a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Tenente Franco Fiocca
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
La 33^ Batteria del Bergamo risaliva nel tramonto del 25 gennaio 1943 il costone di Arnautowo. Tutti erano stanchissimi per avere battuto durante la giornata una pista parallela alla direttrice principale di marcia. Era stata appena oltrepassata una selletta quando giunse l’ordine di retrocedere e presidiare il paese da poco superato. La batteria fece dietro front, la testa divenne coda e la coda testa. Difficile trovare posto per tutti nelle isbe. I pezzi furono sistemati sulla sinistra della strada ArnautowoNikolajewka.
Trovai riparo assieme all’altro pattugliere, il sottotenente Mazzaggio, in una grande isba: ero stanco e demoralizzato. Mi addormentai subito. Fui svegliato poco dopo dal mio attendente che mi porgeva una gavetta di patate lessate senza sale. Mangiai con disgusto e mi riaddormentai. Saranno state le 23, fui svegliato dal caporal maggiore Rocca che urlava “Allarmi! Allarmi! in eia! Su fieui! lu visi mi!”.
Uscii di corsa dall’isba. Sulla strada un’autoblindo tedesca rientrava nel paese sparando con tutte le armi di bordo; traccianti russe la colpivano da tutte le parti. Un ufficiale di collegamento tedesco chiese di parlare colì ufficiale responsabile del presidio e comunicò laconicamente: “Pattuglie russe a circa 200 metri. Sparare coi pezzi”. Ebbe appena il tempo di parlare: quattro schianti, l’ufficiale tedesco cadde a terra e con lui due ufficiali italiani (forse il tenente Capriata ed il tenente Panazza). Gli uomini dell’autoblindo caricarono il loro ufficiale. L’autoblindo, sempre inseguita dalle traccianti russe, si allontanò verso Nikitowka.
Mi preoccupai di tirare fuori dalle isbe tutti gli uomini che trovavo; purtroppo alcuni non si rendevano conto della situazione ed imprecavano contro gli ufficiali che non li volevano mai lasciare riposare. Intanto i pezzi cominciavano a sparare. Ma i mortai russi non davano tregua. Vidi correre verso la linea pezzi il sottotenente Magnolini con una squadra di artiglieri: una salva di granate lo abbatté. Corsi alla mia isba. Mentre stavo per uscirne di nuovo fui respinto indietro da una turba di feriti urlanti: “Il dottore! Il dottore!”. Erano uomini della linea pezzi; riconobbi tra di loro il caporale Piantoni ed il capopezzo Ruggeri. Cercai di calmare e rassicurare i feriti indirizzandoli verso altre isbe ove pensavo potesse esserci qualche medico.
La linea pezzi era rimasta sguarnita: circa i due terzi dei serventi erano stati messi fuori combattimento. Sistemai quindi gli artiglieri che mi circondavano in punti riparati dai quali potessero sparare almeno col moschetto. Sapevo che nell’ultima isba del paese si era sistemato per la notte un gruppo di artiglieri col medico di batteria Bernasconi e con un cappellano, don Bianchini. Era indispensabile che quegli artiglieri si ritirassero dietro la linea pezzi: sempre che i russi non li avessero già annientati.
Avevo molta paura, ma dovevo andare. Mi buttai di corsa nella neve alta ed in breve raggiunsi l’isba. Trovai il dottor Bernasconi che stava medicando un ferito e lo pregai di fare uscire dall’isba gli artiglieri alla spicciolata. Ritornai ai pezzi intorno ai quali pochi volonterosi si davano da fare per allontanarli l’uno dall’altro. La manovra era difficile perché i pezzi affondavano nella neve farinosa ed i congegni erano bloccati dal gelo. Ma bisognava che i pezzi riprendessero a sparare. Era ormai evidente che i russi ci erano addosso e di minuto in minuto miglioravano il tiro delle loro mitragliatrici e dei loro mortai inchiodandoci dietro precari ripari.
