a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia.
Il libro dal quale abbiamo tratto queste testimonianze è forse unico nel suo genere: oltre duecento alpini italiani, a più di cinquant’anni dalla ritirata di Russia dell’inverno 1942-1943, con un fervore d’animi ineguagliabile e un lavoro durato anni, hanno ricostruito i frammenti della loro esperienza di guerra, fino a comporre un mosaico di vite vissute.
Non si conoscono precedenti – nelle varie letterature – di un analogo tanto massiccio e prorompente atto di pietà e di civiltà, nato da una volontà di testimonianza, da una consapevolezza singola di offrire contributo di memoria a un evento straordinario nella storia degli uomini.
Ciò che colpisce, in una rievocazione che potrebbe essere da miles gloriosus, è invece la dignità e il consapevole riserbo, la totale assenza di vanità: quelli raccolti in questo volume sono contributi di uomini che non mirano alla glorificazione, ma che soffrono come allora; e se ne percepisce l’ansimare e il rantolo, mentre rivivono riga per riga la loro vicenda, dalla quale non possono né vogliono distaccarsi: sanno infatti che da quella nasce un grande insegnamento, che, tra vita e morte, ha in quei giorni superato la cronaca di quella storia militare per diventare termine di paragone a passo obbligato nella costruzione della storia civile.
Giulio Bedeschi, nato a Arzignano (Vicenza) nel 1915 e morto a Verona nel 1990, ufficiale medico dell’Armir, fu testimone diretto dell’immane tragedia che colpì gli italiani nel gelo della pianura russa. A completamento e ampliamento di quanto narrò in Centomila gavette di ghiaccio e Il peso dello zaino, volle farsi promotore della raccolta di testimonianze dirette di coloro che, come lui, patirono le vicende della Seconda guerra mondiale: nacquero così, a sua cura, i numerosi della serie “C’ero anch’io”, senza precedenti nelle varie letterature, in cui centinaia di ex combattenti – dal soldato semplice all’ufficiale superiore – rievocano gli avvenimenti bellici di cui furono attori. Con Mursia ha pubblicato inoltre il romanzo storico La mia erba è sul Don.
DIVISIONE JULIA
di Giulio Bedeschi
La Julia fu la prima, tra le divisioni che costituivano il Corpo d’Armata Alpino, ad essere rimossa dalla linea stabilizzata invernale, e dai relativi rifugi sotterranei riscaldati: con un mese di anticipo sulle altre divisioni, nei giorni successivi al 16 dicembre venne precipitosamente trasferita a sud, nel settore della Cosseria, dove questa divisione di fanteria, dopo giorni di resistenza e ormai circondata, aveva dovuto cedere il terreno.
Di fronte ai russi che avevano passato il Don e si erano comodamente attestati usufruendo degli alloggiamenti della Cosseria e delle isbe dei paesi, la Julia per mantenere il contatto col nemico dovette schierarsi sulla neve e costituire all’addiaccio una nuova linea, esponendosi giorno e notte, ininterrottamente, agli estremi rigori del clima, oltre che essere alla mercé di ogni iniziativa offensiva dei reparti russi.
Non esistono parole adeguate per descrivere le privazioni e i sacrifici a cui si sottoposero per un intero mese gli alpini e gli artiglieri alpini della Julia. Superando di gran lunga ogni credibile limite di resistenza umana, per un mese essi combatterono disperatamente in circostanze nelle quali era presumibile di non poter sopravvivere fino alla sera del primo giorno.
Con le divise e i cappotti di panno autarchico, una coperta e un telo da tenda, essi affrontarono il freddo notturno dei 35 e dei 40 gradi sotto zero; nutrendosi di scarsissimo cibo gelato, ossessionati dalla sete, distrutti a poco a poco dal sonno e dal gelo paralizzanti, trovarono tuttavia la forza di resistere per l’intero mese ai pressoché continui attacchi russi, sferrati con reparti sempre più numerosi e agguerriti.
Pagando il valore e la irriducibile tenacia con la quotidiana morte di ufficiali e soldati, con l’insidioso estendersi nelle carni dei congelamenti e delle cancrene, resistettero sulle linee improvvisate suscitando la sbalordita ammirazione dei tedeschi dal cui comando dipendevano (XXIV Corpo d’Armata corazzato). E queste linee lasciarono soltanto dietro ordine ricevuto (16 gennaio), allorché lo sfondamento operato sul loro fianco destro nel settore tedesco (generale Wander, generale Eibi, Gruppo “Fegelein”) indusse gli stessi tedeschi a un improvviso ripiegamento e ad ordinare, all’indomani, l’arretramento della Divisione Julia.
Il 17 gennaio la Julia lasciò il settore del Don, e scorrendo nelle retrovie della Cuneense che di concerto ripiegava, con la divisione sorella marciò verso nord fino a Popowka, camminando ininterrottamente per 30 e più ore e raggiungendo la zona di radunata a otto chilometri da Podgornoje, dove si ammassava la Tridentina che nel frattempo aveva lasciato la linea del Don.
Il 19 mattina la Julia ricevette ordine di riprendere il ripiegamento e di affrontare il suo destino con le sole proprie forze su un itinerario sconosciuto, anche se fortemente indebolita dalle gravi perdite subite per gli eventi bellici del mese precedente (per dare un’idea, il Battaglione L’Aquila, che al suo arrivo sul fronte russo aveva in forza 48 ufficiali e 1384 fra sottufficiali, graduati ed alpini, già a fine dicembre aveva perduto 31 ufficiali e 1042 alpini fra caduti feriti congelati e dispersi, e a fine ritirata si trovò ulteriormente ridotto a 3 soli ufficiali e 163 alpini).
Così, i reparti in avanguardia della Julia, verso mezzogiorno dello stesso 19 gennaio vennero bloccati da formazioni russe fra il villaggio di Ssolowjew e le isbe di Nowo Postojalowka Ingaggiato il combattimento impegnando i battaglioni dell’8^ Alpini e il Gruppo Conegliano del 3^ Artiglieria, gli attacchi si susseguirono accaniti per tutta la giornata in un susseguirsi di azioni che portarono più volte all’arretramento dei russi e all’occupazione da parte italiana delle prime isbe di Nowo Postojalowka, ma le isbe non si potevano tenere per l’intervento di numerosi carri armati che le trapassavano e le incendiavano.
