a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Tenente Giacomo Veglia
Comando Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Ero arrivato in Russia come aiutante maggiore in secondarmi incarico che forse non esisteva nell’organico, ma che pure assolvevo con tutto il possibile impegno) dell’allora tenente colonnello Carlo Calbo, l’indimenticabile comandante del Gruppo Vicenza. Il 17 gennaio 1943, lasciata la linea, eravamo ridiscesi a Podgornoje in ordine perfetto. Il 19 mattino, ancora in ordine quasi perfetto, eravamo saliti ad Opyt. Il 20 mattina mentre in testa al Reparto Comando Gruppo (non c’era nulla di eroico in quel mio andare in prima fila) correvo per superare un punto particolarmente battuto dai russi, sotto il mulino a vento fuori paese, una scheggia di granata mi spaccò il femore sinistro “al terzo medio” come dicono i medici, e fuoriuscì trasformando in un bel “cratere” la faccia anteriore della coscia sinistra.
Lo stesso colpo di granata aveva ferito i due marescialli Mariani e Spera che erano ai miei lati e ucciso il giovane sottotenente milanese Ugo Cosentini da un lato ed un soldato in tuta da sciatore dall’altro. Cosentini che avrebbe potuto essere in Italia prima di Natale, per esami universitari, aveva rinunciato alla licenza “per stare con il gruppo”. Travolto da uomini, muli, slitte, seduto ma senza sentire il più piccolo dolore, avevo avuto subito netta la sensazione che per me tutto era finito, questione di minuti, anche se il sangue che per i primi istanti era uscito a fiotti dallo squarcio della gamba riempiendo i pantaloni da sciatore aveva già cessato di fluire, per il gelo.
Ma all’improvviso un giovane sottotenente – oggi marito e padre felice a S.Pietro Capofiume, Franco Forlani – con incredibile sangue freddo ed una determinazione che ancora oggi mi stupisce, fermò una slitta in corsa e, aiutato dal conducente mi caricò pancia in giù sul piano della slitta stessa a ridosso di un maialino, ancor caldo, ucciso poco prima dagli artiglieri preoccupati di assicurarsi il rancio del mezzogiorno. Su quella slitta fui trasportato – di giorno e talvolta anche di notte – dal mattino del 20 gennaio al tardo pomeriggio del 1^ febbraio quando giungemmo a Schebekino, senza essere mai medicato.
Solo un carissimo amico, purtroppo scomparso prima del 26 gennaio, il veterinario Schivi – mio medico curante fin dal fronte albanese – durante una sosta mi girò a pancia in su, mi avvolse un fazzoletto a monte della ferita e mi consegnò la scheggia che, a suo dire (era, com’è facile capire, un simpaticone) aveva solo bucato i pantaloni e scalfito un po’ la gamba. Sia detto come nota caratteristica: ancorché immobilizzato su quella benedetta slitta per 13 giorni, ed una notte liberato anche, da qualcuno che certamente mi aveva già creduto morto, del mio bel paio di scarpe da sci, non sono stato colpito nemmeno dal più piccolo inizio di congelamento.
Il pomeriggio del 26 anche la mia slitta – dopo aver subito il noto, ripetuto mitragliamento aereo – fece parte del “grosso” che sbandando rumorosamente verso il fondo del grande avvallamento che stava tra noi ed il rilevato della ferrovia, contribuì ad una manovra che allora non comprendevamo ma che nella mente del generale Reverberi e degli altri ufficiali che erano in testa alla colonna aveva un suo preciso scopo.
Disorientati, poco o nulla informati, aspettavamo anche noi – trepidanti – che capitasse quel “qualcosa” che comprendevamo essere assolutamente necessario perché tanti sforzi non dovessero riuscire vani, e perché la marcia della Tridentina e di tutti coloro che ne avevano ingrossato le file non finisse là. Quel qualcosa capitò: un urlo di gioia e di dolore pervase tutta la colonna, investì il mucchio delle slitte che portavano a bordo tanta sofferenza e si perdette lontano.
Poi, poco alla volta, anche le nostre slitte si mossero: la mia – ed io su di lei – entrò in Nikolajewka che già era buio. Alla poca luce di un giorno che solo “dopo” avremmo compreso essere stato tanto importante, vedemmo i segni di una battaglia tremenda. Finii in un’isba piena di ufficiali sfiniti, ma rasserenati; quella sera stessa sentii infatti parlare – per la prima volta – di una possibilità concreta di rientrare nelle nostre linee. Era una certezza dovuta più alla speranza che ad altro (ciò spiega perché negli otto giorni consecutivi, quando non si arrivava mai, qualcuno disperando sia impazzito e qualche altro si sia perfino tolta la vita).
In quell’isba sentii parlare del colonnello Calbo ferito. L’avevo visto l’ultima volta il mattino del 22; mi aveva accarezzato il viso e mi aveva detto parole di lode e di conforto. Qualcuno mi riferì che era stato ferito al ventre, ma non in forma grave: nessuno mi seppe invece dire dove fosse ricoverato quella notte. L’indomani, al centro della mia slitta, alla mia sinistra, fu collocata la bandiera del reggimento. Poi mi annunciarono che un colonnello voleva essere trasportato sulla mia slitta, di fianco a me. Credetti e sperai fosse Calbo: desideravo tanto parlargli, continuare con lui un discorso a largo respiro iniziato tanti mesi prima, a Chivasso, dove il gruppo si era preparato per il fronte russo.
Può sembrare incredibile eppure in quelle ore, anche in quella drammaticissima circostanza, pure febbricitanti, era possibile pensare anche a questo. Era invece il colonnello Migliorati, comandante del reggimento, ferito ad un braccio. Calbo era morto! Era stato colpito tanto seriamente che nella notte stessa di Nikolajewka aveva cessato di vivere, confortato – ne sono sicuro – dalle dolci immagini, tante volte affettuosamente rievocate, della sua indimenticabile consorte e di Maria, la prima dilettissima figliuola e della più piccola, la sorellina che con lei aveva formato il tema centrale di tante pacate chiacchierate con Polo – l’amico del cuore – e con me nelle lunghe serate di novembre e di dicembre nella riscaldata isba del Comando Gruppo, a pochi metri dal Don.
