a cura di Cornelio Galas
Torniamo – sempre con quanto scrive Valentina Pisanty (“La questione irritante delle camere a gas” – sulle “confessioni” del comandante del campo di sterminio, Rudolf Höss e le reazioni dei negazionisti, per poi allargare il discorso anche alle controdeduzioni (eufemismo) perfino su testimonianze oculari, interviste, rapporti dell’epoca.Valentina Pisanty (“La questione irritante delle camere a gas” – le “confessioni” del comandante del campo di sterminio, Rudolf Höss.
La critica di Carlo Mattogno
Carlo Mattogno si propone di attaccare la testimonianza di Höss attraverso una strategia argomentativa nuova e ben più sofisticata di quelle precedentemente esaminate. in risposta alle accuse lanciate da Nadine Fresco (1980) ai negazionisti di rifiutare a prıori qualunque prova dello sterminio nazista e dell’esistenza delle camere a gas, egli ribatte che “la metodologia revisionista non solo non esclude A PRIORI l’esistenza delle camere a gas, ma puo tranquillamente partire da questo presupposto per confutare i singoli testimoni oculari.”
Di conseguenza, egli si propone di considerare la testimonianza di Höss “da un punto di vista rigorosamente sterminazionista” per dimostrare che “essa è ESSENZIALMENTE un’accozzaglia di falsificazioni e contraddizioni, per cui – da un punto di vista rigorosamente sterminazionista – essa è da respingere come falsa”. Altrimenti si deve ribaltare l’asserto di Nadine Fresco e sostenere che, per “la storiografia sterminazionista […] qualunque prova dello sterminio in massa degli Ebrei nelle camere a gas – anche chiaramente falsa – è in sé accettabile”.
La novità dell’approccio argomentativo consiste nell’apparente apertura al dialogo dimostrata da questo autore, il quale sembra accogliere il principio epistemologico della falsificabilità delle ipotesi quale condizione fondamentale della dimostrazione scientifica. Mattogno si cimenta dunque in una lettura minuziosa della testimonianza di Höss per cercare di evidenziarne tutti i punti dubbi, falsi, o contraddittori. Il risultato di questa impresa di demolizione è un libretto, scarsamente leggibile per un pubblico non motivato a prendere parte alla querelle, strutturato in una serie di punti (sessanta in tutto) schematicamente esposti, ciascuno dei quali dovrebbe indicare una presunta incongruenza in quelle che vengono definite fin dall’inizio «le false confessioni di Rudolf Höss”.
Nel riepilogo che precede le conclusioni, Mattogno elenca le venti aree su cui Höss avrebbe
mentito. Tra queste, le principali riguardano:
(i) la sua convocazione a Berlino da parte di Himmler
La data ricordata da Höss (giugno 1941) è, come abbiamo visto, difficile da conciliare con altri indizi storiografici a nostra disposizione. Lo storico Gerald Reitlinger (1953) prende atto di questa incongruenza e, come farà anche Pressac (1993), colloca l’incontro con Himmler nell’estate del 1942. Secondo Mattogno l’ipotesi di Reitlinger non è sostenibile per almeno tre ragioni:
a) Höss insiste con sicurezza sull’estate del 1941;
b) Questa data ha ricevuto la sanzione ufficiale del Museo di Auschwitz;
c) La prima installazione di sterminio – il cosiddetto Bunker I- che è stata allestita da Höss DOPO l’ordine di Himmler, è entrata in funzione nel gennaio 1942.
“La prima installazione di sterminio non fu il Bunker 1 (maggio 1942), ma il Block 11 di Auschwitz (settembre o dicembre 1941), seguito dall’obitorio del Crematorio I di Auschwitz (che funzionò dal gennaio all’aprile 1942). I Bunker 1 e 2 di Birkenau furono costruiti per allontanare le operazioni speciali dal campo principale di Auschwitz, dove davano troppo nell’occhio e disturbavano le altre attività del lager”. ( Pressac, 1993).
Le prime due ragioni non reggono: il fatto che Höss si sia sbagliato con convinzione minore o maggiore non è rilevante ai fini della ricostruzione storica degli eventi, mentre il punto b) è trascurabile, perché per quanto il parere ufficiale del Museo di Auschwitz sia ritenuto autorevole, nessuno pretende che sia inoppugnabile.
Quanto al punto c), è probabile che il Bunker 1, inaugurato nel maggio 1942, venisse inizialmente impiegato per liquidare i malati del campo, mentre le gassazioni degli ebrei ebbero luogo successivamente. Non c’è dunque alcun motivo per ritenere che la costruzione del Bunker 1 debba essere avvenuta dopo l’ordine di Himmler.
Se si accetta di spostare di un anno il colloquio tra Höss e Himmler, allora molte delle altre
obiezioni avanzate da Mattogno trovano una risposta semplice. Ad esempio, il fatto che nel 1942 Himmler impiegasse l’espressione “soluzione finale” (Endlösung) nell’accezione di “sterminio biologico dell’ebraismo europeo” non desta alcuna sorpresa, visto che – secondo Poliakov (citato da Mattogno) – questa accezione subentro a quella che si riferiva al progetto di un’emigrazione in massa a partire dalla fine del 1941.
Allo stesso modo, il riferimento agli altri campi di sterminio già esistenti all’epoca del colloquio cessa di fare problema, in quanto Belzec, Sobibor e Treblinka entrarono in funzione prima del giugno 1942.
(ii) le sue visite a Treblinka e a Chelmno
Nell’Affidavit (PS-3868) di Norimberga, Höss dice di avere visitato Treblinka per vedere come venissero effettuati gli stermini e aggiunge che in quell’occasione il comandante del campo di Treblinka gli disse (a) di avere liquidato 80.000 persone nel corso di un semestre, e (b) di avere a che fare principalmente con gli ebrei del ghetto di Varsavia, mentre in NO-1210 egli colloca questa visita nella primavera 1942. Le contraddizioni che scaturiscono da questi due documenti sono molteplici:
• nella primavera 1942 il centro di sterminio di Treblinka non era ancora entrato in funzione (venne inaugurato nell’estate dello stesso anno);
• secondo quanto sostenuto in KiA, il primo utilizzo omicida dello Zyklon B ad Auschwitz risale al settembre 1941 (dicembre 1941, secondo Pressac 1993), e quindi non avrebbe senso che, dopo questa data, Höss si fosse recato a Treblinka per informarsi sul migliore gas da impiegare;
• le deportazioni dal ghetto di Varsavia incominciarono nell’estate (e non nella primavera) 1942;
• se decidiamo di collocare l’ordine di Himmler di dare inizio allo sterminio degli ebrei nel giugno 1942, allora non è chiaro il motivo per cui Höss dovesse visitare le altre istallazioni di sterminio prima di questa data.
Ci troviamo qui di fronte a un reale problema di datazione non risolvibile in base a un riferimento esclusivo alla testimonianza di Höss, che su questo punto è contraddittoria. L’unica certezza è che la visita di Höss a Treblinka non puo essere avvenuta prima dell’estate 1942 (inaugurazione del lager, liquidazione del ghetto di Varsavia); d’altra parte, se veramente Höss assistette a una cremazione avvenuta a Treblinka, allora la data è ulteriormente spostata in avanti, in quanto lo svuotamento del le fosse comuni e le crema zioni a Treblinka cominciarono nel marzo 1943.
Certo, la descrizione delle cremazioni potrebbe riferirsi a un resoconto che gli venne fornito successivamente, anziché a una sua esperienza diretta. Ciò nonostante, rimane il fatto che la prima gassazione per mezzo dello Zyklon B ad Auschwitz avvenne comunque prima dell’estate 1942 e, sebbene questo primo esperimento non fosse stato pienamente soddisfacente (non era ancora stata calcolata la dose ideale per sterminare gli esseri umani con questo veleno), la tecnica di gassazione per mezzo del gas di combustione impiegata a Treblinka era comunque meno promettente di quanto non fosse quella usata all’epoca ad Auschwitz: dunque, Höss non aveva molto da apprendere dagli altri campi di sterminio per quanto riguardava questo aspetto del processo di sterminio.
“La prima delle due baracche di Birkenwald adattate per la gassazione […], quando fu pronta (nel marzo 1942 o un pò prima) non era neppure destinata specificamente agli ebrei, bensì ai malati, di cui bisognava sbarazzare il campo. Soltanto molti mesi dopo giunse un ordine che ne limitava l’impiego agli ebrei e agli zingari”.
Pisanty : L’irritante questione delle camere a gas”. ( Reitlinger, 1953)
Forse lo scopo della visita a Treblinka era, più in generale, di tenersi al corrente delle modalità pratiche della Soluzione finale così come venivano attuate negli altri lager principali, in particolare per quanto riguardava le tecniche di cremazione. Come si vede, in mancanza di ulteriori indizi è molto difficile giungere a un’ipotesi soddisfacente per risolvere l’anacronismo presente nel documento in questione. Ma simili punti di arresto momentaneo del progresso conoscitivo sono proprio ciò che fa della “scienza normale” un complesso lavoro di soluzione di rompicapo, e non una semplice opera di compilazione di dati preconfezionati.
La datazione della visita a Chelmno è più facile da risolvere. Nel luglio 1942 Himmler visita il campo di Auschwitz-Birkenau e ordina di procedere all’esumazione e alla cremazione dei cadaveri nelle fosse comuni di Birkenwald. Höss allora si reca a Chelmno nel settembre dello stesso anno (probabilmente il 17 settembre) per documentarsi sulle tecniche di cremazione ivi praticate. La contraddizione tra l’affermazione secondo cui, all’epoca della sua visita, il lager di Chelmno non fosse più in funzione e il fatto che la chiusura ufficiale del campo in questione sia stata storicamente collocata nel marzo 1943 è solo apparente.
Infatti, verso l’inizio di settembre 1942 (cioè poco prima che Höss facesse visita al campo) ebbero ufficialmente fine i trasferimenti di ebrei dal ghetto di Lodz e, da quel momento in poi, le camere a gas mobili furono adoperate ben poco. Quando ricorda di aver visto le istallazioni per lo sterminio su autocarri a Chelmno, il comandante di Auschwitz non dice di averle viste in funzione: di conseguenza, l’affermazione non fa problema.
(iii) i suoi incontri con Eichmann
A Berlino, Himmler preannuncio a Höss una visita ad Auschwitz di Eichmann, il quale gli
avrebbe comunicato ulteriori dettagli circa la Soluzione finale.
“Poco tempo dopo” (SF) lo Sturmbannführer Eichmann si recò al lager. In quell’occasione, la discussione toccò i seguenti punti:
— la successione dei convogli;
— il luogo più appropriato per installare gli edifici di sterminio: la scelta cadde sul terreno di quello che sarebbe poi diventato Birkenau;
— il mezzo più adeguato per lo sterminio: “Il mezzo non poteva essere che il gas […]. Eichmann mi parlo dell’uccisione con gas da scappamento su autocarri, che era il metodo usato fino allora in Oriente”.
Problema: se l’incontro con Himmler avvenne nell’estate 1941, allora i Gaswagen ai quali si
riferiva Eichmann non erano ancora stati adottati. Infatti, questo mezzo primitivo di sterminio per mezzo di gas di scappamento fu introdotto solo verso la fine 1941. Ma se la data dell’incontro a Berlino va spostata di un anno in quella data (giugno 1942) erano già cominciate ad Auschwitz e a Birkenau (Bunker 1 e 2) le prime gassazioni con lo Zyklon B, mentre dal resoconto che Höss fornisce dell’incontro con Eichmann risulta che la scelta del gas non fosse ancora stata fatta.
