friuli anche un foglio quindicinale, organo della Difesa Territoriale, dal titolo “La Voce della Furlania”. Anche questo, di natura prettamente propagandistica,  ovviamente ignorava la presenza  degli  insediamenti cosacco-caucasici.

Complessità dei rapporti con la  popolazione locale.

Se ne è già parlato e se  ne  parlerà anche nel capitolo successivo, quando eventi specifici coinvolgenti occupanti ed occupati ne forniranno l’occasione. Nel complesso, nel periodo che va dall’agosto 1944 al febbraio 1945, dopo l’iniziale, traumatico impatto, la situazione sembrò stabilizzarsi. Non che le violenze fossero cessate, erano calati gli omicidi indiscriminati e gli stupri, grazie anche agli incessanti interventi del clero, nella persona dell’Arcivescovo di Udine, Mons. Nogara e di molti coraggiosi parroci.

L’Arcivescovo non mancò di intervenire energicamente presso le autorità tedesche di Udine, non sempre con successo,  mentre i parroci si appellarono ai Comandi tedeschi periferici ed agli stessi Comandi cosacchi per limitare gli eccessi dei reparti occupanti. In certe  occasioni, le autorità tedesche intervennero di iniziativa o su richiesta dei vari podestà  per disciplinare i gruppi cosacchi più  turbolenti, specie quelli appartenenti a presidi periferici nei quali la lontananza dai Comandi superiori e, quindi, la mancanza di controlli,  avevano  fatto riaffiorare la natura selvaggia e predatoria  di questi rudi soldati.

Diminuite le violenze maggiori, persistettero però,  fino alla fine della guerra,  le percosse, le bastonature  e le rapine che, stando all’autorevole testimonianza del Prof. Michele Gortani, erano all’ordine del giorno.

Il comportamento degli occupanti nei confronti della popolazione locale, al di là delle pesanti imposizioni e requisizioni a fattor comune ovunque,  variava  a seconda che si trattasse di aree ove forte era la presenza e l’attività dei partigiani o meno. Nel primo caso la violenza dei cosacchi era elevata, nel secondo caso il loro comportamento era più controllato. Se ubriachi, tuttavia,  diventavano pericolosi e violenti, comunque e dovunque.

Il loro rapporto con la popolazione locale variava anche in relazione alla durata  della convivenza di un certo reparto in un dato luogo; vi furono reparti che permasero in uno stesso luogo per tutta la durata dell’occupazione cosacca della Carnia e, in questo caso, fu possibile instaurare nel tempo un certo rapporto, se non di amicizia, almeno di reciproco rispetto e la coesistenza acquistò una parvenza di relativa normalità.

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Nei centri, invece, in cui la rotazione dei reparti era frequente, la popolazione locale fu sottoposta ad un livello di violenza costantemente alto.  Come si è visto, buoni, invece, erano i rapporti tra la popolazione residente e le truppe georgiane che nel marzo 1945 sostituirono i presidi caucasici a Comeglians, ad Arta e a Forni Avoltri.

Il diverso comportamento dei cosacchi e dei georgiani è da attribuirsi, tra l’altro, al diverso “status” della loro presenza in Carnia. Per questi ultimi, si trattava di un normale trasferimento temporaneo per motivi operativi e logistici.

Per i primi, invece, la cosa era diversa: i tedeschi avevano concesso loro l’assegnazione, in proprietà, dell’area carnica, quale insediamento a medio o a lungo termine, fino a quando cioè, sconfitto il regime bolscevico, non fosse stato possibile il ritorno ai loro territori d’origine.

Perciò, quello che secondo gli standard occidentali veniva ritenuto arroganza, prepotenza, furto, per i cosacchi e anche per i caucasici era semplice mente legittimo esercizio del diritto di proprietà, rafforzato dal fatto che tale proprietà era stata conquistata dopo una vittoriosa operazione militare. Un doppio diritto, quindi, di proprietà e di conquista.

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Sotto l’aspetto antropologico culturale, l’occupazione cosacco-caucasica fu anche il confronto, e spesso lo scontro, di due culture diversissime,  quella carnica, occidentale,e quella dei territori  sud-orientali della Russia europea.

I carnici ritenevano incivili questi russi, perchè arretrati, violenti, sporchi, disordinati. L’opinione dei russi nei confronti dei carnici era l’esatto contrario: erano i carnici ad avere  un comportamento incivile e poco educato.

Il diverso modo di intendere  proprietà e atteggiamenti comportamentali è efficacemente  illustrato dalla   Norina Canciani, ventiduenne ragazza carnica  che viveva, a Prato Carnico, con la madre vedova in una casa apparentemente ampia. Nel suo diario essa trascrive il suo primo incontro con i russi avvenuto il 13 ottobre 1944.

Quel giorno si erano presentati in paese un ufficiale tedesco ed, al suo seguito, alcune carrette di “cosacchi” (la Canciani chiama tutti cosacchi, ma questi erano invece caucasici). L’ufficiale tedesco, entrato in casa a prelevare un tedesco ferito, le spiegò che la Carnia era stata assegnata ai cosacchi ed ai caucasici. Essi avevano la proprietà di ogni cosa per cui potevano comportarsi come credevano. Poichè la Canciani aveva fornito assistenza al tedesco ferito, l’ufficiale era disposto a far accompagnare lei e la madre fuori della Carnia,  in Cadore o a Udine a loro scelta.

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L’offerta fu declinata. Commentava la Canciani:”[i russi] hanno carta bianca e speriamo che scrivano cose sopportabili. Noi abbiamo solo il ruolo di vassalli”.

I  caucasici venivano spesso nella Val Pesarina, a prendere fieno, ma solo in dicembre  giunsero circa 80 caucasici per stabilirsi a Prato Carnico. La presa di possesso da parte dei “cosacchi” della sua casa fu fatta seguendo una prassi comune in tutta la Carnia: ingresso da padroni, ispezione della casa, ordini ai proprietari di ritirarsi in uno o due locali, introduzione dei propri bagagli.

Nel caso specifico, si trattava di marito e moglie, vestita di nero e con il chador. L’uomo entrò con prepotenza, scelse per sè  la camera della Canciani e a questa impose di sgomberarla delle sue cose, poi scaricò la carretta portando dentro  moglie, pentole, finimenti per cavalli, piatti, cianfrusaglie varie. Mise poi fuori dalla stanza i due comodini, con i vasi da notte,  ordinando alla giovane di portarli via  e commentando: “Italiani cultura nix”.

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Prese poi dal carro una stufa a legna, la portò in camera, ruppe un vetro per far uscire il tubo. Infine, commentava la Canciani con garbata ironia: “[…] è andato a rifornirsi di legna nella nostra legnaia, anzi, nella sua legnaia”.  Due giorni dopo, data l’ampiezza della casa, altri caucasici vennero ad occupare gli otto letti ancora liberi, portandosi al seguito quattro stufe e rompendo altri quattro vetri.

In pratica, la giovane e la madre erano state confinate in una camera e avevano l’uso di cucina, subordinato però alle esigenze degli ospiti, il resto della casa era a disposizione dei caucasici e spesso, di sera, vi si riunivano anche quelli delle case vicine. Capitava anche che un caucasico, rientrando in casa, vedendo le due donne in procinto di consumere il pasto, si sedesse accanto a loro, non invitato, e prelevasse dalla pentola gran parte di quanto esse avevano preparato per sè stesse.

