a cura di Cornelio Galas
I cosacchi di Krassnov in Carnia: agosto 1944-6 maggio 1945. E’ il titolo di un’interessante tesi di laurea che ho trovato in rete. Peraltro si tratta di un argomento che non trova molto spazio nella storiografia della seconda guerra mondiale. Si tratta infatti della forzata consegna ai sovietici di quei cosacchi nel periodo tra il 28 maggio e il 7 giugno 1945.
Autore della tesi: Antonio Dessy nell’anno accademico 2003-2004 all’Università degli Studi di Padova (facoltà di lettere e filosofia, corso di laurea in storia). Relatore: il prof. Egidio Ivetic.
Abbreviazioni usate nel testo
ABCU = Archivio Biblioteca Comunale di Udine.
AC = Archivio Comunale
AFHQ = Allied Forces Headquarters (Comando Forze Alleate)
AK = Archivio privato di Josef Kiniger
AOSV = Archivio della Divisione “Osoppo” (presso il Seminario vescovile di Udine).
AP = Archivio parrocchiale
ARMIR = Armata Italiana in Russia
ASMAE = Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri
AUSSME =Archivio Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito
Brg = Brigata.
btg = battaglione.
CA = Corpo d’Armata
Cap = Capitano
Cdo = Comando
Cte/Cti = Comandante/Comandanti
Ca. SM. = Capo di Stato Maggiore
CC = Carabinieri
CLN = Comitato di Liberazione Nazionale
CLNAI = Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia
CLNZL = Comitato di Liberazione Nazionale della Zona Libera di Carnia.
Col = Colonnello
Div = Divisione
FF.AA. = Forze Armate
GdF = Guardia di Finanza.
Gen = Generale
GNR = Guardia Nazionale Repubblicana
IFSML = Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione
KONR = Comitato per la Liberazione dei Popoli Russi
MAE = Ministero degli Affari Esteri
Magg = Maggiore
MDT = Milizia Difesa Territoriale
MDV = Ministero sovietico degli affari interni. Sostituì il NKVD nel 1946.
NKV = Narodny Kommissariat Vnutrennikh (Commissariato del Popolo per gli Affari Interni) (1933-1946)
Rgt = Reggimento
ROA =Russkaja Osvobodietelnaja Armija (Esercito Russo di Liberazione)
RSI = Repubblica Sociale Italiana
SACMED = Supreme Allied Commander in the Mediterranean (Comandante Supremo Alleato nel Mediterraneo)
SACEUR =Supreme Commander in Europe (Comandante Supremo in Europa)
SHAEF = Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force (Comando Supremo Forza di Spedizione Alleata)
SMERSH = Smert Shpionam (Morte alle Spie).
Ten = Tenente
Ten Col = Tenente Colonnello
Nell’estate del 1944, in un periodo cruciale del secondo conflitto mondiale che vedeva stringersi sempre più la morsa che avrebbe schiacciato e distrutto il Terzo Reich, in un angolo remoto dell’Italia nord-orientale – si legge nella prefazione – il movimento partigiano aveva estromesso le forze nazifasciste e creato la Zona Libera di Carnia.
Agli inizi di ottobre del 1944 le truppe tedesche decidevano di riprendere il controllo di quell’area. Nella variegata composizione delle forze incaricate di riconquistare la Carnia c’era anche un massiccio contingente di truppe cosacche e nord-caucasiche, giunto dalla Polonia con il preciso scopo di occupare e di presidiare, a nome e per conto dei tedeschi, l’intera area carnica.
Si trattava di truppe del sud-est dell’Europa sovietica, schieratesi sin dal 1942 con il Terzo Reich contro il regime sovietico. La presenza in Friuli – ma anche altrove in Italia, in Jugoslavia e in Normandia – di truppe dell’Urss collaborazioniste non costituiva una novità.
Si trattava di prigionieri sovietici che, volontariamente o coattivamente, prestavano servizio in unità militari minori, inquadrate da ufficiali tedeschi ed inserite nelle formazioni della Wehrmacht e delle Waffen SS. Nel settore nord- orientale dell’Italia esse concorrevano al controllo del cosiddetto “Litorale Adriatico” (Adriatisches Küstenland) comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Lubiana, Pola e Fiume.
Nel caso delle truppe cosacche organicamente costituite nell’Armata cosacca l’elemento inconsueto consisteva nel fatto che le autorità naziste avevano permesso che anche i Comandanti e i Quadri dell’Armata fossero tutti cosacchi ed avevano inoltre concesso a questa unità il pieno possesso del territorio carnico.
Si trattava di possesso in via temporanea, sino a quando l’Urss fosse stata sconfitta e quindi fossero state restituite alle comunità cosacche le terre di origine, liberate dal regime sovietico, e ripristinati gli antichi diritti e privilegi. Questa sistemazione provvisoria in Carnia della comunità cosacca, fu ufficialmente denominata dalle autorità tedesche Kosakenland in Nord Italien.
Quello che venne in Carnia non era solo una Grande Unità militare, peraltro male armata ed equipaggiata, comandata dal Colonnello (poi Generale) Timotey Domanov; era soprattutto un popolo alla cui guida politico-amministrativa c’era l’atamano generale zarista Pyotr Krassnov, figura di rilievo nella lotta controrivoluzionaria delle Armate Bianche (1918 – 1920).
Al seguito dei soldati, infatti, c’era un folto gruppo di civili, familiari e profughi, con animali e carriaggi carichi di quante masserizie e suppellettili essi erano riusciti a portare con sé al momento della ritirata delle truppe tedesche dal sud-est della Russia dopo la sconfitta di Stalingrado (febbraio 1943).
Quella Carnia, da sempre terra di emigrati, era divenuta, paradossalmente, terra promessa, compenso pattuito di una innaturale alleanza tra la Dirigenza nazista e i collaborazionisti cosacchi.
Per la popolazione carnica, si trattò, specie nella fase iniziale, di una lacerante esperienza fatta di soprusi, violenze, sopraffazioni, sottrazione di risorse vitali, lutti, illuminata qua e là da bagliori di reciproca comprensione, di amicizie, di toccante, mutua pietà.
Due popoli con diversissime radici storiche e culturali, che mai avevano sentito parlare l’uno dell’altro, tuttavia caratterizzati entrambi da un forte attaccamento alle tradizioni, dalla prevalente condizione contadina e pastorale, dalla posizione marginale periferica rispetto ai grandi centri di potere politico ed economico, lontani cioè dai luoghi “dove le cose succedono” per dirla con Alain Reynaud.