Forse Höss condensa in un unico ricordo due diversi incontri con Eichmann (o con altri membri delle alte gerarchie naziste): il primo per ispezionare il terreno e parlare dei diversi gas letali (facendo riferimento non ai Gaswagen bensì all’operazione Eutanasia – sospesa nell’agosto 1941 – fino ad allora praticata sui malati di mente), e il secondo per discutere delle esatte modalità della Soluzione finale.
Si può ipotizzare che, avendo collocato erroneamente l’incontro a Berlino con Himmler nel giugno 1941 Höss cerchi di ricostruire con il ragionamento gli avvenimenti che non ricorda bene nella loro successione cronologica. In SF, ci viene detto che “alla successiva visita di Eichmann [dopo le prime gassazioni sperimentali], gli riferii sull’impiego del Cyclon B, e decidemmo che quello sarebbe stato il gas da adoperare per le imminenti stragi in massa”.
È possibile che fosse in questa occasione, e non durante l’incontro precedente (avvenuto nell’estate 1941), che i due discussero per la prima volta gli ordini impartiti da Himmler circa lo sterminio degli ebrei. Anche in questo caso, ogni ipotesi storiografica che possiamo avanzare è fallibile e va accertata in base a ulteriori elementi documentari.
(iv) la prima gassazione a cui Höss assistette
La prima volta che ad Auschwitz venne impiegato lo Zyklon B (su prigionieri politici russi,
nel Block 11), Höss sostiene di essere stato assente dal lager.
“Al mio ritorno, Fritsch mi riferi quanto aveva fatto, e il gas venne impiegato anche per il trasporto successivo. La gasazione venne effettuata nelle celle di detenzione del Block 11. Io stesso, proteggendomi il viso con una maschera antigas, assistetti all’uccisione […]. Durante la prima esperienza di gasazione cui assistetti, non riuscii a realizzare appieno ciò che accadeva, forse perché ero troppo impressionato dall’insieme delle operazioni. Ricordo invece più nitidamente la gasazione, immediatamente successiva, di 900 russi nel vecchio forno crematorio, dacché l’utilizzazione del Block 11 comportava troppe difficoltà”. (Höss, 1958)
Poche righe dopo, a proposito della gassazione dei 900 russi nel Crematorio I di Auschwitz, Höss scrive:
“Parecchie ore dopo, le porte vennero aperte e fu fatta entrare l’aria. Allora per la prima volta vidi in grande quantità i cadaveri di individui gasati, e ciò provoco in me un malessere, un brivido, benché mi fossi figurata peggiore la morte col gas”.
Secondo Mattogno, quest’ultimo brano è contraddittorio rispetto al primo poiché ci costringe ad accettare che Höss abbia assistito a una gassazione “per la prima volta nel Block 11 e al tempo stesso nel vecchio crematorio”. In realtà, la contraddizione non sussiste in quanto è l’autore stesso a fornirci l’elemento per risolverla, ossia il suo stato di turbamento durante l’operazione del Block 11 che gli impedi di registrare accuratamente gli stimoli visivi in entrata.
C’è anche da dire che le prime gassazioni, avvenute nel Block 11, furono molto meno asettiche di quanto non traspaia dalla testimonianza di Höss: durante la prima gassazione sperimentale, infatti, le vittime impiegarono due giorni a morire perché era stata calcolata male la dose letale del gas. Non sorprende allora che Höss sia riluttante ad ammettere il proprio coinvolgimento diretto con le operazioni eseguite nel Bunker 11.
(v) la prima operazione di sterminio ebraico
— in PS-3868 Höss dice che “le esecuzioni in massa mediante gasazione cominciarono nel corso dell’estate 1941”;
— in NO-1210 leggiamo: “Nel 1941 arrivarono i primi afflussi di Ebrei dalla Slovacchia e dall’Alta Slesia. Le persone inabili al lavoro furono gasate in un locale del crematorio conformemente ad un ordine che Himmler mi diede personalmente”;
— SF : “Non saprei stabilire in quale epoca comincio lo sterminio degli ebrei; probabilmente già nel settembre 1941, ma forse anche solo nel gennaio 1942. La prima operazione riguardo gli ebrei dell’Alta Slesia orientale”
— KiA : “Nella primavera del 1942 giunsero i primi trasporti di ebrei dall’Alta Slesia, tutti individui da sterminare”.
La prima citazione è chiaramente dissonante rispetto ad altri frammenti della testimonianza di Höss, e in particolare al fatto che la prima gassazione sperimentale avvenne ad Auschwitz nel settembre (o dicembre ?) 1941. D’altronde, ho già aderito alle accuse di scarsa attendibilità rivolte ai documenti PS-3868 e NO-1210. Al momento della stesura del suo memoriale sulla Soluzione finale, invece, Höss sembra meno sicuro della data di inizio dello sterminio ebraico, mentre in KiA essa è decisamente spostata in avanti di qualche mese.
Ancora una volta, non si puo fare affidamento sul ricordo di Höss circa la successione cronologica degli eventi: per raggiungere un grado soddisfacente di certezza, occorre riferirsi ad altri documenti meno soggetti all’azione erosiva del tempo. Certo, il margine di incertezza riguardante questo punto storiografico non è poi cosi drammatico: in fondo, Höss oscilla tra diverse date che ricoprono un lasso di pochi mesi, tale scarto temporale essendo del tutto in linea con i limiti della memoria media di un essere umano.
Inoltre, non c’è discrepanza nel fatto che qualche convoglio di ebrei slovacchi o provenienti
dall’Alta Slesia possa essere stato selezionato per la gassazione prima dell’estate 1942, ovvero della data in cui potrebbe essere partito l’ordine di Himmler di procedere con la Soluzione finale della questione ebraica. Già prima di questa data, infatti, la politica nazista nei confronti degli ebrei (e in particolare degli ebrei orientali) era mirata alla loro eliminazione fisica, come dimostrano i massacri di Riga, la formazione delle Einsatzengruppen in Lituania le uccisioni a Vilna e l’impiego di camere a gas mobili à Chelmno.
La decisione di eliminare tutti gli ebrei d’Europa non arrivò come un fulmine a ciel sereno ma venne maturata per gradi. Tornando alle obiezioni di Mattogno, ne segnalo una particolarmente inefficace: egli infatti constata una presunta contraddizione tra l’affermazione secondo cui i trasporti di ebrei dall’Alta Slesia fossero “di mille persone ciascuno” (Höss, 1958) e il brano in KiA in cui Höss si fa trasportare dalla sua vena poetica per dire che “nella primavera del 1942 centinaia di uomini e donne nel fiore degli anni andarono cosi alla morte tra i frutteti della fattoria”.
Amante della precisione, Mattogno fa notare che, “essendo arrivati diversi trasporti, gli Ebrei gasati nella primavera del 1942 non sono centinaia, ma migliaia”
(vi) l’ordine di Himmler di sospendere lo sterminio ebraico
In SF (Höss, 1958) ci viene detto che l’ordine di Himmler di sospendere lo sterminio ebraico avvenne nell’autunno 1944, e questa data è corroborata da altre testimonianze, nonché da una serie di indizi quali la rivolta del Sonderkommando del Crematorio III nell’ottobre 1944 e la distruzione dei crematori di Auschwitz-Birkenau verso la fine di quell’anno.
Tuttavia, in NO-1210 Höss ricorda che nel maggio 1945 egli fu impegnato in un viaggio di ispezione in vari campi (Neuengamme, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau e Flossenburg) in compagnia di Pohl, il quale — su disposizioni di Himmler — doveva “portare personalmente ai vari comandanti dei campi l’ordine che non si doveva uccidere più nessun Ebreo e bisognava fare il possibile per arrestare il tasso di morte dei prigionieri”.
Secondo Mattogno, vi è un’insormontabile discordanza tra questi due frammenti. Ma se si tiene conto che i campi citati non erano campi di sterminio veri e propri (bensì campi di concentramento) e soprattutto che nello stato di confusione totale in cui si trovava la Germania alla fine della guerra dovette per forza passare del tempo tra l’emissione dell’ordine di Himmler e la sua diffusione capillare, allora la contraddizione non sussiste.
(vii) la tecnica di sterminio nelle camere a gas
Su alcuni dettagli tecnici, Höss si dimostra piuttosto impreciso:
• la data di inaugurazione dei quattro grandi crematori di Birkenau (NO-1210: “i due primi grandi crematori furono terminati nel 1942” – i documenti della Bauleitung dimostrano invece che essi furono terminati nel 1943, dato confermato da Höss stesso in SF);
• il numero di forni (NO-1210: “Ad Auschwitz c’erano due impianti, ognuno di essi aveva cinque forni doppi”;
• la loro capacità massima di cremazione (SF: 2000-4000 cadaveri ciascuno in 24 ore per i
crematori II e III; 1500 persone ciascuno per i crematori IV e V – cifre esagerate);
• la massima cifra di persone gassate in un giorno (SF, 181: .9000 gassati al giorno nell’estate 1944; secondo Pressac, il massimo record raggiunto fu di 4000-5000 cadaveri in un giorno).
“Dal punto di vista della tecnica criminale, i massacri degli ebrei nella tarda estate del 1941 erano prove rudimentali e disorganizzate (quelle effettuate dalle Einsatzgruppen A, B, C und D in Unione Sovietica; le camere a gas mobili nei territori dell’Est; infine, i camion a Kulmhof [Chelmno sulla Ner] nel dicembre 1941), suscettibili di venire sospesi in qualunque momento sotto la pressione degli eventi interni o esterni. Solo a partire dal secondo trimestre del 1942 venne raggiunta la fase, irreversibile e praticamente ufficiale presso le alte sfere del Reich e nelle zone dello sterminio, della ‘catena di montaggio'”.
La presenza di simili inesattezze viene giustificata come segue da Pressac:
“Höss partecipava alle “azioni speciali” attenendosi strettamente alle sue mansioni e si occupava solo dei compiti pressoché insormontabili de rivanti dalla crescita esponenzia le del suo campo, evitando di soffermarsi su considerazioni di ordine morale [e, aggiungerei, nemmeno su quelle di ordine tecnico]. Era presente, senza vedere. Secondo l’autore, tale atteggiamento spiega gli errori involontari riscontrabili in tutta la sua autobiografia”. (Pressac, 1989)
(viii) statistiche e cifre
Nelle sue prime testimonianze, Höss si dimostra assai impreciso circa il numero di ebrei immatricolati e gassati ad Auschwitz, il numero di prigionieri russi uccisi ad Auschwitz e le statistiche ebraiche riferitegli da Eichmann. D’altra parte, in SF egli dichiara apertamente la sua ignoranza in merito alle statistiche dei decessi nel lager, e ciò per via della sistematica distruzione da parte delle autorità del campo di tutti i documenti che avrebbero potuto consentire un calcolo di questo tipo.
Dopo avere elencato minuziosamente i sessanta punti nel corpus delle testimonianze di Höss che secondo lui “dimostrano irrefutabilmente che Höss ha mentito” (notare il salto logico: in realtà, le contraddizioni riscontrate dimostrano solamente che Höss si è sbagliato), Mattogno passa alla seconda fase della sua opera di demolizione.