Capitano Michele Milesi
R. M.V., Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
L’ordine è che tutti i reparti della Tridentina, ancora disciplinatamente uniti, si portino sulla linea di attacco. Noi serriamo avanti, sotto un bombardamento d’artiglieria micidiale ed un mitragliamento aereo che miete vite sulle colonne fiancheggianti la nostra. In quei momenti pensavamo che ormai tutto fosse finito: ci ricomparve un’altra volta Napoleone alla Beresina, e la nostra Beresina ora è quell’insormontabile terrapieno della ferrovia.
E’ un assalto cruento ed all’ultimo sangue; lento all’inizio, si tramuta ben presto in una corsa frenetica verso le migliaia di isbe di Nikolajewka. Più nessuno ormai ci trattiene, tutti avanziamo compatti con l’urlo della disperazione, ed allora avviene il miracolo: i russi, forse impressionati e sorpresi da questa massa dilagante, ed incalzati sempre più dai nostri reparti della Tridentina, abbandonano le posizioni e le postazioni, abbandonano numerosa artiglieria e si ritirano precipitosamente, inseguiti dagli alpini che sfruttano il successo per allontanare sempre di più da Nikolajewka la minaccia russa.
Piegati nel corpo, e straziati nell’animo, dalle terribili ore vissute, rivolgiamo il nostro primo pensiero ai compagni caduti, rimasti là per sempre nella neve della steppa. Poi il fratello chiama il fratello, il padre il figlio, l’amico l’amico, il comandante i suoi alpini. Ricordate, amici reduci, le grida di richiamo durante tutta quella notte? erano grida strazianti che cessavano quando i ricercati venivano trovati morti o feriti. In quella leggendaria giornata del 26 gennaio 1943, caddero eroicamente migliaia di alpini di ogni grado: cadde il generale vicino all’alpino, cadde il colonnello vicino al capopezzo, cadde il capitano con il mitragliere, cadde il medico mentre alleviava le sofferenze dei feriti, cadde il cappellano segnando innumerevoli croci con largo gesto benedicente.
Cadde il generale vicino all’alpino: il generale Martinat che si era prodigato nella battaglia, si lancia all’attacco, incitando gli alpini alla lotta e cade colpito a morte, lo ritrovarono nella notte riverso nella neve ancora col suo moschetto in mano. Cadde il colonnello vicino al capopezzo; vicino al caporal maggiore Turazzi della 20ª Batteria, cadde il mio, il nostro colonnello, comandante del Gruppo Vicenza: Carlo Calbo, che (così la motivazione ufficiale della decorazione della medaglia d’oro al valor militare) “dopo aver solidamente contribuito con magistrale impiego delle sue batterie alpine all’esito vittorioso di undici battaglie, di fronte alla situazione ormai tragica, conscio dell’alta responsabilità di comandante che non ha limiti alla sua missione, vince l’impossibile. Allorché il canto delle batterie cessa, avendo esaurite tutte le munizioni dei pezzi, imbevuto di quella fede che non conosce ostacoli, con i suoi fidi artiglieri alpini piomba all’assalto. E sulle posizioni conquistate il piombo nemico falcia la sua nobile esistenza, annoverando al cielo degli eroi questo puro italiano”.
Calbo viene raccolto morente, e trasportato a braccia in un’isba. Nella notte la processione dei suoi subordinati di ogni grado passa davanti a lui ancora vivo ed anche dopo, quando l’angelo della morte raccolse la sua esemplare vita. Io non dimenticherò mai la sua ultima debole stretta di mano e le sue ultime parole, esortanti a tener duro, auguranti ogni bene con la fortuna di ritornare in patria.
Viene avvolto in un drappo militare; si allestisce una piccola slitta sulla quale viene legato, e per parecchi giorni è trascinato fin fuori dalla sacca, dagli artiglieri alpini del Gruppo Vicenza, finché, nell’impossibilità di riportarlo in Italia, viene ordinato di dargli sepoltura. Pazzia collettiva, direbbe qualcuno oggi! I miei soldati ed io rispondiamo: no. No, non era pazzesco il comportamento verso il nostro colonnello, era l’amore che ci spingeva a far questo nei suoi confronti, perché era considerato e venerato da noi come un padre, e come un padre morì per salvare i suoi figli. Ebbe onorata sepoltura, avvolto nel tricolore del mio e nostro R. M.V., alla presenza dei suoi soldati, che lacrimanti gli presentavano le armi.
Sottotenente Franco Forlani
Reparto Comando, Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Era giorno, non so quale ora, quando arrivammo in vista di Nikolajewka. Si trattava di un grosso paese al di là di una balka molto ampia. Un terrapieno, su cui passava la ferrovia, ci divideva dal paese, dal quale numerosi cannoni sparavano senza sosta sulla colonna che, come fiume in piena, stava dilagando sulla piana antistante. Contemporaneamente gli aerei russi, prendendoci di traverso o per il lungo, mitragliavano senza sosta.
La sera si stava avvicinando quando arrivò l’ordine di avanzare e raggiungemmo la ferrovia con l’ultima luce del giorno passando in mezzo a montagne di cadaveri. Erano i morti del Verona, del Vestone, del Val Chiese: alpini del 5^ e del 6^, artiglieri del 2^, tutti insieme lanciati all’ultimo disperato attacco. Stanchi, affamati, pieni di freddo, più automi che uomini, dovemmo sollevare le slitte che portavano i feriti, per superare i binari sopraelevati.
Impossibile descrivere il senso di impotenza e di frustrazione dell’uomo sfinito che sa di dover compiere un’opera e non ne ha la forza. Ma con la volontà di chi vuol riuscire ad ogni costo, facendo onore alla proverbiale tenacia degli alpini, gli unici tre uomini ancora validi del mio reparto portarono al di là del terrapieno le slitte dei feriti aprendo loro la via del ritorno.
Sergente Gino Saracchi
Reparto Comando, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Ad Arnautowo, mentre infuriava la battaglia, ove era impegnato il Tiràno, distante poche centinaia di metri, ho visto scendere dal bigio cielo una “cicogna”, piccolo aereo a due posti, ed incuriosito con altri tentavamo di avvicinarci; ma pochi secondi dopo sentivamo grida d’aiuto alla nostra sinistra.
Accorremmo io ed un altro e vedemmo un ufficiale ferito gravemente e con le poche forze che avevamo lo portammo vicino a quel piccolo aereo. Fummo informati che quell’aereo, guidato da un tedesco, ripartiva per Varsavia. Con gesti e con parole italiane e francesi (noi emiliani e particolarmente parmigiani qualche parola di francese la mastichiamo) ci facemmo intendere di caricare a qualche modo il ferito sull’aereo, ma il pilota era un poco contrario, insistemmo e si convinse.