Dopo le iniziali brutalità subite, il piccolo e paziente popolo carnico riuscì a fare suo, giorno dopo giorno, il fiero e indomito nemico, si avvide che esso stesso era vittima e strumento dei tedeschi ed alla fine ne divise l’angoscia in quel suo ultimo, disperato viaggio oltre confine.
Alla fine di aprile 1945 infatti, quando gli eventi politico-militari precipitarono concludendosi con il crollo e la resa incondizionata delle truppe tedesche in Italia, i cosacchi di Krassnov rifiutarono di arrendersi alle formazioni partigiane. Svaniti i loro sogni e le loro speranze, il 1° maggio 1945, decisero di lasciare la Carnia, di raggiungere l’Austria e di arrendersi colà alle forze inglesi in arrivo da Occidente.
Militari e civili risalirono quindi le valli carniche, abbandonati e traditi dai tedeschi, tormentati dai partigiani fattisi spavaldi per la debolezza e la vulnerabilità dei vinti in ripiegamento. Portavano con sè le loro misere cose, il crollo delle illusioni così tenacemente quanto ingenuamente nutrite, la loro cupa disperazione.
La marcia di trasferimento di questo popolo lungo le valli del But e del Degano fu un’esperienza particolarmente dura: attaccati dai partigiani, sotto la minaccia di attacchi aerei alleati, sotto una pioggia incessante e tormente di neve in quota, i cosacchi completarono l’esodo dalla Carnia il 6 maggio accampandosi nell’area di Lienz, in Austria. Colà i cosacchi attesero l’arrivo delle avanguardie inglesi e si arresero sperando ingenuamente che le autorità inglesi li avrebbero utilizzati al loro servizio, in qualche modo, forse trasferiti quali truppe coloniali nei possedimenti inglesi in Africa o in Asia.
Alla fine di maggio, ebbe inizio l’atto finale della loro odissea, e cioè la forzata consegna dei cosacchi, militari e civili, alle truppe sovietiche di occupazione in Austria. Pochi si sottrassero a questo triste destino, alcuni suicidandosi, altri dandosi alla macchia o riuscendo a mescolarsi con soldati tedeschi prigionieri in campi viciniori, altri ancora raggiungendo il settore di occupazione americano in Baviera..
Lo studio è incentrato su due fasi delle vicende della comunità cosacca:
- quella dell’illusoria sistemazione in Carnia, dall’ottobre 1944 agli inizi di maggio 1945, con particolare riguardo ai rapporti con la popolazione locale;
- quella della sua drammatica dissoluzione a seguito della consegna della comunità ai sovietici da parte degli inglesi, dal 28 maggio al 7 giugno 1945.
In questa seconda fase l’autore accenna al destino di altre formazioni cosacche, o comunque russe collaborazioniste, perché le loro vicende furono legate a quelle della comunità cosacca di Krassnov o in qualche modo si intrecciarono brevemente con essa.
Storiografia.
L’argomento dell’occupazione cosacca in Carnia, dall’agosto 1944 al maggio 1945, ha trovato scarsa eco nella storiografia italiana. Se ne occupò per primo il giornalista carnico Pier Arrigo Carnier che nel 1957 pubblicò un volumetto sull’argomento. Nel 1965 Carnier produsse un testo più corposo intitolato L’Armata cosacca in Italia del quale l’editore Mursia stampò nel 1990 una seconda edizione, con approfondimenti ed integrazioni, frutto delle costanti ricerche del Carnier.
L’autore si è avvalso spesso di testimonianze dirette dei superstiti delle forze cosacche giunte in Carnia, ma egli raramente cita le fonti delle sue informazioni e i documenti dei quali ha certamente avuto notizia o preso visione. Carnier fornisce un quadro molto circostanziato delle vicende cosacche in Carnia, delle quali è stato testimone oculare.
Il libro è ricco di notizie, nomi, eventi – anche se qualcuno di essi appare di incerta affidabilità – enfatizzati forse da una manifesta benevolenza verso i cosacchi. Si tratta in ogni caso di un libro basilare per un primo approccio al tema dell’occupazione cosacco-caucasica in Carnia e, in generale, del collaborazionismo russo nella seconda guerra mondiale.
Per la descrizione dell’ambiente socio-economico della Carnia nel periodo dell’occupazione cosacca, l’autore si è avvalso del testo di Carlo Dal Cer La comunità carnica e le sue valli, edito nel 1963. Dal Cer, di origine carnica, alto funzionario della Società Olivetti di Ivrea e da questa incaricato nel 1960 di svolgere un’indagine sulle ragioni dell’arretratezza della Carnia rispetto ad altre aree del nord Italia e della stessa provincia di Udine, avvalendosi di una equipe di esperti, lavorò per circa due anni fornendo infine un ampio e documentato quadro socio-economico dell’area carnica della prima metà del Novecento.
Enzo Collotti, nel suo Il Litorale Adriatico nel Nuovo Ordine Europeo (1943 – 1945) ed. 1974, illustra l’attivazione da parte delle autorità tedesche della Zona di Operazione del Litorale Adriatico, nel settembre 1943, e la sua organizzazione politica, militare, economica e culturale. In particolare, Collotti sottolinea la determinazione del Supremo Commissario, il carinziano Friedrich Rainer, a cancellare dal Litorale Adriatico ogni segno o aspetto della sovranità italiana, per ripristinarvi ed imporvi il vecchio modello dell’amministrazione asburgica, naturale premessa all’auspicata annessione del Litorale Adriatico al III Reich.
Collotti si sofferma altresì sulle peregrinazioni della comunità cosacca nell’Europa orientale, e sulle motivazioni che spinsero le autorità germaniche a decidere il trasferimento dei cosacco-caucasici in Carnia.
Per l’organizzazione interna della comunità cosacca in Carnia lo studio ha tenuto conto oltre che del Carnier, anche di Marina Di Ronco, che nel L’occupazione cosacco-caucasica in Carnia ed 1988, tratto dalla sua tesi di laurea presso l’Università di Venezia, analizza con accuratezza e acribia i vari aspetti della vita interna delle comunità cosacca e caucasica.