Se alla prima parte del suo saggio si poteva ancora riconoscere un certo valore scientifico basato sulla segnalazione di alcune “anomalie” con cui una storiografia dello sterminio deve misurarsi per inserire la testimonianza di Höss nel sistema probatorio di cui dispone in questa seconda parte conclusiva traspare la vocazione più propriamente negazionista di questo autore.
Il negazionista è colui per il quale ogni errore equivale a una menzogna e dietro a ogni menzogna si nasconde un progetto di falsificazione; non concede spazio all’imprecisione accidentale, è intollerante nei confronti della naturale aleatorietà che accompagna il ricordo di avvenimenti passati. Così, egli rinuncia a quel margine di approssimazione su cui si basa il consenso sociale e che è presupposto dal lavoro dello storico.
Mattogno diventa un negazionista (e non un inoffensivo lettore sospettoso) a partire dal momento in cui pone la sua capacità di stanare le contraddizioni presenti in un testo al servizio di una tesi (la tesi faurissoniana), evitando tuttavia di applicare un analogo metodo di lettura diffidente alla sua stessa tesi.
Questo punto puo essere chiarito se si confronta la tecnica interpretativa adottata da Mattogno con quella di un negazionista mancato come Pressac. Jean-Claude Pressac, dopo avere attraversato una fase di stretta collaborazione con Faurisson nel 1980, ha ricominciato a credere nell’esistenza delle camere a gas di Auschwitz mentre svolgeva accurati studi sui documenti tecnici relativi ai crematori di Auschwitz-Birkenau.
In comune con i negazionisti, Pressac esibisce un’insofferenza di fondo nei confronti delle sbavature riscontrabili nelle diverse testimonianze e, inizialmente, fu proprio la constatazione di anomalie in testimonianze quale quella di Höss ad attirarlo verso le tesi eretiche di Faurisson; tuttavia, la sostanziale onestà scientifica di Pressac lo costrinse ad approfondire i punti controversi man mano incontrati, anziché limitarsi a considerarli come le indiscutibili prove dell’inesistenza del genocidio.
Pur rinnegando la complicità che in passato lo ha legato ai negazionisti, Pressac si dimostra critico nei confronti di un certo metodo impiegato da buona parte della storiografia ufficiale “che consiste nel fare affidamento sulle testimonianze di prima mano, ritenute ‘sacrosante’ […] potando le parti che appaiono ‘incerte’ o che ‘non combaciano”‘ (Pressac, 1989).
Piene di errori e inesattezze, le testimonianze dovrebbero venire in aiuto allo storico solo dopo essere state sottoposte a un confronto con altri documenti più “oggettivi”, quali gli archivi del campo, i disegni tecnici, le fotografie dell’epoca, i resti materiali delle istallazioni dei lager, ecc. Come Mattogno, anche Pressac è molto diligente nel constatare e segnalare le inverosimiglianze riscontrate nelle testimonianze. Diversamente da Mattogno. tuttavia, egli non ritiene che tutti gli errori rilevati possano essere fatti risalire a un’unica matrice generativa.
“[…] dobbiamo tentare […] di calcolare il valore della testimonianza alla luce dei documenti noti e cercare di spiegare le eventuali stranezze, gli errori, e perfino le menzogne che essa puo contenere in funzione della natura dell’individuo, di ciò che ha sofferto, di quello che ha visto o che non ha potuto vedere, dell’esatto luogo in cui si trovava [… ]”. (Pressac, 1989)
Dal dubbio alla negazione
Dubitare è un’attività di per sé innocua. Al massimo si potrà dire che, in molti casi, il sospetto sistematico comporta un eccesso di dispendio interpretativo. Nella vita quotidiana, ad esempio, un atteggiamento aprioristicamente diffidente può rivelarsi poco produttivo. Soprattutto, bisogna avere un ottimo motivo prima di rinunciare a credere all’apparenza delle cose o alla veridicità delle affermazioni altrui, altrimenti si cade nella paranoia interpretativa o nella dietrologia spicciola.
Solitamente, siamo disposti ad ammettere un margine piuttosto elastico di inaccuratezza da parte dei nostri interlocutori: pretendere l’esattezza assoluta da ogni resoconto puo essere segno di pignoleria esasperata, ovvero di scarsa adattabilità all’ambiente esterno. Vi sono tuttavia contesti comunicativi in cui la nostra tolleranza nei confronti dell’imprecisione fattuale viene notevolmente ridotta e ci aspettiamo che il parlante faccia del suo meglio per far coincidere i suoi enunciati con una qualche verità esterna.
In questi contesti, le strategie di controllo che applichiamo nel sanzionare i discorsi altrui si fanno meno indulgenti. L’indagine storiografica, in quanto si vuole fondata su criteri di tipo scientifico, crea uno di tali contesti.in cui si avverte l’esigenza di applicare un maggior rigore interpretativo. Nemmeno in questo caso è proficuo dubitare per il puro gusto di dubitare. Tuttavia, nell’indagine storica la soglia oltre la quale si accende la spia del dubbio si abbassa rispetto a quanto non accada nella comunicazione quotidiana.
Consapevole della natura altamente fallibile di ogni operazione cognitiva, a partire dalla percezione stessa fino alla rievocazione di esperienze passate, lo storico dovrebbe evitare di formulare le sue ipotesi a partire da una testimonianza singola laddove siano disponibili altre fonti di conoscenza. Infatti nessuna testimonianza presa isolatamente puo coprire ogni aspetto di un avvenimento, per quanto banale, per via della necessaria parzialità del punto di vista del testimone.
Quando poi subentrano altri fattori, quali il coinvolgimento emotivo da parte del testimone nell’evento esperito, l’autocensura o la distanza temporale che separa l’evento stesso dal suo resoconto, allora l’accuratezza della testimonianza è ulteriormente pregiudicata e al suo interno si cominciano ad annidare delle contraddizioni.
La consapevolezza della fragilità di ogni testimonianza umana non implica tuttavia che lo storico debba rinunciare a riconoscere le anomalie quando le incontra. In certe occasioni la storiografia ufficiale dello sterminio nazista è stata fin troppo sbrigativa nel minimizzare la portata delle contraddizioni presenti in documenti quali le deposizioni di Höss a Norimberga, elevando eccessivamente la soglia del dubbio epistemologico fino a non riconoscere il carattere sorprendente di alcuni fatti che si discostavano dagli abiti interpretativi accettati.
Si possono trovare mille giustificazioni per questa estensione del territorio della scienza “normale”, non ultima la necessità di divulgare la storia della Shoah la quale, sebbene presenti tuttora aree povo conosciute per quanto riguarda i dettagli minori, è tristemente assodata nelle sue coordinate principali. Fare storia non significa solamente svolgere una ricerca storiografica, ma anche perpetuare e diffondere la memoria collettiva: per ottenere questo obiettivo, occorre arrestare momentaneamente il processo di costante revisione caratteristico del progresso conoscitivo per fornire una versione – necessariamente incompleta, imprecisa, riformulabile – dei fatti.
Accanto all’aspetto divulgativo, rimane pero il contenuto scientifico della storiografia, ed è su questo versante che lo storico non puo permettersi di trascurare proprio quei punti dissonanti che gli impediscono di assestarsi definitivamente su una certa interpretazione degli indizi a lui giunti. Tali elementi fungono da motore propellente per tutta la ricerca successiva.
Ma se la constatazione di fatti sorprendenti che lo costringono a rivedere le ipotesi precedentemente accettate fa parte dei compiti dello storico, allora che cosa distingue il revisionista in senso proprio dal negazionista? Non tanto la propensione a dubitare, comune a entrambi, quanto il modo con cui risolvere la tensione interpretativa provocata dal dubbio epistemologico. Lo storico accorto sa che la sua sorte professionale è di convivere con il dubbio e, per quanto faccia di tutto per ricostruire un quadro indiziario che si accosti il più possibile a una ideale verità dei fatti, non si scoraggia di fronte alle innumerevoli mini-sconfitte che incontra sul suo cammino.
Anche quando lavora su una certa ipotesi storiografica (ad esempio, che l’incontro a Berlino tra Himmler e Höss avvenne nel 1942), mantiene aperte sullo sfondo le altre possibilità, a meno che queste ultime non siano completa mente falsificate da altri frammenti documentari.
Al contrario, il negazionista cerca la scorciatoia: crea scompiglio nell’interpretazione dei documenti, ma non in omaggio al principio del fallibilismo, bensi allo scopo di approfittare
dell’allentamento delle maglie interpretative per infilarvici di soppiatto la sua tesi. Avvenuto l’innesto, la ricerca si arresta bruscamente e al precedente ermetismo subentra il più chiuso dei fondamentalismi. A questo punto, ogni nuovo indizio documentario diventa una potenziale minaccia e viene evitato scrupolosamente.
A proposito dei suoi ex colleghi negazionisti, Pressac scrive: “nell’istante in cui hanno accettato qualcosa come un fatto, questo diventa un’acquisizione indubitabile e irreversibile”. In altre parole, i negazionisti hanno una visione assiomatica della storia. Non sopportano l’imprecisione nelle testimonianze, sono allergici all’ambiguità e alla casualità dell’esperienza umana: per questo motivo vanno alla ricerca della matrice comune di tutti gli errori che, nella loro ottica, non possono che ricondurre a una qualche cospirazione.
Posti gli assiomi del proprio paradigma interpretativo – le camere a gas non sono mai esistite, non c’è stato lo sterminio, ecc. – il negazionista passa a costruire un edificio fatto di frammenti di testi e di congetture che si spacciano per verità assolute. A questo edificio mancano porte e finestre aperte verso il mondo esterno e il percorso al suo interno è obbligato: non un labirinto o un castello, ma una piramide egizia al cui interno è conservato il Segreto.
Per uscire dalla metafora, il negazionista rifugge dall’azione potenzialmente falsificante dell’esperienza successiva, ossia dall’emergere di nuove prove indiziarie che potrebbero mettere a repentaglio la sua versione dei fatti.
“Non si sperimenta su delle rette o su delle circonferenze ideali, si sperimenta solo su oggetti materiali. [… Ma] se la geometria fosse una scienza sperimentale, non sarebbe una scienza esatta, sarebbe sottoposta a una continua revisione”.
Il negazionismo subentra quando la storia cerca di diventare geometria.
Le testimonianze dei deportati
La nostra conoscenza della Shoah, come quella di ogni altro avvenimento storico, dipende in ultima istanza dall’esistenza di un certo numero di testi la cui attendibilità come fonti è materia di indagine storiografica.
Alcuni di essi sono oggetti prodotti senza l’esplicita intenzione di comunicare ai posteri: si
pensi ad esempio alla corrispondenza tra la direzione de i lavori del campo di Auschwitz-Birkenau e le industrie fornitrici degli impianti di sterminio e di cremazione, la quale è oggi accessibile solo grazie a un errore da parte del funzionario SS incaricato di bruciarla, nel 1945. Lo storico seleziona tali documenti dalla massa indistinta dei detriti del passato, trasformandoli da frammenti reticenti a veri e propri delatori circa il contesto storico dal quale essi sono stati strappati.
Evidentemente, essi costituiscono le fonti più obiettive, in quanto all’origine non sono soggetti ai meccanismi di controllo che inevitabilmente intervengono ogni qualvolta entri in gioco la consapevolezza di lasciare un’impronta permanente nella memoria collettiva. La storiografia dello sterminio ebraico puo contare su un numero piuttosto ristretto di spie involontarie di questo genere, in quanto – come è già stato ricordato – la politica concentrazionaria nazista prevedeva la totale cancel lazione delle tracce de i delitti commessi nei lager.