Dopo la fine della ritirata, seppi che il ferito era il colonnello Severino Pruneri e che morì a Varsavia. Gli anni passano, ma tutte le volte che arriva il Natale, mi fa ricordare il caro don Carlo Gnocchi nella sua chiesetta di Dolki ed allora mi apparto e mi ascolto un disco e per tre quarti d’ora cadono le lacrime al sottoscritto ormai più che cinquantenne e mi chiedo il perché di tanta tragedia.
Nikolajewka non si può dimenticare; lo disse nel 1963 a Brescia l’alpino, poi Principe della Santa Romana Chiesa, cappellano don Bevilacqua: “Nikolajewka è il sole del tuo animo che ha dimostrato quanta tenacia alberga nell’anima italiana. E’ l’ora della tua libertà, perché è veramente libero solo chi è nudo, e mai foste come allora nudi e somiglianti al grande nudo della Croce”.
Artigliere alpino Bruno Rizzi
Reparto Munizioni e Viveri, Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Sono passati 30 anni dalle tragiche giornate del gennaio 1943, ma per gli alpini combattenti di allora cosa rappresentano mai? Rimane intatta nella mente di ciascuno di noi la visione apocalittica della grande battaglia invernale del Don di cui tanto si scrisse, ed ancor oggi troppo poco si conosce della sua tragicità, e dell’enorme numero di caduti che scomparvero nel fragore della battaglia con la cosciente visione che il loro sacrificio sarebbe stato vano ed inutile, come vana ed inutile fu la nostra presenza ai fini generali della guerra, su quel lontano e gelido fronte.
Ma, noi reduci non possiamo, e non vogliamo giudicarlo così il vostro immenso sacrificio, perché noi ne siamo stati i beneficiari immediati, quelli più fortunati, quelli che riuscirono a sganciarsi e raggiungere i capisaldi tedeschi non accerchiati, dopo essere stati chiusi per giorni e giorni con voi in un anello di ferro e di fuoco, e solo il vostro valore e il vostro sacrificio permisero il nostro rientro in patria.
Ritengo anche mio dovere, e per amore di obiettività, rendere omaggio con la stessa sensibilità d’animo, agli eroici caduti e combattenti dell’Armata Rossa, che, dopo cruente e violentissime battaglie e, seppero donare al proprio paese una fulgidissima vittoria. E’ ancora vivissima nella mia mente una visione fulminea verificatasi nella fase finale della battaglia di Nikolajewka. Saranno state le ore 16 del 26 gennaio 1943, dico saranno, perché in quella giornata avevamo perso la nozione del tempo. Il generale Reverberi nel momento più pericoloso e drammatico aveva gridato: “Tridentina, avanti!”.
Come si può descrivere l’impeto di furore che assalse gli uomini in quell’istante? Una marea di alpini, di artiglieri, e di fanti, si slancia giù per la china trascinandosi dietro ogni sorta di materiali, di pezzi, di slitte, i muli scendono giù al galoppo spesso scaraventando a terra quei disgraziati congelati che il mitragliamento aereo aveva risparmiato. Un’altra volata rabbiosa di artiglieria accompagnata da raffiche ancora più micidiali della mitraglia cerca di arrestare lo slancio di questi uomini scagliati, ma nessuno più li arresterà. Il terrapieno della ferrovia è ormai vicino, il nemico di fronte a tanto furore e tanto impeto, abbandona ogni cosa sul terreno, e si ritira nella steppa sterminata.
Con un gran balzo scavalco il terrapieno della ferrovia (anche se le mie gambe si snodano soltanto al ginocchio), 40 gradi sotto zero, ma nella foga travolgente di quel momento l’essenziale era passare lo sbarramento al più presto perché il fuoco era ancora violentissimo. E fu così che caddi su un cannone mezzo divelto al di là del terrapieno, i cui serventi sfracellati non davano più segno di vita, soltanto un giovane soldato russo ancora vivo mi spalancò i suoi grandi occhi quasi volesse invocare dal soldato nemico che gli piomba addosso la umana comprensione per il nemico.
Se l’offensiva invernale russa lanciata con le forze corazzate del generale Vatutin sviluppò un grandissimo volume di fuoco, il fattore inverno contribuì senz’altro in eguale misura all’eliminazione delle forze combattenti sul Don, ragione per cui circa l’80% dei soldati si congelarono ad una temperatura che nel mese di gennaio e nel bel mezzo dell’offensiva raggiunse in media i 40 gradi sotto lo zero.
E fu appunto per questa ragione che persi il collegamento col mio Reparto Munizioni e Viveri del Vicenza. Il giorno 30 gennaio si camminava su una pista in lunga salita, avevo i piedi gravemente congelati, la stanchezza mortale fece sì che a un dato momento io cadessi sulla neve, l’ufficiale di coda tenente Michele Milesi mi invita a rialzarmi, è pericoloso fermarsi qui mi dice, ma io non mi mossi, e il reparto proseguì la sua strada.
Rimasi sulla neve lungo disteso, come morto, tutta la colonna mi sorpassò senza che nessuno si degnasse di uno sguardo tanto erano frequenti questi ritardi sulla direzione di marcia, io non pensavo altro che a riposare, ero rassegnato a tutto, del resto non potevo più camminare, e così piano piano la morsa del gelo mi pervase, sentivo uno strano torpore di benessere invadere tutto il corpo, e nel frattempo sopraggiunse la notte, quasi per istinto tenevo a fatica gli occhi aperti, le ore passavano, rimasi completamente solo sulla immensa distesa nevosa…
Si avvicinava la morte bianca! Poi due alpini isolati, vestiti di bianco, ed essi pure congelati passarono lentamente accanto a me. “Paisà, guarda come si fa a morire…” Io devo la vita a questi sconosciuti alpini bresciani, perché quella frase che sapeva di morte mi risvegliò alla vita. Quella notte stessa tra il 30 e il 31 gennaio una sezione di carristi tedeschi della divisione corazzata Das Reich operante nella zona, mi raggiunse nella notte fonda in un’isba dove mi ero rifugiato assolutamente immobilizzato; cercavano un luogo adatto per stabilire il comando di sezione e lo trovarono proprio alla maniera tedesca; con un calcio si spalancò la porta della mia isba.