Gli ufficiali anziani della batteria erano stati messi fuori combattimento dai primi colpi di mortaio; dei giovani ufficiali, il sottotenente Forchielli ed il sottotenente Celesia erano stati feriti leggermente. Solo il sottotenente Mazzaggio ed io eravamo incolumi ma avevamo il grave svantaggio di essere conosciuti bene solo dagli uomini della squadra comando. Appena un pezzo fu in condizioni di sparare, ordinai il fuoco. La granata si sperse nella notte ma il botto rinfrancò gli artiglieri.
Il sottotenente Mazzaggio coi caporali Giudici e Cairoli scendeva intanto incontro alle pattuglie russe, ne annientava una ma perdeva Giudici e Cairoli. Prendeva intanto il comando della batteria il capitano Capitò, che mi ordinava di distanziare ulteriormente i pezzi e di recarmi al secondo pezzo che difendeva le spalle della batteria. Rimasi per poco tempo al secondo pezzo. Fui richiamato alla linea pezzi dal capitano Capitò: un vocio confuso davanti a noi ci fece dubitare che fossero giunti gli alpini. Facemmo cessare il fuoco.
“Urrah! Urrah!” attorno ai pezzi sorse come per incanto un semicerchio di truppe russe che ci venivano addosso a ranghi serrati. “Spoletta 200! 100! zero!” I tre pezzi aprirono un fuoco micidiale. Gli attaccanti colti di sorpresa, ripiegarono rapidamente, lasciando sul terreno molti uomini; subito però intensificarono i fuochi dei mortai: ebbi appena il tempo di intuire che un mortaio aveva inquadrato il quarto pezzo che uno scoppio vicinissimo mi buttò lontano. Purtroppo il capitano Capitò era stato colpito gravemente. Il mortaio ora taceva: forse era stato colpito.
Il combattimento sembrò placarsi: ne approfittai per lasciare il pezzo e ritornare presso l’isba che mi aveva ospitato la sera prima e che ora bruciava furiosamente. Attorno ad essa un numeroso gruppo di artiglieri sparava coi moschetti contro i russi. Davanti all’ingresso dell’isba giacevano allineati due per due sei artiglieri fulminati da una mitragliatrice russa. Cercavo moschetti e fucili che sparassero, cercavo nelle giberne dei caduti cartucce da distribuire. “Sciur Tenent, vìa de lì, che l’è un brut post!”
Ritornai con alcuni artiglieri verso il quarto pezzo, il più esposto ad un assalto nemico. Mostrai ai soldati le sagome dei russi che, illuminate dalla luna, si stagliavano sul fondo scuro del cielo; dovevano sparare con calma, ogni colpo era prezioso. Mi spostai tra il terzo pezzo ed il primo e, accatastando casse di munizioni su di una slitta, feci una postazione per un fucile mitragliatore. Rimasi disteso sulla slitta per un po’ di tempo indirizzando brevi raffiche contro i russi che si muovevano apparentemente incuranti della nostra reazione.
Il mitragliatore Breda funzionava incredibilmente bene; lo lasciai subito ad un artigliere sopraggiunto e ritornai al quarto pezzo. Poco dopo i russi ritentarono l’assalto. Ai primi “urrah!” i tre pezzi sparando a zero tramutarono il campo di battaglia in un inferno di scoppi. I pezzi male ancorati nella neve retrocedevano ad ogni colpo. Questo fatto faceva sì che tra i pezzi ed i più arditi attaccanti la distanza rimanesse sempre la stessa.
I russi, constatata l’impossibilità di attaccare frontalmente, si ritirarono dietro il ciglio, lasciando sulla neve numerosi morti. Riprese quindi più intenso che mai il bombardamento dei mortai. Il terzo pezzo venne colpito. A terra due uomini uno immobile e l’altro dava segni di vita. Accorsero due artiglieri e sollevarono il ferito: un urlo acutissimo soverchiò il rumore degli spari. Riconobbi la voce di Mazzaggio. Per un istante ci fu silenzio: i superstiti del pezzo colpito brancolavano terrorizzati intorno ad esso: anche
il primo pezzo sembrava in crisi. La situazione era disperata; guai se i russi si fossero accorti del nostro scompiglio, ci avrebbero annientati in pochi istanti.