Per completare le informazioni ricavabili dai frammenti storiografici originari, ci si deve percio avvalere delle testimonianze emesse intenzionalmente da coloro che – in misura maggiore o minore – presero parte agli eventi in questione. Il ruolo determinante (ancorché non esclusivo) giocato dalle testimonianze nella attuale comprensione del processo di sterminio porta acqua al mulino dei negazionisti, i quali contano sul fatto che ciascuno di questi documenti puo presentare qualche imprecisione fattuale.
È su tali inesattezze che i negazionisti imperniano il loro tentativo di smembramento del sistema probatorio sul quale si fonda la nostra conoscenza del genocidio. Abbiamo già esaminato il trattamento che i negazionisti. riservano alle testimonianze di alcuni membri delle SS (Höss, Kremer e Gerstein). A questo punto occorre capire come questi stessi autori affrontino l’interpretazione dei documenti redatti dai superstiti.
Classificazione delle testimonianze degli ex deportati
Data la mole immensa di testimonianze sullo sterminio ebraico rilasciate dagli ex deportati
nei lager nazisti, qualunque tentativo di fornirne una esposizione esaustiva risulta impossibile ai fini di questa ricerca. Tutt’al più si puo abbozzare un principio di classificazione per rendere più maneggevole il corpus in questione, prima di passare all’esame dell’uso che i negazionisti ne fanno.
(i) La principale categoria è quella delle testimonianze mute di coloro che non fecero mai ritorno dai lager. La loro assenza ci informa, più di qualunque documento, della realtà dello sterminio. Qualunque sia il numero complessivo dei morti (come è noto, non vi è accordo unanime circa l’esatta cifra delle vittime), è innegabile che x milioni di persone furono sradicate con la forza dalle loro case per essere trasportate nei campi nazisti, e che da un certo momento in poi se ne sono perse le tracce per sempre.
(ii) Al secondo gruppo appartengono le testimonianze orali non ufficialmente registrate, il cui numero è virtualmente pari a quello dei superstiti, ciascuno con la propria storia da raccontare ai familiari (ammesso che ne sia sopravvissuto qualcuno) e agli amici dopo il ritorno a casa. Tuttavia, questo enorme serbatoio di conoscenza è destinato all’oblio, in quanto privo del supporto della scrittura, e percio non impensierisce i negatori della Shoah.
(iii) Le testimonianze redatte durante la guerra raramente riguardano la vita nei campi di sterminio, e cio per un ovvio motivo pratico: agli ebrei rinchiusi nei lager era proibito scrivere. Con questo divieto, i nazisti preparavano il terreno per la seconda fase dell’Endlösung: l’annientamento culturale dell’ebraismo in quanto logico completamento dell’annientamento fisico degli ebrei. Finché erano in grado di farlo, tuttavia, gli ebrei registravano per iscritto le proprie esperienze della persecuzione nazista, come si vede dalla febbre documentaria che si diffuse nel ghetto di Varsavia prima della sua distruzione definitiva.
Con la deportazione, pero, tutto cio ebbe fine. Ne consegue che la terza categoria, quella delle testimonianze “in presa diretta”, è molto esigua. Esistono pero alcuni esemplari di grande rilievo storiografico di documenti sullo sterminio registrati dai detenuti stessi durante la guerra.
Questi sono: i manoscritti che alcuni membri del Sonderkommando riuscirono a compilare clandestinamente e a sotterrare nei pressi del Crematorio III di Birkenau (ritrovati nel 1945 da un abitante di Oswiecim e consegnati al Museo di Auschwitz nel 1970); poche fotografie scattate di nascosto ad Auschwitz-Birkenau da membri della resistenza polacca, raffiguranti un’operazione di cremazione all’aperto e una fila di donne nude che si dirigono verso la camera a gas; il rapporto steso dagli ebrei fuggiti da Auschwitz nel 1944 per informare gli Alleati di quanto succedeva all’interno del lager (noto come il WRB report).
I negazionisti hanno tentato (senza successo) di smantellare la credibilità di quest’ultimo documento. Recentemente, con l’apertura degli archivi russi, sono emersi migliaia di documenti relativi alla gestione del lager di Auschwitz-Birkenau (in particolare, la corrispondenza tra la Bauleitung e le aziende fornitrici). Ciò ha consentito a studiosi quali Pressac di ampliare la nostra conoscenza degli aspetti tecnici dello sterminio, senza dover ricorrere alle informazioni (inevitabilmente fallibili) ricavabili dalle testimonianze.
L’eloquenza dei testimoni muti si avverte nel Libro della memoria di Liliana Picciotto Fargion, dove l’autrice ricostruisce in poche righe la sorte di ciascun deportato ebreo italiano, senza cedere alla tentazione di corredare la sua ricerca di commenti personali.
(iv) Dopo la guerra, alcuni superstiti vennero chiamati a testimoniare ai processi dei criminali nazisti. Il contributo degli ex detenuti ai grandi processi del dopoguerra fu in effetti piuttosto marginale rispetto all’insieme delle deposizioni messe a verbale. Di conseguenza, anche la categoria delle testimonianze processuali è relativamente scarna. Gli autori negazionisti non si preoccupano di confutare dettagliatamente queste deposizioni, ritenendo che sia sufficiente rimarcare la parzialità dei testimoni per contestare il valore probatorio delle loro affermazioni.
(v) È stato detto che l’esperienza della Shoah è per principio incomunicabile in quanto trascende le possibilità concettuali di chi non l’ha vissuta. Quasi tutti gli scrittori dell’Olocausto riconoscono che le parole sembrano distruggere ciò che essi tentano di descrivere. Cio nonostante, l’impulso a lasciare una traccia permanente della propria sofferenza è fortissimo presso gli ex deportati, a giudicare dalla quantità di documenti da essi redatti nel dopoguerra. Molti superstiti hanno affermato che, durante la prigionia, ciò che li tenne in vita fu proprio il desiderio di potere, un giorno, raccontare le brutalità subite nel lager e, indirettamente, pagare un tributo ai compagni morti.
Gran parte dei resoconti autobiografici sull’internamento nei lager nazisti risale all’immediato dopoguerra. I racconti dei campi di concentramento furono addirittura pubblicati prima del ritorno dei sopravvissuti dai campi di sterminio. Questi ultimi cominciarono a scrivere le proprie memorie fin dalla seconda metà del 1945, con la conseguenza che tra il 1946 e il 1947 il mercato editoriale fu inondato di pubblicazioni sulla realtà quotidiana dei lager, filtrata attraverso gli occhi dei singoli detenuti. Solo in Francia, ad esempio, le testimonianze pubblicate in questo biennio dai superstiti del sistema concentrazionario nazista sono più di cento.
Di queste pubblicazioni, l’unica citata abbondantemente dai negazionisti è quella di Paul Rassinier, la quale, come è noto, va a sostegno della loro tesi: tuttavia, occorre ribadire che l’esperienza di Rassinier si limita ai lager di Dora e Buchenwald (che non erano campi di sterminio) e che egli subi il trattamento riservato ai detenuti politici, ben diverso rispetto a quello destinato alle “stelle gialle”.
I testi appartenenti alla quinta categoria realizzano una commistione delle due funzioni che in precedenza ho attribuito alla scrittura autobiografica: da un lato, essi vogliono informare il mondo dell’accaduto nel modo più lineare possibile, da cui l’assenza di riferimenti colti e di stravaganze stilistiche; dall’altro, per ammissione degli stessi autori, essi fungono da strumenti catartici per chi li scrive.
La duplice funzione (documentaria e autoespressiva) svolta da questi scritti si riflette nell’assenza di una precisa strategia comunicativa, ossia nell’ambiguità della figura di Lettore Modello da essi previsto. Difatti, nell’immediato dopoguerra i superstiti della Shoah non hanno ancora un’idea precisa circa l’identità dei propri lettori. In verità, essi non sono nemmeno troppo sicuri del fatto che le proprie testimonianze avranno una ricezione adeguata: vari autori, tra cui Primo Levi, confessano l’angoscia che essi provano all’idea di incontrare un uditorio scettico, incredulo o, peggio ancora, indifferente. È esattamente con questo atteggiamento che i negazionisti si predispongono a interpretare le memorie dei deportati.
(vi) Una sottocategoria del gruppo di documenti appena delineato è costituita dalle interviste rilasciate dagli ex detenuti a distanza di anni rispetto agli eventi vissuti. Vale la pena di considerare le interviste come un corpus testuale distinto dalle autobiografie in quanto esse mettono in gioco strategie comunicative specifiche, basate sull’interazione tra intervistatore e intervistato. Di conseguenza, le conoscenze ricavabili da esse dipendono in primo luogo dall’obiettivo perseguito dall’intervistatore.
Mentre nell’immediato dopoguerra la funzione principale attribuita alle testimonianze dei superstiti era la raccolta di informazioni circa le modalità della deportazione e dello sterminio, oggi esse tendono a fungere da spunti per mantenere vivo il ricordo della Shoah (“per non dimenticare”), indipendentemente dalla luce che possono gettare sugli aspetti più controversi della storiografia concentrazionaria.
Ne deriva che gli intervistatori odierni concedono uno spazio maggiore all’iniziativa del testimone per quanto riguarda l’organizzazione interna del suo discorso. In altre parole, col passare degli anni le testimonianze si sono trasformate da documenti a monumenti storici, e cio ha diminuito la loro efficacia in quanto fonti di informazioni.
La raccolta più completa di testimonianze dei superstiti in forma di interviste è fornita dal film documentario di Claude Lanzmann (Shoah), bersaglio ricorrente degli attacchi dei negazionisti.
(vii) Infine, la nostra conoscenza non specialistica della Shoah è largamente determinata dai prodotti della fiction romanzesca, cinematografica e televisiva, che – nell’adattare la storia dello sterminio alle esigenze dettate dal formato narrativo prescelto – spesso sacrificano l’accuratezza documentaria in favore dei canoni di scorrevolezza, coerenza del racconto, telegenia dei personaggi, ecc., richiesti dal mezzo espressivo di cui si avvalgono. Mentre svolgono un ruolo importante nella divulgazione e nella conservazione della memoria storica nelle sue linee generali, le trasposizioni in chiave romanzesca sono di scarso aiuto per quanto riguarda l’impresa storiografica, in quanto la competenza storica che esse istituiscono nel destinatario è comunque subordinata all’intreccio narrativo.
Nessuno storico pretende di basare la propria conoscenza dello sterminio su testi narrativi, cinematografici o televisivi. Alla luce di queste considerazioni, sorprende lo zelo con il quale i negazionisti si sono scagliati contro i prodotti della fiction sulla Shoah (dal telefilm Olocausto ai fumetti di Spiegelman). Il motivo della loro irruenza è che questi autori sono consapevoli del fatto che simili prodotti commerciali hanno un impatto ben maggiore sulla sensibilità collettiva di quanto non ne abbia uno studio storiografico approfondito.
Il pubblico al quale i negazionisti mirano non è la comunità degli storici, la cui competenza è sufficientemente solida da essere immune all’azione disgregante delle falsificazioni storiche, ma è composto di soggetti scarsamente informati e percio maggiormente influenzabili. Per amplificare gli effetti della propria azione di disturbo, avvalendosi della complicità (spesso ignara) dei media, i negazionisti sanno che è più fruttuoso colpire personaggi in vista quali Elie Wiesel o Steven Spielberg, piuttosto che qualche anonimo superstite polacco.