I russi dimoranti in casa Canciani giudicavano i carnici privi di educazione  perchè si soffiavano il naso con i fazzoletto che poi mettevano in tasca; i russi nò, essi  usavano soffiarselo direttamente per terra, fuori e anche dentro casa Commentava la Canciani “[…] ognuno ha il suo punto di vista e su questo non si può discutere”.

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Stranamente, i tre gabinetti della casa erano sempre puliti e lindi, al contrario del resto della casa frequentata dai russi. La Canciani  chiarì poi il mistero  informandosi da un georgiano coinquilino da cui prendeva lezioni di russo, il quale spiegò che nessun cosacco  si sarebbe servito dei gabinetti, tutti uscivano all’aperto, quando necessario, di giorno e di notte, d’estate e d’inverno.

La Canciani rilevava  anche  che i cosacchi inorridivano alla vista delle donne carniche che portavano la gerla; per loro, i lavori dovevano essere fatti dai cavalli guidati dagli uomini.

La donna caucasica viveva segregata nella sua stanza e non si era fatta vedere dal giorno in cui era arrivata.

La Canciani aveva nascosto in un sottoscala gli insaccati di un quarto di maiale che era riuscita a procurarsi e vi andava furtivamente ogniqualvolta voleva prendere qualcosa. Scoperta da un suo  coinquilino, essa temette di perdere tutto, ma egli la tranquillizzò dicendole che i “cosacchi” erano musulmani  e quindi gran parte di loro riteneva di diventare  immondo nutrendosi   di carne suina.

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In gennaio, per l’arrivo dei Comandanti di Paluzza, i caucasici organizzarono il pranzo a casa della Canciani obbligando lei e la madre di alimentare la stufa prima, per cucinare una pecora e per tener calda la stanza dove, dopo il pranzo, si esibirono due caucasici danzatori. Solo finita la festa le lasciarono andar via.

Ci fu anche il caso di un caucasico  che girava per le case di Prato Carnico cercando chi era disposto a comprare la moglie e la figlioletta di pochi anni, spiegando che si trattava di un affare conveniente perchè la moglie era molto brava. La cosa stupiva  i carnici, ma era naturale per i caucasici.

A metà febbraio, la Canciani era nella sua camera al primo piano quando sentì un cavallo entrare nel corridoio a pianterreno. Accorsa per protestare, trovò due fratelli caucasici, suoi coinquilini, intenti a scaricare della legna. La rabbia si spense,  sostituita da malcelata   commozione,  quando i due le dissero che, in considerazione del fatto che la Canciani madre era vedova e senza un figlio grande che la aiutasse, avevano pensato di provvedere loro alla legna,  probabilmente rubandola da qualche altra parte.

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Alla fine di febbraio, con l’approssimarsi della primavera, le donne di Prato Carnico, come ogni anno, avevano  iniziato, con le gerle, il trasporto del letame nei campi. Procedendo in fila indiana lungo lo stretto sentiero, facevano la spola tra il letamaio e il campo.

I caucasici, a quella vista rimasero sbalorditi continuando a ripetere la solita frase “Italiani cultura niente”. Commentava la Canciani che per loro era inconcepibile far lavorare le donne al posto dei cavalli e non capivano che i carnici  avevano dovuto scegliere   tra il cavallo e la mucca. Tenuto conto del fatto che l’avara terra carnica non dava erba sufficiente per entrambi, avevano scelto la mucca che con il suo latte contribuiva a mantenere la famiglia.

La Canciani concludeva “Noi, agli occhi  dei cosacchi siamo un popolo senza cultura […] essi si sentono superiori a noi, ma anche noi […] ci sentiamo superiori a loro. E’ la guerra che ci ha costretti a vivere assieme, due razze diverse, con modi di vivere inconciliabili e così, sotto sotto, ci disprezziamo a vicenda”.

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A proposito di un caucasico che si era innamorato  di una ragazza locale, felicemente contraccambiato, la Canciani argomentava che, in prospettiva, quella sarebbe stata la soluzione di molti problemi: cosacchi che sposavano le carniche e i carnici che sposavano le cosacche.

Alla fine di febbraio, i caucasici erano rimasti senza viveri per ritardi nella consegna delle razioni da parte dell’intendenza tedesca. Così, il Comandante dei caucasici e i rappresentanti della popolazione di Prato Carnico si accordarono per distribuire i soldati tra le famiglie condividendo quel poco che c’era.

Alla Canciani toccarono una decina di commensali. Rifletteva la giovane che i caucasici volendo, avrebbero potuto requisire con la forza i viveri e magari lasciar morire di fame i locali e tuttavia non lo avevano fatto.  Tra le due parti quindi si era creato un certo legame di solidarietà ed un reciproco rispetto che la ragazza avvertì ed apprezzò.

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A fine  marzo  corse voce che i russi progettavano di dividere tra loro le terre da coltivare, come già avevano fatto o stavano per fare nella conca di Tolmezzo. Ciò preoccupò non poco i locali che ritardarono la semina in attesa degli eventi.

Il confronto tra le due culture, quella degli occupati e quella degli occupanti, si sviluppò negli altri centri della Carnia in termini  non dissimili da quelli rilevati da Norina Canciani a Prato Carnico.

Prima di chiudere il diario di Norina Canciani, si ritiene utile riportarne una sapida annotazione del 25 novembre 1944,  lapidaria ma al tempo stesso eloquente, in merito alla pressione esercitata sui carnici dai cosacchi, ma anche da altri poteri che si succedettero e si sovrapposero, l’uno sull’altro,  riempiendo il vuoto di potere  creatosi nell’Italia centro settentrionale dopo l’8 settembre 1943.

L’annotazione prendeva spunto dalla descrizione  della tecnica da usare per spaccare i ceppi nodosi di legna da ardere: “[…] occorre puntare il cuneo di ferro sulla vena debole del legno da rompere, poi concentrarsi al massimo pensando a tutta la rabbia ammucchiata dentro contro tedeschi, partigiani, cosacchi e alleati, alzare il grosso mazzuolo e calarlo sul cuneo preciso. A quella forza bruta e scatenata, quasi nessuna  legna resiste […]”.

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Atteggiamento delle autorità fasciste nei confronti delle truppe  Cosacco-caucasiche in Carnia

Al di là  delle reiterate  dichiarazioni ufficiali delle autorità della Repubblica Sociale Italiana, delle insistenti espressioni di cameratismo  e delle quotidiane affermazioni  inneggianti all’indissolubile vincolo di amicizia  che legava l’Italia repubblicana alla Germania, intese a rafforzare l’opinione pubblica italiana sulla perfetta identità di vedute tra i due Paesi, forti erano i contrasti sotterranei che opponevano le autorità fasciste,  agli arroganti occupanti tedeschi.