L’impari lotta si protrasse nelle ore notturne quando ai reparti della Julia si affiancarono i sopraggiunti reparti della Cuneense, ma il continuo afflusso di forze russe e la loro assoluta preponderanza numerica e di armamento impedirono una risoluzione, e per tutto l’indomani 20 gennaio i battaglioni e i gruppi fecero impeto alternandosi in attacchi furibondi all’arma bianca, mentre i carri armati si facevano largo piombando nel folto degli uomini e schiacciando non solo gli alpini ma addirittura i cannoni portati avanti nel disperato tentativo di sfondare sparando a zero.
Per più di trenta ore durò la battaglia di Nowo Postojalowka, aspra e sanguinosa quant’altre mai, mentre nelle stesse ore la colonna del 9^ Alpini, dei Gruppi Udine e Val Piave, impegnata dai russi nelle vicine località di Kopanki e successivamente di Lessnitschanskij, vide completarsi il dissanguamento in battaglia dell’intera Julia che su quelle nevi, alla sera del 20 gennaio, ebbe ridotti i suoi effettivi ai resti dell’8^ Alpini e del Gruppo Conegliano che riuscirono a sganciarsi e trascinando seco i feriti, i pezzi e le armi superstiti si portarono nella zona di Postojalyi, il giorno 21 a Nowo Karkowka e durante la notte a Nowo Georgiewka, dove i reparti finalmente poterono entrare nelle isbe a riposare per qualche ora.
Ma all’indomani mattina, 22 gennaio, mentre si apprestavano a ripartire, il paese venne improvvisamente assaltato e pressoché accerchiato da carri armati e forze motorizzate russe che bloccarono gran parte del paese e soverchiando l’improvvisata resistenza catturarono la maggior parte dei sopravvissuti dell’8^ Alpini. Il Conegliano, esaurite le munizioni, fece saltare tre pezzi e due ne portò in salvo assieme agli artiglieri e a quanti riuscirono a porsi nella scia del gruppo, che in serata raggiunse Scheljakino e da allora in poi seguì la colonna della Tridentina fino a Nikolajewka e alla successiva uscita dalla sacca.
Un’altra colonna di sopravvissuti della Julia, con il comando divisionale, proseguì con una colonna della Cuneense e ne divise la sorte fino agli estremi combattimenti sostenuti dinnanzi a Waluiki, il 27 gennaio A ciò fece sèguito la prigionia.
Caporal maggiore Angelo Cancian.
radiotelegrafista Comando 8^ Reggimento Alpini
Io ero radiotelegrafista al Comando deli “8^ Reggimento Alpini col colonnello Cimolino. Intorno al 20 dicembre 1942, dopo un giorno e una notte di marcia, con un freddo feroce, giungemmo in località Golubaja Krinitza, vicinissimi al Don, dove la Divisione Cosseria fu distrutta e dispersa.
Ricordo benissimo la famosa quota 202, il famoso colle denominato “Pisello” e la quota “Signal” che i tedeschi ribattezzarono “Cividale”. Alla meglio ci arrangiammo per piazzare la radio e collegarci con i comandi superiori; i battaglioni proseguivano oltre a noi a circa due o tre chilometri. Fu il Cividale, per primo, ad attaccare la famosa quota; con fasi alterne in due giorni fu conquistata e persa parecchie volte, con elevatissime perdite.
Ricordo il comandante del battaglione, maggiore Zacchi, che arriva al comando infuriato e spiega al colonnello Cimolino: “La quota è nostra”. “Ma quanti uomini hai ancora vivi con te lassù?” “Sedici” fu la risposta. Molti i morti, i dispersi. Fu messo in movimento il Tolmezzo. Questi prese posizione a fianco dei pochi del Cividale.
15 gennaio. Al comando giungono notizie (non si sa da quale fonte) che i russi avevano sfondato ai nostri lati sia al nord che al sud, con infiltrazioni di decine di chilometri (se non di centinaia, come si seppe in sèguito). Attività radio triplicata, ordini, contrordini, un caos.
Ore 24 del 15 gennaio: ricevo un telegrammacircolare: “Attendere ordini e prepararsi per sganciamento”. Sul volto di tutti terrore e sgomento, che faceva di noi degli spettri, ufficiali e soldati piangevano e non nascondo che piansi anch’io quando il 16 gennaio, ore 5,30, ricevetti testualmente questo telegramma trasmesso in italiano: “Attaccare nota direzione – Viva l’Italia – Generale Nasci”.
Attorno a me c’era il colonnello Cimolino, maggiore Zacchi, Del Din, capitano Magnani e molti altri. Un silenzio di tomba regnò per un po’. Ci si guardava negli occhi, come per chiederci in silenzio: dove andiamo? Qui inizia l’odissea della Julia e degli alpini tutti. Dopo vari giorni e notti giungemmo ad un bivio ove era a tirar a indovinare quale direzione prendere.
Qui incontrammo la 13ª Batteria del Conegliano e il colonnello Rossotto che si trovava in difficoltà con i suoi cannoni pesanti trascinati fino lì. Ricordo che era di notte, in un bosco, davanti c’erano dei carri armati russi che avevano l’intenzione di tagliarci fuori dal resto della colonna che ci precedeva. Queste sono parole del colonnello Rossotto al colonnello Cimolino ed io ero presente: “Cimolino, ho bisogno ancora una volta dei tuoi leoni, io li proteggerò con i miei pezzi che mi rimangono”.
Bivaccammo tutta la notte, in piedi su e giù fra gli alberi con un freddo brutale, cielo sereno, ogni tanto un colpo secco vicino o lontano, erano gli alberi che si spaccavano dal freddo. Lascio immaginare come un uomo poteva resistere, se non sorretto da una volontà e dal grande desiderio di vivere e di tornare nella sua patria. Per tutto il giorno non ci fu un attimo di sosta, la notte che seguiva ci fermammo in isbe abbandonate ma piene di soldati di tutte le nazionalità, un caos, non ci si capiva più niente.