Il bravo sergente maggiore Guicciardi accorse: avrebbe pensato lui al primo pezzo. Un tenuissimo chiarore (erano circa le quattro del mattino) mi fece pensare alla prossima alba: eravamo completamente allo scoperto, la batteria schierata in mezzo ad un prato. La notte finora ci aveva protetto, ma col sopraggiungere del giorno come ce la saremmo cavata? Raccomandavo agli artiglieri che mi circondavano di stare a terra, di sparare solo su bersagli sicuri. Correvo, gridavo… Improvvisamente un colpo formidabile alla guancia, un lampo bianco.
Fui preso dal terrore che la ferita fosse grave; cautamente, muovendo la lingua, verificai che “dentro” non c’era niente di rotto. Gli artiglieri intanto mi abbracciavano piangendo. Mi misi a sedere sulla neve, trassi dalle tasche del cappotto il pacchetto di medicazione, che teneva compagnia alle sei bombe “balilla” che mi portavo appresso dall’inizio della ritirata, e tentai con la compressa di garza di tamponare le ferite (un buco grosso sulla guancia ed uno più piccolo presso la bocca). Impossibile fermare la medicazione con i trenta centimetri di garza disponibili, il sangue mi colava abbondante nel colletto. “Signor Tenente, deve andare giù!” Non c’era altro da fare che raggiungere il vicino posto di medicazione. “Sparate poco! Col chiaro arriveranno certo gli alpini!”
Il bravo capopezzo mi rassicurò: ci avrebbe pensato lui a tenere duro. “Giù”, nell’isba adibita a posto di medicazione, il capitano medico Capacci circondato da una folla di feriti medicava veloce e sorridente, rassicurando e consolando. Vicino a lui il capitano Capitò gli raccomandava di seppellirlo con la fotografia di sua moglie. Chiesi al capitano Capacci, mentre mi medicava, notizie di Mazzaggio. “Temo che non ce la faccia…” Trascinai verso il fondo dell’isba i feriti più leggeri per lasciar posto a quelli sempre più numerosi che sopraggiungevano. Inviai un artigliere in cerca del sottotenente Celesia. Dopo poco mi giunse la risposta: gli alpini erano arrivati; alla linea pezzi c’era lui. Mi addormentai profondamente.
Tenente Alessandro Celesia
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Abbiamo da poco superato una specie di valico e le poche isbe di Arnautowo. Nessuno parla; ad un tratto, Alt! Si torna indietro con l’ordine di costituire un caposaldo tra le case da poco superate. Si raggiungono le case quando la luce del tramonto è quasi spenta. I sottotenenti Mazzaggio e Fiocca cercano di sistemare i 60 uomini della squadra comando in un’isba. L’isba è piccola e gli artiglieri vi si accalcano, i più stremati si lamentano.
Il tenente Panazza ed io c’incarichiamo di piazzare la linea pezzi in posizione da poterci difendere a 360° da attacchi nemici, e le mitragliatrici vengono collocate a protezione della linea pezzi. Due russi in abiti civili vengono sospinti in nostra presenza. Sono stati catturati mentre tentavano di fuggire da dietro un’isba e sono stati trovati in possesso di pistole. Sono partigiani o civili? Hanno un aspetto fiero e non sembrano affatto spaventati.
Non ricordo se siano scappati eludendo la vigilanza o se qualcuno degli ufficiali abbia dato ordine di rilasciarli. Certo questa fuga ci costò cara. Da un’ora riposiamo quando si odono grida d’allarmi. Corriamo fuori: nessun segno di vita, ma il caporale Rocca ci assicura “I u visi mi, i u visi mi”. Gli artiglieri mugolano, imprecano, i più continuano a dormire, non vogliono credere all’allarmi, pensano siano le solite storie degli ufficiali per non lasciar mai riposare, e tutti noi siamo costretti a scuoterli ad uno ad uno. Dalla strada intanto un’autoblindo tedesca arretra lentamente.