Lo stesso Mussolini avvertiva la frustrazione  e l’impotenza della sua posizione,totalmente  dominata da Berlino, mantenuta solo in funzione dei prevalenti interessi tedeschi. Emblematico, al riguardo, il suo inutile intervento nella  situazione  delle due Zone di Operazione, in Veneto e nella Venezia Giulia. Sin dal suo insediamento quale Capo del Governo Fascista Repubblicano, aveva ripetutamente incaricato il proprio Ambasciatore a Berlino, Filippo Anfuso, di rappresentare a Hitler il suo disappunto  per la creazione, da parte dei tedeschi,  delle due Zone di operazione Alpenvorland e Adriatisches Küsterland che, di fatto, costituivano due entità territoriali sottratte alla sovranità italiana.

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Fu questa una preoccupazione costante di Mussolini anche perchè le assicurazioni di Hitler e di Ribbentrop secondo i quali si trattava di misure temporanee dettate da esigenze militari, e che una volta finita la guerra tutto sarebbe tornato come prima, erano quotidianamente smentite, nei fatti, dal comportamento dei due Gauleiter Höfer e Rainer che continuarono imperterriti a imperare rispondendo direttamente e solo alla  Cancelleria del Reich, respingendo ogni tentativo di  ingerenza della R.S.I. nelle due Zone di operazione.

Anche la stampa friulana, come si è visto, direttamente controllata dalle autorità tedesche, aveva osservato un compiacente silenzio sull’umiliante assegnazione ai  russi collaborazionisti  di una cospicua parte della provincia di Udine.

Ma furono gli stessi esponenti fascisti friulani o residenti in Friuli,  se non altri,  a rappresentare al Governo di Salò l’ingenerosa ferita inferta delle autorità tedesche all’Italia con l’insediamento, di una consistente, ingombrante e brutale comunità  cosacco- caucasica, in Carnia, deciso a Berlino e concordato con il Comando SS di Trieste che continuarono imperterrie ad impedire qualsiasi intromissione  della R.S.I. nelle due zone di operazione.

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Il Ministro della Giustizia della RSI, l’udinese Piero Pisenti, alla fine di settembre, dopo una visita all’Arcivescovo di Udine Mons. Nogara, inviò un memorandum a Mussolini lamentando la progettata occupazione  della Carnia (al momento limitata alla piana di Amaro) e le sofferenze della popolazione.

Più eloquente e dettagliata, al riguardo, è la relazione , compilata  probabilmente alla fine del 1944  da un altrimenti non noto  Prof. Alberto Giannone, domiciliato a Nimis,  indirizzata al Ministro dell’Economia Corporativa, Angelo Tarchi.

Piero Pisenti

Piero Pisenti

Il Giannone gli si rivolge con il “tu” confidenziale. Un rilevante stralcio della lettera è costituito dalla denuncia della drammatica situazione creata dall’occupazione cosacco-caucasica in Carnia e nell’Alto Friuli. Dopo una premessa  sulla presenza, nella primavera 1944, della guerriglia partigiana nel Friuli orientale e nella Carnia, tutto sommato preferibile alla successiva presenza cosacca,  Giannone,  comunicava che il 20 agosto 1944 truppe cosacche erano giunte a Nimis occupando l’abitato e stabilendovi il fronte avanzato della difesa contro le bande partigiane sulle Prealpi Giulie. Giannone si soffermava poi sull’occupazione dei collaborazionisti russi della fascia pedemontana e della Carnia:

“[…] Sono arrivati a torme, con i carri, le donne e i bambini entrando nelle case e cercando di espellerne gli abitanti […]. Nel territorio di Nimis, ogni giorno requisizioni di cavalli, bestie uccise, fieno e frumento dati in pasto  ai loro cavalli, furti in lungo e in largo […].  

In 12 giorni, hanno fatto più danno loro che un esercito di cavallette. Non sono, queste, voci raccolte, ma cose vedute da me stesso che ho preso parte a varie discussioni per quanto si tratti di individui con i quali si discute malissimo perchè non sanno che la loro lingua e per di più pretendono di essere compresi. […].

Angelo Tarchi

Angelo Tarchi

Vi sono stati diversi morti,  uccisi da soldati russi ubriachi, con la scusa che erano partigiani, per fare rapine o perchè volevano avere delle donne, e poi sepolti quà e là nei campi.

I tedeschi, non sembra abbiano autorità su questa gentaglia. I cosacchi non riconoscono ordini, documenti etc. rilasciati dai tedeschi e nemmeno da altri Comandi cosacchi che non siano i loro. Ai militari russi, si aggiungono i russi borghesi […]. Questi campano come zingari, un po’ di furti e un po’  di elemosina. Fra militari e borghesi sono già quasi 30.000 […].

I russi borghesi dicono che avevano avuto promesse  di terre   da coltivare e case già pronte e, arrivati qui, credevano che questa fosse la terra promessa. Dicono che questa orda stia passando per andare in Istria e colonizzarla […]. Quando sarà passata, avrà lasciato qui miseria, lutti, e odio contro loro e chi li ha mandati. Certo, il popolo italiano ha fatto un grande errore ed in esso persevera, e meriterebbe una punizione […].

Ma questa, più che una punizione, è un’onta, la vergogna delle vergogne. Ci pensi, dover essere governati da questi selvaggi in ogni senso, analfabeti (anche in cirillico) […]. La necessità di una vasta azione repressiva contro i partigiani non giustifica certo l’immigrazione di un altissimo numero di cosacchi, giunti  dall’Est con donne e bambini, con la promessa che era loro garantita la terra e le case […]. I cosacchi apparvero [in Carnia] il 9 ottobre e seguenti divisi in due ondate: una, quella   combattente o presunta tale,  perchè non combatte affatto, ma commette solo violenze, e l’altra formata da uomini e donne che presero posto nelle case installandovisi stabilmente…

I fascisti repubblicani in Friuli assistono impotenti a tanta rovina […]. I cosacchi,  giunti nelle diverse località assieme alle rispettive famiglie, hanno commesso diversi omicidi  ed atti di violenza. Sono state violentate, in Carnia, 62 donne[…], nè si è avuto riguardo  a condizioni di età (tra le vittime  vi sono donne di 12-13-15 anni) nè a allo stato di avanzata gravidanza di alcune.

Durante le operazioni, vennero saccheggiati in modo sistematico i primi paesi contro i quali  irruppe l’impeto delle truppe cosacche, anche se non vi incontrarono alcuna resistenza […].

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Vennero ricercati dai razziatori gli animali da cortile, le pecore, le capre di cui fu fatta strage; meno gravi le perdite di bestiame bovino e suino, ove si eccettui qualche località come Imponzo e Illeggio, ove se ne perdette la massima parte […].  Va rilevato il particolare accanimento che si è verificato contro le chiese, gli arredi sacri e i sacerdoti che tentarono di difenderli. […]. A Casanova di Tolmezzo, due giovani deficienti che si stavano lavando in casa furono spinti fuori, percossi e uccisi. Un altro giovane di 20 anni fu ucciso mentre tornava in paese con un secchio di latte, un quarto giovane di 30 anni venne fucilato quella stessa sera mentre tornava dalla stalla tenendo una bambina per mano […].

Un gravissimo onere per la popolazione è costituito poi dagli innumerevoli cavalli che i russi conducono seco; nella Carnia, al momento ve ne sono 6.000 e il consumo di fieno è tale che le conseguenze saranno risentite tra non molto quando si dovrà abbattere il bestiame.

