ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 69

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Artigliere alpino Adolfo Salvaterra
45ª batteria, Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Il 17 gennaio 1943 la 45ª Batteria è sola con gli alpini del Val Chiese mentre gli altri reparti del reggimento stanno ripiegando. Il nostro comandante capitano Vinco ci ha illustrato la situazione. E’ in noi tutti un alto senso di consapevole responsabilità, forse dovremo sacrificarci per salvare gli altri, ma se sapremo essere tutti uniti e forti, anche noi potremo tentare di salvarci; dipende da come potremo ingannare il nemico mentre il reggimento tenta di porsi in salvo.

Al mattino in una splendente giornata di sole ma freddissima, la batteria spara moltissimi colpi; vogliono significare al nemico che le linee del 2^ Reggimento sono sempre ai loro posti. Alla sera finalmente 4 Fiat 26 vengono a prelevare la 45ª e durante la notte abbandoniamo la linea e torniamo a Podgornoje ove ci rendiamo esattamente conto della situazione. Ciò nonostante il morale è alto e qui incominciamo a capire il bene che ci fa la ferrea disciplina che il nostro comandante ha sempre preteso da noi. Ci spostiamo verso Opyt, la oltrepassiamo, troviamo la 20ª del capitano Bavosa.

I pezzi vengono piazzati con le bocche rivolte dalla parte opposta da dove dovrebbe incamminarsi la Tridentina, dovremmo arginare l’avanzata del nemico per permettere alla Tridentina di aprirsi un varco verso Postojalyi. Il giorno dopo, il 19, la 20ª ci lascia, deve accorrere ad appoggiare il Verona che trova difficoltà, per entrare in Postojalyi, più dure del previsto. Siamo piazzati su una piccola altura, le tende, dopo aver fatto un buco nella neve, sono state erette in esso.

Si succedono brevissimi i turni di guardia; il momento, sentiamo nel nostro intimo, è particolarmente delicato. Il nostro comandante con il suo esempio e la sua calma ci tiene uniti e ci fa comprendere tutta la responsabilità che incombe sulla 45ª. Forse la salvezza di tutta la nostra amata Tridentina. Sentiamo realmente tutti noi questa tremenda responsabilità.

Alle 2,30 del mattino del 20 gennaio l’allarme “serventi ai pezzi”. Il primo ordine è di alzo 90, il secondo alzo 60. Vediamo le scie di fuoco dei colpi russi passare sopra i nostri capi. Il terzo ordine è di sparare a zero. Registro il cannocchiale sui dati ricevuti e mi accorgo che il cocuzzolo della collinetta m’impedisce di sparare sul nemico. Ci accingiamo a spostare il pezzo sul cocuzzolo stesso.

Durante questa manovra una granata fa il vuoto fra i serventi del mio pezzo, il 4^; cade l’artigliere Ghezzer di Mezzocorona, resta gravemente ferito Boselli, sono leggermente feriti il capopezzo Giovila, Emer e Piva, l’unico incolume è il puntatore Salvaterra; il tenente Macchi urla come mai il 4^ pezzo non spara. Si rende subito conto del motivo, mentre io in un ultimo disperato richiamo, la sua testa fra le mie mani, mi chino sul povero Ghezzer, una scheggia lo aveva colpito al capo ed era caduto senza una parola.

Ma il combattimento continua, dobbiamo fermare i russi. Difatti poco dopo il loro fuoco su di noi cessa; sono stati fermati. Il nostro comandante nel frattempo aveva provveduto ad avvertire il comando e verso le 4,30 un gruppo di 40 alpini del Vestone al comando di un ufficiale (Franzini?) viene a darci una mano. I russi sono già stati fermati. Prendono il nostro posto mentre noi verso l’alba ripieghiamo verso Opyt per seguire la colonna verso Postojalyi.

Nell’abitato di Opyt osserviamo sgomenti i colpi dei russi fare strage nelle retrovie della colonna. E’ terribile, i 4 pezzi della 45ª sono pronti sulla strada fra le isbe di Opyt. Improvvisamente verso le 8,30 fra l’assordante bombardamento russo il ruggito di grossi motori: vediamo avanzare verso noi sulla nostra stessa strada e sfilare un grosso carro armato con un gruppetto di uomini sopra, seguito da un uomo a cavallo il quale traina un piccolo pezzo dietro al quale un altro gruppetto di uomini, armi in pugno, segue.

Dietro ancora un altro carro armato seguito da altri due; si fermano di fronte alla 45ª, siamo viso a viso. Evidentemente non ci rendiamo conto che sia il nemico, sapevamo che gli alpini del Vestone erano dietro noi. Non possiamo credere che siano russi. Sono attimi terribili! Vedo uno di loro farmi segno di piantare il moschetto nella neve, di alzare le mani. Ricordo esattamente cosa pensavo in quegli attimi! Io non posso arrendermi, non sarà mai! Improvvisamente l’urlo del capitano Vinco: “Sparate sono russi!”.