All’improvviso – sono circa le 24 – la sua torretta si illumina di una miriade di strisce fosforescenti. Le mitragliatrici russe hanno ormai inquadrato il bersaglio più vistoso. Un ufficiale di collegamento tedesco comunica: “Pattuglie russe a 200 metri: sparare!”. Non termina il discorso; quattro schianti: vedo cadere l’ufficiale tedesco e vicino a lui Panazza e Capriata. Io, che appena udito l’ordine di sparare mi ero allontanato da loro dirigendomi alla linea pezzi per eseguirlo al più presto, mi sentii sollevare in alto e caddi pesantemente nella neve con la faccia avanti. Non so quanto rimasi in quella posizione stordito.
Quando ripresi i sensi sentivo attorno a me confusamente, come fuori campo, grida e colpi di mitraglia e un dolore nella parte occipitale destra del capo. Sempre restando bocconi infilai una mano tra i capelli ed il copricapo di pelo e la ritirai sporca di sangue. Pensai che fosse l’ultimo atto della mia vita, il pensiero corse a mia madre e, quasi volendo convincermi che non potevo morire, cercai di sollevarmi sulle ginocchia ma ricaddi. Poi, chissà dopo quanto tempo, mi ritrovai appoggiato alla soglia di un’isba piena di feriti. Riconobbi Panazza e Capriata: erano vicini, sembravano morti ma ogni tanto emettevano un lamento.
Un medico mi fece entrare, ma non ravvisando in me nulla di grave e forse giudicandomi un pavido, mi spinse fuori dell’isba con un: “Vai a combattere”. Con la testa che mi ronzava, barcollando mi avviai senza sapere dove andavo, nel buio della notte illuminata dalla luna. Attorno a me continuava il coro delle grida, dei lamenti, dei crepitii delle mitragliatrici, degli scoppi dei mortai; camminavo con gli occhi semichiusi, ero completamente inebetito e dentro di me ripetevo: “Come, non ho niente! Come, non ho niente!”.
Il tenente Bughi mi riconobbe. Ero giunto al suo pezzo, quello decentrato dal resto della batteria: vedendolo lo riconobbi anch’io. Gli chiesi dove fossero gli altri pezzi e mi indicò la direzione. Torno sui miei passi, rivedo l’isba dove erano i feriti, proseguo e giungo vicino ad un pagliaio. Ho un sussulto: ho visto un’ombra. Non è un’ombra, è uno degli artiglieri zappatori, sta tagliando con un temperino qualcosa che non distinguo bene. Mi avvicino: gli occhi mi si dilatano e restano paralizzati dall’orrore.
L’artigliere fa una smorfia che non so se è di dolore, ma che a me sembra un sorriso forzato, ed aggiunge: “Al me darà pi no fastidi”, seguitando a tagliare l’unico tendine dal quale pendeva il suo braccio destro, stroncato poco sotto alla spalla da una scheggia di mortaio.
Ricordo in quel momento un gran silenzio e poi delle grida di hurrà; odo una voce che da l’ordine di sparare a zero, intravedo nelle prime luci dell’alba le facce mongole dei russi avanzanti nel tentativo di superare i pochi metri che li dividono dai pezzi. Urla di dolore vengono sovrastate da un urlo disumano che mi atterrisce. Saprò poi che era quello del sottotenente Mazzaggio, colpito a morte da un colpo di mortaio assieme ad un sergente del
3^ pezzo. E’ quasi giorno; lo vedo portar via a braccia verso l’isba dei feriti, vedo i russi che si spostano sulla sinistra del 1^ pezzo, tra la linea telegrafica e la rotabile NikitowkaNikolajewka, con l’intento di impedire al resto della colonna alpina rimasta isolata a Nikitowka di raggiungerci.
E’ ormai chiaro che non si trattava di pattuglie ma di un grosso reparto russo appoggiato da mortai pesanti, fuciloni anticarro e numerosissime armi automatiche. Nell’avviarmi verso la linea pezzi noto che il 3^ pezzo è fuori uso completamente. Vicino giacciono il sergente Guicciardi, con la schiena squarciata da un colpo anticarro preso in pieno petto ed il tiratore Moioli, con gli occhi vitrei e sbarrati ed una piccola scheggia in fronte.