Ma devo anche riconoscere di essere stato fortunato, perché evidentemente per questo lavoro avevano incaricato l’ufficiale medico del reparto; appena mi vide mi illuminò con la potente lampada, e nel medesimo istante mi puntò la rivoltella, forse nel timore di trovare un soldato russo armato, poi cautamente si avvicinò a me, e disse: “Da… italiano…”. Volle sapere le mie generalità, e a quale reparto io appartenevo. In quel momento, confesso, mi batteva il cuore, cosa avrebbe fatto il tedesco vedendomi immobilizzato? Era risaputa da tutti noi la crudeltà delle SS tedesche… Invece, con grande mia meraviglia, il tono della sua voce si fece più tranquillo, forse per il rispetto che avevano nella zona per gli appartenenti alle truppe alpine.
Come era possibile che un ufficiale tedesco si interessasse a fondo per un soldato italiano in una zona dove scorrazzavano ancora i carri armati T 34? Quando ero solo nella mia isba non sentivo forse il cannone tuonare continuamente come un avvertimento alla estrema pericolosità della situazione? O forse una madre pregava per me da molto lontano? Io devo la vita anche a questo ufficiale tedesco vestito di nero, con la morte sul berretto, allo stesso modo come qualche tempo prima la voce stanca dei due alpini bresciani risvegliò in me il senso della conservazione.
Questo ufficiale ebbe per me parole di conforto, mi medicò in modo energico, ed infine mi fece caricare su un treno che, appena carico, partì immediatamente. Si concludeva così in modo miracoloso la mia personale avventura, non senza però aver lasciato sul mio corpo i segni indelebili delle basse temperature, a perenne ricordo della campagna di Russia.
Artigliere alpino Eligio Sforza
19ª Batteria, Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Giorno per giorno, ora per ora ricordo gli avvenimenti di quel lungo e doloroso calvario. Tra i tanti episodi che rimangono tuttora nella mia mente rammento la sera del 23 gennaio. Dopo una lunga marcia, arrivati in un villaggio a tarda sera, si cerca un’isba per potervi passare la notte senza pericolo di essere congelati. Tutte però sono occupate e non ci sta più neanche una persona. Entro in un’isba dove ci sono i tedeschi, ma essi mi prendono per il bavero e mi cacciano fuori gridando: “Raus, taliani…”. Con alcuni compagni si accende un fuoco per sciogliere un po’ di neve e cuocervi della farina trovata durante la marcia.
Ma vengono i carri armati russi e ci sparano addosso, si deve fuggire e si rimane un altro giorno senza mangiare. Poco distante dal paese troviamo un pagliaio, lo sciogliamo e ci copriamo di paglia, tra i miei compagni c’è anche il mio compaesano Angelo Berardi. A tarda notte comincia a nevicare, ma non è troppo rigido e per buona fortuna si riesce a sopravvivere. Mi trovo vicino ad un cappellano che si lamenta ed invoca soccorso, è congelato; purtroppo, non si può far niente per lui e si deve a malincuore abbandonarlo perché mancano slitte e muli.
E’ l’alba del 24 gennaio, la colonna si mette in marcia ma percorsi alcuni chilometri si trova di nuovo resistenza: i russi non vogliono lasciarci passare. La 19ª è chiamata in testa, spara alcuni colpi ma una granata nemica centra una cassetta di munizioni del 2^ pezzo che salta in aria uccidendo il capo pezzo, sergente Ortolani di Verona, ferisce gravemente il
sottocomandante di batteria, tenente Angelini; resta pure ferito il comandante capitano Rossi che perde un occhio. Si riesce a sfondare e si riparte.
Il giorno 26 si arriva in vista di Nikolajewka. E’ con me un mio amico e compaesano addetto alla mitraglia, Guerrino Damioli. Si è in attesa di scendere in Nikolajewka, la mitraglia viene piazzata in prossimità di un pagliaio. Arrivano alcuni colpi di mortaio nemico, pure Guerrino rimane ucciso sul colpo. Un servente con la gamba spezzata viene caricato sulla slitta e portato nella chiesa; purtroppo neanche lui tornerà a casa. Anch’io c’ero a Nikolajewka.
Artigliere alpino Benedetto Corre
19ª Batteria, Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
A Nikolajewka c’ero pure io, ove assieme ai miei compagni alpini ho vissuto la sanguinosa battaglia. Ma l’episodio che vorrei raccontare è di quando a Scheljakino fummo colpiti da una granata russa. Quella mattina del 21 gennaio 1943 c’era una forte tormenta, e foschia che non ci permetteva di vedere più in là di 50-60 metri, ed essendo in testa alla colonna siamo stati fra i primi che nell’entrare in quel paese ci imbattemmo in reparti russi. Fu subito violento lo scontro, e noi della 19ª Batteria, piazzati i pezzi, sparammo rapidamente.
Il frastuono di cannoni e di armi automatiche, che da ambo le parti sparavano, era assordante, e la tormenta continua impediva di colpire con precisione. Il 4^ pezzo comandato dal caporal maggiore Sandrini, con i serventi del pezzo, tentò un aggiramento del paese stesso, ma incontrando resistenza non ci riuscirono e Sandrini fu ferito da una pallottola al petto, e un mulo venne ucciso. (Lo stesso caporal maggiore si trascinò avanti ancora per qualche giorno, e poi non lo vidi più, è rimasto in terra di Russia.)
Intanto il combattimento si faceva sempre più intenso, e quando fu al massimo un colpo di artiglieria russa colpì in pieno le nostre munizioni vicine al pezzo, che scoppiarono allo stesso istante, provocando un assordante scoppio e facendo una strage di uomini e muli. Io per mia grande fortuna non fui colpito, benché fossi seduto al pezzo davanti l’alzo (ho sempre fatto il puntatore) e appena mi riebbi vidi una cosa straziante. Il mio capo pezzo sergente Ortolani, era riverso a terra colpito a morte (gli era stata asportata mezza testa dalla parte destra), l’artificiere Foppoli riverso tra i resti delle cassette di munizioni irriconoscibile, gli mancava un braccio, una gamba e il suo corpo era maciullato; fu solo possibile riconoscerlo da un maglione che indossava mandatogli dalla sua mamma.