La Di Ronco ha indirizzato le sue ricerche precipuamente sui cosacco-caucasici in Carnia, lasciando in ombra le consistenti aliquote, militari e civili, che vivevano al di fuori di essa, nella fascia pedemontana e, dalla primavera 1945, anche nella bassa pianura friulana e nelle Prealpi Giulie. Quello di Marina Di Ronco è il testo più rigoroso e documentato della storiografia disponibile, in ambito locale e nazionale, sulla presenza cosacco-caucasica in Carnia.
Anche Claudio Magris si è interessato ai cosacchi in Carnia forse perché soggiornò da bambino, con la famiglia, in un paese della pedemontana contiguo alla Carnia e frequentato dai cosacchi. Sull’argomento Magris ha scritto nel 1984 un breve ma denso racconto, Illazioni su una sciabola, centrato principalmente su due personaggi, Krassnov e Andrej Vlasov.
Del primo, Generale zarista, fa risaltare più le ombre che le luci. Del secondo, Generale dell’Armata Rossa, che non era cosacco, che si trovava in Germania e non in Carnia, che non aveva a differenza di Krassnov alcuna nostalgia imperiale ma che, come Krassnov, aveva finito per collaborare con i tedeschi, Magris sottolinea con comprensione e rispetto, il travaglio interiore e l’amarezza per aver fallito nel suo intento.
Egli infatti, anche a prezzo di sofferti compromessi con se stesso, si era illuso di poter dare all’Unione Sovietica un futuro migliore, affrancato dal dispotismo stalinista ed alla fine aveva, invece, visto il crollo dei suoi sogni e delle sue illusioni Al di là del fittizio impianto del racconto, i riferimenti ai due personaggi e alle vicende dei cosacchi in Carnia sono rigorosamente storici.
Per la cronaca locale, la vita quotidiana in Carnia e i rapporti tra cosacco – caucasici e carnici, l’autore si è avvalso dei testi di quattro autori carnici che raccontano esperienze ed eventi con un orizzonte prevalentemente limitato al paese di residenza: Leonardo Zanier, Carnia land – Kazackaja Zemlja, ed. 1996, Pieri Stefanutti Novocerkassk e dintorni, L’occupazione cosacca della Valle del Lago [di Cavazzo n.d.a.], ed. 1995, Claudio Calandra, Da svidanija, i girasoli di Boria, ed. 1995, ma soprattutto del diario tenuto da Norina Canciani pubblicato nel 2000 con il titolo Un anno di guerra-vita con i cosacchi..
La Canciani, al tempo ventiduenne, viveva a Prato Carnico, al centro della Carnia. Il libro copre la sua esperienza della Zona Libera e, in successione, quella dell’occupazione dei cosacchi. E’ un testo scritto, con rimarchevole ironia ed arguzia, da una carnica che ama la sua terra a tal punto che ha voluto che il libro, meritevole di ben altra diffusione, fosse messo in vendita solo a Tolmezzo.
In campo internazionale, un puntiglioso storico che si è interessato alla vicenda dei cosacchi di Krassnov – e di quelli del XV Corpo cosacco di cavalleria del Gen. Helmut von Pannwiz impiegato in Jugoslavia e anch’esso confluito in Carinzia alla metà del mese di maggio – è l’inglese Nikolai Tolstoy, figlio di esuli zaristi, che ha scritto, in merito, The Victims of Yalta, ed. 1979, e successiva mente The Massacres and The Minister, ed. 1986.
Tolstoy focalizza la sua attenzione sulla politica attuata dagli inglesi in merito al rimpatrio dei russi catturati o liberati dalle Armate anglo-americane, e sul breve periodo trascorso dai cosacchi in Carinzia con particolare riguardo alla loro “proditoria” consegna ai sovietici ad opera degli inglesi.
Notevole la documentazione, anche se probabilmente incompleta, relativa agli interventi della Dirigenza inglese e di quella americana, sia civile che militare, che portarono alla drammatica decisione di consegnare ai sovietici l’intera comunità cosacca. Le argomentazioni, non tutte lineari, di Tolstoy risentono fortemente della sua manifesta empatia per la causa cosacca e, nel contempo, della sua intransigente e radicata avversione al regime sovietico.
Nicholas Bethell, nel suo libro The Last Secret, ed. 1987, tratta la questione della consegna ai sovietici dei collaborazionisti russi dal suo sorgere, giugno 1944, alla sua conclusione, protrattasi sino alla fine del 1946.
Bethell illustra con rigore ed obiettività il formarsi della politica britannica e di quella americana, in merito ai russi catturati o liberati dalle truppe anglo-americane, a fronte di quella a un tempo intransigente e incongruente del Governo sovietico sempre sospettoso nei confronti degli alleati occidentali. Particolarmente estesa e vivida la descrizione delle vicende delle comunità cosacca, dal momento della ritirata dalla Carnia, 2-7 maggio 1945, alla sua forzata consegna ai sovietici, fine maggio-inizio di giugno 1945.
Obiettivo della ricerca
Con questo lavoro – scrive l’autore – mi propongo di mettere in luce alcuni aspetti dei rapporti tra i cosacchi invasori e la popolazione carnica e, soprattutto, il comportamento ambiguo delle autorità britanniche nella gestione della questione cosacca.
E’ vero che in base all’accordo stipulato dai Tre Grandi nel corso della Conferenza di Yalta, 4-11 Febbraio 1945, i cittadini sovietici collaborazionisti catturati dagli anglo-americani – e dunque anche i cosacchi di Krassnov – dovevano essere consegnati ai sovietici.
Tuttavia, all’atto della loro resa, formalizzata a Oberdrauburg, in Carinzia, il 9 maggio, gli inglesi li illusero con l’inganno, fecero loro credere che questa ipotesi era esclusa nel loro caso.
Giunsero perfino a lasciar cadere allusioni al possibile trasferimento e all’impiego dei cosacchi in una delle colonie africane dell’Impero Britannico. Gli inganni e l’illusione di un trattamento privilegiato che li avrebbe esclusi dal rimpatrio, cinicamente alimentata dagli inglesi, durarono tre settimane. Solo il 28 maggio, dopo aver allontanato ed arrestato gli ufficiali cosacchi con un meschino sotterfugio, fu rivelata alla comunità la dura verità sul suo destino.
L’accordo di Yalta impegnava le autorità britanniche a consegnare solo i russi cittadini sovietici e nessuna clausola scritta sanciva l’uso di mezzi coercitivi. Esse invece, con reprensibile zelo, provvidero a consegnare anche quei cosacchi, non meno di 3.000, che non avevano la cittadinanza sovietica e prescrissero che le truppe incaricate della esecuzione della consegna facessero ricorso anche alla violenza, se necessario.
