ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 64

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Sottotenente Giacomo de Sabbata
255ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

A Nikolajewka, nella notte del 26 gennaio, la luce improvvisa e violenta di un petromax disegnò sulle pareti di un’isba le ombre degli ufficiali del Val Chiese che, in piedi davanti ad un rozzo tavolino, ricevevano dal comandante del battaglione, tenente colonnello Chierici, gli ordini per proseguire il ripiegamento.

Il 6^ Alpini, nelle primissime ore del mattino, doveva riprendere il movimento in direzione ovest. Il Battaglione Val Chiese doveva seguire il Vestone nell’ordine di marcia. In previsione di dover sostenere ulteriori combattimenti, il comandante del Val Chiese disponeva che tutte le slitte con i feriti gravi (circa sessanta) fossero riunite in un’unica colonna marciante in coda al battaglione stesso.

Costituivano il reparto un ufficiale comandante, un ufficiale medico, un sottufficiale, dieci alpini di scorta con due graduati, i conducenti dei ventitré quadrupedi per il traino delle dieci slitte comuni e della slitta ambulanza chiusa, con due barelle, assegnate al reparto. Gli ufficiali prescelti, il sottotenente Giacomo de Sabbata, detto il “griso” e il tenente medico Piero Redaelli della 255ª Compagnia, al termine del rapporto si guardarono per un attimo negli occhi, poi si strinsero la mano senza dire parola: si erano perfettamente compresi.

Settentrionali di origine, oltre ad essere entrambi alpini di buona razza, rotti a tutte le fatiche della specialità, erano anche molto affini per carattere e per sentimenti. Alle prime luci dell’alba del 27, il 6^ Alpini in testa ai reparti della Divisione Tridentina, nella quale era inquadrato, riprese regolarmente la marcia verso ovest, dopo aver superato qualche sporadica resistenza alla periferia del villaggio.

La velocità di marcia della colonna dei feriti, ridottissima a causa delle disastrose condizioni della pista, dei frequenti ostacoli e del carico delle slitte, fece però perdere alla colonna stessa, nel corso della giornata, ogni contatto non solo con il battaglione e con il reggimento, ma anche con la retroguardia della divisione, esponendola ai rastrellamenti delle truppe russe, come lo erano i residui inefficienti delle altre unità che seguivano la Tridentina nel ripiegamento.

E anche ai colpi di mano dei partigiani che apparivano improvvisamente, sparavano sulla colonna con i mortai dai loro slittini tirati da velocissimi cavalli, svanivano, poi, nell’allucinante distesa della steppa come fantasmi di una tragica fiaba. Il “griso” e l’ufficiale medico da un pezzo avevano compreso di dover contare unicamente sulle esigue forze dello sparuto gruppo di uomini a loro disposizione. La marcia continuò anche se di viveri non si parlava più, se i quadrupedi, per l’eccezionale rigore del clima e per la mancanza di foraggio, stentavano a tirare le slitte, si abbattevano sfiniti, rendendo sempre più difficile e precario il trasporto di quel carico dolorante.

Alla quotidiana insidia nemica che veniva dalla steppa, si aggiunsero i mitragliamenti dei caccia russi che non davano tregua. I feriti venivano, di sera in sera, scaricati dalle slitte e ricoverati nelle isbe, spesso strappate alla massa degli sbandati che non conoscevano legge, erano medicati con mezzi di fortuna dal valoroso ed instancabile tenente medico che aveva esaurito lo zainetto di sanità e faceva miracoli, sfruttando ogni possibilità, sino a strappare le camicie degli uomini validi per fare bende e filacce. Mentre gli alpini della scorta sorvegliavano con i conducenti, nelle obbligate soste notturne, quadrupedi e slitte per impedire che venissero rubati, vigilavano pronti ad ogni evenienza, prodigandosi oltre l’estremo limite di ogni umana possibilità.

Zenaro, il mulo di punta della slitta ambulanza che l’alpino Bolpagni sosteneva per la cavezza incitandolo con la voce arrochita quando lo sentiva cedere alla fatica, puntava le zampe nella neve con le sue ultime forze, il muso quasi incollato sopra una spalla del sergente maggiore Paoletti che marciava in testa al reparto, dietro al suo ufficiale. Quale giorno e quale ora fosse in quel momento nessuno, forse,) sapeva con precisione, perché la nozione del tempo non esisteva più, dissolta tra cielo e steppa che si fondevano all’orizzonte in un opaco grigiore senza fine: erano ancora vivi, camminavano ancora, questo bastava.

Ricordavano soltanto che il caccia russo era balzato dal fondo della balka contro il cielo con un’impennata che aveva sorpreso tutti e, descritto uno stretto cerchio, si era avventato in picchiata contro la colonna, sparando raffiche di mitragliatrice e spezzonando. Si era, poi, dileguato lasciando dietro a sé un mortale silenzio. Il mulo Zenaro, con il petto squarciato da una raffica, aveva agitato convulsamente le zampe anteriori nell’aria, poi era stramazzato a terra proprio sull’orlo della balka, trascinando nella caduta il mulo a stanga e la stessa slitta ambulanza che, rimasta in bilico per qualche istante, stava per capovolgersi e precipitare con i feriti che trasportava, allorché era avvenuto l’incredibile.