Immediatamente spariamo. Punto e sparo sul russo che voleva mi arrendessi, lo colpisco e cade in avanti; una raffica del caporal maggiore Rondelli falcia gli uomini sul primo carro armato e in un baleno restano solo i carri armati impossibilitati a sparare su di noi perché sono troppo sotto; lo intuiamo dal movimento delle torrette che non possono abbassarsi più di tanto, è la nostra fortuna! Ma anche fra di noi molti cadono.

Il tenente Macchi è colpito al cuore dal parabellum mentre pistole in pugno spara sui russi. Le sue ultime parole sono: “Oh Dio mamma” e cade sul fianco sinistro. Un artigliere è colpito a morte mentre accovacciato sulla neve sta sparando col moschetto, il sergente maggiore Passerini ha le cosce trapassate da una raffica. Molti altri sono caduti ma il nemico è annientato e i carri armati sono fatti fuori, uno per ciascun pezzo. Il capitano Vinco strappa il parabellum ad un russo e col tenente Di Pietro e suoi artiglieri attende l’uscita dei carristi dalla torretta. Poi li fanno fuori.

Il capitano Vinco da ordine al tenente Di Pietro di raccogliere gli uomini rimasti e di incamminarsi verso Postojalyi, lui si fermerà con i mitraglieri a proteggerci. Il tenente Di Pietro esprimendo quello che era il desiderio di tutti cerca di opporsi, vogliamo restare tutti uniti al nostro comandante. Per due volte si oppone, alla terza il secco indiscutibile ordine “Tenente Di Pietro, ti ordino di portare via gli uomini rimasti” e il tenente Di Pietro irrigidito sull’attenti risponde “Signorsì!”.

I resti della 45ª senza il loro comandante, a piccoli gruppi, cercano di raggiungere Postojalyi. L’estremo sacrificio del capitano Vinco e i mitraglieri darà la possibilità a circa un terzo dell’intero organico della batteria di tornare ancora in patria. Mentre attraversiamo il pianoro per salire dove si era incamminata la colonna siamo facile preda dei colpi nemici e molti di noi cadono ancora, i serventi del 2^ pezzo, i più forti uomini della batteria sono colpiti da una granata russa. Alla sera del 20, mentre già è buio, possiamo ricongiungerci alla colonna. Questo è quanto ricordo della mia cara 45ª e del suo valorosissimo capitano Vinco.

Artigliere alpino Giacomo Gozzini
29ª Batteria, Gruppo Valcamonica, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Cominciamo da Podgornoje? La mattina del 17 gennaio 1943 il sergente maggiore Gino Corti mi chiama e mi dice devi andare “in prima linea a portare al capitano Fabio Moizo l’ordine della ritirata che è cominciata ieri sera alle 17,30”. Ma io preferivo non andarci perché era già troppo pericoloso, e lo dissi davanti a tutti. Lui mi dice: guarda che questa è una missione delicata e solo di te ci affidiamo, altrimenti resteremo qui tutti. Allora mi metto in ordine, prendo munizioni e bombe a mano e mi sono messo in cammino e sono arrivato per puro miracolo perché si vedevano parecchi partigiani in giro.

Quando consegnai al mio capitano Moizo quel famoso e delicato messaggio mi disse bravo e grazie. E dopo questo abbiamo avuto gli onori personali di avere appianato i carri armati russi che sparavano e maciullavano la colonna in ritirata. La sera del 26 gennaio sul ponte della ferrovia abbiamo incendiato carri armati e camion carichi di munizioni fino a quando, finite le munizioni, abbiamo avuto l’ordine di smontare i pezzi e buttarne un po’ dovunque e andare avanti all’arma bianca fino nella grande piazza di Nikolajewka. Mi scusi se ho scritto troppo male, mi vorrebbe un sillabario e poi sarei ancora da capo.

Artigliere alpino Mario Freschi
28ª Batteria, Gruppo Valcamonica, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Mi sono deciso a scrivere perché nel libro non ci siano delle inesattezze; infatti ne ho riscontrate in tanti quotidiani, settimanali, e libri che hanno pubblicato notizie di quella battaglia. Io posso precisare con esattezza ciò che avvenne nel momento culminante della battaglia.

A Nikolajewka il generale Reverberi prima dell’ultimo attacco tenne un rapporto agli ufficiali; accordatosi sulla tattica da seguire si diresse verso un carro cingolato tedesco (e non carro armato come si è stampato). Estratta la rivoltella salì sul predellino, sparò alcuni colpi in aria gridando: “Tridentina, avanti!”; dai reparti organizzati si sentì un grido che parve un boato.

Dalle nostre poche artiglierie e dai cannoni tedeschi partirono gli ultimi proiettili, ed alcuni ufficiali di quelli che avevano partecipato al rapporto cominciarono a gridare: “Dobbiamo scendere in massa prima che venga buio, per la nostra salvezza!”.