[…] L’opera di devastazione è continuata e continua tuttora nei piccoli paesi dell’Alta Carnia, completata da uccisioni, grassazioni e prepotenze verso le persone. La popolazione carnica, dopo aver invocato provvedimenti immediati, ha benedetto quanto in suo favore   il Duce ha disposto tramite il Federale di Udine […]

Una relazione, quella inviata da Giannone al Ministro Tarchi, che non lasciava spazio a dubbi o a interpretazioni di comodo. Era una denuncia impietosa, cruda  e spietata del dramma creato dalla venuta dei collaborazionisti russi in Friuli.

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Mussolini

Una  denuncia,  lanciata sia contro i russi  sia  contro  chi li aveva mandati o chiamati  in Italia,  così  realistica  che  avrebbe potuto tranquillamente  essere  condivisa e sottoscritta, in termini non molto dissimili, anche dal più acceso antifascista  rappresentante del CNL friulano, a parte il riferimento finale all’intervento assistenziale disposto dal Duce.

Il Governo di Salò e Mussolini stesso erano quindi perfettamente al corrente  e degli insediamenti cosacco-caucasici e dei loro devastanti effetti sulla popolazione locale. Il Governo non promosse tuttavia alcuna iniziativa politica al riguardo, forse conscio della sua impotenza e dell’inanità di qualsiasi intervento  presso le autorità tedesche.

Nel caso specifico, esso si limitò a trasmettere informalmente  all’Ambasciatore tedesco, Rudolph Rahn,  copia della relazione del Prof. Giannone. La lettera di accompagnamento,  redatta per dovere d’ufficio, in termini estremamente blandi, servili più che cortesi, è priva di qualsiasi protesta o richiesta di provvedimenti correttivi,  e sembra  voler sdrammatizzare la gravità dei fatti contenuti nella relazione, quasi a voler dire: “non ci credo  e, se  risponde a verità,  non ha per me molta importanza”.

Serafino Mazzolini

Serafino Mazzolini

La firma in calce alla lettera è illeggibile, ma dal tono amichevole e confidenziale  potrebbe trattarsi del Sottosegretario agli Esteri,  Serafino Mazzolini o dal Capo di Gabinetto, Consigliere d’Ambasciata Mellini. Pare di poter escludere che la lettera sia stata firmata dallo  stesso Mussolini.

La  fase  finale  dell’occupazione  cosacco-caucasica  in Carnia – (Febbraio – 2  Maggio 1945)

 L’arrivo in Carnia dell’atamano Gen. Pyotr Nikolaevich Krassnov

Pyotr Krassnov

Pyotr Krassnov

Nella prima quindicina  del mese di febbraio, il settantaseienne atamano Pyotr Krassnov, giunse in Friuli, proveniente da Berlino, con la consorte Principessa Lidia Fedeorovna, stabilendosi inizialmente in una villa nei pressi di Gemona.

Subito dopo il suo arrivo, corse voce che il Gen. Domanov avrebbe costretto Krassnov a cedergli il Comando dell’Armata cosacca. La notizia del passaggio dei poteri militari sarebbe stata diffusa da Krassnov con il proclama n° 4 del 14 febbraio 1945, ma il testo non faceva affatto cenno al passaggio di poteri, anzi, Krassnov in esso esprimeva apprezzamento per l’operato di Domanov e la sua “amichevole e cordiale accoglienza” e ne confermava le funzioni di comandante  dell’Armata cosacca facendo infine appello alla necessità che tutti concorressero all’obiettivo comune di lotta al regime sovietico, ciascuno per la parte di competenza.

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La circostanza del contrastato passaggio dei poteri non emerge quindi dal proclama ed in ogni caso essa è irrilevante perchè, se vera, avrebbe potuto variare le funzioni, ma non la subordinazione gerarchica di Domanov  all’atamano Krassnov. Domanov poteva essere ed era il Comandante militare dell’Armata cosacca ma, come tale, era in ogni caso subordinato a Krassnov,  Presidente dell’Amministrazione degli eserciti cosacchi o del Governo cosacco in esilio.

In breve, Krassnov aveva l’autorità politica sull’Armata, mentre Domanov esercitava il comando militare. Alla fine di aprile 1945, nel periodo critico del collasso della Germania, Krassnov accentuò il suo ruolo relegando Domanov alle mere funzioni esecutive  di  Capo di Stato Maggiore.

D’altra parte, la fama ed il carisma di Krassnov, leggendario combattente contro i bolscevici, con Kerensky prima e con le Armate Bianche poi, erano grandissimi presso la comunità cosacca e la sua autorevolezza sovrastava quella di Domanov che dopotutto, fino al 1941, era stato un oscuro Maggiore dell’Armata Rossa, circostanza  questa che non contribuiva alla sua popolarità in ambito cosacco, in genere,  e negli ufficiali zaristi emigrati all’estero, in particolare.

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Anche il modo in cui era succeduto all’atamano Pavlov, ucciso in circostanze misteriose poco prima di scendere in Italia, non poteva che suscitare diffidenza se non ostilità. Nessuna meraviglia quindi che i rapporti tra Krassnov e Domanov fossero piuttosto freddi, ma questo non influiva sulla gestione dell’Armata cosacca; Domanov “governava” e Krassnov “regnava” almeno, come precedentemente detto, a fine aprile quando, venuta meno l’autorità militare tedesca,  Krassnov  avocò a sé il potere decisionale.

Il 27 febbraio, l’atamano Krassnov  si trasferì in Carnia, a Villa di Verzegnis, viaggiando con la consorte in una carrozza e scortato da un consistente drappello cosacco a cavallo. A Verzegnis, era stato requisito l’albergo Savoia. Lungo il tragitto, si assieparono i cosacchi dei vari presidi per acclamarlo. Giunto a Villa di Verzegnis, ricevette il rispettoso  omaggio dei cosacchi del presidio che si inginocchiarono  facendo tintinnare le sciabole al contatto con il selciato. Tre cosacchi porsero all’atamano un piatto d’argento con sopra del riso. Krassnov si chinò e lo baciò secondo il costume cosacco.

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All’albergo Savoia Krassnov fissò la sua residenza ed il suo Quartier Generale. I cosacchi vi avevano portato preziosi tappeti, icone, suppellettili russe o francesi  trasformando l’albergo, per quanto possibile, in una  fastosa residenza russa dei primi anni del Novecento. Anziani ed eleganti ufficiali nell’uniforme dell’esercito imperiale si aggiravano nei corridoi e nelle stanze trasformate in uffici.

L’arrivo dell’atamano Krassnov non era sfuggito alle formazioni partigiane che però non ne furono particolarmente colpite anche perchè ignoravano i suoi trascorsi e la sua fama. La “Osoppo”  aveva diffuso la notizia consigliando di non recare molestia al sua Quartier Generale, tenuto conto anche del fatto che, nella valle omonima, erano accantonati circa 3.500 militari cosacchi. In effetti, quell’area non subì attacchi partigiani.

Nel suo Quartier Generale egli non riceveva nessuno, se non Generali e qualche principessa russa o georgiana, giunta da chissà dove, che egli accoglieva con il rituale protocollo  di un tempo ormai trascorso. Mai accettò  di trattare con rappresentanze di partigiani,  che riteneva espressioni del  bolscevismo sovietico,  nè con delegazioni della popolazione locale perchè non all’altezza del suo rango.