Pure colpito a morte, e riverso sopra gli scudi del pezzo, il tiratore (in questo momento non ricordo il suo nome, so soltanto che era un bresciano). Ferito pure il caporal maggiore Montioli. Tutti questi erano miei compagni componenti il 2^ pezzo. Dietro altri morti, e feriti più o meno gravi, tra i quali c’era il nostro capitano Rossi, il cappellano del nostro gruppo, e tanti altri. Dopo pochi attimi di sgomento, assieme al tenente Bacci mi rimisi al pezzo, e con munizioni degli altri pezzi della batteria continuammo noi due soli a sparare, finché non vennero altri artiglieri a darci un aiuto. Finalmente dopo un’ora di aspra lotta, abbiamo avuto il sopravvento sui russi e anche questa dolorosa battaglia fu finita.
Ricordo con profondo dolore che mancando i mezzi e il tempo, abbiamo dovuto lasciare i nostri compagni caduti, sepolti solo sotto un mucchio di neve. Tanti altri, sarebbero gli episodi vissuti in quei tremendi giorni, ma vorrei ricordare solo questo, dove io miracolosamente mi sono salvato, mentre altri giovani della mia stessa età sono caduti per non più tornare.
Artigliere alpino Umberto Tadiello
20ª Batteria, Gruppo Vicenza, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Da alcuni giorni “radio scarpa” trasmette: “I russi cominciano ad attaccare”. “La Julia sta sostenendo forti attacchi” ma come al solito tutto è molto vago e impreciso. Pomeriggio del 17 gennaio 1943. I nostri ufficiali ci dicono: “Verso sera, quando tutto sarà buio, dovremo ritirare i pezzi dalla linea nel massimo ordine e perfetto silenzio”. Viene la notte. Prendiamo i pezzi e le munizioni dalla linea e ritorniamo indietro; passiamo davanti ad una sussistenza che contiene ancora tanti viveri.
Ci dicono di entrare, di rifornirci e poi distruggere tutto. Io prendo un pezzo di formaggio grana e del cognac. Esco dal capannone e vedo passare una compagnia del Battaglione Verona. Quando gli alpini si mescolano con gli artiglieri significa che la situazione è grave. Fa molto freddo, tira un vento che ci agghiaccia. Ed ecco l’ordine: “In colonna pezzi a traino”. Quella notte camminammo per circa 40 chilometri. Spesso il buio della notte era rischiarato da forti lampi accompagnati da boati. “Cosa sarà questo?” dicevamo tra noi. Correva voce che i lampi ed i boati fossero i depositi di munizioni fatti saltare per non lasciarli cadere in mano nemica. “Ma allora” pensiamo un po’ dubbiosi “ci stiamo ritirando?”
Verso mattino eccoci in un grosso paese. E” ancora buio, nonostante sia già mattino. Entro con dei miei compagni in un’isba e stanco morto mi butto su un po’”di fieno e mi addormento. Dopo circa un’ora entra il tenente Tranquillini. “Ma chi se dorme!” grida in dialetto trentino. Siamo tutti in piedi, vestiti lo siamo già e gli chiedo: “Cosa ghe xe sior tenente?”. Si avvicina e ci dice: “Si apprende via radio che siamo circondati per un raggio di circa 150-200 chilometri”. “Ma sior tenente, da dove xei passa i russi?” “Non lo sappiamo ancora di preciso, caso è che siamo circondati.” La notizia è come una mazzata in testa, tanto ci lascia sbigottiti e sconvolti.
Il tenente prosegue dicendoci di vestirci molto per ripararci dal freddo intenso, di tenere armi, munizioni, viveri e una coperta, il resto via tutto in modo da essere alleggeriti in previsione della molta strada da percorrere e dei combattimenti da sostenere. Passo in rassegna lo zaino e sono pronto per partire. E’ l’alba. Fuori dell’isba sembra la fine del mondo. Un po’ più tardi la colonna comincia a muoversi. Noi invece stiamo fermi. Dovremo tenere le posizioni di coda. Si sentono colpi di artiglieria, la nostra mitragliatrice Breda ogni tanto fa sentire il suo crepitio, la colonna davanti a noi è lunghissima. In coda qualche compagnia di alpini e noi artiglieri, i russi non li vediamo, ma sappiamo che sono poco lontano. Per la notte ci fermiamo.
Verso mattina noi siamo ancora fermi, ci stiamo riposando quando vedo dei soldati con la divisa color kaki: sono ungheresi. Cavalcano dei bellissimi cavalli e stanno scappando molto velocemente. Chiediamo loro il perché di una fuga così veloce e ci dicono che i russi stanno arrivando. Nessuno di noi si muove. A mattina già inoltrata ci attaccano. Riusciamo a respingerli nonostante si siano presentati con carri armati. Noi non avevamo armi adatte ad affrontare i carri armati in quanto la nostra artiglieria da montagna aveva in dotazione un pezzo obice da 75/13 adatto per la montagna e non per le immense steppe russe.
Questi attacchi si faranno sempre più duri e aspri. I russi non si limitano ad attaccare un punto ben preciso della colonna ma attaccano in vari punti e questo rende molto più difficile la difesa. Ci sono feriti, congelati, morti, mancano i muli e scarseggiano i viveri. Verso il 20 gennaio provato dalla fatica e dalla sofferenza di una vita così dura perdo le nozioni del tempo, non ricordo più il giorno, il mese e l’anno, perciò i fatti che narrerò non sono in ordine cronologico di tempo, ma come li ricordo oggi. Il tenente Tranquillini deve avere qualcosa che lo preoccupa, ma non dice niente.
Sto mangiando delle verze trovate in un’isba, mi viene vicino, gliene offro un po’, accetta e mangia. Colgo l’occasione per chiedergli come vanno le cose. “Male” mi risponde. “Abbiamo appreso che l’armata di Von Paulus è circondata e sembra che i tedeschi vogliano arrendersi.” Mi dice che questa armata è molto forte e conta circa 350.000 uomini. Cosa possiamo noi alpini che siamo in 60.000 e già mezzi fatti fuori? “Caro Tadiello” mi dice “in alto i cuori e sempre coraggio altrimenti faremo la fine di Napoleone.”
In quel momento si sta attraversando un piccolo villaggio e ci dicono che dobbiamo raggiungere la testa della colonna con la nostra batteria. Strada facendo vedo sulla mia sinistra una colonna di macchine italiane mezze distrutte e per terra dei soldati morti. Deve trattarsi di un comando di qualche divisione di fanteria. Trovo un piccolo bidoncino di vino tutto ghiacciato.