Capitano medico Giulio Bartolozzi
31ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Quanto possiamo raccontare, sia io sia mio fratello, è solo una delle tante vicende che in terra di Russia hanno vissuto altri fratelli come noi. Per il reclutamento regionale delle truppe alpine, molti sono stati i fratelli e i consanguinei che si sono trovati uniti nello stesso destino appartenendo a gruppi od a battaglioni dello stesso reggimento.

Assegnato al 2^ Reggimento Artiglieria Alpina della Tridentina con il grado di tenente medico, il colonnello Moro, comandante il reggimento, non volle che due fratelli si trovassero nella stessa batteria onde evitare in una famiglia una eventuale duplice perdita. Mio fratello, capitano in servizio permanente effettivo comandava la 31ª Batteria del Gruppo Bergamo; io fui assegnato alla 45ª Batteria del Gruppo Vicenza e con tale reparto partii per il fronte russo.

Ai primi di dicembre del 1942, essendo stato promosso capitano, fui temporaneamente trasferito al 618º O. C. del 5^ Alpini. Avevo lasciato la batteria ed il reggimento con molto dispiacere ma il destino e gli eventi bellici mi ci ricondussero dopo poco tempo. Durante il ripiegamento ad Opyt il 20 gennaio 1943 ebbi modo di ritrovarmi vicino al mio amico e comandante la 45ª Batteria, capitano Libero Vinco. Lì la 45ª fu distrutta dopo aspri combattimenti con carri armati russi. Fu la prima batteria che si sacrificò per il ripiegamento della Tridentina.

Allontanatomi da Opyt, in me sorse un solo desiderio: rientrare al mio reggimento e possibilmente raggiungere la 31ª Batteria comandata da mio fratello e con lui affrontare il nostro destino. Poco prima di Scheljakino ci incontrammo. Dissi allora al capitano amico Romolo Deotto, comandante il 618º O. C., quale era il mio desiderio, ed egli acconsentì.

Lo stesso permesso ottenni dal tenente colonnello Calbo comandante il Gruppo Vicenza, a cui io appartenevo. Da quel momento tornavo a fianco di coloro che furono gli artefici della vittoriosa conclusione di Nikolajewka e assicuro che il ricevere un mitra e mettermi nei ranghi della batteria mi dette oltre che una vera gioia un senso di profonda serenità di spirito per aver attuato ciò che la mia coscienza mi diceva di fare.

La 31ª Batteria combattè a Scheljakino; unita al Morbegno attaccò Warwarowka ed i nostri alpini furono veramente formidabili. Solo la preponderanza dei mezzi nemici poté aver ragione di noi, però io penso che l’aver costretto forze nemiche notevoli in quel combattimento abbia contribuito ad alleggerire il peso della battaglia di Nikolajewka. In quelle ore di dura lotta fui sempre accanto a mio fratello, i nostri sguardi si cercarono spesso mentre più aspro era il combattimento. Abbiamo visto cadere i nostri soldati, abbiamo sparato fino all’ultima granata contro i carri armati che ci avevano circondati e la 31ª alle prime luci dell’alba del 24 gennaio ’43 cessava di esistere.

Quel mattino dei 2.000 uomini che componevano l’unità di combattimento Morbegno – 31ª Batteria ne restavano vivi circa 150. Fu allora che ringraziai il destino e la mia decisione di aver voluto essere a fianco di mio fratello: il capitano Alfredo Bartolozzi, comandante la 31ª Batteria al fronte occidentale, in Albania ed in Russia, alla vista della sua batteria distrutta ebbe una crisi di sconforto. Fui rapido a deviare l’arma che stava per portarsi alla tempia e riuscii a ricondurlo gradatamente alla ragione. Essergli stato vicino ha contribuito a far sì che un tragico gesto non fosse compiuto. In sèguito, uniti, abbiamo trovata la forza morale per sopravvivere alle terribili marce del davai ed ai campi di concentramento in Russia.

Capitano Alfredo Bartolozzi
31ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

La 31ª Batteria, il giorno 17 gennaio 1943 si trovava in linea a Belogorje sul Don e riceveva ordini dal Comando Gruppo Bergamo dal quale dipendeva, di ripiegare su Podgornoje, incolonnandosi col resto del gruppo. La marcia aveva inizio all’imbrunire del 17 gennaio e proseguiva per tutta la notte sul 18 gennaio 1943. Alle prime luci del 18 gennaio 1943 il gruppo al completo giungeva alla meta.

A Podgornoje, la sera dello stesso giorno, la batteria riceveva ordine dal Comando Gruppo di attendere sul posto il passaggio del Battaglione Tiràno del 5^ Alpini, comandato dal maggiore Maccagno, e di mettersi a disposizione di detto battaglione. Il Tiràno giungeva a Podgornoje alle ore 22 circa e, presa ai suoi ordini la batteria, proseguiva il suo movimento dirigendo verso Scororib, nei pressi del quale giungeva sul finire della notte. Il tentativo di entrarvi per acquartierarvisi falliva perché elementi nemici col favore dell’oscurità, riuscivano a sbarrarne l’ingresso.