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Kassnov si intratteneva invece amabilmente  solo con don Boria, parroco di Verzegnis che verosimilmente gli rappresentava le sofferenze della popolazione e al quale prometteva di far cessare o di mitigare le sopraffazioni cui i cosacchi spesso si abbandonavano.

Usciva in macchina,  con una scorta di 48 cavalieri che indossavano uniformi sgargianti, ma faceva anche delle passeggiate a piedi,  accompagnato dalla consorte Lidia  che rispondeva graziosamente al rispettoso  saluto delle donne intimorite che incontravano per strada.

Accarezzava  qualche bambino per strada o proteggeva qualche contadino dalle angherie dei suoi uomini, mostrandosi benevolente e paterno, ma erano gesti che si annullavano di fronte al cumulo di prevaricazioni  perpetrate dai suoi soldati.

La presenza in Carnia del prestigioso atamano galvanizzò il morale dei cosacchi che ripresero  con rinnovata energia la caccia ai partigiani. Questi, con l’approssimarsi della fine dell’inverno, e contando sull’imminente spallata alleata sulla linea gotica, si stavano riorganizzando  e ricompattando.

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I cosacchi attuarono audaci colpi di mano preventivi ad iniziare dal 28 febbraio, che  infersero duri colpi alla Brigata “Garibaldi-Carnia” i cui vertici caddero combat tendo o furono catturati, consegnati ai tedeschi e successivamente fucilati.

Ampliamento dell’area di responsabilità  dell’Armata cosacca e riorganizzazione della stessa

Gradualmente, l’occupazione cosacca, su pressione dell’Alto Comando tedesco in Trieste, si estese alle Prealpi Carniche, alla fascia pedemontana ed anche alla pianura friulana.  Si trattava in genere di presidi mobili, cioè di unità che rimanevano su una determinata località per alcuni giorni  e poi si spostavano altrove.

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Per esempio, alla metà del mese di marzo 1945 un battaglione cosacco era giunto a Castions di Strada, Morsano di Strada, Mortegliano, come già visto nel Cap. IV. Contingenti cosacchi erano presenti lungo la pedemontana di destra Tagliamento:, a Malnisio,  Grizzo, a Giais (pressi di Aviano) costituendo una cintura di sicurezza a favore di consistenti  unità tedesche di stanza a Roveredo in Piano, ed altre località del pordenonese.

Anche a Montereale Val Cellina vi era un piccolo presidio cosacco. La presenza di presidi cosacchi in Val Cellina vera e propria è invece esclusa  da Pier Arrigo Carnier il quale  sostiene che i cosacchi parteciparono sì  al rastrellamento della valle nell’ottobre 1944, ma poi furono subito ritirati. D’altra parte, Don Sesto Da Pra, titolare in quegli anni della Parrocchia di Lorenzago (BL), nelle sue note storiche dal 13 giugno 1944 al luglio 1945, trascrisse sul suo diario che nei  giorni 17-18 e 22 aprile 1945, quando era apparente l’imminente crollo delle armate tedesche in Italia, militari cosacchi e civili cosacchi transitarono da Lorenzago verso il Passo della Mauria, diretti in Carnia.

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Poichè è  escluso che vi fossero truppe cosacche o caucasiche nella provincia di Belluno (Alpenvorland), è ragionevole supporre che forse si trattasse di cosacchi dislocati nella Val Cellina o al suo sbocco nella pianura friulana, Montereale Val Cellina. Dovendosi riunire all’Armata cosacca in Carnia, questi avrebbero ritenuto più conveniente e più sicuro percorrere  la Val Cellina, scendere nella Valle del Piave, risalirla  fino a Lozzo e poi dirigersi in Carnia  attraverso il Passo della Mauria.

Nelle Prealpi  Giulie, area di Nimis, Tarcento, Artegna, Faedis, Cividale, truppe cosacche e caucasiche erano presenti sin dall’agosto 1944. Nella primavera 1945,  esse vennero rinforzate con  l’inserimento di altre unità dell’Armata cosacca e la linea del fronte venne spostata più ad est sui passi prealpini per arginare l’aggressività delle forze slave.

L’estensione a vaste aree del Friuli dell’impegno militare di truppe cosacco-caucasiche, disposto dall’Alto Comando tedesco di Trieste, era stato possibile anche per l’afflusso sempre più consistente di  contingenti russi collaborazionisti in ripiegamento dai Balcani  ove, alle forze dell’esercito di liberazione jugoslavo, si erano affiancate  unità dell’Armata Rossa  provenienti dall’Ungheria.

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In aggiunta a queste truppe giunte dai Balcani,  le autorità tedesche, a causa  della rapida avanzata  dell’Armata Rossa sulla riva destra dell’Oder, inviarono in Carnia, dalla Germania altre unità cosacche e intorno alla metà del mese di marzo la Legione georgiana, in pratica un Reggimento come precisato in precedenza, che si insediò a Comeglians e ad Arta ove sostituì i presidi caucasici inviati in pianura e sulle Prealpi Giulie.

Nelle confuse e caotiche settimane che seguirono, altre truppe georgiane provenienti dai Balcani si unirono alla Legione. Questa era comandata da un principe, ma ben presto giunse una giovane e bella principessa, molto influente nel movimento politico “Giorgio Bianco”, che si impose come  la figura dominante della Legione.

Inquadrata nelle Waffen SS, la Legione  dipendeva direttamente  dall’Alto Comando tedesco delle SS in Trieste e quindi era autonoma rispetto sia all’Armata cosacca che alla Divisione caucasica.

A questi continui arrivi di nuove truppe, in parte disposti da Berlino in parte imposti dall’arretramento del fronte balcanico, sono probabilmente dovute le contrastanti stime sulla consistenza numerica dei cosacco-caucasici,  argomento già esposto nel Cap. III, stime  che riprendono  tempi diversi  della loro presenza in  Carnia.

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Quella più attendibile in questo scorcio di tempo,  sembra essere quella di fonte inglese che, alla data del 16 maggio, a conflitto concluso, fa ammontare l’entità dei cosacchi presenti nell’area di Peggetz (alta valle della Drava) a 22.009  unità (militari e civili) e a 4.800 quella dei caucasici accampati nell’area di Oberdrauburg (pochi km più a est), dati approssimativi ma più convincenti degli altri, perchè basati sulla quantità di razioni erogate.

Nella primavera del 1945, aveva preso intanto corpo la riorganizzazione dell’Armata cosacca. Già nell’autunno 1944, su pressione dell’Alto Comando tedesco, in Trieste, era stata prospettata l’esigenza di disporre di uno strumento militare diversamente articolato, anche per contenere le spinte autonomiste che la caratterizzazione regionale dei Reggimenti cosacchi tendeva ad alimentare.

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In sostanza, si trattava di applicare all’Armata cosacca di Domanov il modello adottato dal XV Corpo cosacco di cavalleria del Gen. von  Pannwitz operante in Jugoslavia. Questo era formato da due Divisioni di cavalleria, articolate in Brigate e Reggimenti. La nuova fisionomia organica assunta dalle truppe cosacche in Friuli, fu la seguente: scomparve la vecchia denominazione di “Armata cosacca”, sostituita da quella di “Corpo speciale cosacco”.