Il giorno seguente partimmo prima dell’alba, durante la giornata fummo fatti segno da mitragliamento aereo, molti caddero, feriti che gridavano di prestar loro aiuto, era un grave problema, non si aveva nulla da poter offrire, solo che la parola, qualcuno si trascinava avanti come poteva finché. esausto cadeva per non rialzarsi più. Qui di date non se ne parla più; ma ricordo benissimo quando fu fatto prigioniero tutto il comando dell’8^ Alpini.
Siamo in un paese, con due file di isbe ai lati di una strada diritta per chilometri, io esco dall’isba per un bisogno, poco distante (200 metri circa) si profilano dei carri armati tedeschi, li ricordo benissimo con l’insegna sui fianchi, la svastica; si avvicinavano sempre più mentre cominciano a sparare all’impazzata. Distrussi la radio nell’isba e mi precipitai di nuovo fuori, bombe a mano con me, e la pistola di adottazione con molti colpi.
Un carro in fondo alla via aveva incominciato a sparare su quanti correvano per raggiungere la colonna che si snodava davanti a noi, quindi quel carro ci voltava le spalle rispetto al paese, che fare? Andare sotto, prenderlo d’assalto. Così fu fatto. Io giunsi sotto che i russi già uscivano con le mani alzate.
Diversi alpini stavano sopra la torretta. Non mi fermai un istante, proseguii a tutta forza per molti chilometri. Però nel frattempo, altri carri sparavano su quanti uscivano dal paese, ricordo di aver incontrato i fratelli Walter e Gualtiero Dri da Tricesimo della mia compagnia, uno gravemente ferito, non ricordo chi dei due, so solo che uno stava dicendo: vai, corri, sàlvati almeno tu.
Ma guai maggiori dovevano venire proprio un paio di giorni dopo. La colonna continuava la sua lenta e greve marcia; più avanzava più si ingrossava, come un verme si accorcia e più si ingrossa, per poi allungarsi di nuovo. Davanti a Nikolajewka ci avvicinammo anche noi, ci fermammo in un canalone, davanti c’era una specie di pianoro, più in là si intravedeva una specie di riga nera più alta – questo si seppe poi – il terrapieno di una ferrovia; dietro questo i russi sparavano a zero con cannoni ed armi di tutti i tipi.
Intanto la colonna che veniva avanti si ingrossava sempre più, slitte piene di feriti, muli che stavano in piedi per miracolo trainavano cannoni anche fuori uso, come dovessero portarli con sé per ricordo, soldati e soldati che parevano ombre vaganti, non si vedeva loro neanche la faccia, arrancavano senza sapere il perché e dove andavano. Come quando uno ha freddo e si avvicina al fuoco e non si accorge di bruciare.
Ricordo che attorno a me, sempre fermi nel canalone, c’erano molti ufficiali della Divisione Tridentina, questi si adoperavano per disporre l’assalto, cioè uscire dal canalone, scavalcare il terrapieno, e così fu. Ricordo che gridavano: avanti tutti, che i russi scappano.
Vidi davanti a me una fiumana di gente avanzare e correre verso il terrapieno, ma moltissimi non arrivavano, e quei pochi che giungevano sopra dovevano fare salti mortali prima di giungervi, tanti e tanti erano i caduti, i feriti, slitte piene zeppe con morti, e feriti che gridavano, una cosa così orrenda che non saprei mai descrivere.
Tenente Desiderio Ebene
comandante 12ª Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini
Per quanto riguarda Nikolajewka, in effetti ero con la 12ª Compagnia sulla sua strada, ma solo all’inizio di essa; infatti, il nostro ripiegamento finì drammaticamente già il 18 gennaio, in quel di Mesonky. Riassumo qui brevemente gli ultimi due giorni di storia della 12ª Compagnia sul fronte russo.
Nel quadro della conversione del Tolmezzo, verso le ore 23 del 16 gennaio mi giunse improvviso, a movimento già iniziato, l’ordine di schierare la compagnia su alcune posizioni predisposte nelle vicinanze del bunker, già sede del comando del Battaglione Tolmezzo.
Pensai subito che ciò preludeva ad una rischiosa azione di retroguardia, per cui avvertii l’opportunità di trattenere con me soltanto i soli combattenti con armi e munizioni, facendo ripiegare quanti e quanto non fosse indispensabile al combattimento. Penso ancora oggi con soddisfazione a siffatto provvedimento, che ha consentito almeno a una parte della compagnia di salvarsi.
All’alba del 17, i russi – che evidentemente non pensavano di trovare qualcuno ad attenderli poco distante dalle nostre posizioni abbandonate di fresco – avanzarono a piedi in massa senza la minima precauzione. Pensai subito alla possibilità di sorprenderli. Ordinai pertanto ai miei uomini di restare nascosti e silenziosi e di aprire il fuoco soltanto su mio ordine. La sorpresa riuscì in pieno. I russi, investiti improvvisamente dal nostro fuoco micidiale, ripiegarono in gran disordine con gravissime perdite.
Durante il giorno 17, la compagnia è stata oggetto di ben quattro attacchi, preceduti sempre da nutrito fuoco di artiglieria e di mortai. Avemmo notevoli perdite. Ci sentivamo isolati e minacciati di accerchiamento. Infatti, eravamo privi di ogni collegamento. Tuttavia, nel tardo pomeriggio mi pervenne di “rimbalzo” dalla 72ª Compagnia l’ordine di iniziare il ripiegamento a partire dalle ore 17, a scaglioni, e di affluire a Lotschina.
L’operazione di sganciamento e di deflusso avvenne senza gravi perdite. Raggiungemmo Lotschina verso le 22 e non vi trovammo anima viva, ma solo un gran disordine, effetto di un ben rapido abbandono della località. Pessima sorpresa! Essendo rimasti per oltre 24 ore praticamente isolati, non avevamo idee reali sulla situazione generale né su quella particolare. Gli uomini erano stanchi ed affamati.