Il comandante del battaglione decideva allora di attendere la luce per procedere a regolare attacco e, nell’attesa, ripiegava su di una posizione più arretrata. Sul posto a protezione del movimento retrogrado venivano lasciati due pezzi della batteria che raggiungevano la colonna successivamente. Il giorno 19 gennaio l’attacco veniva sferrato insieme al Battaglione Edolo ed al Gruppo Valcamonica che, nella notte, erano affluiti nella zona e, dopo un combattimento che si protraeva per gran parte della giornata, il paese di Scororib veniva occupato.

Il ripiegamento verso ovest veniva ripreso il giorno successivo in unica colonna dai due battaglioni, dal Gruppo Valcamonica e dalla batteria che si incolonnava nuovamente alle dipendenze del Battaglione Tiràno e con esso giungeva in serata al paese di Postojalyi. Qui ai due battaglioni del 5^ si ricongiungeva anche il Battaglione Morbegno comandato dal maggiore Sarti, al quale, nella nuova colonna che si costituiva, veniva affidato il compito di retroguardia.

Il maggiore Andri, comandante del Gruppo Valcamonica, assumeva l’incarico di comandante dell’artiglieria della colonna e ordinava alla 31ª Batteria, di passare dalle dipendenze del Battaglione Tiràno a quelle del Battaglione Morbegno e costituire con esso gruppo tattico di retroguardia della colonna. Col Battaglione Morbegno, la batteria riprendeva la marcia la sera del 20 gennaio 1943 e giungeva nella giornata 23 gennaio 1943 nei pressi di Scheljakino località che il grosso della colonna, dopo aver sostenuto un combattimento contro resistenze nemiche che si opponevano al passaggio, aveva superato qualche ora prima.

Le resistenze rimosse dal grosso, e costituite da forze di fanteria appoggiate da mezzi corazzati leggeri, si presentavano nuovamente nel tardo pomeriggio al giungere della retroguardia, sbarrando a questa il passo. Il Battaglione Morbegno e la 31ª Batteria ingaggiavano combattimento e, mentre le compagnie del battaglione attaccavano con decisione, la batteria apriva il fuoco appoggiandole con tiri di neutralizzazione e tiri contro carro. In tale azione venivano messi fuori combattimento due carri armati nemici mentre altri venivano colpiti dalla compagnia anticarro da 47/32, del capitano Mario Panzeri.

In tale combattimento, durato poco più d’un ora, la batteria aveva avuto un solo ferito: il caporal maggiore puntatore Carlo Proserpio che aveva riportato una leggera ferita al naso. Più gravi invece le perdite del battaglione. Cessato il combattimento, il comandante del battaglione, prima di riprendere la marcia, dava ordine di curare i feriti e riordinare i reparti al fine di evitare intromissioni di sbandati, che in gran numero seguivano i reparti organici, nei ranghi della colonna. Al punto di adunata giungevano però solo due compagnie del battaglione, la compagnia anticarro, i guastatori di C. A., che marciavano col Morbegno, e la 31ª Batteria.

La marcia veniva ripresa a notte inoltrata, a forte distanza dal grosso della colonna e la batteria marciava in coda al battaglione col compito di salvaguardarne il retro da eventuali offese di elementi corazzati nemici. Durante la marcia nel passare attraverso un piccolo raggruppamento di isbe, la coda della batteria veniva attaccata da partigiani che cercavano di distaccarla dal resto della colonna. A tale offesa essa reagiva prontamente: con i serventi dei pezzi si gettava contro le isbe in cui si annidavano i partigiani e, a colpi di bombe a mano, riusciva a mettere in fuga tali elementi disturbatori e a serrare nuovamente sotto il battaglione che, nel frattempo, si era alquanto distaccato.

Verso la mezzanotte sul 24, il Battaglione Morbegno e la 31ª Batteria, ormai di molto staccati dal grosso della colonna, urtavano contro il caposaldo nemico di Warwarowka che apriva il fuoco su di essi. La 45ª Compagnia e i guastatori, appoggiati dal fuoco della batteria, attaccavano decisamente il caposaldo. Il combattimento si prolungava per circa due ore, durante le quali, tanto il battaglione che la batteria subivano forti perdite in uomini e quadrupedi ma non riuscivano ad avere ragione del nemico. Visto vano ogni sforzo, il comandante del battaglione dava ai reparti ordine di ripiegare lentamente sulle basi di partenza e volgere nuovamente verso Scheljakino: era suo intendimento tentare altra via puntando su Waluiki.

Durante questo tempo, numerosi gruppi di sbandati, che avevano seguito il battaglione e la batteria, avevano serrato sotto e costituivano un ingombro non indifferente alle manovre dei reparti che erano ancora in grado di operare. La confusione creata da tali gruppi successivamente aumentava ancor più a causa di una puntata di alcuni carri armati usciti da Warwarowka.