Questo   aveva alle proprie  dipendenze:

  •  1a e 2Divisione di fanteria, ciascuna su due Brigate miste, articolate su  due  Reggimenti e supporti tattici e logistici;
  •  un Reggimento di cavalleria (750 sciabole);
  • Gruppo “Convoy” di cavalleria cosacca dell’atamano (700 sciabole);
  • Guardia personale del Gen Krassnov (48 sciabole);
  • Guardia personale del Gen.Domanov (45 sciabole);
  • Gruppo di Polizia a cavallo (386 sciabole).

Rimanevano immutate la Scuola allievi ufficiali, la Scuola di Guerra, il Gruppo speciale “Ataman”; la Riserva del Corpo speciale cosacco (1.400 sciabole) comandata dal Gen. Andrej Shkurò ed i vari supporti amministrativi e logistici.

L’entità complessiva della nuova Grande Unità cosacca ammontava a 20.000 armati.

Tensioni  in seno al Corpo speciale cosacco

Il caso Naumenko

Tra i vari Reggimenti cosacchi, le fisiologiche  frizioni,  rivalità,  emulazione e competizione,   tipiche e riscontrabili   in qualsiasi esercito, erano aggravate dalle forti spinte autonomiste dei vari  Reggimenti regionali, principalmente  del Don, del Terek Stravopol, del Kuban.

Viaceslav Naumenko

Viaceslav Naumenko

A questa irrequietezza interna si era ovviato con la riorganizzazione  dell’Armata in cui si era cercato di frantumare  l’identità e la caratterizzazione regionale con la creazione di unità miste nelle quali tali spinte si diluivano.

Più insidiosa e distruttiva  era invece  la ricerca del potere ai vertici dei cosacchi da parte di alcuni Generali, in particolare  del Generale  Viaceslav Naumenko, atamano del Kuban. Egli era nato nel 1883, nel Kuban. Dopo aver frequentato l’Accademia militare aveva partecipato alla prima Guerra Mondiale e dopo la Rivoluzione d’ottobre, aveva preso parte alla guerra contro rivoluzionaria guidando il 4° Corpo di cavalleria del Kuban.

A seguito della sconfitta delle forze  controrivoluzionarie, Naumenko era riparato in Grecia, nell’isola di Lemnos ove, su indicazione del Gen. Wrangel che stava combattendo l’ultima battaglia contro l’Armata Rossa in Crimea, era stato  eletto dalla rada (assemblea) atamano dei cosacchi del Kuban.

Rimasto in esilio, dopo che  nel 1941 la Germania aveva attaccato l’URSS, Naumenko, assieme a Krassnov, fu tra i primi ufficiali Bianchi ad accorrere a Berlino e ad offrire i suoi servigi nella lotta contro il bolscevismo, ritenendo fosse un’occasione favorevole per ottenere dai tedeschi, sicuri vincitori, i  vecchi privilegi delle comunità cosacche.

Viaceslav Naumenko

Viaceslav Naumenko

All’inizio, le autorità tedesche respinsero l’offerta presumendo di poter battere  da soli i sovietici senza l’aiuto di slavi untermenschen (sub-umani), anche se bene intenzionati. Quando tuttavia, l’Armata Rossa  rivelò la sua insospettata capacità di reazione opponendosi validamente alle armate tedesche  e prendendo l’iniziativa dopo  Stalingrado, come si è precedentemente visto,  le autorità tedesche presero in seria considerazione l’ipotesi di collaborazione militare delle truppe cosacche.

Il 10 novembre 1943, come noto, con un documento sottoscritto da Rosenberg, Ministro per i territori occupati dell’Est e Keitel, Capo di Stato Maggiore della Wehrmacht, il Governo tedesco riconosceva il diritto all’autonomia cosacca, alla proprietà  delle terre degli avi e gli antichi privilegi dei cosacchi.

In cambio, il Governo tedesco chiedeva ai cosacchi fedeltà, obbedienza e la loro collaborazione allo sforzo militare tedesco per abbattere il bolscevismo. Il documento formalizzava una collaborazione che  nei fatti già esisteva: quella del XV Corpo di cavalleria del Gen. von Pannwitz e quella, in fieri, della comunità cosacca guidata dall’atamano Pavlov e dal Col. Domanov che nel novembre 1943 vagava, sotto il controllo del Ministero dei Territori occupati dell’Est, in Ucraina, Bielorussia e in Polonia e che sarebbe poi stata inviata in Carnia.

Nel marzo 1944, era stata  ufficialmente costituita l’Amministrazione degli eserciti cosacchi, presieduta da Krassnov, sotto il controllo dell’esercito tedesco. Era di fatto l’organo di governo che tuttavia mai funzionò per l’effetto paralizzante che ebbero su di esso i contrasti interni degli atamani cosacchi.

Essi infatti erano divisi tra due correnti: quella più radicale, separatista (uno Stato indipendente cosacco) e quella monarchica  che propugnava invece una Kosakjia autonoma sì,  ma inserita in una grande Russia, tesi sostenuta da Krassnov.

Naumenko non risulta aver avuto alcun Comando operativo nell’Armata cosacca   di Pavlov prima e di Domanov poi.  Non sembra nemmeno sia mai giunto in Friuli se non, forse, per una fuggevole visita a Krassnov peraltro non registrata  da alcuno storico.

Egli rimase sempre a Berlino ad occuparsi dell’Amministrazione degli eserciti  cosacchi, per conto di Krassnov, trasferitosi in Carnia. Nel frattempo, nel febbraio 1945, Vlasov aveva creato in seno al KONR (Comitato di Liberazione dei Popoli della Russia)  un Consiglio delle truppe cosacche con l’intento di convincere tutti i cosacchi ad unirsi alla ROA (Armata di liberazione della Russia)  nella lotta contro il comune nemico bolscevico anche senza l’appoggio tedesco.

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Krassnov aveva subito inviato una lettera a Vlasov, con toni che riflettevano i freddi rapporti tra i due,  nella quale respingeva  come irrealistico il proposito  di combattere  il bolscevismo  senza l’appoggio tedesco e rivendicando l’autonomia delle truppe cosacche, pur nel quadro di uno sforzo militare comune, ribadendo che lo scopo finale dei cosacchi era quello di ripristinare i loro propri diritti sulle terre d’origine senza naturalmente ledere i diritti dei non cosacchi che in quelle terre risiedevano  da tempo.

Attratto dalla propaganda di Vlasov al riguardo, Naumenko, aveva aderito al progetto divenendo membro del Consiglio delle truppe cosacche presso il KONR e trasferendosi presso di esso, a Salisburgo. Lo aveva fatto senza chiedere l’autorizzazione di Krassnov e senza nemmeno informarlo.

Con questa iniziativa, egli intendeva sottrarre all’autorità di Krassnov e di Domanov, le truppe cosacche del Kuban stanziate in Carnia, precisamente, nell’area di Cavazzo Carnico, Trasaghis, Alesso,  e porle a disposizione di Vlasov. Naumenko in realtà non aveva alcun comando operativo su tali truppe, ma per  disporre  il loro cambio di dipendenza si avvalse dei poteri di atamano del Kuban, nomina acquisita nel 1920 a Lemnos.