I negazionisti e le testimonianze dei superstiti
I negazionisti ostentano un disinteresse di fondo nei confronti delle testimonianze dei sopravvissuti, dedicando la maggior parte della loro attenzione alle presunte impossibilità tecniche delle procedure di gassazione, ai problemi statistici e alle deposizioni degli ex ufficiali nazisti. Ad esempio, Faurisson afferma che “le testimonianze non sono prove”, rivelando con ciò la scarsa considerazione in cui tiene gli stessi principi fondamentali del diritto, per cui le testimonianze hanno valore di prova. Infatti, un giudice potrebbe tuttalpiù prendere in considerazione la distinzione tra le testimonianze putativamente interessate (nel nostro caso, quelle degli ebrei e degli agenti alleati) e quelle non interessate (le confessioni dei colpevoli).
Dopodiché potrebbe calcolare il peso relativo di ciascuna delle due categorie di deposizioni, soppesando accuratamente il valore probatorio delle testimonianze in base agli eventuali moventi dei testimoni: alla fine, pero, egli deve basare il proprio giudizio sul cumulo e sulla coerenza delle testimonianze e degli indizi. I negazionisti, al contrario, affermano che un processo basato su testimonianze è indiziario, in quanto (i) le confessioni dei colpevoli possono essere estorte, (ii) le testimonianze delle parti interessate sono inquinate e (iii) i giudici (gli Alleati) sono parte in causa. Ma, a questo punto, non c’è più processo possibile.
Nei rari casi in cui i negazionisti si occupano dei superstiti, la strategia perseguita è l’evidenziazione degli anacronismi e delle piccole incongruenze contenute nelle loro testimonianze e, per riflesso, la delegittimazione di queste fonti, che essi considerano parziali e dunque inaffidabili.
Gli attacchi dei negazionisti contro i superstiti del genocidio assumono spesso la forma dell’invettiva e tendono a concentrarsi su figure paradigmatiche del calibro di Elie Wiesel. Ogni volta che un negazionista cita questo testimone, assume un tono rabbioso nei suoi confronti. Ciò è attribuibile al fatto che, come Anne Frank, Elie Wiesel è assurto al ruolo di simbolo della Shoah: colpendo lui, si vuole colpire l’intera storia dello sterminio. Faurisson osserva allusivamente che nel romanzo autobiografico La Notte Wiesel non cita da nessuna parte le camere a gas di Auschwitz, ma sostiene invece che gli ebrei venivano talvolta gettati vivi nelle fosse crematorie all’aperto.
Da ciò Faurisson conclude che Wiesel è un istrione (histrion – vs historien, storico), il quale ha puntato le proprie carte sulla diffusione della menzogna sbagliata (quella della morte per fuoco anziché per gas). Che Wiesel non fosse a conoscenza, all’epoca della sua prigionia, della realtà materiale dello sterminio è verosimile, visto che egli è sopravvissuto ad Auschwitz. Tanto più che all’epoca della Shoah Wiesel era poco più che bambino, il che rende ancora più naturale la sua mancanza di una visione d’insieme dell’aspetto tecnico delle uccisioni di massa.
L’esecuzione sul bordo delle fosse all’aperto è peraltro documentata da varie fonti, nonostante il metodo ufficiale di sterminio impiegato ad Auschwitz dal 1942 (o 1941) in poi fosse la gassazione. Ad esempio, Nyiszli afferma che nel 1944, in mancanza di Zyklon B, le vittime di Auschwitz venivano sommariamente fucilate e gettate (spesso ancora vive) nelle fosse ardenti.
Il fatto che nel suo romanzo Wiesel abbia riportato questo e non altri metodi di uccisione, sebbene la notizia delle gassazioni fosse già trapelata all’epoca della sua stesura, lungi dal gettare discredito sulla sua testimonianza, è semmai indice della volontà di questo autore di rimanere fedele all’esperienza vissuta, senza correggerla in base alle conoscenze successivamente acquisite.
Gli scomparsi
Circa la questione di coloro che ho definito i “testimoni muti”, Bardèche (1948) elabora una risposta che, se non altro, non dà adito a equivoci circa la sua posizione ideologica. Nonostante dichiari, come tutti gli antisemiti, di non essere un antisemita, Bardèche sostiene che gli ebrei sono stranieri e dunque non si vede il motivo per cui un francese si debba preoccupare del loro destino.
“Non mi sento tenuto a prendere particolarmente la difesa degli ebrei, non più di quella degli slavi o di quella dei giapponesi. […] Non sento una preferenza particolare nei confronti degli ebrei che abitano in Francia e non vedo perché dovrei averne”. (Bardèche, 1948)
I negazionisti successivi tendono a esporsi meno di quanto non faccia questo autore dichiaratamente vichyista, e si limitano a sorvolare sulla quisquilia della sparizione in massa degli ebrei durante la guerra. Butz è fra i pochi negazionisti a porsi questo problema, in primo luogo avanzando dubbi sul numero ufficiale degli scomparsi:
“Si dice che gli archivi Yad Vashem di Gerusalemme contengano oggi i nomi di 2,5/3 milioni di ebrei “vittime dell’olocausto nazista”. I dati sarebbero stati “raccolti su fogli singoli redatti da parenti, testimoni o amici”. Ovviamente, non vi è alcun modo di corroborare adeguatamente questa creazione del governo israeliano, che non puo certo essere ritenuto parte disinteressata riguardo alla questione del numero di ebrei morti”. (Butz, 1976)
Secondo Butz, molti dei formulari che attestano il mancato ritorno di un parente o di un amico sono stati falsificati per ingigantire la cifra dei decessi, e dunque estorcere riparazioni più ingenti alla Germania. Inoltre, il fatto che si siano perse le tracce di un numero indeterminato di ebrei non significa per lui che questi desaparecidos siano necessariamente morti. Un’ipotesi caldeggiata da Butz è che i deportati abbiano approfittato del caos del dopoguerra per cambiare identità, magari riparando in Unione Sovietica per rifarsi una famiglia con qualche avvenente giovane del luogo.
Richard Harwood riprende la congettura di Butz per affermare che “la stragrande maggioranza dei ‘sei milioni’ dispersi era in realtà costituita da emigranti”. Butz e Harwood pero non spiegano dove siano finiti tutti i bambini trasportati nei lager assieme ai genitori, separati da essi all’arrivo e mai ritrovati dopo la guerra.
Testimonianze orali non registrate
Se l’assenza ingiustificata di milioni di persone non colpisce i negazionisti come un fatto sufficientemente sorprendente da meritare che si contempli l’ipotesi del genocidio, la presenza di migliaia di potenziali testimoni, che tuttavia hanno deciso di non rendere pubbliche le proprie sofferenze, è per loro la prova definitiva dell’inesistenza dello sterminio. Non potendo accettare l’idea che l’efficiente macchina nazista possa aver fatto cilecca cosi spesso, lasciando in vita chi era destinato alla gassazione, Bardèche osserva che “la semplice domanda: ‘Come ve la siete cavata?’, era una domanda grave alla quale molti dei superstiti non possono rispondere senza imbarazzo”.
Testimonianze “in presa diretta”
Nell’aprile 1944 due ebrei slovacchi – Vrba e Wetzler – riescono a evadere da Birkenau. Giunti a Zilina (in Slovacchia), redigono un rapporto in cui descrivono le varie tappe della loro esperienza del sistema concentrazionario, a partire dalla deportazione (avvenuta il 13.4.1942 per il primo, e il 14.1.1942 per il secondo), attraverso le procedure di immatricolazione nei lager (Vrba viene trasportato ad Auschwitz e poi a Birkenau, mentre Wetzler soggiorna a Lublino prima di essere trasferito ad Auschwitz-Birkenau, nel giugno 1942), fino al lavoro forzato svolto nel lager e all’evasione.
Il rapporto viene tradotto dallo slovacco e spedito in Ungheria, in Palestina e in Svizzera. Dalla Svizzera, Allen Dulles dell’OSS (Office of Strategic Services) indirizza il documento al War Refugee Board, che lo pubblica nel novembre 1944, insieme ad altri tre rapporti stilati
rispettivamente da un comandante polacco e da due ebrei, anch’essi fuggiti dal più grande lager di sterminio.
Il WRB report, e in particolare la prima parte scritta da Vrba, colpisce per la puntualità delle informazioni che contiene. Dalla sua postazione di amministratore del Block 7 di Birkenau (la cosiddetta Infermeria), Vrba è in grado di osservare il trattamento a cui viene sottoposto ciascun nuovo convoglio, di cui egli registra la provenienza. In base ai numeri di immatricolazione, tatuati dapprima sul petto e poi sull’avambraccio dei prigionieri non selezionati per le camere a gas, egli fornisce una stima della cifra degli ebrei di volta in volta ammessi nel lager, e afferma che questi ultimi rappresentano in media il 10% dei deportati (solo il 5% nel caso delle donne).
Dal rapporto emerge inoltre che il periodo di maggiore attività delle camere a gas ha inizio verso l’estate 1942, il che si concilia con il sistema di datazione proposto da Reitlinger e da Pressac, nonché con alcune testimonianze naziste (ad esempio, quella di Kremer). Anche la descrizione delle modalità della gassazione è conforme ai dati forniti da altri testimoni, tra cui lo stesso Höss.
La precisione dei dati registrati è il maggior capo di imputazione che i negazionisti rivolgono a Vrba. La cosa è degna di nota se si pensa che in altre occasioni essi montano la loro linea d’accusa sulla base della presunta eccessiva vaghezza delle testimonianze. Secondo Butz, “le informazioni fornite dal rapporto […] sono del genere che potrebbe essere stato costruito a partire dai dati dell’intelligence”, poiché “i dati contenuti nel rapporto non costituiscono il tipo di informazioni che degli evasi si porterebbero appresso”.
Analogamente, Stäglich afferma: “Qui, è il grado di ‘precisione’ che suscita la diffidenza. Conformemente alla loro abituale tattica offensiva, i negazionisti scandagliano il rapporto per individuarne le contraddizioni interne ed esterne. Nonostante annuncino che le incongruenze riscontrate sono numerose, questi autori evitano di entrare nei dettagli della loro esposizione, “perché lo spazio non basterebbe”.
Il lettore si deve accontentare di poche prevedibili obiezioni, tra cui:
• Nel rapporto (redatto nell’aprile 1944) si dice che il comandante del lager è Höss, mentre dal novembre del 1943 Höss è stato sostituito da Liebehenschel. Bisogna tuttavia chiedersi se gli internati venissero resi direttamente partecipi di quanto accadeva nelle alte sfere della gestione del lager; più verosimilmente, essi venivano a conoscenza di tali fatti in maniera graduale, man mano che la notizia si diffondeva verso il basso fino a toccare i livelli infimi della gerarchia concentrazionaria .
• I disegni annessi al rapporto non fanno menzione degli edifici in mattoni che erano parte
integrante del campo principale di Auschwitz. L’obiezione starebbe in piedi solo se gli autori dei disegni fossero gli ingegneri che progettarono il campo.
• Vrba non dice che il magazzino in cui venivano raccolti gli averi dei nuovi arrivati veniva
comunemente chiamato “Canada”. Tale omissione è del tutto irrilevante: probabilmente Vrba non inserisce questo dettaglio perché non ritiene che esso sia utile ai destinatari del rapporto. Inoltre, come ha osservato Pressac, “molto spesso i testimoni non menzionano dettagli che appaiono loro talmente evidenti da dimenticarseli”.