Attacco il bidoncino al mio mulo e invito i miei compagni a prenderne ogni tanto una manciata. Si fa notte ed è una notte d’inferno. Ci fermiamo, scarichiamo le munizioni e le mettiamo vicino ad un’isba la quale dopo un poco prende fuoco. Il mio tenente è disperato: bisogna togliere le munizioni per evitare lo scoppio. E’ un lavoro che facciamo con molta fatica a causa della stanchezza, a malapena riusciamo a stare in piedi. Poco dopo troviamo delle pecore vive, le uccidiamo per sfamarci cuocendo la carne nel fuoco della stessa casa che brucia. Poi si riparte, ma siamo tempestati da molti ordini e contrordini e non capiamo più niente.
Ci troviamo ben presto in testa alla colonna. Sentiamo dire che nelle retrovie i russi attaccano con i carri armati, facendo molti prigionieri. Arriviamo in vista di un villaggio, la
nostra batteria si ferma e spara alcuni colpi. Vedo una persona che ci fa dei cenni. E’ il tenente Milesi. Lo riconosco perché è molto alto di statura. Vuole che gli portiamo le munizioni. Gli alpini occupano il villaggio, ma si riprende a camminare. Vedo a fianco della strada un gruppo di alpini morti, ci fermiamo a guardarli e tra noi diciamo: “Oggi a voi domani a noi”. Sembra quasi che una mano pietosa li abbia composti. La tormenta li ha già ricoperti, non riconosciamo nessuno.
A sera ci fermiamo in un altro villaggio. Entro in un’isba e spero ardentemente che i russi non attàcchino e ci lascino dormire in pace. Accendo il fuoco per scaldarmi, mi tolgo le scarpe e con le calze viene via anche la pelle delle dita. Un ufficiale mi dice: “Ti fa male graffiare?”. “Sì, sior tenente.” “Allora non sei congelato.” Prendo un po’ di paglia, mi sdraio e mi metto a cantarellare.
Un mio compagno mi dice: “Ehi, ti, ciò, sito drio a de ventare mato?”. “Canta” gli dissi “che la te passa.” Poi tra una confusione indescrivibile, prendo sonno. Mi sveglio verso mattina e mi trovo addirittura sommerso da tre alpini che si erano buttati sopra di noi per dormire. Cerco di venire a galla, mi alzo in piedi e mezzo ubriaco esco dall’isba. Vedo il mio capitano, mi grida qualcosa, capisco solo che dovremmo essere già partiti da due ore. Dopo poco la batteria è pronta e si parte.
Dopo un po’ ci troviamo di fronte ai russi. Colonna alt! Il nostro capitano fa mettere in posizione i pezzi, da i dati e partono alcuni colpi, una compagnia di alpini è davanti a noi. Ci fanno segno che non hanno più bisogno. Leviamo i pezzi per ripartire. Ci eravamo appena messi in moto che arrivarono dei colpi di artiglieria che colpirono il posto dove eravamo noi.
Il paese è ora libero. Al nostro arrivo troviamo dei pezzi di artiglieria abbandonati con vicino dei morti. Ci fermiamo per riposare un poco in attesa che altri nostri reparti ci raggiungano. Viene sera. Come sarà la notte? Stiamo sempre in attesa di ordini. Tento di entrare in un’isba, non mi lasciano. C’è dentro un nostro comando generale. Dalla finestra vedo che gli ufficiali stanno discutendo tra di loro e sul tavolo hanno delle carte geografiche. Dopo una notte passata all’addiaccio, al mattino si riparte. Ad un certo punto vedo degli alpini sciatori ritornare da una perlustrazione e parlare con un gruppo di ufficiali.
Sento che la 19ª Batteria spara già, la nostra non ancora. Arrivano dei colpi di artiglieria e uno colpisce un pezzo della batteria già in azione. Ci sono feriti, tra i quali il capitano. Mi viene in mente mio cugino Ferdinando, vado a vedere, non lo trovo, ma mi dicono che non è tra i feriti. Ritorno al mio posto e vedo un colonnello degli alpini chiamare un maggiore. Gli dice di prendere i suoi uomini e di muovere in una data direzione. Il maggiore chiama i suoi soldati, li fa vedere al colonnello. Saranno circa una trentina. “Questi” dice il maggiore con le lacrime agli occhi “sono il resto di tutto il mio battaglione.” Il colonnello gli si avvicina, gli batte una mano sulla spalla e gli sussurra qualcosa che non capisco. Il maggiore gli da la mano, se la stringono, ora sembra più rasserenato. Si gira, prende i suoi uomini e scompare nella tormenta.
Non so cosa si siano detti quei due uomini, ma penso che certe parole si dicano una sola volta nella vita. Gli alpini riescono a respingere i russi ed a entrare in paese, dopo poco arriviamo anche noi e non troviamo già più niente da mangiare. Ci sbrighiamo a ripartire e nel pomeriggio arriviamo in un altro villaggio ed occupiamo anche questo. Ad un tratto vedo che da una casa escono degli alpini che tengono in mano del miele. Entro anch’io e scopro che vi è un allevamento di api. Prendo due o tre cassette di api e miele, le porto fuori e con i miei compagni mangiamo api e miele tutto assieme.
Ad un certo momento mi sento chiamare, è mio cugino Michele Ferrari, attendente del generale della Divisione Julia. Ci abbracciamo e poi cominciamo a raccontarci le nostre avventure o meglio disavventure. Mi parla dei furibondi combattimenti sostenuti dalla sua divisione. Mi chiede qualcosa da mangiare perché da più giorni non trova niente. “Si, caro cusin, adesso tin dò mi.” Mi avvicino al mulo per prendere un barattolo di marmellata trovato in una piccola sussistenza, invece delusione: durante la notte me l’avevano portato via altri; ne provai un grande dolore.
Al mattino riprendiamo a camminare, entriamo in un paese e questa volta non c’è bisogno di sparare. Camminando tra le vie del paese troviamo ad un certo momento un ospedale. Niente di straordinario in ciò, ma mi fermai e con me tanti altri alpini a guardare una scena che ora mi sconvolge a pensarci, ma che allora mi aveva lasciato quasi indifferente. Con noi si trovavano dei tedeschi, si diceva fossero SS. Camminavano con noi; praticamente si ritiravano anche loro con noi. Arrivati in quel paese erano entrati nell’ospedale. Non so cosa fecero, ma vidi ammalati saltare dalle finestre e fuggire come disperati.