La notizia fu diffusa via radio dal KONR  il 22 marzo 1945. Sdegnato, di fronte alla minaccia di  disgregazione del  Corpo speciale cosacco, Krassnov  reagì  duramente. Anzitutto annullò il 23 marzo  il cambio di dipendenza disposto da Naumenko, contestando la legittimità della sua nomina ad atamano  del 1920. Egli sostenne che l’elezione  era stata effettuata da 35 membri della rada anzichè dai 580 previsti.

Inoltre non erano stati firmati i verbali delle elezioni nè era stato dato a Naumenko il decreto ufficiale di nomina. Egli quindi non aveva nessuna facoltà o potere sui cosacchi del Kuban. Il documento di Krassnov  fu fatto pervenire immediatamente a tutti i Comandi dipendenti. Il 24 marzo 1945,  Krassnov riunì a Tolmezzo tutti i vertici militari cosacchi per stigmatizzare l’operato di Naumenko e confermare la nullità del suo ordine di cambio di dipendenza, da Domanov a  Vlasov, delle truppe del Kuban.

Il 26 marzo fu indetta una riunione dell’assemblea dei cosacchi del Kuban che si pronunciarono contro il trasferimento delle truppe del Kuban alla ROA. Il verbale della riunione fu trasmesso anche a Vlasov.

Ma Krassnov non era soddisfatto, perciò incaricò la gendarmeria cosacca di indagare su eventuali legami di qualche ufficiale del Kuban con il Gen. Naumenko. I risultati non si fecero attendere:  un Colonnello fu arrestato per aver svolto propaganda a favore di Vlasov. Con la stessa accusa fu rimosso e trasferito ad altro reparto un Generale cosacco del  Kuban.

L’ufficiale di collegamento della ROA presso il Comando di Domanov rimase,  proprio a sottolineare l’immutata esigenza di coordinare le attività su un piano, però,  di parità tra la ROA e il Corpo speciale cosacco in Carnia.

Il 27 marzo 1945 Vlasov inviò  a Krassnov  una lettera conciliatoria che sdrammatizzava  i motivi del contrasto. Tuttavia, egli nominò Naumenko Comandante dei cosacchi della  ROA.

Epilogo dell’occupazione cosacco-caucasica in Carnia

Superata la crisi creata dalla defezione del Gen.  Naumenko, passato al KONR  del Gen. Vlasov, Krassnov indisse alla fine di marzo, a Verzegnis presso il suo Comando,  una riunione cui parteciparono gli atamani e i vertici militari del Corpo speciale cosacco.(ex Armata cosacca).

Krassnov fece il quadro della situazione  sottolineando le difficoltà della Germania ad opporsi efficacemente alla pressione alleata sui vari fronti, specie su quello orientale,  dove l’Armata Rossa era giunta sull’Oder vale a dire a circa 70 km. dal cuore di Berlino. Era probabile, spiegava Krassnov, che le forze tedesche schierate sulla linea gotica ripiegassero sulle Alpi, per reiterare lo sforzo difensivo su posizioni più vantaggiose.

Il tal caso, il Corpo speciale cosacco avrebbe avuto il compito di garantire la sicurezza  al ripiegamento delle unità tedesche, nel settore di propria competenza, la Carnia. Le truppe cosacche, quindi, dovevano essere portate ad uno stato di elevata prontezza operativa, e rese disponibili, su ordine delle autorità tedesche, ad assolvere il compito loro assegnato. Intanto era necessario riprendere,  con maggior vigore,  la lotta contro le formazioni partigiane.

Tutti i partecipanti alla riunione assicurarono la fedeltà delle loro truppe a Krassnov ed alla Germania. Ognuno sapeva che, in caso di sconfitta della Germania, sui collaborazionisti russi si sarebbe abbattuta  l’inesorabile vendetta di Stalin e perciò  capivano che era necessario rimanere uniti e fare ogni sforzo perchè tale sconfitta fosse evitata o almeno ritardata.

Negli stessi giorni, a Prato Carnico, analoga  consapevolezza fu espressa ad una ragazza locale da parte di un  soldato georgiano in servizio presso quel presidio.

Nella riunione di Verzegnis, fu anche stabilito che l’atamano Krassnov si sarebbe mantenuto in contatto con il Comando della ROA del Gen. Vlasov per concordare una comune linea d’azione in relazione allo sviluppo degli avvenimenti.

Il Corpo speciale cosacco, come noto,  si era intanto esteso ben oltre i confini della Carnia. La 1a  Divisione di fanteria ed un reggimento di cavalleria erano stati rischierati sul fronte orientale e nel basso Friuli.

Il Posto Comando della Divisione  era a Cormons ove c’era anche quello del Gen. tedesco Kübler. Anche unità caucasiche erano state rischierate  sulle Prealpi Giulie (Uccea, Lazis, Stupizza).

In Carnia, naturalmente, le restanti unità del Corpo speciale cosacco provvidero a ripristinare l’efficienza dei presidi evacuati dalle truppe della 1a  Divisione  anche ricorrendo all’impiego di nuove truppe collaborazioniste affluite in quel periodo dalla Germania e dai Balcani.

Fino alla metà del mese di aprile, malgrado fosse iniziata l’offensiva decisiva alleata sulla Linea Gotica, i cosacchi avevano ritenuto possibile il proseguimento della resistenza tedesca, sia pure in un ambito territoriale molto ristretto.

Quando ebbe luogo lo sfondamento della Linea Gotica e le Armate alleate dilagarono nella pianura padana mentre l’Armata Rossa investiva ed accerchiava Berlino, le speranze e le illusioni dei cosacchi e dei caucasici svanirono.

Il  25 aprile il CLNAI italiano ordinava l’insurrezione generale.

Il 29 aprile, veniva firmata la resa delle truppe tedesche in Italia ed i reparti tedeschi (o in uniforme tedesca) dovevano deporre le armi entro il 2 maggio 1945.

Di fronte al precipitare degli eventi, alla fine di aprile, il Gen. Vlasov venne in aereo a Campoformido. Qui incontrò il Gen. Krassnov giunto all’uopo dal suo Quartier Generale di Verzegnis. Non è noto l’argomento trattato durante il breve incontro. Probabilmente i due Generali volevano consultarsi a vicenda per stabilire una comune linea di condotta in vista dell’imminente crollo della Germania.

La situazione giuridica dei collaborazionisti russi era infatti diversa da quella della Wehrmacht. In sostanza, la sconfitta della Germania  lasciava le forze collaborazioniste russe sole, esposte alla certa vendetta di Stalin. I due Generali ignoravano i termini dell’accordo di Yalta e l’insistente richiesta di Stalin affinchè tutti i russi presenti nei territori liberati dagli anglo-americani, sia i prigionieri nei lager  che i collaborazionisti fossero restituiti all’URSS; sapevano, tuttavia, che in base ai preesistenti accordi internazionali tutti i prigionieri di guerra sarebbero stati  rimpatriati e le truppe di Vlasov e di Krassnov, arrendendosi, sarebbero rientrate in questa categoria.