Mi sono interessato – continua lo studioso – ai cosacchi in Carnia negli anni ’60, scorrendo il libro di P.A. Carnier. Da circa vent’anni, ho poi approfondito la conoscenza dell’ambiente e della gente carnica della quale, attraverso ripetuti e prolungati soggiorni, ho avuto modo di apprezzare la saggezza , l’intensa umanità e la grande generosità.
Percorso della ricerca
Ho inizialmente ricostruito il quadro generale della questione dei collaborazionisti russi collazionando dati, fatti, commenti, al riguardo, tratti da una selezionata bibliografia, prevalentemente inglese, sulla II Guerra Mondiale estendendola succintamente, per quanto concerne l’Unione Sovietica, a quella relativa al ventennio compreso tra i due conflitti mondiali.
Analogamente, ho scelto l’approccio bibliografico (testi specifici o interventi, sull’argomento, tratti dagli Atti di convegni di studi storici tenuti a Padova, a Udine e a Trieste) per illustrare la situazione politico-militare del Friuli nel periodo che precedette immediatamente l’arrivo dei cosacco-caucasici in Carnia e durante la loro permanenza colà.
Ho poi effettuato ricerche nei seguenti archivi: Istituto Storico Bellunese della Resistenza e dell’Età Contemporanea (BL), Istituto Veneto per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea (PD), Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione (UD) al cui Direttore, Prof. Alberto Buvoli, va la mia particolare gratitudine per l’aiuto prestato, Istituto di Cultura di Timau, archivio “Osoppo” presso la Biblioteca del seminario vescovile di Udine, archivio storico del Ministero degli Affari Esteri (ROMA), ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (ROMA), fondo della Resistenza e fondo della RSI presso la Biblioteca comunale di Udine dotata anche di un’emeroteca ove è conservata la stampa quotidiana e periodica del periodo interessato (1944-1945).
Ho anche preso visione dei diari storici delle parrocchie di Timau, Alesso, Castions di Strada, Morsano di Strada, Rivalpo, Sutrio, Imponzo, Villa Santina, Lorenzago di Cadore. Di questa località ho consultato anche l’archivio storico dell’omonimo Comune.
A Sesto di Pusteria (BZ), ho avuto modo di esaminare l’archivio privato del Sig. Josef Kiniger, appassionato cultore della Storia della seconda Guerra Mondia le, prezioso e generoso dispensatore di dettagli e testimonianze dirette, che dispone di molta documentazione di prevalente fonte austriaca, in parte inedita, anche sulla vicenda dei cosacchi di Krassnov soprattutto dopo il loro ripiegamento dalla Carnia.
Le mie ricerche si sono infine estese in Austria ove ho condotto ricognizioni nei luoghi che videro la tragica conclusione della comunità cosacca: Lienz, Oberdrauburg, Judenburg. A Klagenfurt, ho rintracciato un cosacco scampato alla forzata consegna ai sovietici, il quale mi ha cortesemente concesso due interviste riportate in appendice.
Concludendo, i risultati delle ricerche da me effettuate non modificano il quadro complessivo tracciato dagli autorevoli studiosi che hanno trattato la vicenda della comunità cosacca in Carnia e in Carinzia.
Prendendo le mosse dai loro lavori, ho cercato di chiarire qualche aspetto precedentemente ignorato, di far luce su alcune questioni controverse e di approfondire la trattazione di altre, prima trascura te o appena accennate; non ho quindi alcuna pretesa di aver portato alla ribalta novità rilevanti, nè di aver cercato e trovato tutto quel che c’era da trovare, ho solo aggiunto qualche nuovo tassello, e sostituito qualche altro, alla ricostruzione delle vicende della comunità cosacca di Krassnov, prodotta dalla consolidata tradizione storiografica sull’argomento.
La caduta del Fascismo e l’8 settembre 1943
Il 15 luglio 1943, quattro giorni prima dell’incontro di Mussolini con Hitler a Villa Gaggia, Belluno, Hitler aveva disposto la formazione del Gruppo d’Armate B, nel quadro dell’operazione “Alaric” affidandone il Comando al Maresciallo Erwin Rommel. Questa nuova grande unità avrebbe dovuto assumere la responsabilità della difesa dell’Italia centro-settentrionale, nel caso in cui la Sicilia fosse stata perduta.
Dopo la caduta del Fascismo, all’inizio di agosto 1943, Hitler ordinò la preparazione dell’operazione “Achse” ,non fidandosi delle assicurazioni del nuovo Governo Badoglio in merito alla prosecuzione, da parte dell’Italia, della guerra a fianco dei tedeschi.
L’operazione “Alaric”, iniziata il 30 luglio 1943, fu condotta rapidamente, pur con tutte le cautele del caso per non urtare la suscettibilità degli italiani. Il 13 agosto 1943, sei Divisioni tedesche erano entrate in Italia dal Brennero e da Tarvisio, ivi inclusa la Divisione Waffen SS – Leibstandart Adolf Hitler.
Il 15 agosto 1943 Rommel e il Gen Jodl, Capo ufficio Operazione dell’OKW (Comando Supremo della Wehrmacht) giunsero a Bologna per discutere con i vertici militari italiani la delicata questione del Comando delle truppe italo-tedesche in Italia, ma la riunione non portò ad alcuna soluzione concordata.
L’8 settembre, l’annuncio dell’uscita dell’Italia dal conflitto colse di sorpresa il Maresciallo Alfred Kesserling, Comandante delle truppe tedesche (Gruppo d’Armate C) nell’Italia centro-meridionale. La notizia gli pervenne da Berlino e subito fu data esecuzione all’operazione “Acshe”.
Non fu sorpreso invece Rommel che, stabilitosi con il suo Comando a Lazise, sulle rive del lago di Garda, avendo completato nel frattempo il trasferimento in Italia di altre tre Divisioni, portando il suo Gruppo d’Armate B a nove Divisioni, procedette immediatamente alla neutralizzazione delle FF.AA. italiane ed all’occupa zione dei centri nevralgici dell’Italia settentrionale.
Superata rapidamente, da parte tedesca, la crisi conseguente alla defezione italiana, organizzata una forte posizione difensiva, a Sud di Roma, sulla linea Gaeta-Cassino-Pescara (Linea Gustav), emerse l’incompatibilità della contemporanea presenza i Italia di Kesserling e di Rommel che avevano opinioni diverse sulla condotta delle operazioni.