Come ho detto prima la scena mi aveva lasciato praticamente indifferente, la guerra mi aveva fatto perdere il senso della sofferenza e del male. Si riparte ancora, si sente sempre questo grido: “Avanti! Avanti!”. La fame mi toglie le forze, ma come un lampo nella mente ricordo di avere nello zaino una scatola di Ovomaltina, me l’aveva spedita mia madre dall’Italia ancora quando ero sul Don e l’avevo tenuta come viveri di riserva. Ne mangio mezza scatola e l’altra metà la do al mio compagno Vinco.
Quella scatola di Ovomaltina fu per me la manna nella neve. La marcia si fa sempre più dura, si sprofonda nella neve, i muli non riescono a tirare i pezzi. Ci dicono: “Bisogna passare questa piccola valle, al di là andremo meglio”. Dopo molti sforzi riusciamo ad attraversare la valle. Troviamo due lunghe baracche piene di fieno. Ne diamo ai muli e noi accendiamo fuochi per scaldarci, ma il capitano Bavosa ci grida: “Spegnete i fuochi, il nemico ci può vedere!”. Mi metto allora vicino ai muli e ai pezzi, ma è troppo freddo, entro perciò nel capannone, mi metto sotto un po’ di fieno e prendo sonno. Ad un tratto mi sveglio di soprassalto, sono calpestato da soldati, sento gridare.
Salto fuori mezzo attonito: il capannone ha preso fuoco: ci scalderemo con quell’incendio fino a mattina, nessuno ci spara. Prima che venga l’alba siamo già in movimento. Tornano indietro degli alpini: sono del Battaglione Verona e Edolo, ci dicono che non riescono a passare perché ci sono i carri armati russi. Ma a fronteggiare i russi sono rimasti sul posto altre batterie e altri alpini. Dai colpi che si sentono si capisce che la battaglia è forte.
Vedo un gruppo di ufficiali, ci sono anche generali e colonnelli: stanno discutendo. A guardarli in faccia li vedo pieni di coraggio e a questo proposito devo dire una cosa che non posso tacere. Durante tutto il periodo della guerra e specialmente quando i pericoli erano maggiori, non ho mai visto ufficiali alpini venire meno ai propri doveri. Hanno sempre saputo essere all’altezza del loro compito sia come capacità e come coraggio. Anche questa volta riusciamo a farcela, i russi per il momento se ne sono andati, ma le nostre condizioni si fanno sempre più penose. Ci sono molti feriti e congelati e mancano i muli. Il freddo è terribile: si parla di 40-45^ sotto zero. C’è un soldato attaccato al mio mulo, si fa trascinare. Gli chiedo che cosa ha, non parla.
Lo carico sul mulo, ma dopo un po’ lo devo scaricare, altrimenti si congelerà; non è ferito, ma non ha più forze. Mi accorgo solo allora che non è un semplice soldato, ma un maggiore medico di fanteria. Lascio che si trascini, ma in sèguito non lo vedrò più. Sopra di noi passa una “cicogna”: è russa, va ad atterrare su una collina vicina. Il mio capitano ferma un pezzo, lo fa mettere in posizione, da i dati di tiro e parte un colpo.
Ne segue subito un altro e l’aereo è colpito, si vedono due uomini fuggire. Si riparte. Un ufficiale tedesco vicino a noi dice: “Gut artiglieria”. Il capitano, sorridendo, dice a noi con quella sua voce baritonale: “Abbiamo ancora le navi da affondare, poi le abbiamo fatte tutte”. Fa un po’ meno freddo. Si cammina ancora. Sono passati quasi otto giorni dall’inizio della ritirata. Presto saremo alle porte di Nikolajewka. Faccio parte del gruppo che è in testa alla colonna. Arrivano dei colpi di mortaio e il mio capitano ci fa fermare e vuole rendersi conto personalmente di quanto succede. Decide poi di fare staccare la mia sezione e con il tenente Tranquillini prendiamo un’altra strada.
Chiediamo al tenente dove stiamo andando noi soli con due pezzi e ci risponde che dobbiamo far cessare quegli attacchi che provengono dalla destra. Ma ritorneremo sui nostri passi senza dover sparare un colpo. Ci uniamo quindi al resto della colonna che è sempre ferma su una collina alle porte di Nikolajewka. Ci viene incontro un colonnello a cavallo e ci dice che dobbiamo avanzare perché davanti hanno bisogno di noi. Gli alpini hanno tentato di entrare in città, ma i russi li hanno respinti.
C’è una ferrovia che ci divide da loro. Non riusciamo ad attraversarla. Piazziamo i pezzi, abbiamo i colpi contati e come se non bastasse ci sono pure gli aerei che ci attaccano. I morti e i feriti sono molti. Insieme ai soldati combattono anche generali, ufficiali di tutti i gradi. Incominciano a scendere verso Nikolajewka. Riescono a passare la ferrovia, ma sono ricacciati indietro.
E’ una battaglia dura, ma alla fine gli alpini riescono ad entrare in città e allora noi artiglieri siamo costretti a non sparare più. Verso sera arriva l’ordine del generale Reverberi: “Tridentina, avanti!”. Partiamo tutti, è l’ultimo disperato tentativo. Quando i russi si accorgono che il grosso sta scendendo verso di loro mettono in azione tutte le artiglierie. “Ostrega ghe semol”. Non me la sono mai vista brutta come in quel momento. “Mio Dio rimetto nelle Tue mani la mia vita.” Arrivano colpi da tutte le parti, morti, feriti, urla, muli squarciati, sembra impossibile vivere ancora. In mezzo a questo inferno sento una voce disperata: “Mamma, mamma aiuto!”. Non è possibile soccorrere questo soldato, saprò più tardi che era della mia batteria.
E’ notte, stiamo entrando in città. Si spara ancora, non capisco più niente. Sento chiamare il mio cognome. E” la voce di un mio caro amico del Battaglione Verona: Luigi Lunardi. Ci riconosciamo dalla voce perché dall’aspetto siamo irriconoscibili. Ci stringiamo in un grande abbraccio, cerchiamo di farci coraggio: “Forza che forse ghe sema, e se troveremo ancora a Gambellara a magnare polenta e osei”. “Ciao, ciao!” Ci troveremo poi in Italia. Non posso descrivere quello che ho visto in quella città: confusione, soldati morti, feriti, congelati. Io non riesco a stare in piedi e mi meraviglio di essere ancora vivo. C’è ancora il pericolo di trovare i russi.