In tali circostanze, ritenni opportuno di sostare un po’ a Lotschina, per rimettere in efficienza il reparto e decidere sul da farsi con i miei ufficiali. Decidemmo di raggiungere intanto Mesonky, la località più importante della zona in direzione ovest. Giunti in vista di tale località nelle prime ore del mattino, gli uomini dell’avanguardia mi segnalarono la presenza di alcuni militari all’inizio del paese. Ne feci accertare la nazionalità e risultarono tedeschi; il che mi rincuorò. Lasciai la compagnia al mio vice, il tenente Avalle di Torino, e mi recai, conoscendone bene la lingua, a conferire con i tedeschi (si trattava di sbandati da Rossosch, in prevalenza della Luftwaffe).
Nel frattempo, la compagnia raggiunse il paese. A questo punto scoppiò il dramma! Appena iniziata la conversazione con i tedeschi, iniziò fuori una forte sparatoria ed entrò nella nostra isba un tedesco sanguinante per ferita all’addome. La compagnia, insieme con i tedeschi, combattè duramente per oltre due ore. Le perdite furono gravi. Alla fine, siccome anche le munizioni stavano per esaurirsi, ordinai ai superstiti di tentare un rapido ripiegamento verso est in direzione di un bosco fuori del paese. L’operazione fallì, anche perché dal bosco arrivò pure una forte reazione di fuoco.
Venne così la cattura. I tedeschi, separati subito da noi, vennero passati per le armi poco dopo. Sono riuscito a salvarne uno – un sergente della Luftwaffe nativo di Bolzano e che aveva una sorella sposata a Milano – fornendogli la mantella di alpino caduto e facendolo passare per italiano. Noi superstiti eravamo una quarantina.
Ci rinchiusero dapprima in una scuola, poi adunata improvvisa all’aperto e tentata uccisione del comandante (io). Ho sentito per circa cinque minuti la canna fredda di un mitra sulla tempia destra, in attesa della scarica, che evidentemente alla fine non ci fu. Per quanto mi risulta, di quei resti della 12ª Compagnia, fecero ritorno dalla prigionia solo chi scrive ed un caporal maggiore carnico.
Sergente Giuseppe Da Re
12ª Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini
Sono l’unico sottufficiale della 12ª Compagnia del Battaglione Tolmezzo che partecipò dal fronte del Don a tutta la ritirata. Il resto della mia compagnia rimase prigioniero per essere rimasto sul posto a difendere gli alpini che si sganciavano nella prima notte di ritirata. Già la sera del 21 dicembre la 12ª Compagnia aveva formato una linea di contatto con i russi per creare una frontiera, sul nostro nuovo fronte davanti a Nowo Kalitwa. C’era sparso qui e là qualche mucchio di paglia e così la compagnia approfitta per una superficiale sistemazione nella neve.
Intanto i russi si stanno svegliando dandoci il benvenuto con qualche scarica di parabello facendo così bersaglio su qualcuno: anzi, io stesso al primo ferito Bruno Poletto cedetti le mie coperte augurando buon viaggio per l’Italia, mentre all’indomani arrivava già la notizia della sua morte.
Passò la notte con la neve che incominciava a fioccare accompagnata da una lieve tormenta, i russi tastavano il terreno facendo forte uso del mortaio; intanto la compagnia lavorava come una vecchia talpa, il gelo aveva reso il terreno più duro del granito, perciò bisognava piccare sodo per costruirsi la tana.
Il giorno seguente i russi si facevano più positivi. Alla vigilia di Natale il freddo stava crescendo in modo impressionante, il vino arrivava nel sacco, il pane era un pezzo di marmo, le scarpe rimanevano piegate sotto i piedi e il fazzoletto era un pezzo di cartone e qualcuno dormiva sotto la tenda.
Stava arrivando una grande sorpresa: i russi tentano un colpo di fortuna verso le nostre posizioni: ma la 12ª non molla finché ci sarà una mezza baionetta, così diceva telefonando nel pagliaio il nostro comandante di compagnia, tenente Desiderio Ebene; sotto il nostro tiro incrociato, a circa cento metri avevamo i morti russi ammucchiati come il fieno, e man mano venivano sepolti dalla neve. La compagnia è rimasta con circa 30 alpini in meno fra morti, feriti, congelati.
Il 16 gennaio ordini preoccupanti: versare gli attrezzi e tenersi pronti con gli zaini. Arrivò la sera e la compagnia retrocedette in una seconda linea creata con quattro buche piene di neve che purtroppo nessuno ne fece uso; naturalmente non capivo chi dovevamo aspettare a tarda sera con una stellata e un venticello che ci costringeva a passeggiare tutta la notte.
Finalmente spuntava l’alba, giù nella valle si notava una bella compagnia inquadrata. Chi saranno? Camerati tedeschi, ungheresi, romeni? Ma qualcuno di noi chiede: chi siete? “Karasciò, karasciò” risposero con qualche colpo di fucile e sparirono verso le colline che costeggiavano la nostra posizione; così le quattro buche vennero buone tutta la giornata per non dare bersaglio ai russi.
Non dimenticherò mai il 17 gennaio, una giornata più lunga che i miei trent’anni; dopo il tramonto il comandante di compagnia mi ordinava di rimanere di retroguardia con la mia squadra e quella del caporal maggiore Di Pol con un collegamento di una trentina di passi: capii che era un compito un po’ difficile, tanto più che mortai già sparavano alle nostre calcagna.
Difatti, al primo bivio mi trovai a disagio rendendomi conto che gli ultimi uomini della compagnia davanti a noi avevano rotto il collegamento per la loro stanchezza. Non mi detti per vinto e presi la direzione d’un chiarore lontano, l’unica speranza di trovare la sede del comando di reggimento. Difatti dopo un paio d’ore siamo arrivati in un paese in fiamme: gli uomini avevano fame e perlustrarono per le case. Io intanto chiedevo a qualche sbandato informazioni più chiare, capii che tutto era vano.