Il comandante del battaglione in sèguito a tale minaccia lasciava a fronteggiarla alcuni pezzi della compagnia anticarro da 47/32 assieme ai quali restava anche il comandante della compagnia stessa, capitano Mario Panzeri, e, col resto del battaglione e della batteria, superato l’ingombro che gli sbandati avevano creato, riprendeva la marcia verso Scheljakino. Nell’azione di protezione svolta dai pezzi della compagnia da 47 il capitano Panzeri veniva ferito.

Dopo circa un’ora di marcia, poco prima dell’alba, in un punto in cui la pista risaliva un costone, il battaglione e la batteria venivano improvvisamente attaccati frontalmente da numerose forze nemiche appoggiate da una ventina di carri armati pesanti (T 34 e Klim Voroscilov). Mentre i reparti del battaglione si schieravano immediatamente per fronteggiare la nuova improvvisa minaccia, la batteria prendeva rapidamente posizione ed apriva il fuoco contro i carri da una distanza ravvicinata finendo tutte le munizioni che ancora le restavano.

Vari carri venivano colpiti, ma, malgrado ciò, non manifestavano danni apparenti e, non appena la batteria cessava il fuoco, questi la caricavano travolgendo i pezzi e continuando la carica sulle slitte del sèguito che, non appena iniziato il combattimento, avevano cercato di mettersi fuori tiro, ma che per la confusione esistente non avevano completato la manovra.

Mentre i carri svolgevano questa loro azione producendo fortissime perdite nei reparti, dal caposaldo di Warwarowka veniva aperto un violentissimo fuoco di artiglieria, mortai e mitragliatrici il quale, assieme all’azione dei carri e della fanteria che li appoggiava, veniva ad ingabbiare ciò che restava della colonna, in un cerchio di fuoco che non era possibile controbattere in alcun modo.

A questo punto la batteria, perduti i pezzi, travolti dai carri e quasi completamente distrutti, non aveva alcuna possibilità di reazione allo scorrazzare dei carri che insistevano nella loro azione. Anche il battaglione aveva subìto perdite paurose e anche in esso era scomparsa ogni parvenza di reparto organico. La retroguardia della Tridentina cessava di esistere. Pochi i superstiti di tutto il gruppo tattico e ridotti con le sole armi individuali e poche munizioni.

Capitano Luigi Collo
II Battaglione Misto Genio, 6^ Reggimento Alpini

Il 20 gennaio 1943 la Divisione Tridentina ha lasciato da tre giorni le sue posizioni sul Don per tentare di aprirsi una strada attraverso i paesi già occupati alle sue spalle dai russi e il II Battaglione Genio Alpino è arrivato la sera precedente nella piana di Opyt con la colonna del 6^ Alpini.

Ordini e contrordini si sono susseguiti nella notte per assegnare un compito operativo a questo reparto che si è trasformato in reparto di alpini di linea. Me ne è stato assegnato il comando e con me sono venti tenenti e sottotenenti che hanno fede in questi ragazzi che non hanno avuto alcuna esitazione ad abbandonare i propri attrezzi tecnici per impugnare il moschetto. Il nemico non è riuscito a mantenere il contatto con la nostra retroguardia ma la situazione è molto incerta.

Nella piana brumosa ed uniforme dove l’unica tonalità di colore è il grigio, in una situazione incerta e confusa il battaglione riceve le ultime disposizioni e lascia lo schieramento assunto per raggiungere il 6^ Alpini già impegnato in violenti combattimenti tra Repiewka e Postojalyi. In testa al reparto che si sta muovendo verso la pista di Repiewka è con me il tenente Elio Bencini; ci seguono uomini e salmerie con una forza complessiva di circa 550 uomini e 150 muli.

Alle sette del mattino la colonna che procede in silenzio è in fondo alla piana di Opyt e sta filtrando tra una massa di slittoni ungheresi in sosta. Le armi pesanti sono state caricate su slitte e avvolte in coperte per proteggerle dal gelo e consentirne l’impiego quando il reparto avrà raggiunto il 6^ Alpini.

All’improvviso, quando i primi uomini sono usciti dal groviglio delle slitte ungheresi, si scatena sul reparto un fuoco d’inferno. Cannoni e mortai hanno aggiustato il tiro sulla nostra colonna e non è subito chiaro da dove provenga il fuoco; un attimo di incertezza coglie il reparto che è scaglionato su una notevole profondità e non ha possibilità di schierarsi perché invischiato in mezzo ai reparti ungheresi.

Ma la situazione si chiarisce subito; alle spalle dei genieri, dalle posizioni appena lasciate, escono dalla bruma che riduce il campo visivo 12 carri T 34 scortati da ingenti forze di fanteria sovietica. Certamente le truppe che stanno dietro a noi sono state sopraffatte prima di poter intervenire e l’attacco si sviluppa contro di noi e contro l’abitato di Opyt dove è ancora il comando della divisione.