Ci fermiamo in un piazzale dove c’è una chiesa, entriamo, siamo i primi. In un attimo è piena. Accendiamo fuochi per scaldarci, mangio qualcosa e cerco di riposare in piedi proprio come le bestie. Ma la chiesa prende fuoco. “Fuori, fuori” si urla. Aiutiamo alpini feriti ad uscire e ci troviamo tutti in mezzo al piazzale. Arrivano degli spari, sono partigiani russi, un nostro ufficiale. Li vuol andar a prendere. Sono riparati dietro un pagliaio. Non so se ci riuscirà, non ne saprò più nulla. La notte passata all’aperto in quelle pietose condizioni è triste e desolante. Ci prodighiamo come meglio possiamo per aiutare i feriti e i congelati, ma non abbiamo niente. Da dieci giorni ci mancano tutti i rifornimenti.
Al mattino si riprende a camminare, non sappiamo ancora che con questa battaglia si è aperta la porta verso la liberazione. Saprò più tardi che, mentre eravamo circondati, radio Mosca trasmetteva che la sacca del Don sarebbe stata la tomba degli alpini d’Italia, ma poi la stessa emittente riconoscerà che solo gli alpini sono riusciti ad uscire dall’accerchiamento. Camminiamo per alcuni giorni e notti senza fermarci e questo perevitare di essere accerchiati ancora. Abbiamo perduto tutto, ci restano solo i muli. A queste bestie devo il mio grazie più caro perché sono state la nostra salvezza.
A loro attacchiamo le slitte per portare i feriti e i congelati. Ci dicono che dobbiamo raggiungere un caposaldo tedesco, ma non lo troviamo mai. Una loro “cicogna” guida la nostra colonna. Non arrivano rifornimenti, né viveri, siamo sfiniti, passando dai villaggi portiamo via tutto quello che troviamo. Se troviamo una bestia la uccidiamo e la mangiamo cruda, ora non c’è più la guerra delle armi, ma quella della fame. Un pomeriggio vediamo delle autoblindo tedesche ferme con impianti radio, ma poco dopo se ne vanno. C’è ancora pericolo di accerchiamento.
Allora la marcia invece di cessare continua. Camminiamo per tutta la notte. Al mattino ci fermiamo un momento. Vedo vicino a me un ufficiale che si sta lavando le mani con la neve. Mi guarda e sorridendo mi dice: “Di dove sei tu?”. “Di Verona” dissi. “Coraggio allora, che a Verona ti riporterò ancora!” Solo allora mi accorsi che era il mio generale Reverberi. Quelle parole mi fecero risuscitare, lo ringraziai e dentro di me piansi di gioia. Mi girai e lo dissi ai miei compagni e se avessi potuto lo avrei gridato a tutta la colonna. Camminiamo ancora.
Passiamo vicino ad un comando tedesco. Hanno un grande allevamento di polli. Sfondiamo la porta, nonostante una guardia armata ce lo impedisca. Io prendo una decina di galline, le butto sulla slitta e poi le copro con delle coperte. I tedeschi imprecavano, ma noi non ci curavamo nemmeno di loro. Alla sera ci fermiamo in un altro villaggio. Ci dicono di riposare tutta la notte. Entriamo in un’isba. Ci sono tre donne. Consegniamo loro le galline incaricandole di cuocerle. Lo fanno subito. Dopo tre ore abbiamo brodo caldo insipido e una gallina a testa (e anche una penna sul cappello).
Io non mangio; mi viene una forte febbre. Mi butto giù e dormo. Verso mezzanotte la padrona di casa mi sveglia e mi da un po’ di brodo caldo. Rimango stupito per la sua gentilezza e bontà. Bevo il brodo, la ringrazio e riprendo ancora a dormire. A questo punto tengo ad affermare, avendo avuto ancora modo di constatarlo, la grande cordialità del popolo ucraino.
Lasciavano capire di volerci bene nonostante in guerra fossimo nemici. Al mattino ho ancora la febbre. Un mio amico mi carica su una slitta. Riparto con gli altri. Ma un camion tedesco investe la slitta: sono buttato nel fosso a rotoloni. Salto in piedi e devo camminare. Mi sento meglio, mi pare di non avere più la febbre. Si vede che ci voleva questo spintone per farmi guarire. Strada facendo incontriamo una colonna tedesca, chiediamo da dove vengono: “Dalla Francia” ci dicono. Sono ben vestiti e ridono al vederci in queste pietose condizioni. “Poveretti” diciamo noi, “ve ne accorgerete!”.
Dopo qualche giorno ancora ci fermiamo e il nostro capitano ci dice che forse siamo fuori pericolo di accerchiamento. Stiamo fermi qualche giorno per riprendere un po’ le forze. Siamo pieni di pidocchi e non riusciamo a lavarci i panni. Qui vengo a sapere che i comandi tedeschi hanno fatto una proposta ai nostri comandi: raccogliere tutti gli uomini usciti dalla sacca e rifare un altro esercito. I nostri superiori hanno risposto con un secco rifiuto.
Ora dobbiamo raggiungere Gomel per trovare un treno che ci porti in Italia. Ci arriveremo il 25 febbraio, non riesco a calcolare la strada. I chilometri sono tanti, ma a renderli più duri sono anche le pietose condizioni in cui ci troviamo. Imprechiamo contro Hitler e Mussolini. La campagna di Russia per noi soldati è incomprensibile, quante volte tra noi dicevamo: “Allora facciamo gli eroi?”. “Sì, ma per chi?” “Per tornare in Italia, a casa nostra!” Noi ci siamo battuti da eroi, ma a spingerci era soltanto la volontà disperata di ritornare vivi.
Per me che ho vissuto la cruda realtà della guerra devo dire che essa è una pazzia dell’uomo. Mi pare impossibile che un uomo possa avere così tante energie da resistere ad una vita così dura. Ci guardiamo in faccia prima di salire sulla tradotta che ci porterà in Italia. Pensiamo ai nostri compagni che lasciamo qui, se noi siamo vivi e liberi lo dobbiamo anche a loro, e una grande tristezza ci invade pensando che non torneranno più. Siamo stanchi con nel cuore un grande dolore: siamo rimasti in pochi, troppo pochi.