Ripreso il cammino, non so come mi trovai in una pista un po’ coperta da armi e indumenti dei nostri reparti. Dopo lunghe ore di cammino notai che sulla stessa pista c’erano due piccoli fusti, ne scossi uno, era vuoto ma il secondo è pieno, prendo la carabina e tento un foro: che razza di foro, il cognac usciva da far girare un mulino; ragazzi piano, è pericoloso! Mentre si stava brindando arrivò il sottotenente Pasquino con il suo plotone e approfittavano dell’occasione.
Rimasi ancora di retroguardia; ogni tanto qualcuno si portava al largo per i suoi bisogni e poi chiedevano aiuto per riallacciarsi: nemmeno i guanti per la Russia riparavano da questo freddo e poi erano già due notti che non si dormiva. A tardo pomeriggio siamo arrivati a Rossosch, ho trovato i nostri cucinieri ma più nessuna novità sulla compagnia: il grande raggruppamento sta dirigendosi verso ovest. Al mattino sostavamo in un villaggio e mi venne presentata una nuova compagnia di complementi formata da due sottotenenti e centocinquanta uomini che erano arrivati in quei giorni col treno alla stazione di Rossosch.
Così la 12ª raggiunse il suo vecchio numero. Dopo circa tre ore di sosta la colonna segue il suo ritmo attraversando una lunga valle e di tanto in tanto gli apparecchi russi passavano a salutarci spianando le loro mitraglie e sganciando qualche bomba che ci invitava ad accelerare il cammino. Arrivò la sera e la colonna venne bloccata da carri armati, tre alpini vennero mortalmente colpiti: era un continuo passar la voce: avanti l’anticarro, avanti le mitragliatrici… così in quella notte vennero impegnati certi reparti per far fronte alla colonna e fra codesti i complementi della 12ª Compagnia, rimanendo sul gelido suolo in attesa del loro primo battesimo di fuoco.
Verso le dieci del mattino prese inizio una sparatoria: a pochi passi da me, un mulo colpito sgorgava il sangue da lavarmi lo zaino e la schiena, forse è stato un momento che avevo tanta voglia di piangere pensando alla patria lontana e cioè alla famiglia. La lotta si fa accanita, i carri armati si scaraventano sulle nostre posizioni e costringevano a ripiegare: da un’isba vedo uscire gli ufficiali del mio battaglione gridando: “Coraggio, coraggio ragazzi all’assalto”; io mi sentii spinto da una strana volontà e corsi con gli uomini verso la linea… il proiettile di un nostro pezzo anticarro mi sfiorò le ginocchia ma è stato anche un momento di gioia vedendo pieno bersaglio; e dopo pochi istanti altri due carri centrati dai due pezzi di cui disponeva il Gruppo Conegliano.
Sul terreno sono rimasti diversi alpini morti, e la neve stava diventando rossa; per la Julia e la Cuneense fu codesto il costo del varco a Nowo Postojalowka. La mia nuova 12ª Compagnia si trovò qui per la seconda volta quasi completamente distrutta. Prima del tramonto si riprende il cammino, alle mie spalle segue a cavallo il capitano Franco Magnani, vuole chiedermi informazioni sulla compagnia, dato poi che in precedenza la comandava lui; anzi, sua moglie era la madrina della bandiera (riportata da noi in Italia).
Dopo un lungo discorso ci siamo salutati e così, in piena notte siamo arrivati nel bosco coricandoci sul candido lettino. Riposai abbastanza bene, ma quello che non vedevo chiaro era la colazione che mancava: ossia i cucinieri avevano soltanto un po’”di zucchero nel sacco e così ci siamo addolciti. Poco dopo si riparte, intanto la neve cadeva lentamente come il nostro faticoso cammino. E’ stata una marcia lunghissima per arrivare nel villaggio di Nowo Georgiewka, per fortuna ci siamo alloggiati in uno stallone vuoto.
Di buon mattino mi alzai con l’intenzione di cercare il capitano Magnani per chiedergli se aveva novità sulla compagnia dispersa. Questo villaggio contava molte isbe, ne avevo già visitate due quando vidi di fronte a me un carro armato che perforava le isbe per far uscire gli alpini; mi venne contro fino ad una cinquantina di metri, già ero preparato con la mia sentenza… Volle il destino (o non compensava la spesa) d’improvviso il carro cambiò la rotta e dopo pochi minuti vidi qualcosa di spaventoso; gli alpini usciti dalle isbe crearono un formicaio in preda; tanti cercavano una via d’uscita sparpagliandosi a largo e tanti pagavano a caro prezzo.
Mi raggiunsero il tenente Maset e tenente Grande invitandomi a seguirli e così qualche alpino che man mano cercavano di riunire. Sotto le stelle siamo giunti dove sostavano altri nostri reparti nel calore d’un grande focolare all’aperto perché le poche isbe erano già supercalcate. L’aurora segnava un nuovo giorno, si ripartì con lo stesso diario fino a tarda sera: ma le isbe erano insufficienti per alloggiare tutti, un mucchio di fieno ha reso felice tanta povera gente.
La sera del 24 gennaio finalmente trovai alloggio in un’isba abitata da russi civili che gentilmente offrirono il proprio letto, ripeto: letto. Ma non passò tante ore che mi vennero a svegliare; piangendo dicevano… Camerat cicai, russkij partisan, cicai, e così incominciava la via d’un nuovo calvario verso Nikolajewka.
Alpino Albino Porro
114ª Compagnia, Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini
La sera del 21 gennaio 1943 la colonna di cui anch’io facevo parte sostava nel paese di Nowo Georgiewka, io e altri pochi alpini occupammo un’isba all’imbocco del paese lato nord; verso le prime ore del mattino il paese venne attaccato da reparti russi, di soprassalto ci portammo fuori per accertarci di quanto succedeva; infatti a circa duecento metri notammo alcuni camion con soldati russi in parte a bordo degli automezzi, in parte a terra che avanzando lentamente e con prudenza alternavano raffiche su di noi.