Non abbiamo alcun mezzo anticarro, ma non c’è da esitare; occorre tenere la situazione in pugno per evitare uno sbandamento degli uomini che sono al loro battesimo del fuoco. Alla nostra sinistra un ripido canalone fortemente innevato e difficilmente percorribile dai carri adduce ad una posizione più facilmente difendibile, ai margini di un piccolo bosco. Nel frastuono dei colpi in arrivo gli ordini sono immediati; il tenente Bencini con il grosso del reparto dovrà raggiungere il bosco e schierarsi a difesa; Fabiani con un plotone si butta al riparo di alcuni pesanti carriaggi ungheresi e dovrà proteggere il movimento di tutti gli altri.

Il fuoco che si scatena sul reparto è micidiale e gli ungheresi che sono intorno a noi, buttando le armi e arrendendosi al nemico, ritardano il nostro movimento e la nostra reazione, e le perdite sono gravissime da parte nostra. Ma non è dell’insieme di questa azione, condotta in modo brillante da tutti i genieri del II Battaglione che riuscirono a fermare a Opyt le avanguardie russe, che voglio parlare; ma del comportamento di alcuni valorosi genieri dal cui sacrificio è dipeso il risultato del combattimento.

Siamo ancora al momento della sorpresa iniziale. Le armi pesanti del reparto sono caricate sulle slitte e non è facile raggiungerle in mezzo al caos creato dalle slitte ungheresi. La loro utilizzazione è però indispensabile per contrapporre alle armi del nemico la loro massa di fuoco, e i due mitraglieri della compagnia trasmissioni, caporale Caregnato e geniere Ragazzoni non hanno un attimo di esitazione.

Mentre il tenente Fabiani con il suo plotone che dispone di pochi mitragliatori, si schiera a ridosso delle slitte ungheresi, in un’impresa che non ha alcuna possibilità di scampo Ragazzoni e Caregnato buttano il pesante cappotto e si slanciano di corsa verso le salmerie che più indietro arrancano faticosamente tra le slitte ungheresi. In pochi istanti le loro armi sono scaricate e vengono piazzate in un punto dominante; i conducenti stessi animati dal loro esempio li aiutano a portare le cassette di munizioni.

Mentre il grosso del battaglione pur subendo gravi perdite riesce a sottrarsi all’incalzare dei russi ed a schierarsi a difesa in posizione favorevole, i due mitraglieri rimangono al loro posto e col tiro rabbioso delle loro armi seminano la morte tra le file dei russi che avanzano. Nessuno potrà fermare questi due magnifici soldati; solo il destino che, purtroppo, per loro è già segnato. Caregnato è il primo a cadere, colpito da una scheggia di mortaio e si accascia sull’arma rovente mentre Ragazzoni spara ancora. Intorno a lui molti russi cadono e pare che il loro fuoco non possa nulla contro questo magnifico soldato.

Infine è un T 34 che si profila dinanzi alla sua arma; ma Ragazzoni non desiste e non cerca scampo; sul carro numerosi tiratori russi sparano su di lui e sul reparto ancora in movimento ma Ragazzoni impavido li abbatte; poi cerca ancora di opporsi al carro e rabbiosamente spara contro i cingoli e contro la massa d’acciaio che incombe su di lui. Non può far nulla contro il mezzo corazzato, ma il geniere non si arrende. Fino a quando il carro non lo travolge, Angelo Ragazzoni non cessa di sparare; la sua forza, il suo coraggio e il suo eroismo nulla hanno potuto contro la massa d’acciaio.

A destra di questi due eroici genieri è ancora abbarbicato alle slitte ungheresi il tenente Fabiani con il suo plotone ridotto ad un pugno di uomini. La sua difesa è ancora necessaria perché una parte degli uomini del battaglione non ha ancora raggiunto la posizione prescelta dal comandante. I russi sono ormai a breve distanza ma le poche armi di cui dispone li fa ancora rallentare. Poi improvvisamente Fabiani è colpito da una raffica al ventre. Ormai la sua azione ha raggiunto lo scopo cui era destinata e l’ufficiale ordina ai propri uomini di raggiungere il grosso.

Non può camminare e due genieri lo afferrano sotto le ascelle per trascinarlo via. Fabiani visto che i due genieri rischiano di essere catturati dai russi perché con lui andrebbero troppo lenti ordina loro di abbandonarlo e di mettersi in salvo. Non viene ubbidito e i due uomini che lo trascinano via continuano ad arrancare faticosamente nella neve; Riccardo Fabiani non ha un attimo di esitazione: estrae la pistola e si spara un colpo in bocca. I due genieri soltanto ora abbandonano l’ufficiale morto e riescono a raggiungere il reparto.