Intorno al pezzo, sparse sulla neve, cassette di granate piene e vuote. Mi viene incontro il giovane Valsecchi, che noto piuttosto spaventato. Vedo Fiocca vicino al 1^ pezzo, il più esposto, che impartisce ordini. Al 2^ pezzo, vi è un sergente che sta rincuorando gli uomini. Dico a Valsecchi: “Prendi quella cassetta di munizioni con due granate e portala al 2^ pezzo”; poi aggiungendo: “Ti aiuto anch’io”, mi chino per dargli una mano. In quell’attimo una raffica di mitra, fischiando sopra alla mia testa, abbatte il povero Valsecchi alla mia sinistra. Cade invocando la madre, mentre cerco di rincuorarlo la sua mano stringe la mia in un saluto mortale.
Quando mi rialzo stanno arrivando gli alpini del Tiràno che sono riusciti a ricongiungersi a noi. Il capitano Gazza del Val Chiese mi chiede l’appoggio della Breda dislocata sulla destra della batteria per poter raggiungere il mortaio russo che è nella balka a destra. Non vedo più Fiocca, c’è solo il sergente sulla linea pezzi; mi dice che Fiocca è stato ferito alla faccia, sembra gravemente. Più tardi arriva la colonna guidata da Reverberi e Nasci. Con Bughi, unico ufficiale superstite della 33ª, riordino la batteria; 180 sono gli uomini validi; 24 i muli; si può riprendere al più presto la marcia verso Nikolajewka, dopo aver seppellito i nostri morti.
Tenente Paolo Forchielli
33ª Batteria, Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina
Difficile, se non impossibile, ricostruire la lunga, terribile notte di Arnautowo. E ciò non tanto per il tempo trascorso quanto perché le circostanze ed il mio stato d’animo solo in parte mi consentirono di cogliere la successione di quei tragici eventi. Giungere in un borgo di poche case, collocate ai margini della strada con dietro l’infinita neve russa; giungervi sul fare della notte dopo un’estenuante marcia iniziata nel cuore della notte precedente; infilarsi nella prima isba che si profila al fianco del proprio reparto; divorare qualche patata bollita e forse anche un pezzo di pollo (miracolo di volontà e di organizzazione dei nostri meravigliosi artiglieri) e addormentarsi sfinito nel tepore amico dell’isba, per essere risvegliato qualche ora dopo da colpi di mitragliera e dalla concitata notizia “reparti russi stanno attaccandoci”.
Uscire precipitosamente dall’isba senza neppure indossare la giubba a vento sotto la pelliccia e lasciando zaino e sacco a pelo: tutto congiurava contro la possibilità di rendersi conto, senza la minima conoscenza del luogo (mai osservato di giorno) della reale situazione, della direttrice di marcia dei russi, dei punti di maggiore pericolo e delle concrete possibilità di rendersi utili o di mettersi al riparo, noi dello “scaglione munizioni” senza dirette responsabilità ai pezzi e alle mitragliatrici.
Provai tuttavia, poco dopo, uscito dall’isba, a rendermi personalmente conto della situazione. Feci qualche passo avanti in direzione di Nikolajewka e mi affacciai prudentemente sul lieve pendio. Qualche sibilo acuto mi convinse che era meglio rinunciare e questa fu la mia prima fortuna di quella notte. Mi ero appena girato verso le case di Arnautowo che una pallottola incredibilmente benevola mi passò tra il pollice e l’indice della mano sinistra, ferendomi in modo non grave tanto alla mano quanto alla coscia sinistra.