Un alpino (conosciuto in quel episodio e non più rivisto, ma che spero fortemente si trovi anche lui vivente) ancora in possesso di un fucile mitragliatore mi grida, le munizioni!, prendi le munizioni!; saltai nell’isba e mi impossessai di una cassa fortunatamente piena di caricatori, ma poiché si doveva sparare su un costone sopraelevato che circondava il paese, e cioè verso l’alto il bipiede non serviva pur abbassandosi verso terra; a questo punto io gridai al mio compagno, appoggia l’arma su una mia spalla e spara!
Infatti fu così, avvolsi la canna con una coperta per poterla tenere ferma e abbassai la testa verso terra… Resistemmo in quella condizione credo una mezz’ora circa, nel frattempo un’altra mitragliatrice cantava all’interno di un’isba; erano anche loro alpini che sparavano nella nostra direzione. La colonna si era messa in marcia, finite le munizioni ci guardammo in faccia e con un veloce sguardo attorno alle isbe, si capì che eravamo rimasti soli, non potrò mai dimenticare la corsa tra una isba e l’altra per raggiungere la colonna ormai lontana.ù
Cammin facendo in coda alla colonna sfinito dalla fatica, ma con una grande contentezza in cuore pensavo, che col nostro sacrificio anche a rischio della propria vita, avevamo dato la possibilità a tanti nostri compagni feriti e congelati di sopravvivere per quella giornata.
Capitano Alberto Villa
aiutante maggiore Battaglione Tolmezzo, 8^ Reggimento Alpini
Vorrei scrivere qualcosa sugli ultimi giorni della Julia in Russia. Su la fine almeno di parte di questa divisione, perché potrò dare dei dati solo sull’8^ Alpini e sul Gruppo Conegliano del 3^ Artiglieria, che per il 9^ Alpini e per il Gruppo Udine, staccatisi da noi, mi è assolutamente impossibile: so però che questa seconda colonna restò quasi completamente in Russia.
Fare un’opera meritoria svelando agli immemori italiani quanto hanno saputo fare i loro fratelli prima di cedere alla stragrande potenza del nemico. Per me è un dovere verso i molti compagni caduti, i compagni che sono rimasti là, senza fossa, senza croce, senza nome, il dire dell’eroica loro fine: sentirli onorati, gridando a tutti che sono caduti con la testa alta, servendo ciecamente l’Italia, che quelle ultime ore furono le più belle, che tutti, morti e sopravvissuti, si unirono per sempre, nel nome della Patria lontana, in un vincolo indissolubile e che da allora il cuore dei vivi diventò la tomba dei morti.
Le condizioni ambientali di quei giorni, le condizioni di equipaggiamento, armamento e munizionamento, sono troppo note; aggiungerò solo che i già pochi automezzi a disposizione dei reparti vennero a mancare completamente: dovevano seguire la via di Postojalyi dove trovarono la loro fine.
16-17 gennaio. Sabato 16 gennaio i reparti della Julia ricevono l’ordine di sganciarsi dal nemico e di ripiegare in direzione di Golubaja Krinitza e, attraverso la palude del Kalitwa, raggiungere Lotschina. Il Battaglione Tolmezzo resterà invece in posto, costituendo una testa di ponte al di qua da Kalitwa, tra Golubaja Krinitza e Nowo Melnitza.
Mentre tutti i reparti italiani e tedeschi della zona si ritirano avendo i russi già preclusa la strada di Rossosch con la conquista fin dal 15 di questa città, non resta loro che seguire l’unica via rimasta libera: Lotschina Solontzy Annowka e scendere poi verso Popowka o, più a nord, a Podgornoje. E” la via che corre parallela al fronte italiano del Corpo d’Armata Alpino immediatamente alle spalle dello schieramento di prima linea.
Se i russi riescono, attraverso la palude del Kalitwa, che non offre più nessun ostacolo, perché gelata, a raggiungere Ternowka o Lotschina o Staro Kalitwa ed infiltrarsi nella strada per Solontzy, possono prendere contatto con il fianco destro dello schieramento alpino e frustrare, penetrando in profondità, qualsiasi tentativo di sganciamento di tutto il Corpo d’Armata.
Ecco perché al Tolmezzo viene dato il compito di costituire questa testa di ponte e di resistere ad oltranza, ritardando il più possibile l’affacciarsi alla palude delle truppe sovietiche, provenienti da sudest. Il compito è sovrumano: il battaglione è ridotto a metà dei suoi effettivi, causa le numerose perdite precedenti ed anche questi uomini sono stanchi della lunga permanenza in linea; il terreno non offre appigli tattici di rilievo e non ha alcun apprestamento difensivo; le munizioni sono scarse.
Si saprà più tardi che su un terreno da difendere lungo circa sette chilometri bisognerà far conto solo delle proprie forze: tutto il fronte dietro a noi è in movimento. Dalle 13 del 16, quando l’ultimo uomo dei reparti ripieganti è ormai a 5 km di distanza – oltre la palude – alle 15 del 17, quando verrà dato, a mezzo radio, l’ordine al battaglione di sganciarsi, gli alpini del Tolmezzo vivono una delle loro più strenue giornate: non ci sono né camminamenti, né trincee, né buche; non ci sono viveri; ma gli uomini chiedono solamente munizioni.
Sono per tre quarti circondati, premuti, minacciati di essere letteralmente schiacciati, ma resistono. Corrono, vòlano su quei dossi gelati; chiudono ogni buco; e ogni tentativo d’infiltrazione, nelle lunghe soluzioni di continuità tra caposaldo e caposaldo (sono troppi 7 km per 600 uomini), è eliminato. Si sdoppiano, sono in ogni posto. Il nemico, che ha subìto forti perdite, è sorpreso, allibito, e non sa come far saltare quest’ultimo pugno di uomini che gli chiude la strada.