Fu in quella sede, probabilmente, che Krassnov maturò la decisione  di dissociarsi dalla prevedibile resa delle truppe tedesche in Italia e di trasferirsi con il  Corpo speciale cosacco  in Carinzia, più vicino a Linz, Austria Superio re, dove  Vlasov aveva intanto spostato il KONR e la ROA.

Rientrato a Verzegnis, Krassnov diede ordine a Domanov di  predisporre la ritirata del Corpo speciale cosacco,   e dei profughi al seguito,  nella vicina Carinzia attraverso la Valle del But  e il Passo di Monte Croce Carnico. Il Gen. atamano Shkurò, sin dalla metà di aprile, si era trasferito a Klagenfurt con la Riserva (1400 sciabole).

Le predisposizioni per la ritirata ebbero inizio immediato  e si concretarono nel richiamo dei presidi periferici e nell’ammassamento delle forze nella Valle del But e nella Val Degano, parallela e sussidiaria alla prima.  Anche il Gen. Sultan Ghirey, comandante della Divisione caucasica, decise di seguire il destino del Corpo speciale cosacco  ritirandosi anch’egli in Carinzia.

Helmuth von Pannwitz

Helmuth von Pannwitz

Il ritiro dei presidi periferici iniziò intorno al 27 aprile ed avvenne in silenzio, preferibilmente di notte. Per la verità, come si è riferito dianzi, già  nei  giorni 17, 18, 22 aprile  si erano visti  reparti cosacchi e profughi passare da Lorenzago diretti al Passo della Mauria.

Sempre in quei drammatici e convulsi  giorni, il Comandante della Legione georgiana di Comeglians aveva inviato un ufficiale da Krassnov per proporgli la resa ai partigiani della Divisione Osoppo.

Il Gen. Krassnov aveva respinto la proposta confermando  il suo proposito di trasferirsi in Carinzia con tutti i suoi cosacchi, montati e armati. Subito dopo, si sparse la voce che la Legione era stata catturata dai partigiani. In realtà, i georgiani, andando oltre il suggerimento anticipato a Krassnov dal loro Comandante di arrendersi ai partigiani osovani, si erano schierati al loro fianco e quindi contro tedeschi e i cosacco-cucasici.

Intanto, le unità  partigiane ricostituite grazie al rientro dei loro effettivi dopo la pausa invernale  e grazie all’afflusso di nuovi volontari, erano scese dalla montagna ed erano divenute più aggressive. Questa aggressività si tradusse  in uccisioni di militari cosacco-caucasici isolati, un po’ ovunque: un Colonnello nel Comune di Venzone, un Tenente  Colonnello  a Miedis, in Val Tagliamento, a Socchieve, Preone, Amaro, Talmassons.

Le rappresaglie in genere non furono attuate grazie alla confusione connessa con l’organizzazione della ritirata e anche all’intervento delle locali autorità.

I CLN di valle, a seguito dell’ordine di insurrezione generale dato dal CLNAI il 25 aprile, si erano attivati ma non avevano concordato una linea di azione comune nè era stata stabilita una chiara divisione delle responsabilità e delle competenze tra le formazioni militari.

Avvenne così che il CLN di Tolmezzo acconsentì al libero transito delle truppe tedesche (e cosacche) in ritirata, mentre in quello della Val Degano,  basato in Ovaro,  prevalse  invece l’orientamento, anche per l’ingerenza di osovani dell’ultima ora, e di settori  consistenti della  Divisione  Osoppo, di imporre  la resa del presidio di Ovaro e del suo distaccamento di Chialina, una frazione distante meno di 1 km. dal capoluogo comunale.

Il giorno 30 aprile,  colonne di militari e profughi cosacchi giunsero dalla pianura friulana a Tolmezzo dividendosi poi in due tronconi, uno designato a muovere lungo l’arteria principale   della Valle del But che portava direttamente in Austria; l’altro invece a  imboccare la Val Degano e a percorrere l’arteria principale sino a Comeglians per poi piegare a destra e,  attraverso la Val Calda,  immettersi nella a Valle del But in corrispondenza di  Paluzza e proseguire per l’Austria.

Il 1 maggio, il Gen. Krassnov lasciò  Verzegnis  con tutto il Quartier Generale  e si diresse a Villa Santina scortato dalla sua guardia cosacca a cavallo e da un contingente tedesco di Waffen SS Karstjäger scaglionato lungo la strada.

Confluirono a Villa Santina, diretti in Val Degano anche i presidi della Val Tagliamento (Forni di Sopra, di Sotto, Ampezzo, Socchieve, Raveo).

Contestualmente, le unità della 1a  Divisione di fanteria cosacca, che a marzo erano state  rischierate nella pianura friulana,  e anche i reparti caucasici  schierati sulle Prealpi Giulie si ritirarono  verso la conca di Tolmezzo.  A queste unità, si unirono collaborazionisti ucraini e di altre nazionalità dell’URSS,  dislocate da tempo in Friuli ed  inquadrati o nella Wehrmacht o nelle forze di polizia tedesche.

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I movimenti di queste truppe verso Tolmezzo vennero ostacolati, oltre che dai partigiani, dall’aviazione alleata che eseguiva frequenti azioni di mitragliamento a bassa quota sui convogli. Anche le inclementi condizioni metereologiche se da un lato ponevano limiti agli attacchi aerei alleati, dall’altro rendevano difficile e disagevole il movimento; dal 28 aprile, infatti, pioveva incessantemente su tutta la Carnia mentre in quota nevicava.

Ai soldati e specie ai profughi che giunti a Tolmezzo chiedevano notizie sulla situazione e sulla loro destinazione,  veniva risposto che  era in atto il trasferimento delle truppe, e anche  dei profughi aggregati,  in Carinzia ove i tedeschi avrebbero costituito un nuovo fronte attestato sulle Alpi.

La sera del 1 maggio, a Villa Santina Krassnov fu aggiornato sulla situazione del momento. Malgrado le azioni di disturbo dei partigiani gli attacchi  aerei, l’ammassamento dei militari cosacchi  e dei profughi procedeva come previsto. Si erano verificati alcuni casi di diserzione, un presidio era passato ai  partigiani, altri in pianura si erano ribellati all’ordine di ritirata ed erano rimasti tagliati fuori, altri ancora si erano arresi ai partigiani o alle avanguardie inglesi.

Il Generale Domanov con il suo Stato Maggiore e un forte contingente di truppe presidiava saldamente Tolmezzo e vi sarebbe rimasto fino ad avvenuto trafilamento delle  truppe tedesche e cosacche  provenienti dalla pianura. Esaurita questa funzione, si sarebbe ritirato lungo la Valle del But  svolgendo azione di  retroguardia a favore del Corpo speciale cosacco.

Nella notte tra il 1 e il 2 maggio, giunse al Comando di Villa Santina un ufficiale cosacco che riferì che la via della ritirata lungo la Val Degano era minacciata dalla presenza di formazioni partigiane alla periferia nord di Ovaro- Chialina, pronte a bloccare la rotabile per Comeglians e, quindi, per la Valcalda.

Il Capo di Stato Maggiore di Domanov, Gen. Solamakhin ordinò l’allertamento di un  reparto di junker (allievi ufficiali)   che si doveva portare ad Ovaro per dare man forte a quel presidio e liberare la strada dalla presenza dei partigiani.

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