• Per quale motivo gli ebrei provenienti dall’area di Lublino non venivano uccisi direttamente nei campi della loro regione d’origine? La risposta è che tra il maggio e il giugno 1942 (quando, secondo il WRB report, arrivarono ad Auschwitz i convogli dal distretto di Lublino), gli impianti di sterminio di Treblinka e di Lublino non erano ancora stati messi a punto, mentre quelli di Sobibor erano insufficienti per assorbire tutti gli ebrei del ghetto di Lublino.
• Secondo il rapporto, le cremazioni all’aperto avvenivano in un bosco vicino a Birkenau (il
Birkenwald): come si poteva evitare che divampasse un incendio? Le cremazioni all’aperto avvenivano in apposite fosse scavate nei pressi del Birkenwald, il che rende inefficace l’obiezione avanzata.
• Le diverse parti del rapporto non concorderebbero circa le date di installazione del primo
crematorio moderno munito di camera a gas: per Vrba e Wetzler, esso entra in servizio nel febbraio 1943, mentre per il comandante polacco la costruzione dei quattro crematori risale all’autunno 1942, sebbene già dalla primavera dello stesso anno si siano verificate delle gassazioni all’interno di grandi “baracche speciali”.
Non vi è nessuna contraddizione: i diversi testimoni si riferiscono ciascuno a una installazione diversa. Il comandante polacco parla dei Bunker I e II di Birkenau che, come risulta dai documenti di campo, furono messi in funzione tra il maggio e il giugno 1942, mentre la costruzione dei Crematori II, III, IV e V ebbe inizio verso la fine del 1942. D’altronde, i Crematori II e IV vennero messi in funzione verso il marzo 1943, il che si concilia benissimo con quanto affermato dai due ebrei slovacchi.
Dei diari sotterrati clandestinamente sotterrati clandestinamente dai membri dei Sonderkommandos i negazionisti non fanno cenno, nonostante la grande importanza documentaria di questi testi.
Per quanto riguarda le fotografie della resistenza polacca, queste di per sé non costituiscono una grave minaccia per i negatori della Shoah, i quali possono sempre ripiegare sul trattamento che riservano abitualmente a ogni documento fotografico che attesti qualche aspetto dello sterminio: se non riescono a ricontestualizzare la fotografia (ad esempio, sostenendo che i cadaveri raffigurati appartengono alla popolazione civile di Dresda dopo i bombardamenti alleati), essi asseriscono che si tratta di fotomontaggi realizzati da consumati professionisti dello show business.
L’ipotesi della falsificazione fotografica si riallaccia inevitabilmente al tradizionale argomento antisemita circa il monopolio degli ebrei sul settore dell’informazione.
Testimonianze ai processi
Le uniche testimonianze giudiziarie che vengono citate dai negazionisti sono quelle che anche la storiografia ufficiale ha riconosciuto come inesatte. Nei processi dell’immediato dopoguerra non era ancora possibile distinguere i testimoni tecnicamente competenti da coloro che, pur avendo vissuto le esperienze dolorose dei lager nazisti, non erano in grado di descrivere gli aspetti concreti del meccanismo concentrazionario.
Oltre a ciò, non era ancora chiaro quali fossero i campi esclusivamente deputati allo sterminio e quali quelli di concentramento in cui i detenuti morivano in maniera meno organizzata di quanto non accadesse ad Auschwitz, a Belzec, a Treblinka, a Sobibor, a Chelmno e a Lublino. Cosi, per più di un decennio si è incluso Dachau nel novero dei campi di sterminio: ciò è in parte dovuto al fatto che, verso la fine della guerra, anche il lager di Dachau stava per essere fornito di una camera a gas (come risulta dalla corrispondenza tra Berlino e la Topf), nonostante questa non abbia fatto a tempo a entrare in funzione.
I negazionisti si avvalgono delle deposizioni degli ex detenuti disposti a giurare che a Dachau avvenivano delle gassazioni (o che i cadaveri degli ebrei venivano usati per produrre saponette, secondo la voce diffusasi durante la guerra e poi rivelatasi infondata) allo scopo di screditare l’intera categoria delle testimonianze processuali rilasciate dai deportati.
Ad esempio, Harwood (citando Bardèche) osserva che a Norimberga “la maggior parte dei testimoni erano ebrei”, il cui solo obiettivo era di “non mostrare il proprio odio troppo apertamente e cercare di dare un’impressione di obiettività”: il negazionista inglese sorvola sul fatto che molti dei testimoni erano in effetti ex ufficiali SS e che l’alta proporzione di ebrei tra i superstiti interrogati riflette semplicemente la predominanza dei detenuti razziali all’interno dei lager di sterminio.
Autobiografie
Come ha osservato Wieviorka, la struttura espositiva dei primi racconti redatti dai superstiti nel dopoguerra tende a essere costante. Generalmente essi ricoprono un arco di tempo che va dall’arresto al ritorno a casa, sebbene su questo punto siano riscontrabili differenze tra i racconti degli ebrei occidentali e quelli degli ebrei dell’Europa centrale e orientale.
Per i primi, infatti, il periodo passato nel lager rappresenta una parentesi straordinaria nel corso di un’esistenza altrimenti normale, laddove i secondi possono risalire più a monte nella storia della persecuzione subita. Un’altra caratteristica comune è l’assenza di velleità di tipo letterario: i testi in questione esibiscono un registro cronachistico il cui scopo è di servire più adeguatamente la funzione documentaria che essi si assegnano. Il solo riferimento letterario ricorrente in questi scritti è l’Inferno dantesco, citato come termine di paragone (ancora insufficiente) per descrivere la realtà del campo di sterminio.
I resoconti dei superstiti tendono a presentare alcuni anacronismi, dovuti al fatto che – come ha rammentato Elie Wiesel la vita quotidiana nei campi non presentava abbastanza punti di riferimento cronologico da consentire ai detenuti di conservare il senso del tempo. È pertanto inutile appigliarsi a tali confusioni espositive per delegittimare gli autori di queste testimonianze, come invece fanno i negazionisti.
Spesso gli scrittori intrecciano le proprie osservazioni dirette con frammenti di “sentito dire” la cui diffusione nel lager era capillare. La maggior parte delle inesattezze riscontrabili in questi testi è attribuibile alla confusione che i testimoni fanno tra ciò che hanno visto con i propri occhi e ciò di cui hanno sentito parlare durante il periodo dell’internamento. Con il passare degli anni, poi, alla memoria degli eventi vissuti si aggiunge la lettura di altre opere sull’argomento, con il risultato che le autobiografie stese in tempi più recenti perdono l’immediatezza del ricordo in favore di una visione più coerente e completa del processo dello sterminio.
Per il lettore diventa allora difficile districare la testimonianza vera e propria dalle interferenze esterne. Ne deriva che, nonostante il loro innegabile valore documentario, nessuno dei testi in esame puo essere assunto come fonte autonoma di informazioni circa gli aspetti più tecnici dello sterminio. Per quanto essi possano rievocare con grande accuratezza la realtà quotidiana del lager e lo stato d’animo di chi vi si trovava rinchiuso, sono necessariamente intessuti della soggettività dei loro autori.
La parzialità del punto di vista delle singole testimonianze, tuttavia, lungi dall’annullare la loro utilità documentaria, diventa un principio di forza se si decide di far dialogare i vari frammenti di cui si dispone. Così, ciascun resoconto costituirà “il tassello di un mosaico che compone il quadro generale che nessuno, da solo, è in grado di descrivere per intero”.
Il fatto che pochissimi sopravvissuti siano stati in grado di fornire indicazioni precise sulla
realtà materiale delle gassazioni non dovrebbe peraltro destare alcuna sorpresa: generalmente, chiunque venisse a diretto contatto con le camere a gas finiva per perirci dentro. Le rarissime eccezioni a questa macabra regola riguardano quei membri dei Sonderkommandos che, per un cumulo di circostanze fortuite (ma non impossibili, come sostengono i negazionisti), sono riusciti a scampare alla morte alla quale erano predestinati.
Ad esempio, Filip Müller lavorò per tre anni in un Sonderkommando deputato all’estrazione dei cadaveri dalle camere a gas di Birkenau, sfuggendo a cinque liquidazioni. Nel 1979 pubblico un libro di memorie concentrazionarie, che secondo Mattogno (1986) è plagiato dall’autobiografia di Miklos Nyiszli. Mattogno in primo luogo ironizza sul fatto che Müller abbia impiegato più di trent’anni per decidersi a dare alle stampe le proprie memorie, suggerendo che tale lasso di tempo sia stato impiegato per confezionare la contraffazione.
Gli elementi testuali che inducono il principale negazionista italiano ad avanzare l’ipotesi del plagio sono i seguenti:
• il discorso del “dajan” – Dajjân in ebraico significa giudice: il discorso in questione fu tenuto di fronte agli uomini del Sonderkommando per infondere loro coraggio e rassegnazione di fronte alla morte imminente – (che secondo Nyiszli fu tenuto nel Crematorio III di fronte a 460 uomini del Sonderkommando, mentre per Müller avvenne nel Crematorio I) è molto simile nei due testi;
• Müller e Nyiszli forniscono cifre analoghe (circa 3000 cadaveri al giorno) a proposito della capacità di incinerazione dei forni di Birkenau, sebbene tali cifre non corrispondano alle statistiche ufficiali e siano probabilmente eccessive.
Non è da escludere che Müller si sia appoggiato ad altri testi, tra cui quello di Nyiszli, per rinfrescarsi la memoria circa i dettagli che il tempo ha reso imprecisi nel suo ricordo. Ciò non significa che egli abbia mentito ma solo che, presa da sola, la sua testimonianza non basta per giungere a certezze su tali dettagli.
Mattogno inoltre osserva che:
• la descrizione delle procedure di gassazione mostra molti punti consonanti, in particolare per quanto riguarda la descrizione dei cadaveri ammucchiati verso l’alto. Muller scrive che:
“quando i cristalli di Zyklon B entravano in contatto con l’aria, si sviluppava il gas letale, che si diffondeva dapprima all’altezza del pavimento e poi saliva sempre più in alto. Percio i più grossi e i più forti stavano in cima al mucchio di cadaveri, mentre sotto c’erano soprattutto bambini, vecchi e deboli”
mentre nel testo di Nyiszli la descrizione è la seguente:
“si presenta uno spettacolo orrendo: i cadaveri non sono sparpagliati nel locale, ma sono ammucchiati gli uni sugli altri. Ciò è facilmente spiegabile il Cyclon gettato dall’esterno sviluppa i suoi gas letali inizialmente all’altezza del pavimento. Solo a poco a poco esso raggiunge gli strati d’aria più alti. Percio gli sventurati si calpestano reciprocamente, gli uni si arrampicano sugli altri”.
Secondo Mattogno, tale analogia non è spiegabile con il fatto che lo spettacolo al quale i due testimoni assistettero era lo stesso, poiché a suo parere vi è un’impossibilità fisica nel fatto che le vittime tendessero ad ammonticchiarsi durante la gassazione: dato che il peso specifico dello Zyklon B è leggermente inferiore a quello dell’aria, esso doveva diffondersi verso l’alto. Dunque, per cercare una via di salvezza, sarebbe stato più logico che le vittime si appiattissero verso il basso.