Raduna allora tutte le sue forze e prepara, da tutte le parti, uno di quegli attacchi a rullo compressore contro cui le nostre sparute forze non potranno certamente resistere. E di fatti i sanguinosi sacrifici degli alpini non riescono più ad arginare l’impeto avversario: le penetrazioni avvengono. Il battaglione è tagliato, suddiviso in tanti piccoli settori che i russi cercano di annientare.
Nella testa di ponte è ormai accesa una paurosa mischia, quando arriva l’ordine di sganciarsi. La comunicazione a tutti i reparti è un’impresa quasi impossibile, che però riesce. La 6^ Compagnia si aprirà un varco a bombe a mano, ma dovrà abbandonare tutti i feriti che non ha ancora potuto sgomberare e tutto il suo materiale.
La 72ª Compagnia perderà un plotone, così come la 114ª Compagnia A. A. Il comando di battaglione farà appena a tempo a buttarsi in una balka quando, due colpi di mortaio “arriveranno sul bunker dove si era sistemato e faranno saltare le radio. La 12ª Compagnia, la più lontana, inizierà il movimento di ripiegamento, ma non potrà superare tutte le barriere ormai tese dalle infiltrazioni russe e cadrà, al completo, prigioniera. Quando, alle 20 del 17, i resti del Battaglione Tolmezzo raggiungeranno Lotschina si capirà, perché ormai non vi è più nessuno, che il compito è stato assolto in pieno. Le truppe italiane e tedesche sono tutte già oltre Solontzy e tutto il Corpo d’Armata Alpino è in ripiegamento.
Ai tragici bagliori delle isbe in fiamme ci si riordina e, dopo una notte e un giorno di combattimenti, senza aver mangiato nulla, al sopraggiungere di un’altra fredda notte ci si
incammina verso SolontzyAnnowka e Popowka, uguale a 50 km di marcia. Si arriverà a Popowka verso le 14 del 18, dopo una marcia memorabile per il freddo e per la visione della tragedia che ormai colpiva, immeritatamente, anche tutto il Corpo d’Armata Alpino. Le strade sonocolme di automezzi italiani e tedeschi, di colonne di uomini, di slitte, di salmerie: si camminava, ma soprattutto si stava fermi ad aspettare lunghi interminabili turni per poter passare.
Quando, finalmente, si giunge, poche isbe raccolgono i 300 o poco più uomini del battaglione (era andato in linea con 1.500). La fame, che dura dalla sera di sabato, è saziata con poche patate alla sera del lunedì. Anche il riposo, dopo due giornate continue di lotta e di marcia, dura poco, che alle due del 19 i resti del battaglione (che a Popowka si erano uniti al reggimento), sono già pronti per ripartire verso ovest, onde cercare un passaggio (si porti al sèguito solamente quanto è strettamente necessario per combattere e vivere).
Vengono distribuite due giornate incomplete di viveri a secco: siamo al 19, chi si salverà potrà vedere la prima ridistribuzione di viveri al 30, fuori dalla sacca. Al Tolmezzo, che ha perso la 12ª Compagnia verranno aggregati i complementi appena giunti dall’Italia. Sono ragazzi del ’22 che non hanno mai visto la guerra ed una tragica sorte sembra per loro segnata. Il treno che deve portarli a Rossosch è stato fermato per strada, perché tale località è già in mano ai russi. Subito sono impiegati a tamponare le infiltrazioni che, specialmente sul fronte di detta città, sono sempre più numerose.
Quando trovano i loro reparti, sulla via del ripiegamento, sono già più che decimati. 19-20 gennaio. L’8^ Alpini inizia, alle prime luci del 19, la marcia verso ovest in direzione di Olichowatka. E” forte di tutti i resti dei suoi tre battaglioni, del Gruppo Conegliano del 3^ Artiglieria Alpina, di reparti misti del genio e di una colonna di slitte con i feriti ed i congelati.
Verso l’imbrunire del 19 la testa della colonna raggiunse un kolkhoz nelle vicinanze di Nowo Postojalowka e qui si viene a sapere che tale paese, attraverso cui si deve passare, è in mano ai russi e che inoltre numerosi carri armati percorrono la grande strada che da Rossosch va verso Olichowatka: pattuglie di punta ed esploratori confermano l’informazione.
Non c’è via di scampo, bisogna passare ad ogni costo. E” con il primo buio della notte che i
Battaglioni Gemona e Cividale ricevono l’ordine di attaccare il villaggio; il Tolmezzo si sistemerà a protezione del resto della colonna che sosta. Non passa molto tempo e un forte bagliore rosso illumina le tenebre della notte. Come ad un segnale convenuto, tutte le isbe di Nowo Postojalowka sono in fiamme: i nostri alpini le hanno incendiate. Incomincia allora una lotta a corpo a corpo fra italiani e sovietici, una lotta che al bagliore dei roghi assume aspetti apocalittici.
I mezzi corazzati, però, i terribili T 34, che presidiano la rotabile, accorrono verso il teatro della lotta. Che faranno i nostri ragazzi, armati solo di fucile e bombe a mano? Si buttano contro i carri, si fanno schiacciare in un impeto indescrivibile di parossismo eroico. Sulla sporca neve delle luride strade, all’intermittente bagliore degli incendi, giacciono ammassi informi di carni, armi ed ossa. Più volte, nella notte, questi piccoli uomini fatti grandi dal loro inarrivabile eroismo tornano all’assalto, più volte vengono ricacciati con sempre maggiori perdite, ma non cedono.
Il nemico non verrà avanti. Giunge così, livida l’alba fredda del 20 gennaio. Un battaglione del 1^ Alpini, il Ceva, che aveva nella notte raggiunta la colonna, sostituirà i pochi superstiti dei due battaglioni. Alla provata colonna dell’8^ non si possono dare altri aiuti: tutti sono impegnati in dure lotte per aprirsi un varco. Viene promesso, a mezzo radio, l’invio di “Stukas” per combattere i carri, ma gli aerei non si vedranno. Anche il Ceva non la spunta e pure il Ceva è decimato.