Il 21 novembre 1943, la cosa fu risolta, con il trasferimento di Rommel e dello Stato Maggiore del Gruppo d’Armate B in Francia ove Rommel ebbe l’incarico di ispettore delle difese del Vallo Atlantico.
L’esecuzione dell’operazione “Acshe” era stata così fulminea da concludersi, come già detto, in pochi giorni quasi senza colpo ferire. Essa fu favorita da vari fattori tra i quali, principalmente, dal senso di paralisi e di impotenza di fronte alla decisa e rapida azione tedesca, tant’è che alcune decine di migliaia di soldati tede schi avevano avuto ragione delle molto più numerose forze dell’Esercito italiano, disorientate e senza guida.
Il 19 settembre 1943, in Italia, 82 Generali italiani, 13.000 ufficiali, e 400.200 soldati erano stati disarmati e catturati; 183.000 dei quali erano già stati trasferiti nei campi di prigionia in Germania.
In particolare, nell’area nord-orientale dell’Italia, il 10 settembre avevano cessato di esistere il Comando dell’8a Armata dislocato a Padova, comandata dal Gen. Gariboldi e, per quanto concerne il Friuli Venezia Giulia-Istria, le seguenti Grandi Unità dipendenti:
- XXIV Corpo d’Armata, Udine, al comando del Gen. Licurgo Zannini, che presidiava il Friuli dalla Carnia a Tarvisio al Carso Goriziano;
- XXIII Corpo d’Armata, Trieste, al comando del Gen. Alberto Ferrero, che presidiava il territorio dal Carso Triestino all’Istria e a Fiume.
Il dissolvimento dei reparti in Friuli, era avvenuto grazie anche al rapido diffondersi delle notizie sul trattamento delle truppe italiane, da parte dei Tedeschi, che prevedeva disarmo, cattura e invio in campi di concentramento in Germania. Anticipando l’imminente arrivo di unità tedesche corazzate e motorizzate.in afflusso da Tarvisio, furono abbandonate le caserme, e i depositi di armi e materiali vari.
L’attività repressiva tedesca si limitò, all’inizio, alla ricerca degli antifascisti più accaniti messisi in luce dopo l’abbattimento del Regime fascista e dei prigionieri di guerra alleati (anglo-americani e jugoslavi) fuggiti dai campi di prigionia italiani, approfittando nel vuoto di potere esistente nei primi giorni dopo l’8 settembre.
Nella Venezia Giulia, invece, la situazione era più grave per la presenza di formazioni slovene e croate già organizzate ed attive, nel bacino dell’Isonzo, dell’Idria e a Fiume, sin dal 1942, nei confronti delle truppe italiane colà dislocate.
Intanto, il 10 settembre, Hitler aveva provveduto a creare due Operationszonen (Zone di Operazione)
- Alpenvorland o Zona di Operazione delle Prealpi, che comprendeva le province di Belluno, Trento, Bolzano, sotto il diretto controllo amministrativo e militare tedesco, governata dal Gauleiter del Tirolo Franz Höfer. L’Alpenvorland era di vitale importanza, per i tedeschi, perchè includeva il Brennero, via di comunicazione di elevata potenzialità tra Germania e Italia;
- Adriatisches Küstenland o Zona di Operazione del Litorale Adriatico, com prendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana, sottopo sta, in forma solo apparentemente più blanda, al controllo amministrativo e militare tedesco. L’Adriatisches Küstenland fu governato dal Gauleiter della Carinzia, Friedrich Rainer il quale, con la qualifica di Supremo Commissario, si stabilì a Trieste. Compito precipuo del responsabile militare dell’ Adriatsches Küstenland, Gen. Ludwig Kübler, era la difesa della linea costiera, dalla foce del Tagliamento all’Istria, contro temuti sbarchi anglo-americani. Subordinatamente, l’Adriatisches Küstenland doveva assicurare la sicurezza ed il controllo dell’area Alpi Giulie-Istria. In realtà, questo secondo compito divenne, ben presto, l’unica e principale preoccupazione tedesca e finì per impegnare tutte le forze militari disponibili. Naturalmente, il tentativo alleato di sbarco nell’Alto Adriatico che i tedeschi temevano, specie dopo quello alleato in Normandia (6 giugno 1944), mai si materializzò.
Le due Zone di Operazione fecero parte dell’area di Comando del Maresciallo Edwin Rommel, fino al suo trasferimento in Francia, sul fronte occidentale, il 21 novembre 1943, successivamente furono inglobate nell’area di responsabilità del Maresciallo Kesserling.
Il Litorale Adriatico – La politica amministrativa, economica e culturale del Supremo Commissario Friedrich Rainer.
Il 10 settembre 1943, due giorni dopo la resa incondizionata dell’Italia, l’occupazione del Triveneto, da parte delle truppe tedesche era praticamente completata. Qualche giorno dopo, furono create le due Zone di Operazione di cui sopra e vi fu estesa l’amministrazione tedesca.
Per quanto concerne la Venezia Giulia (Zona d’Operazione Adriatisches Küsterland) il Gauleiter della Carinzia, Friedrich Rainer, già il 9 settembre 1943, aveva inoltrato al Ministero degli Esteri del Reich germanico un telegramma in cui tratteggiava un progetto di organizzazione amministrativa del Litorale Adriatico.
Data la materiale impossibilità di averlo concepito ad un giorno dall’avvenuta resa dell’Italia agli Alleati, si può ragionevolmente congetturare che il testo fosse stato elaborato sin dalla caduta del Fascismo, se non ancora prima.
Nel suo progetto, il Litorale Adriatico non si configurava come la Venezia Giulia nata dopo il 1918, ma piuttosto come la vecchia Venezia Giulia esistente prima del 1918, con le province di Gorizia, Trieste, Pola, con l’aggiunta ora, da un lato, delle province di Lubiana (capitale della Carniola austriaca) e di Fiume (ex Ungheria) e dall’altro della provincia di Udine.
L’intendimento di Rainer era quello di enfatizzare il carattere multietnico del Litorale, secondo un’ottica sulla quale si era retta la politica interna di Vienna per secoli nel governare il mosaico di popolazioni, diverse dal punto di vista culturale e linguistico dei vari territori, che componevano l’Impero Austro-Ungarico.