24 gennaio 1943. I genieri alpini del 2^ Battaglione da tre giorni sono inquadrati nel 6^ Alpini e costituiscono la 54ª Compagnia del Vestone. Il giorno 22 hanno brillantemente preso parte alla conquista di Scheljakino e procedono oggi in testa alla colonna. Io e il tenente Bencini siamo sempre al comando di questo reparto di formazione che comprende artieri, trasmettitori e fotoelettricisti.

Si procede faticosamente nella neve che ricopre la steppa infinita ed uniforme; il reparto da più giorni manca totalmente di viveri e le munizioni sono scarse. Si spera di poter fare un po’ di bottino in uno dei vari paesi che verranno attraversati in questa marcia senza fine. In caso contrario gli uomini non potranno reggere a lungo. All’improvviso si arriva in vista di un abitato che si estende in una lunga balka sulla destra del cammino della colonna. E’ il piccolo centro di Malakijewa che subito si rivela fortemente presidiato da truppe russe motorizzate.

L’attacco dei nostri reparti è immediato; bisogna impedire al nemico di assumere una buona posizione difensiva o di mettersi in salvo per attaccarci poi durante la notte. I genieri della 54ª che sono i primi ad attaccare, accompagnati dal fuoco dei pezzi della 32ª, in pochi minuti sono già a ridosso delle prime case e il nemico è disorientato e sorpreso dalla rapidità dell’attacco.

Mentre gli altri reparti del Vestone e del Val Chiese accerchiano il paese per impedire ai russi di sottrarsi al combattimento, nell’abitato i genieri dilagano da ogni parte e lo scontro si fraziona in mille episodi che disorientano il nemico per la rapidità e la decisione che anima gli attaccanti. Pianon, Tumicelli, Vargiu, Cella ed altri con i loro ufficiali sono i più animosi. Entrano nelle isbe lanciando bombe e sparando a bruciapelo senza dar tempo al nemico di organizzarsi e di reagire.

Con pochissime perdite il paese è conquistato e quanti riescono a fuggire cadono sotto il fuoco degli alpini del 6^ che hanno aggirato il paese. Tra gli episodi più salienti, l’azione del geniere Tumicelli che da solo entra in un’isba dove sono appostati diversi russi armati. Tumicelli è armato di una sola bomba a mano che tiene con i denti e di una sciabola da cavalleria cosacca.

Prima che i russi abbiano tempo di reagire butta nel locale la bomba a mano a rischio di essere colpito dalla sua stessa arma e nella confusione che si crea con lo scoppio, liquida all’arma bianca tutti i presenti. Pianon e Vargiu a loro volta saltano rapidissimi da un’isba all’altra e danno la caccia a quanti cercano di mettersi in salvo. Il tiro preciso dei loro fucili abbatte numerosi nemici sulla porta delle isbe. Il caporal maggiore Cella, che cadrà poi eroicamente a Nikolajewka, con Bencini, Gasparinetti e Toni Segat, è scatenato per il paese alla caccia all’uomo. Con loro sono tutti i migliori uomini della compagnia, Fiacchi e Battaggia, Stucchi e Contessi, Pintus e Peroni e il combattimento ha una durata brevissima.

Il comandante della compagnia è già in fondo al paese dove si congiunge con il reparto del Val Chiese proveniente dalla sinistra con il capitano Gaza, e con le altre compagnie del Vestone che hanno annientato tutti quelli che hanno cercato la salvezza nella fuga. Finalmente per i valorosi genieri ci sarà anche tempo di cercare qualcosa da mettere sotto i denti.

26 gennaio 1943. La lunga, interminabile fila di uomini affamati, laceri e semi congelati che costituisce il grosso della colonna e che comprende superstiti della Julia e della Cuneense, reparti vari del corpo d’armata, sbandati della Vicenza, ungheresi e tedeschi, ha ancora la Tridentina a far da battistrada. I suoi reparti che hanno combattuto dal 17 gennaio ad oggi in condizioni disperate sono allo stremo delle forze; scarseggiano le munizioni, mancano i viveri; la stanchezza, il gelo e la fame hanno decimato i reparti più del piombo nemico, ma gli alpini vanno ancora avanti; nei loro sguardi una decisione irremovibile di sfuggire a questo inferno a qualunque costo.

Con gli alpini della Tridentina i genieri superstiti del 2^ Battaglione costituiscono una ormai sparuta 54ª Compagnia del Vestone e sono ancora in testa alla colonna, con la 53ª e la 55ª. I reparti del 6^, alle otto del mattino, raggiunta la sommità di una lunga balka che sale da Nikitowka e da Arnautowo, sono in vista dell’abitato di Nikolajewka. Un lungo rilevato sul quale passa la ferrovia ai margini del paese compartimenta il terreno in due settori ben distinti; al di qua, nella steppa nuda, gli alpini; al di là, nell’abitato di Nikolajewka, con delle difese ben munite, i sovietici.