Non rimane che il Tolmezzo: il già esaurito Tolmezzo è chiamato ancora una volta a dare tutto di sé. Le sue compagnie (ma si possono chiamare tali, quando raggiungono appena la forza di un plotone?) si dispongono a fronteggiare il nemico per non permettergli di avanzare ed annientare la colonna. Il Gruppo Conegliano piazza i suoi pezzi, i vecchi 75 con munizioni anticarro: alpini, artiglieri e pezzi costituiscono una linea sola. Si combatte alle brevi distanze, ma nessuno tentenna.
I complementi del ’22 sono anch’essi in linea: la loro consegna è di non mollare, e non mollano anche quando i carri russi passeggeranno su di loro: di 95 uomini e cinque ufficiali si salverà solo il capitano con la mano destra dilaniata da un proiettile esplosivo. I pezzi sparano a zero su i carri che avanzano, ma i loro proiettili (anticarro) schizzano via dal bersaglio: un pezzo è letteralmente schiacciato con tutti i suoi serventi. Finalmente un T 34 è immobilizzato: una densa colonna di fumo si alza, sembra che bruci. Allora avviene qualcosa di indescrivibile, qualcosa che resterà per sempre nella memoria di chi avrà la fortuna di sopravvivere.
Tutti si alzano, tutti corrono, tutti vanno verso i terribili carri nemici. Sembra che un furore abbia preso gli italiani: alpini, artiglieri e genieri, con alla testa i loro comandanti (e notate che il maggiore del Tolmezzo è congelato di terzo grado e non può che muoversi a fatica) e tutti i loro ufficiali vanno, urlando, all’assalto dei carri nemici.
Se, militarmente, quanto sta per accadere è assurdo, dal lato dell’entusiasmo, è qualcosa di sublime: è un assalto selvaggio, tanto è scomposto, tanto e veemente e tanto gli uomini si agitano alzando il fucile e vociando. I russi si fermano, vedono l’orda urlante che sta precipitando su di loro, retrocedono di pochi passi, si coprono dietro i loro carri: si è tanto vicini che si scorge il bianco dei loro occhi.
L’eroica temerarietà inchioderà però gli italiani, ebbri di entusiasmo e di furore, a Pochi passi dai mostri d’acciaio. Calmi, sicuri della forza soverchiante data dai loro mezzi, i russi aprono dai carri con le armi automatiche una pioggia infernale sul muro umano che avanza incurante di coprirsi. Chi si ferma è ancora con le labbra atteggiate al grido di battaglia, i più cadono, gli altri guardano fissi inebetiti; sembra quasi impossibile che ci sia stato qualcosa che abbia potuto fermare, spezzare il disperato slancio.
Intanto le isbe trasformate in infermeria si riempiono di feriti, di moribondi: sono piene zeppe, si ricoverano solo i più gravi, ma anche questi non potranno avere cure, perché mancano tutti i medicinali e ci sono poche bende anche per le più strazianti ferite. Chi muore è messo fuori, sulla neve per lasciare il posto a nuovi sopraggiunti. Più tardi vedrò, come dice una canzone alpina… il colonnello che piangeva a veder tanto macello, fatti coraggio alpino bello!…
E ci si fa coraggio. I russi non devono venire avanti: tutti vanno, non si contano le volte, al contrassalto. Sono attendenti, portaordini, scritturali, cucinieri, conducenti (il Tolmezzo non è più ormai formato che da questi uomini). Tutti sono là, a cinquanta metri davanti alla loro colonna di slitte trasportanti i feriti, per difenderla, per aprirle un passaggio.
Sta per scendere nuovamente la sera, ed il cielo è tutto striato da traccianti anticarro sovietiche, che cercano di incendiare le povere capanne del kolkhoz attorno al quale l’8^ sta disperatamente difendendosi, quando una colonna (non sappiamo da dove provenga, né da chi sia formata) viene ad investire il villaggio dal lato nordest.
E” la liberazione! Ci si raccoglie: siamo in pochi, i più sono rimasti là, sulla piana insanguinata che vide, per quasi 24 ore, i disperati sforzi degli alpini italiani. La giornata ha il suo bottino: sono 3 carri inutilizzabili, messi fuori combattimento. Tutto viene distrutto. L’ordine è di alleggerirsi per marciare più speditamente possibile. Vengono rotte le radio, inutilizzabili i pezzi che sono rimasti senza munizioni. Alpini ed artiglieri, ridotti ad un pugno, con il sèguito sacro della colonna dei feriti, cercano di procedere verso ovest.
Ormai non si può più combattere, bisogna giocare d’astuzia: se nuovamente ci riprendono, siamo spacciati. Per due notti e per un giorno, concedendoci solo brevi riposi, nascosti in vallette boscose, si va avanti. Si arriva, così, alle prime ore del 22, in vista di Nowo Georgiewka. Il posto sembra sicuro, le grandi rotabili sono attraversate; gli uomini hanno assoluto bisogno di un po’ di riposo ed allora ci si accomoda nelle poche isbe dove già si trovano i tedeschi.
Ecco però che i russi, i quali non possono ammettere di essersi lasciati sfuggire quei disgraziati che niente più hanno da contrapporre alla loro potenza, tornano improvvisamente sotto, e questa volta di sorpresa. Hanno inseguita la loro selvaggina e quando hanno visto che stava per cadere stremata di forze, si avventano sopra. Una poderosa formazione di carri armati e truppe autotrasportate circonda il paese di Nowo Georgiewka, apre il fuoco sulle isbe. Non c’è più niente da fare: non si può resistere con i soli fucili e con le poche bombe a mano.
L’esiguo numero di uomini che riuscirà a sfuggire all’accerchiamento si metterà in salvo passando attraverso il cerchio di ferro e di fuoco. I più saranno fatti prigionieri. Ecco la fine dell’8^ Alpini. Alla distanza di poche ore di marcia, così cadrà anche il 9^ Alpini. Dio aiuterà invece la colonna dei feriti che, raggiunta a Scheljakino la Tridentina, potrà con questa uscire dalla sacca. In tutto quanto ho scritto non ho fatto, di proposito, nessun nome.