Sebbene non lo ricordi esattamente, debbo avere trovato chi mi indicò l’improvvisata infermeria, perché mi ritrovai in un’isba alla presenza del medico Capacci che mi medicò. Non so quanto mi trattenni nell’isba, già ricolma di feriti doloranti e dove, se ben ricordo, si trovavano già gravemente feriti il tenente Capriata ed il tenente Panazza. So solo che, una volta superato il primo trauma, con la coscia e la mano doloranti e con l’incoraggiamento del medico Capacci, uscii e mi ritrovai di nuovo nel sinistro chiarore notturno, sempre interrotto da colpi di mortaio e di mitraglia.
Non era, neppure questa, la condizione migliore per avere idee chiare della situazione. Ricordo i due pezzi allo scoperto orientati a zero contro i russi; ricordo l’altro pezzo, piazzato sul fianco, tra le case; ricordo i mitraglieri piazzati ventre a terra sulla neve gelata accanto ai pezzi, e ricordo la difficoltà di mantenere le mitragliatrici efficienti mediante la sostituzione di canne gelate con altre che venivano riscaldate a cura di volonterosi.
Ricordo due idee fisse che, in quella interminabile notte, si accavallavano nella mia mente, anche se la tragicità della prima non era certo paragonabile alla relativa importanza della seconda. Quando arriverà il grosso da Nikitowka? Arriverà pure una buona volta! O attaccheranno di nuovo i russi? Intanto le ore passavano e si avvertiva che l’alba doveva essere ormai prossima.
Finalmente (albeggiava) vidi spuntare sul costone verso Nikitowka un gruppo di alpini con in testa il maggiore Maccagno, comandante del Battaglione Tiràno. Con una buona dose d’incoscienza – giacché il fuoco dei russi si era, per ovvie ragioni, fatto di nuovo intensissimo – corsi verso il maggiore Maccagno. “Dove sono, dove sono?” mi chiese. “Sono li”, risposi, indicando il lieve declino in direzione di Nikolajewka. Dopo di che corsi a rifugiarmi dietro lo scudo di uno dei nostri pezzi.
Qualche minuto dopo vidi gli alpini della 45ª del Tiràno andare senza indugio (in piedi!) all’attacco. Ricordo innanzi a loro, nitida, la sagoma spavalda del tenente Soncelli col mitra puntato verso il nemico (tutti o quasi tutti eroicamente morti un attimo dopo, così come successivamente un nucleo del reparto comando del nostro reggimento, al comando del capitano Albera). Il fuoco infuria. Dopo qualche tempo (minuti, attimi?) avverto uno schianto colossale alla schiena. Ho la sensazione di non essere più in possesso della spalla destra e rifletto “questa volta è fatta”.
E invece, dopo aver esitato a muovermi qualche attimo per il terrore di constatare la mia impotenza, provo a muovermi e mi rendo conto di avere la forza di farlo, magari carponi. Mi ritrovo così, per la seconda volta nell’isbainfermeria, ormai traboccante di feriti, e di morti. Mi accoglie, anche questa volta, l’umano sorriso del medico Capacci. “Questa volta non c’è niente da fare” gli dico e invece… anche questa volta posso rendermi conto della mia incredibile fortuna: una scheggia di modeste proporzioni riposa, senza grave danno, nel polmone.
Con un febbrone addosso mi addormento. Ma non credo di avere dormito per molto. Vinta, con enorme sacrificio, la resistenza di Arnautowo, il cammino deve inesorabilmente riprendere verso Nikolajewka. Nella luce incerta del mattino, riparto così, seduto nella slitta tra il capo di Capriata ed il capo di Panazza (e con l’attendente Amadei ad un passo). Ho le lacrime agli occhi per la morte del carissimo sottotenente Mazzaggio, appena comunicatami. Percorrendo il primo tratto della strada verso Nikolajewka ho modo di vedere quanti russi è costata la terribile notte.
Arnautowo, un nome modesto rispetto a quello di Nikolajewka, ma un nome di fuoco per la mia 33ª e per i suoi eroici caduti. Se la sosta, forse casuale, della 33ª, del reparto munizioni e viveri e di altri nuclei minori non avesse impedito ai russi di attestarsi sul costone sovrastante Nikitowka (ove riposava il grosso della Tridentina) quante probabilità sarebbero esistite per la risolutiva giornata di Nikolajewka?