In sostanza, il disegno di Rainer era quello di ricreare, sotto la bandiera del Reich Germanico, un territorio-laboratorio dove, eliminata l’influenza italiana, sarebbe stato possibile riproporre la validità del vecchio modello politico ed amministrativo asburgico.
Il quadro della frammentazione etnica del Litorale, che Rainer presentava nel suo telegramma del 9 settembre, era funzionale a questo suo disegno là dove valutava la consistenza dei vari gruppi etnici: “[…] Lubiana: 400.000 abitanti, tutti sloveni; l’ex contea di Gorizia e Gradisca (reminiscenza austriaca): 300.000 abitanti […] di cui 100.000 sloveni, 50.000 italiani e 150.000 friulani; l’antica Istria (insistente reminiscenza asburgica), capoluogo Trieste: 500.000 abitanti, dei quali 150.000 sloveni, 100.000 italiani, il resto cicci e morlacchi di lingua serbo-croata […].
Il Friuli, per Rainer, non era “suolo del popolo italiano”: su complessivi 700.000 abitanti, 200.000 erano sloveni, 100.000 italiani, 400.000 friulani. Curiosa era questa puntigliosa distinzione del gruppo friulano come gruppo etnico a sè stante, separato da quello italiano. Concludeva il Rainer, che sulla base di questi dati, la componente prevalente nel Litorale era quella slovena (850.000), seguita da quella friulana (550.000) e poi da quella italiana (250.000).
La minoranza di lingua tedesca dell’area Tarvisiana (circa 7.000) non era considerata perchè Rainer dava per scontata l’annessione pura e semplice della Val Canale alla Carinzia.
Partendo da queste conclusioni, Rainer privilegiò la componente slovena, a scapito di quella italiana da lui ritenuta minoranza, appoggiandone le rivendica zioni di autonomia culturale e politica. La creazione di corpi armati locali, Domobranci, Guardie civiche, Milizia Difesa Territoriale, strumenti della collaborazione nella lotta anti-partigiana, servì anche a radicare il concetto di identità etnica e di patria locale e, nel caso dei Domobranci sloveni, a marcare l’avvenuta ed irreversibile separazione dall’Italia.
Più flessibile e prudente almeno nella forma, era l’Ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale Italiana (RSI), Rahn, il quale raccomandava a Rainer, di non aver fretta, di non insistere, per esempio, sulla radice antico-germanica del Friuli. La questione sarebbe stata affrontata dopo la fine della guerra.
Ciò non trattenne comunque a Rainer dal creare una soluzione di continuità tra la Duce-Italien, o Italia del Duce come veniva chiamato dai tedeschi il territorio della RSI, e il Litorale Adriatico. In questo senso, il Supremo Commissario non fece mistero, ed incoraggiò tutti a seguire il suo esempio, del suo giudizio negativo sulla amministrazione italiana, specie quella fascista della Venezia Giulia nel periodo 1918-1943.
La consistente componente slava costituì terreno favorevole allo sviluppo di un diffuso disprezzo, che Rainer favorì, per tutto ciò che ricordava la presenza italiana nei territori del Litorale acquisiti dopo la I Guerra mondiale ed anche questo contribuì alla sempre più marcata separatezza del Litorale Adriatico dal territorio della RSI, il che costituiva l’obiettivo a breve di Rainer.
I provvedimenti che egli adottò e le iniziative che intraprese per realizzare i suoi fini furono molteplici. Sul piano amministrativo e giuridico, Rainer, come Supremo Commissario, rispondeva direttamente alla Cancelleria di Berlino, non aveva e non voleva avere alcun contatto con il Governo di Salò.
Rainer nominava i Prefetti i quali non avevano alcuna dipendenza dal Ministro degli Interni di Salò, ma erano subordinati al Consigliere tedesco (Deutsche Berater) nominato per ciascuna provincia. Tutte le autorità locali, fino a livello del Podestà o Commissario prefettizio, dovevano essere nominate da lui o da lui approvate.
Per quanto concerne l’amministrazione civile Rainer nominò Prefetti italiani a Udine e Gorizia (ex funzionari austriaci), Prefetti italiani anche a Pola e Fiume, ma affiancati da vice Prefetti nazionalisti croati, Prefetto sloveno a Lubiana (già ufficiale austriaco, poi italiano e infine jugoslavo).
Il personale amministrativo era strettamente locale: italiano nella provincia di Udine, prevalentemente sloveno in quella di Trieste, croato in quello di Pola e Fiume, sloveno in quella di Lubiana. Le municipalità erano espressione delle etnie localmente maggioritarie.
Il Litorale Adriatico era ben delimitato ad Ovest dal confine occidentale della provincia di Udine, che al tempo includeva anche Pordenone. I movimenti dei civili dalla “Italia del Duce”, come veniva chiamata la RSI, al Litorale Adriatico, e viceversa, erano possibili ma fortemente scoraggiati.
Esistevano posti di controllo, come per esempio sulla Livenza, attivati da militari della polizia economica italiana e da militari tedeschi che controllavano i documenti e rilasciavano un permesso speciale se il soggiorno si protraeva per più di sette giorni.
Rainer aveva poi il controllo sull’erogazione dei generi alimentari razionati e poteva ridurre o negare le assegnazioni alle zone ove più virulenta era l’attività partigiana. Lo fece in Carnia imponendo il blocco economico nel periodo di massima espansione del movimento partigiano, agosto-dicembre 1944.
In campo giudiziario, Rainer escluse dal Litorale la competenza della Corte di Cassazione ed avocò a sè il potere di grazia e la facoltà di scegliere l’autorità della magistratura cui rinviare i vari casi giudiziari.
Nel settore militare Rainer fu ancora più incisivo. Annullò brutalmente il manifesto di richiamo degli ufficiali e dei sottufficiali nelle FF.AA.della RSI, disposto dal Gen. Giovanni Esposito, nominato Comandante militare regionale della Venezia Giulia dal Maresciallo Graziani.
L’adesione alle costituende FF.AA. della RSI poteva avvenire solo su base volontaria. Questo peraltro non gli impedì di ordinare il reclutamento obbligatorio, di uomini e donne, per le esigenze logistiche e militari del Litorale Adriatico: o nell’organizzazione Todt o nei Corpi armati agli ordini dei tedeschi. Una prima precettazione fu fatta nel marzo 1944 (classi 1923, 1924, 1925) e la seconda, nel luglio 1944, coinvolse tutti gli uomini delle classi comprese tra il 1914 e 1926.