Tuttavia, occorre ricordare che il veleno veniva gettato nelle camere a gas in forma solida e che si volatilizzava solo dopo aver toccato il pavimento. Di conseguenza, era naturale che gli strati inferiori del locale si impregnassero di gas prima di quelli superiori.
Altri dettagli riportati da entrambi i testi sono:
• lo Zyklon B era recapitato ai crematori con un’automobile che recava l’insegna della Croce Rossa;
• dopo la gassazione i cadaveri venivano lavati con idranti ;
• successivamente essi venivano trascinati al montacarichi per mezzo di cinghie legate ai polsi.
La spiegazione più semplice per giustificare le corrispondenze tra le due testimonianze è che gli episodi riportati da entrambe sono veri. Secondo Mattogno, invece, la convergenza è indice di contraffazione, mentre il fatto che nel suo libro Müller tralasci di dire che conosceva Nyiszli è segno inequivocabile della sua cattiva coscienza.
Le interviste
Nelle interviste subentrano tutte le interferenze già segnalate a proposito dei resoconti autobiografici. Un problema aggiuntivo connesso alle interviste in quanto fonti storiche è dovuto al fatto che i soggetti intervistati, col passare degli anni, tendono a cristallizzare i propri ricordi in forma narrativa, sostituendo alla memoria diretta degli eventi quella del racconto elaborato gradualmente nel corso delle deposizioni anteriori.
A meno che l’intervistatore non formuli le sue domande in modo inedito, soffermandosi proprio sui dettagli trascurati dagli intervistatori precedenti, le risposte che riceverà tenderanno a essere standardizzate. Il film-documentario di Lanzmann è oggetto di una recensione pubblicata da Faurisson nel Journal of Historical Review, in cui egli accusa il regista di fare dello “Shoah business” con i finanziamenti dello Stato d’Israele.
Molte delle critiche rivolte al film riguardano l’intervento di Lanzmann sul materiale di partenza: le 350 ore di registrazione sono state ridotte a sole nove ore e mezzo di film; alcune delle ambientazioni (ad esempio, il negozio del barbiere Abraham Bomba) sono state ricostruite per venire incontro a esigenze di copione; il documento sui camion a gas è stato accorciato per la lettura.
Bisogna tuttavia ricordare che una certa azione organizzatrice (selezione, tagli, montaggio, ecc.) sul materiale iniziale è inevitabile anche qualora il documentario persegua l’intento della massima obiettività possibile. Il solo fatto che il regista ponga determinate domande anziché altre implica già l’intervento di una certa strategia interpretativa e discorsiva. Affinché il documentario conservi la sua utilità scientifica è sufficiente che i tagli e gli interventi autoriali non seguano un piano di sistematico occultamento (o di cosciente distorsione) delle prove.
Sul piano fattuale, Faurisson contesta l’assunto fondamentale del film, secondo il quale il ricorso alle testimonianze è reso necessario dalla mancanza di prove concrete dell’esistenza delle camere a gas, le cui tracce sono state programmaticamente cancellate dai nazisti. Inoltre, egli vede nelle affermazioni dei contadini polacchi – secondo i quali durante la guerra nessuno era al corrente dell’esatta modalità delle uccisioni di massa – la dimostrazione che lo sterminio non ebbe luogo.
Volutamente, Faurisson sorvola sul fatto che i polacchi in questione hanno buoni motivi per sostenere la propria ignoranza dei fatti, a meno di non volere ammettere la propria passata connivenza con i nazisti. La recensione di Faurisson è seguita da un articoletto (scritto da Theodore J. O’Keefe) sul volume Shoah, ricavato dai testi del film di Lanzmann.
Qui, la critica testuale si riduce all’individuazione di una serie di presunti errori di ortografia nella trascrizione dei nomi polacchi. Jacques Gillot si propone di smontare la testimonianza di Abraham Bomba pubblicata da Le Nouvel Observateur come anteprima del libro Shoah. Bomba fu internato a Treblinka, dove svolse le mansioni di “parrucchiere”, tagliando i capelli alle donne e ai bambini in procinto di essere gassati.
A Treblinka tale procedura avveniva dentro le stesse camere a gas, subito prima delle uccisioni, diversamente da Auschwitz, dove i capelli venivano tagliati a gassazione terminata. La spia rossa si accende per Gillot quando Bomba afferma che soli cinque minuti erano sufficienti per tagliare i capelli delle donne e dei bambini, pulire il locale, gassare le vittime e arieggiare la camera a gas. Dopodiché, i sedici parrucchieri del Sonderkommando potevano rientrare nella stanza e riprendere il proprio lavoro su un nuovo convoglio.
È piuttosto evidente che per Bomba i “cinque minuti” non vanno intesi in senso cronometrico e letterale, ma potrebbero tranquillamente essere parafrasati con l’espressione “in breve tempo”. Ciò nonostante, il negazionista sostiene che:
“questo racconto contraddice le leggi di natura che imporrebbero, fra le altre precauzioni, prima che i corpi delle vittime possano essere evacuati, una ventina d’ore di aerazione molto pericolosa per chi sta vicino”.
Ciò è semplicemente falso. Il gas letale impiegato a Treblinka era il monossido di carbonio e non lo Zyklon B (come invece sostiene questo negazionista minore e decisamente poco informato): pochi minuti di areazione sono ampiamente sufficienti affinché il CO si trasformi in innocuo CO2.
Shoah e fiction
Se già nel caso del film-documentario di Lanzmann, realizzato con grande scrupolo filologico, intervengono necessariamente decisioni espositive arbitrarie, a maggior ragione ciò accade nei prodotti della fiction storica. La sovrapposizione tra racconto di fatti realmente accaduti e racconto di finzione introduce alcune ambiguità nelle strategie interpretative innescate da questo genere ibrido: laddove un resoconto fattuale chiede al destinatario di credere alla realtà degli avvenimenti riportati, un romanzo lo libera da tale obbligo.
Nell’istante in cui un documento storico viene calato in un’impalcatura narrativa, le sue lacune vengono colmate per conferire alla storia quell’apparenza di coerenza interna che ci si aspetta da un racconto. Ad esempio, nella prefazione al suo romanzo sulla biografia di Oskar Schindler, Thomas Keneally ammette:
“Talvolta è stato necessario tentare una ricostruzione delle conversazioni delle quali Oskar e gli altri hanno lasciato solo qualche brevissimo accenno”. (Keneally, 1982)
Nel passaggio dal romanzo al film, poi, la cautela con cui l’autore affronta i passaggi più ipotetici della sua ricostruzione viene fatalmente perduta, con il risultato che Schindler’s List di Spielberg – come ogni altro racconto a sfondo storico – puo essere considerato come una storia di finzione liberamente ispirata a una serie di eventi che si suppongono essere realmente accaduti, e non certo come un documento a sé stante.
Nelle pagine del Journal of Historical Review si trovano numerosi esempi della più spicciola propaganda negazionista che ha per bersaglio vari prodotti della fiction concentrazionaria. Ad esempio, nella recensione che Janet Reilly dedica a Maus il fumetto di Spiegelman viene violentemente attaccato, sebbene non vengano fornite spiegazioni soddisfacenti circa i motivi di tale aggressione.
La Reilly impiega – in modo assai rozzo – il consueto armamentario dei negazionisti: dopo aver tentato di denigrare la fonte, descrivendo la rivista Raw (sulla quale il fumetto fa la sua prima apparizione) come una pubblicazione “che brulica di immagini violente, assurde e morbose”, la negazionista passa all’elenco delle presunte inverosimiglianze riscontrabili
nel racconto di Spiegelman. Il primo fatto sorprendente sarebbe la descrizione del calore della famiglia ebraica (madre affettuosa, padre non violento e non alcolizzato, saggezza di entrambi i genitori, ecc.), la quale accomuna Maus al “vecchio cavallo di battaglia natalizio, la storia di Anne Frank”.
Reilly inoltre si meraviglia che Vladek, il padre del protagonista-narratore, venga rilasciato
su riscatto dopo essere stato imprigionato dai nazisti nel 1939. In ciò, l’autrice negazionista
dimostra una profonda ignoranza circa la cronologia della storia della persecuzione nazista: difatti, nel 1939 la politica di sterminio programmato degli ebrei non era ancora stata inaugurata. L’unica altra obiezione ricavabile dalla recensione di Reilly è che nel fumetto di Spiegelman i gatti sono disegnati male.
Un’ipotetica genealogia della “menzogna di Auschwitz”
Il lavoro dello storico si distingue da quello del fisico o del chimico in quanto, diversamente da questi ultimi, il primo non puo riprodurre in condizioni di laboratorio l’oggetto delle proprie ricerche. Il referente storico (la serie di eventi e di stati di cose che lo storico tenta di ricostruire) non è conoscibile se non attraverso i segni della sua passata presenza. Nel caso della Shoah, abbiamo a disposizione un numero enorme di tali segni: verbali, come le testimonianze o i documenti scritti, o non verbali, come i pochi residui architettonici dei lager, le finte docce e le porte a tenuta stagna.
Un’unica chiave di lettura l’esistenza del genocidio nazista – tiene insieme questo universo di segni. Nel sistema indiziario – che comprende anche Mein Kampf, i discorsi di Himmler, l’Operazione Eutanasia, le stelle gialle, la notte dei cristalli, la corrispondenza tra la Bauleitung di Auschwitz e la Topf, ecc. – vige una coerenza stringente. Mai come in questo caso, sembrerebbe, vi è stato così poco margine di dubbio circa l’esistenza di un evento storico.
Sarebbe molto più facile credere che Napoleone non sia mai esistito, giacché gli effetti della sua passata presenza sono per noi molto meno tangibili di quelli, tuttora pesantemente avvertibili, del genocidio nazista.
Le testimonianze degli scampati si inseriscono perfettamente nell’intreccio probatorio che oggi ci informa della realtà della Shoah: in altre parole, non vi è alcuna dissonanza tra le affermazioni dei superstiti, quelle degli aguzzini, e le tracce involontarie lasciate dalla macchina dello sterminio nazista. Quanto alle imprecisioni riscontrabili nelle deposizioni dei superstiti, abbiamo osservato come queste si riconducano a pochi tratti ricorrenti: l’esagerazione delle cifre, la confusione cronologica e l’appropriazione di informazioni di seconda mano (frammenti di sentito dire o conoscenze tratte dalla lettura di altri testi).
Gli storici sono ben consapevoli di questo fatto, ed è per questo che tendono a confrontare le affermazioni dei sopravvissuti tra di loro e a cercarne conferma in altre fonti documentarie. Tuttavia, diversamente dai negazionisti, gli storici di professione applicano un principio di carità interpretativa nella loro lettura delle testimonianze in questione di fronte alle esagerazioni riscontrabili in esse, piuttosto che balzare alla conclusione che i testimoni abbiano consapevolmente mentito, gli storici preferiscono inferire che essi hanno ceduto al meccanismo retorico dell’iperbole.
Se l’applicazione del principio di carità, mirato a minimizzare le divergenze, è d’obbligo in qualunque scambio comunicativo cooperativo, a maggior ragione lo sarà quando si sa che l’interlocutore è reduce da un’esperienza sconvolgente come quella della deportazione e della reclusione in un lager nazista. Senza addentrarci negli studi psicologici che sono stati svolti sugli effetti devastanti dell’esperienza concentrazionaria, è piuttosto intuitivo che chi ha attraversato tale supplizio ha ogni diritto di cadere in qualche contraddizione.