Sergente Enrico Benazzi
Reparto Munizioni Viveri del Gruppo Bergamo, 2^ Reggimento Artiglieria da
Montagna
Nel giorno precedente alla battaglia di Nikolajewka, l’avanguardia della Divisione Tridentina in ripiegamento era composta dai resti del Battaglione Val Chiese, dalla 33ª Batteria e dal R. M.V. del Gruppo Bergamo del 2^ Reggimento Artiglieria da montagna. In serata tali reparti occuparono le isbe che costituivano l’abitato di Arnautowo, lasciando vigili nel perimetro difensivo le sentinelle; all’aperto c’erano anche i circoli dei muli, entro i quali erano state sistemate le munizioni ed i materiali che ancora i reparti erano riusciti a trascinarsi dietro sulle slitte.
La temperatura nella notte si aggirava sui 30-32 gradi sotto lo zero e per questo i cambi delle sentinelle e delle guardie scuderia ai quadrupedi erano dati con una certa frequenza. Verso le 23 giunse a Arnautowo un’autoblindo tedesca da ricognizione, i cui serventi comunicarono che una grossa forza russa si stava avvicinando. L’allarme portò un certo scompiglio tra gli uomini colti nel sonno; iniziarono ad arrivare colpi di mortaio nell’abitato.
I primi ad essere colpiti dalle granate in arrivo furono i circoli dei muli, che per la paura si imbizzarrirono, trascinando con le cavezze anche i resti delle bestie che erano state uccise. (Visione da non dimenticare, tra due muli vivi pendeva la testa troncata di un terzo, trattenuta al circolo dalla cavezza e dalla catena.) Per noi artiglieri, che avevamo le antiquate mitragliatrici Fiat al riparo entro i circoli dei muli, sorse la necessità di ricuperarle e sgelarle, operazione che doveva essere fatta con il fuoco, il quale certamente avrebbe attirato l’attenzione del nemico.
Intanto era iniziata la resistenza, i pezzi della 33ª avevano aperto il fuoco, sparando con le granate a tempo spolettate a zero, per respingere i travolgenti assalti della fanteria russa, che avanzava in piedi irrorando di pallottole con i parabellum le nostre posizioni. Grave danno agli uomini provocavano i micidiali colpi dei piccoli mortai che i russi facevano piovere con dovizia a ridosso delle posizioni tenute dagli italiani.
Tali esplosioni spandevano intorno minutissime schegge, però tremendamente micidiali; una di queste schegge io l’ho portata per circa dieci anni in una mano. Impressionante era sentire le raffiche di pallottole di parabellum investire gli scudi dei nostri 75/13, era una musica guerresca che frammista agli “hurrà” degli attaccanti difficilmente si può dimenticare. Nel frattempo i russi avevano piazzato in una balka una mitragliatrice pesante che da lontano batteva la nostra zona, impedendoci di muoverci, allora chiesi chi si offriva volontario per uscire con me e far tacere quell’arma.
Mi seguirono in cinque, piano piano, strisciando nella neve e spesso affondandovi, riuscimmo a portarci sul rovescio della posizione tenuta dai russi, ci avvicinammo a tiro di bomba a mano e tutti insieme lanciammo ognuno una bomba a mano sulla posizione, delle sei lanciate, solo due scoppiarono, le altre rimasero inesplose, però le due scoppiate ci permisero di portare a compimento l’azione e di impossessarci dell’arma che portammo con noi nel perimetro difensivo.
Le ore intanto trascorrevano ed iniziava ad albeggiare, ricordo chiaramente che un plotone del Val Chiese cercò di portarsi a tergo dello schieramento nemico per attaccarlo e per attuare questa manovra doveva necessariamente attraversare un passaggio scoperto e battuto da un’altra mitragliatrice russa.