Nel gennaio 1945, fu ordinato il richiamo delle classi dal 1888 al 1928 per prestazioni di lavoro obbligatorio. Anche le donne furono saltuariamente richiamate per prestazioni di lavoro obbligatorio. Rainer proibì inoltre la costituzione, nel Litorale Adriatico, della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) e l’ingresso, nel Litorale, di truppe della RSI.
La norma fu infranta, ai primi di dicembre 1944, dopo intense pressioni di Mussolini a Berlino, dalla Divisione X MAS che, malgrado l’opposizione e le minacce delle autorità tedesche del Litorale Adriatico, si schierò e combattè sul Carso goriziano contro le formazioni del IX Corpus jugoslavo.
La Divisione, tutta via, nel Febbraio 1945 fu ritirata, a seguito delle insistenze di Rainer presso la Cancelleria del Fuhrer e i suoi compiti operativi furono assunti dai cetnici serbi anti-comunisti.
Nell’estate del 1944, i Corpi armati italiani esistenti nel Litorale, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia economica, nonchè le formazioni fasciste spontaneamente risorte dopo la costituzione del Governo di Salò, furono obbligatoriamente inglobati in un unico Corpo armato denominato Milizia Difesa Territoriale, naturalmente agente agli ordini della polizia tedesca.
In campo economico finanziario, il Supremo Commissario Rainer provvide a orientare l’economia del Litorale Adriatico verso il Reich, staccandola dalla “Duce -italien”. Egli impedì, per esempio, che gli aumenti salariali disposti nella RSI fossero estesi al Litorale Adriatico, con il pretesto che si trattava di una politica deleteria che avrebbe alimentato il processo inflazionistico.
Progettò anche l’introduzione di una nuova unità monetaria, l’Adria-Krone, altro richiamo al passato austriaco dell’area. Rainer estromise i dirigenti italiani dalle amministrazioni dei grossi gruppi industriali, finanziari e commerciali, Società di Navigazione Italia, Cantieri navali, Riunione Adriatica di Sicurtà, Assicurazioni Generali, Lloyd Triestino, banche, sostituendoli con elementi austriaci o italiani filo-austriaci, già appartenenti alla amministrazione austriaca. Due funzionari di Vienna si presero cura della Borsa di Trieste e delle grosse banche.
Nel settore delle comunicazioni, Radio Trieste fu staccata dall’E.I.A.R. e rinominata Radio del Litorale Adriatico. Le trasmissioni, sotto il diretto controllo tedesco, erano fatte in italiano e in tedesco. C’era anche un programma musicale intitolato “Vienna saluta Trieste e Trieste saluta Vienna”. Il “Piccolo” di Trieste ebbe un nuovo direttore, imposto da tedeschi.
Il giornale si limitava a dare notizie della Venezia Giulia, brevissime notizie dall’Italia ed ampi resoconti dall’interno del Reich, in particolare dell’Austria. Si pubblicava a Trieste anche un quotidiano in lingua tedesca, l’”Adriazeitung”.
In conclusione, risultano evidenti i decisi orientamenti del Supremo Commissario Rainer volti a staccare il Litorale Adriatico e di isolarlo dall’Italia, dal punto di vista politico, economico e culturale, in previsione di un suo diverso futuro statuale, entità autonoma nell’ambito della Germania o pura annessione alla Germania.
Non si può escludere, pur in assenza di qualsiasi riscontro documentale al riguardo, che Rainer, nazista ma anche fervente nazionalista austriaco, prevedendo la sconfitta della Germania, pensasse invece ad una soluzione che includesse la Venezia Giulia in una ricostituita Austria .
Organizzazione tedesca della lotta anti – partigiana
Non è facile esaminare compiutamente le strutture organizzative, coinvolte nella repressione del movimento partigiano, e le relative competenze. Semplificando, si può affermare che i compiti per il mantenimento della sicurezza e per la lotta antipartigiana furono suddivisi, spesso con più o meno ampie zone di sovrapposizione, tra tre principali organizzazioni.
- unità (Feldheer) dell’esercito di campagna della Wehrmacht, Gruppo d’Armate C, al comando del Maresciallo Kesserling, massima Autorità militare tedesca in Italia;
- unità dell’esercito territoriale della Wehrmacht, dipendenti dal Gen. Rudolf Toussaint;
- forze di polizia e di Waffen SS che facevano capo al Gen. SS Karl Wolff, rappresentante di Himmler in Italia.
Inizialmente, le competenze nel mantenimento dell’ordine pubblico e della controguerriglia non erano state ben definite. In linea di massima valeva anche in Italia il sistema già applicato altrove che prevedeva che la Wehrmacht fosse responsabile dell’area del fronte e delle immediate retrovie, mentre la responsabilità nel territorio retrostante era di competenza degli organi di polizia e delle SS che seguivano le forze operative.
La responsabilità, quindi, del Maresciallo Kesserling, Comandante Supremo del fronte Sud, era limitata alla linea del fronte, alle immediate retrovie e a una fascia costiera profonda 30 km. lungo le coste tirreniche e adriatiche.
La sfera invece delle forze territoriali della Wehrmacht, al Comando del Gen Toussaint, si estendeva praticamente sull’intero territorio della Repubblica Sociale Italiana con esclusione:
- della linea del fronte e della fascia costiera;
- delle due Zone di Operazione Alpenvorland e Adriatisches Küstenlandl.
Anche la competenza e l’organizzazione repressiva della polizia e delle SS del Gen Wolff, si estendeva su tutta l’Italia, con esclusione delle fasce di competenza delle forze operative del Maresciallo Kesserling, ma inclusive delle due Zone di Operazioneen di cui sopra.
Per quanto riguarda l’organizzazione delle unità dell’esercito di campagna nell’Adriatisches Küstenland, essa era affidata, dalla foce del Tagliamento all’Istria, al Gen Ludwig Kübler, Cte del XCVII CA, che aveva insediato il suo posto Comando a Cormons ed aveva alle sue dipendenze tre Divisioni, la 278a, la 162a (turcomanna) e la 188a da montagna di riserva.
Quest’ultima Divisione, di stanza a Salisburgo con compiti di reclutamento e di alimentazione delle Divisioni alpine tedesche, trasferita inizialmente a Belluno, nell’Alpenvorland, inverno 1943-1944, fu poi rischierata nell’Adriatisches Küstenland, impiegata nel Friuli orientale e in Istria contro le formazioni partigiane jugoslave; la 188a Divisione fu certamente quella maggiormente impegnata nella lotta contro le sempre più aggressive formazioni jugoslave.