Poche, tra le testimonianze degli ex deportati, resistono agli assalti di una lettura pignola mirata a individuarne le sbavature interne ed esterne. Le eccezioni sono attribuibili allo straordinario spirito di osservazione e al sangue freddo di chi è riuscito a mantenersi vigile pur trovandosi in mezzo all’inferno nazista, sollevando lo sguardo oltre le esigenze contingenti della propria sopravvivenza nel lager.
Ma si tratta per l’appunto di eccezioni, laddove la stragrande maggioranza dei deportati era troppo occupata a lottare per la vita per registrare accuratamente le dimensioni degli edifici di sterminio o il numero dei prigionieri stipati in ciascun nuovo convoglio.
Visto che la memoria della maggior parte dei superstiti è soggetta ai naturali meccanismi di distorsione che accompagnano le esperienze profondamente traumatiche, e siccome pochissimi tra di essi hanno potuto assistere direttamente a un’azione speciale, che utilità possono avere le loro testimonianze per una storiografia della Shoah? La risposta ovvia è che al di sotto delle discrepanze individuali rimane un nucleo essenziale al riparo da ogni negazione, e cioè il fatto che ad Auschwitz (e negli altri lager di sterminio) si praticavano sistematiche uccisioni di massa.
Per questo motivo, l’esistenza del genocidio è la premessa indiscussa di ogni serio studio storico su questo argomento, e non la tesi da dimostrare. Si potrà discutere sul come, sul perché, sul dove, sul quando, e perfino sul chi, ma non sul fatto in sé, poiché è proprio su questo fatto che tutte ie testimonianze si dimostrano concordi.
Non credere al genocidio equivale dunque a negare che si sia consumato un omicidio anche qualora il colpevole sia stato udito chiaramente gridare “sto andando ad ammazzare Rossi” (dopo aver pubblicato un libro su come intendeva far fuori Rossi), Rossi sia scomparso, e decine di testimoni abbiano assistito alla sua uccisione.
Se, durante il processo, due testimonianze si dimostrano discordanti circa il colore della cravatta dell’assassino, o se un testimone dice che l’uccisione è avvenuta alle 17:35 mentre l’altro giura che il suo orologio segnava le 17:40, se ne conclude forse che l’omicidio non ha mai avuto luogo e che Rossi se la sta spassando su qualche spiaggia delle Maldive, indifferente al dolore della moglie e dei figli che ne piangono la scomparsa? No di certo: per balzare a una simile conclusione ci vogliono ben altre anomalie.
Inoltre, nel caso in cui si ritenga che Rossi non è mai stato ucciso, bisognerà pur spiegare il motivo che ha indotto tutti i testimoni a mentire, concordando sulla medesima versione dei fatti. Analogamente, per mettere in discussione l’esistenza del genocidio bisogna immaginare che da decenni sia in atto un progetto coerente e concertato di falsificazione storica di cui tutti i testimoni sono direttamente complici.
I negazionisti, che spesso ventilano questa ipotesi, non arrivano mai a spiegare dettagliatamente come sia possibile una simile congiura e chi ne sia l’artefice supremo. Sulla base di poche insinuazioni sparse nei vari scritti dei negazionisti, provero allora a ricostruire un’ipotetica genealogia eli ciò che questi autori definiscono la “menzogna di Auschwitz”. Dopodiché si potrà giudicare se tale ricostruzione risponda o meno ai criteri dell’economia e della coerenza interpretativa o se, piuttosto, essa non sia riconducibile a una teoria sociale del la cospirazione.
Secondo Butz, l’origine della menzogna va ricercata nel già citato WRB report (“Così nacque la leggenda di Auschwitz”), confezionato nel 1944 da autori ignoti:
“Non conosco l’identità degli autori e non credo che la questione sia particolarmente importante. Il punto fondamentale è che due “internazionali”, quella comunista e quella sionista, ricoprirono ruoli di rilievo nei programmi americani dell’intelligence, della propaganda e dell’assistenza ai profughi. Il WRB, che in realtà faceva capo a Harry Dexter White, a Henry Morgenthau jr e al World Jewish Congress e ad altri sionisti, nonché l OSS, con il suo personale comunista e con i suoi alleati della Jewish Agency, rivelano che la situazione si adattava perfettamente alla fabbricazione di una menzogna propagandistica sullo sterminio degli ebrei, imperniata su Auschwitz, la quale, per precauzione, conteneva una quantità sufficiente di fatti reali da suggerire ai meno accorti che le allegazioni fossero vere”. (Butz, l976)
Occorre tuttavia capire come mai le voci dello sterminio nazista fossero diffuse fin dall’estate 1942, come dimostrano lo scambio avvenuto sul treno tra Gerstein e Von Otter e i dispacci di agenzia sulle uccisioni di massa degli ebrei a opera dei nazisti che circolavano in quegli stessi anni. Se si abbraccia la tesi negazionista, bisogna se non altro ipotizzare che gli ambienti sionisti internazionali si fossero messi in moto già a quell’epoca, coinvolgendo alcuni ufficiali nazisti, qualche membro della diplomazia svedese, l’OSS, il WRB e vari esponenti del settore dell’informazione.
Dunque, secondo i negazionisti, nel periodo della massima potenza bellica nazista la cospirazione giudaica stava ponendo le basi per estorcere alla Germania le riparazioni con le quali avrebbe finanziato il futuro Stato d’Israele nell’eventualità – che allora appariva tutt’altro che scontata – di una vittoria alleata.
Il coinvolgimento di taluni membri delle SS nel complotto di matrice sionista apre la strada a un’ulteriore ipotesi, ancora più peregrina, sostenuta dai negazionisti più radicali: le stesse deportazioni degli ebrei nei territori dell’Est sarebbero state programmate in primo luogo dalle massime autorità ebraiche che, in combutta con il regime nazista, avrebbero deciso di sacrificare alcuni correligionari per favorire la causa sionista.
Questa ipotesi – sostenuta nell’articolo anonimo pubblicato sulle Annales negazioniste – ricalca il brano dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion in cui si sostiene che l’antisemitismo è fomentato dagli stessi ebrei:
“Al momento attuale, se un governo assume un atteggiamento a noi contrario si tratta di una pura formalità; esso agisce essendo noi pienamente informati del suo operato e col nostro consenso, accordato perché le dimostrazioni antisemitiche ci sono utili per mantenere l’ordine fra i nostri fratelli minori”. (Protocollo IX, in Romano, 1992)
L’ipotesi avanzata è incompatibile con la classica argomentazione negazionista (sostenuta da Harwood e ripresa da Irving e da Nolte) secondo cui gli ebrei, rappresentati da Chaim Weizmann, avrebbero dichiarato guerra alla Germania dopo l’ascesa del partito nazista (in occasione della promulgazione delle leggi razziali), e percio andassero trattati come un popolo nemico e internati nei campi, alla stessa stregua dei giapponesi in America.
In questo caso, la presunta menzogna circa l’esistenza dei campi di sterminio rientrerebbe nella logica della propaganda bellica, in quanto tentativo di spingere gli americani a entrare in guerra per difendere gli ebrei, e solo dopo il 1945 sarebbe stata sfruttata in senso economico a danno della Germania sconfitta.
Tale congettura si basa su una falsa premessa, e cioè sull’idea che Weizmann fosse un capo politico investito del potere di parlare a nome dell’intero popolo ebraico. In realtà, come ho già ricordato, le affermazioni di Weizmann si limitarono a una lettera inviata al primo ministro inglese nel 1939 per esprimere il supporto della comunità israelitica americana nei confronti della decisione britannica di entrare in guerra contro la Germania.
La missiva di Weizmann va dunque intesa come l’espressione del parere di un individuo, priva come tale di peso politico effettivo. Non si vede pertanto che tipo di pressione egli potesse esercitare sul governo americano per indurlo a entrare in guerra contro la propria
volontà. Naturalmente, per i negazionisti la lobby ebraica ha in mano l’economia mondiale e, di conseguenza, possiede anche il potere di influenzare direttamente il corso della politica internazionale.
Ancora una volta l’ipotesi negazionista cozza contro i dati storici. Infatti, è noto che l’ingresso degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale fu innescato dall’attacco giapponese di Pearl Harbor, il 7 dicembre 1941, che spinse Roosevelt a dichiarare guerra al
Giappone. Quattro giorni dopo, la Germania e l’Italia dichiararono guerra agli Stati Uniti.
Per sostenere che la partecipazione americana alla guerra fu indotta dalla lobby ebraica bisogna perciò supporre che il movimento sionista fosse legato anche alle autorità giapponesi, o che lo stesso attacco di Pearl Harbor sia stato programmato dai cospiratori ebrei per scuotere l’opinione pubblica americana, e che Italia e Germania siano state influenzate dalla lobby ebraica.
Il numero di presunti falsi testimoni assoldati dall’organizzazione sionista crescerebbe spaventosamente nell’immediato dopoguerra, comprendendo – oltre alle migliaia di superstiti dei campi – anche tutti gli ufficiali SS interrogati a Norimberga e durante gli altri processi contro i crimini di guerra nazisti. Come è già stato ricordato, i negazionisti ritengono che le dichiarazioni degli aguzzini siano state estorte con la forza, mediante varie forme di tortura fisica e psicologica.
Sorprende comunque che nessuno, tra i nazisti interrogati, abbia resistito alla pressione degli inquisitori, e che – a decenni di distanza dagli eventi – non vi sia un solo ex ufficiale nazista che abbia avuto il coraggio di rivelare l’inganno. A questo proposito, i negazionisti hanno sostenuto che il lavaggio del cervello al quale i nazisti furono sottoposti nel dopoguerra fu talmente efficace da cancellare nelle menti delle vittime (che sarebbero i nazisti) ogni traccia della verità dei fatti.
L’intelligence service sionista (nelle cui fila sarebbero stati arruolati tutti i principali politici dell’epoca, da Roosevelt a Churchill e a Stalin, nonché varie organizzazioni internazionali, tra cui la Croce Rossa) avrebbe inoltre avuto l’accortezza di fornire versioni leggermente discordanti a tutti i falsi testimoni, in modo da creare un’impressione di veridicità e di spontaneità nelle deposizioni registrate.
Affinché l’ipotesi negazionista stia in piedi, dunque, è necessario immaginare che gli artefici del complotto “sterminazionista” fossero talmente potenti e astuti da manipolare contemporaneamente migliaia di personaggi più o meno in vista, appartenenti a fazioni politiche opposte, e da costringere al silenzio tutte le pedine di questo sporco gioco.
Come si vede chiaramente, nell’istante in cui i negazionisti passano dalla fase distruttiva (l’individuazione delle contraddizioni nel corpus di cui si avvale la storiografia ufficiale) a quella propositiva (la costruzione di un paradigma esplicativo alternativo) della loro opera, saltano fuori le infinite incongruenze dell’ipotesi da essi sostenuta. Per evitare un simile strafalcione strategico, questi autori tendono a stare alla larga da ogni concreta spiegazione circa le origini e la diffusione della cosiddetta “menzogna di Auschwitz”, limitandosi a riferirsi implicitamente a un segreto perennemente differito, secondo la migliore tradizione ermetica.
Mettendo sullo stesso piano le memorie dei deportati e i prodotti della fiction televisiva, poi, essi mirano a creare una vaga atmosfera da romanzo di spionaggio, mantenendo i propri discorsi su un piano sufficientemente astratto da porli al riparo da eventuali contestazioni fattuali.