Il nostro comando non esita; bisogna attaccare subito e il Vestone, in ordine di combattimento, sta già muovendo all’attacco, sulla destra. In testa è la 53ª, seguita dalla 54ª e dalla 55ª che è più a destra. Poi improvvisamente una batteria russa rivela la sua posizione sulla sinistra vicino al casello ferroviario e il suo fuoco prende sul fianco gli alpini che avanzano. La 54ª riceve l’ordine di attaccarla e di ridurla al silenzio. Sono poco più di un centinaio di genieri che con me e sei ufficiali divergono subito dal precedente obiettivo e si dirigono sulla batteria.

L’impresa è pressoché impossibile per lo scarso armamento di questi pochi uomini, per il terreno completamente scoperto e innevato; comunque la batteria non da più fastidio alle altre compagnie e scatena il suo fuoco sugli attaccanti. L’attacco prosegue malgrado le gravissime perdite; sulla sinistra sto io con il grosso della compagnia, sulla destra è il tenente Bencini che con circa 40 uomini punta su un pezzo da 75 spostato più sulla destra, che continua ininterrottamente a sparare.

L’azione non ha sosta; non c’è tempo di pensare o di fare dei piani; in questo inferno di fuoco dove si avanza senza alcun riparo e senza poter rispondere al fuoco del nemico, occorre soltanto far presto per arrivare sui pezzi prima che il nemico abbia fatto fuori tutti gli attaccanti. Intorno a noi cadono Colle, Falcone, Rossi, Contessi ed altri; ma anche se i vuoti non possono venir rimpiazzati, nessuno si arresta.

In questa lotta impari Bencini con i suoi uomini, malgrado le gravissime perdite piomba sul pezzo di destra, elimina i difensori e riesce a portarsi fino al rilevato della ferrovia dove deve subire altre gravissime perdite per forzare il sottopassaggio. In questa azione tra gli altri cade il caporal maggiore Cella che si era particolarmente distinto in tutti gli altri combattimenti, mentre tenta di eliminare i difensori russi del passaggio. Con i pochi uomini rimasti il valoroso tenente Bencini penetra finalmente nel paese dove infuria il combattimento tra i russi e gli altri reparti del Vestone che, grazie al sacrificio dei genieri, sono riusciti a superare la ferrovia.

Più a sinistra il resto della compagnia, sotto il fuoco di due pezzi da 75 e di un gruppo di mitragliatrici ha maggior difficoltà ad arrivare ai pezzi. Le perdite sono fortissime per il fuoco infernale che si scatena sugli uomini che avanzano, ma mi riesce di portarmi a distanza di lancio di bombe a mano con gli ultimi 25 superstiti.

Nell’azione finale, rabbiosa e violenta dell’assalto questi pochi uomini, pur subendo altre perdite riescono ad avventarsi sul nemico e a conquistare la posizione all’arma bianca. Anch’io vengo ferito ad una spalla, ma nessuno desiste dal combattimento e riusciamo a conquistare le piazzole insanguinate. Però l’azione non è ancora finita, perché su questi pochi uomini che tentano inutilmente di girare i pezzi verso il nemico si scatena ancora il contrattacco dei russi. Sulle piazzole dei pezzi battute dal fuoco di artiglieria e delle armi automatiche questi pochi difensori rimangono ancora spavaldamente per impegnare il maggior numero di forze russe.

La posizione è insostenibile e mancano totalmente le munizioni. Il solo caporale Vargiu che possiede ancora due caricatori è ancora appostato dietro agli scudi di un pezzo e i suoi colpi non andranno perduti. Questo eroico giovane sardo, sempre il primo in tutte le precedenti azioni ancora una volta è di esempio a tutti e riesce a tenere a bada con il preciso tiro del suo fucile il nemico che vorrebbe mettere fine a questo episodio. Poi le ultime munizioni finiscono e sui pezzi conquistati non sono rimasti che il caporale Vargiu ed io stesso, soli superstiti.

Occorre cercare una via di salvezza riunendoci ai reparti che combattono in paese prima che il nemico riesca a colpirci. L’unica via da tentare è per circa trenta metri totalmente allo scoperto ma consente di arrivare al sottopassaggio della ferrovia ormai non più tenuto dai russi. Il primo a tentarla è il caporale che parte di corsa nell’intento di sorprendere il nemico e di passare. Vargiu riesce a passare indenne malgrado la violentissima reazione dei russi e raggiunge il sottopassaggio e poi il paese.

Purtroppo questo valoroso geniere non riuscirà a ricongiungersi con gli altri alpini e alla sera sarà dato disperso. Io, che dopo di lui tento la stessa sorte, vengo invece colpito gravemente da un colpo di mitragliatrice e cado in mezzo ai miei genieri che giacciono all’intorno sul terreno. La ferita non è però mortale, e dopo essere riuscito a trarre in inganno i russi sopraggiunti fingendomi morto e lasciandomi depredare da questi, riuscirò, malgrado le ferite, a raggiungere la colonna e a riunirmi ai vittoriosi di Nikolajewka.

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