Essa era formata per più del 60% da personale appartenente alle minoranze tedesche in Slovenia e Croazia, che conoscevano quindi la lingua e i luoghi. I Quadri, invece, erano costituiti da personale tedesco anziano o che a seguito di ferite o di infermità non era più utilizzabile al fronte.
La 162a Divisione fu trasferita nella primavera 1944, in previsione della rottura della fronte sulla Linea Gotica, sull’Appennino Tosco-Emiliano, inquadrata nel XIV Corpo d’Armata del Gen. Frido von Senger.
Più tardi affluirono nell’Adriatisches Küstenland altre due Divisioni, la 392a Divisione tedesco-croata e la 24a Divisione Waffen SS Karstjäger (cacciatori del Carso”), fatta di carinziani, italiani e sloveni.
La complessa struttura diretta dal Gen Karl Wolff era articolata in Comandi regionali, retti da SS und Polizei Fuhrer. Questi centri, cui Wolff aveva delegato ampia autonomia, erano veri e propri organi di coordinamento e di pianificazione della lotta antipartigiana ed utilizzavano anche reparti della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR), dall’estate 1944 confluiti nella Milizia Difesa Territoriale, e delle Questure.
Il Comando regionale SS e Polizia dell’Adriatisches Küstenland era retto dal Gruppenführer delle SS e Leutenantgeneral della Polizia Odilo Globocnik. Ad Udine e negli altri centri dell’Adriatisches Küstenland furono installati Comandi subordinati.
La politica tedesca nei confronti dei partigiani non fu lineare. All’inizio fu applicata una disposizione emanata nel 1942, riferita al teatro operativo dell’Europa Orientale. Questa prevedeva l’uccisione immediata dei responsabili, ma anche solo sospetti, di attività antitedesche.
Questa linea entrò in vigore in Italia nel novembre 1943 e il Gen. Kluber ne raccomandò la rigida applicazione nell’ Adriatisches Küstenland. Altre unità tedesche preferirono invece consegnare i partigiani catturati alla Fieldgendarmerie.
L’aumento dell’attività partigiana in Italia a partire dalla primavera 1944, obbligò i Comandi tedeschi ad impegnare un numero sempre maggiore di truppe della Wehrmacht – in genere battaglioni russi, siberani, caucasici (gli Öst battaillon), con inquadramento tedesco, i quali, giunti con le forze tedesche nel settembre 1943, erano stati disseminati su tutta la pianura friulana – richieste dai Comandi regionali SS e di polizia.
Nacque così un conflitto di competenze tra il Maresciallo Kesserling ed il Gen Wolff. Kesserling, dato il massiccio impiego dell’esercito nella repressione antipartigiana, volle assumere il controllo delle operazioni antipartigiane.
Wolff si oppose a questa pretesa, spalleggiato da Himmler, a Berlino. Nel luglio 1944, si giunse a un compromesso che vide Kesserling assumere la responsabilità e la guida della lotta antipartigiana su tutto il Teatro operativo italiano, mentre Wolff fu reso responsabile della sua attuazione al di fuori dell’area del fronte e della fascia costiera profonda 30 Km..
Lo sconfitto fu il Gen Toussaint che, privato della competenza dell’azione antipartigiana, perdette ogni possibilità di influenzare direttamente la politica da seguire in questo settore.
Fu dunque sulla base delle direttive di Kesserling che, anche nel Litorale Adriatico, operarono i Comandi regionali delle SS e della Polizia. Kesserling dispose anche che il territorio regionale fosse ulteriormente diviso in “settori per la sicurezza” agli ordini del più capace, fosse esso della Wehrmacht, delle SS o della Polizia. Spettava a detto Comandante di settore ordinare le misure più opportune per la lotta antipartigiana o stabilire l’applicazione delle misure di rappresaglia.
Le direttive, al riguardo, di Kesserling, furono molto dure: impunità per i Comandanti che avessero ecceduto in severità, fucilazione o impiccagione immediata nei confronti di chi fosse stato trovato armato o avesse commesso azioni ostili di qualsiasi genere contro le truppe tedesche o che avesse fornito aiuto ai partigiani.
Si era infatti diffusa la convinzione, dagli alti Comandi sino alla truppa, che una parte ragguardevole della popolazione italiana collaborasse di buon grado con i partigiani; la popolazione era, cioè, ritenuta corresponsabile delle azioni dei partigiani e quindi doveva essere oggetto di rappresaglia. Là dove erano più attive le formazioni partigiane, la popolazione locale era senz’altro equiparata ai partigiani (equivalenza: popolazione-partigiani).
La minaccia di rappresaglia avrebbe dovuto costituire un deterrente per la popolazione, indurla a collaborare con l’occupante tedesco. Essa era articolata in misure di severità crescente: pene pecuniarie, coprifuoco, distruzione od incendio di abitati, evacuazione di intere zone, invio forzato di lavoratori in Germania, cattura e fucilazione di ostaggi.
E’ comunque un errore l’assunto che vi fossero disposizioni che stabilivano il rapporto di ostaggi da fucilare nelle rappresaglie, per esempio 5 : 1o 10 : 1. Ogni Comandante locale si regolava come riteneva più opportuno. Alla fine del 1944, la politica della lotta antipartigiana entrò in una nuova fase.
Il periodo precedente si era concluso con durissime repressioni, in Val d’Ossola, a Marzabotto, in Friuli e nella stessa Carnia. I Comandi tedeschi avevano compreso che i metodi repressivi utilizzati si erano dimostrati inefficaci e controproducenti.
Dal tardo autunno del 1944, vi fu una lenta, ma costante diminuzione della violenza tedesca, come risulta anche da una relazione da Berlino, dell’Ambasciatore Filippo Anfuso e nella primavera del 1945, si arrivò all’applicazione del trattamento previsto dalle norme internazionali per i prigionieri di guerra nei confronti dei partigiani catturati, anche con le armi in pugno, purchè avessero chiari segni distintivi del loro stato di partigiani: foulard, berretti militari, bracciale etc.
La circostanza è ammessa anche da parte dei partigiani; non tutti i reparti tedeschi, però, si attennero a questo nuovo e più corretto comportamento. Ciò avvenne segnatamente in Carnia ove non si registrò alcuna attenuazione delle misure repressive.