Dalla nostra posizione si videro gli alpini dello sparuto plotone rannicchiati al riparo e pronti al balzo per superare la zona battuta, passò per primo indenne l’ufficiale, poi un uomo con il treppiede della Breda, anche lui non fu beccato, poi balzò anche il porta arma, ma intanto i russi avevano aggiustato il tiro e quello fu colpito in pieno da una raffica, lo si vide abbattersi a terra prostrato dal dolore per le ferite subite, ma poi forse pensando in cuor suo che la sua arma era necessaria ai compagni, lo si vide fare uno sforzo, rialzarsi e di slancio percorrere i pochi metri che lo separavano dal suo ufficiale, arrivare da lui e stramazzare esanime ai suoi piedi, l’ignoto alpino aveva voluto fino all’estremo limite compiere il suo dovere.
In quella occasione, mi resi conto che è giusto il vecchio proverbio che dice “l’alpino ha sette pelli”. Dopo qualche tempo giunse l’avanguardia della colonna, che si rese subito conto di quanto duro era stato per noi il combattimento, che io mi permetto di considerare l’antefatto della battaglia di Nikolajewka. Se i russi quella notte avessero potuto passare indisturbati per Arnautowo sarebbero riusciti ad impegnare il grosso della colonna acquartierato più indietro, sacrificando ancora altre nostre forze, che non sarebbero state più valide per la grande battaglia che ci attendeva per il giorno seguente.
Gli stessi uomini di Arnautowo la mattina seguente, seppure assonnati, stanchi, affamati e sfiniti, ripresero la marcia. A Nikolajewka, vari furono i tentativi fatti dai battaglioni alpini per aprirci un varco, noi artiglieri attendevamo ordini nei pressi, dove si trovava il generale Reverberi valoroso comandante della Tridentina. Questa massa multiforme di uomini in trepida attesa, era desiderosa di dare un valido apporto all’azione di sfondamento che era in atto.
Ricordo che il nostro cappellano, levatosi in mezzo a noi, ci pregò di rivolgere un pensiero al Signore, perché poi ci avrebbe assolto tutti insieme, prima di entrare nella fornace che ci attendeva. Fu commovente sentire quelle parole e vederci accomunati nel rivolgere un pensiero a Dio e alle nostre famiglie, che non sapevamo se avremmo più rivisto.
Poi su invito del nostro generale, salito su un semovente tedesco, al grido “Avanti Tridentina!” ci buttammo allo sbaraglio. Nel declino che precedeva il terrapieno della ferrovia, si vide allora scendere una marea di uomini curvi, protèsi nell’attacco e contro la quale i russi sparavano con tutte le armi a loro disposizione. Nell’ammasso grigioverde di uomini che scendevano verso la bolgia del combattimento, che si svolgeva vicino al terrapieno della ferrovia, si abbattevano sempre più fitte le granate; al loro arrivo, dopo lo scoppio, si creava un vuoto nelle file avanzanti, che subito era ricolmato dagli uomini che seguivano.
Solo poco era rimasto dei reparti organici che procedevano davanti, il resto seguiva con coraggio i reparti combattenti, nella convinzione di poter dare un valido apporto, che sarebbe servito a farci vincere anche quella battaglia. Penso che i russi, visto che con l’intenso fuoco di tutte le loro armi non riuscivano a fermare tale marea, ad un certo punto abbiano avuto paura e si siano ritirati.
La sera stessa fuori del luogo dove avevamo trovato ricovero per la notte, vidi passare un alpino del Battaglione Vestone, che era fratello di un sergente maggiore del nostro reparto, lo chiamai e lo pregai di fermarsi; così avrebbe potuto salutare suo fratello, lo accompagnai fino a lui ed i due fratelli così passarono la notte insieme.
La mattina seguente, mentre il nostro reparto era schierato per la partenza, passarono davanti a noi alcuni alpini del Vestone, i quali dissero al nostro alpino: “vieni via con noi perché il tenente ti cerca, se non ti vede ti darà per disertore”, per quanto lo esortassimo a restare con noi il giovane, spinto dal senso del dovere, partì insieme a quegli uomini, e da quel momento non diede più sue notizie, mentre il fratello artigliere uscì con noi dalla sacca e rientrò sano e salvo in patria.