Il tenente medico Redaelli, con un balzo veramente acrobatico, impensabile in un uomo già tanto duramente provato come era stato lui dalle aspre vicende precedenti, si era gettato senza esitare sotto al pesantissimo slittone e ne aveva impedito la caduta, puntellandolo con le spalle, mentre il caccia russo ritornava alla carica e si accaniva a mitragliare la colonna.

Il sergente maggiore Paoletti, vista la situazione disperata, non aveva esitato un attimo, a sua volta, ad accorrere con gli alpini della scorta, riuscendo a tirare fuori dall’ambulanza i feriti e a porli in salvo sulle altre slitte. Il mulo a stanga era stato ricuperato dopo molti sforzi, ma la slitta ambulanza era precipitata nella balka, sfasciandosi. La marcia verso l’orizzonte era stata, poi, ripresa senza che si dovessero lamentare perdite umane. La colonna, con tutti i feriti presi in consegna a Nikolajewka, raggiunse il reggimento e il battaglione a Lugowoj il 2 febbraio, nelle prime ore del pomeriggio.

I feriti passarono dalle slitte alle autoambulanze che li attendevano per ricoverarli negli ospedali delle retrovie; gli uomini della scorta e i conducenti, con il sergente maggiore Paoletti ed i graduati, stremati di forze e in pietose condizioni, rientrarono ai loro reparti. I due ufficiali conclusero la loro tragica vicenda allo stesso modo con cui l’avevano iniziata: con una semplice stretta di mano, senza dire parola. “Ciao, Piero.” “Ciao, “griso”.

Tenente medico Piero Redaelli
255ª Compagnia, Battaglione Val Chiese, 6^ Reggimento Alpini

Nikolajewka era alle nostre spalle da poche ore, la marcia a ovest continuava come sopra un gigantesco taboga steso dal destino innanzi ai nostri piedi. La sera del 27 gennaio arrivammo ad un villaggio di poche isbe, sperdute nel fondo di una vasta depressione che richiese un’aspra fatica per la ripidità del terreno, obbligandoci a vere acrobazie per evitare che slitte e muli si rovesciassero con il loro carico dolorante di feriti e di congelati.

Avevamo lasciato Nikolajewka verso l’alba, seguiti dai razzi colorati russi che illuminavano il cielo bigio, e dalle ultime sventagliate di parabellum, dai radi colpi di mortaio che si perdevano ai margini della colonna. Avevamo caricato sulle slitte, che si erano potute raccogliere nell’immane trambusto che dominava il villaggio, la maggior parte dei feriti del battaglione in condizione di essere trasportati, abbandonando purtroppo nelle isbe quelli più gravi per i quali non c’era più niente da fare e per i quali ogni più lieve scossa avrebbe significato inutili sofferenze. Duro e tristissimo dovere, dovere inumano, ma dovere, necessità di guerra.

Avevamo camminato per tutta la giornata, arrancando nella neve della pista simile al solco lasciato da una scia di bastimento nel mezzo dell’oceano, ma le difficoltà della marcia ci sembravano più leggère. Andavamo avanti sorretti unicamente dalla speranza di essere oramai giunti al termine dei nostri patimenti, all’uscita dalla sacca, di avere la patria e le nostre case a portata di mano: e questa allucinazione collettiva ingigantiva ad ogni passo, era la molla di ogni nostro pensiero, di ogni nostra azione, ci rendeva quasi allegri in tanto flagello, in tanta desolazione.

Ad un certo punto incontrai don Pierino, il cappellano del nostro battaglione. Era tutto barba, un casco di pelo naturale nel quale vi luccicavano gli occhi vividissimi, come due capocchie di spillo. Era isolato, con il suo fido attendente, e voleva raggiungere il battaglione nella colonna divisionale con la quale noi avevamo perduto il contatto da molte ore. Parlammo dei combattimenti sostenuti, della sanguinosa battaglia del giorno prima, delle nostre perdite molto gravi in alpini e ufficiali.

Ricordammo, tra i tanti, il generale Martinat, caduto in un assalto, alpino tra gli alpini, il colonnello Calbo, caduto sui pezzi delle sue batterie che sparavano a zero in prima linea, il capitano Frugoni, immolatosi in un ennesimo assalto alla testa dei pochi superstiti della sua compagnia, il tenente Ferroni, falciato da una scarica di parabellum mentre, unico superstite del suo plotone, asserragliato nella stazione ferroviaria del villaggio, sparava gli ultimi colpi di un fucile mitragliatore.

E Pilade Gabrielli? Il caro Pilade era il più giovane ufficiale del battaglione. Sembrava un ragazzino. Si era sposato prima di partire per la Russia ed era venuto con la sposa a Torino per farla conoscere ai suoi colleghi. Fu un incontro che aveva lasciato in tutti noi una viva commozione per la giovanissima età degli sposi (neanche quarant’anni in due) e per la circostanza nel quale era avvenuto: la partenza dello sposo per la steppa. Era stato un atto di amore profondo e di viva speranza che aveva legato due vite oltre ogni umano limite.

Al fronte Pilade aveva avuto la lieta notizia che gli era nata una figlia. Parlava della sua bambina con entusiasmo, con gioia, con emozione. “Capisci, dottore” mi diceva “io devo ritornare per forza perché mia figlia mi aspetta. Non posso stare qui.” Il ragazzino è caduto da eroe alla testa del suo plotone lanciato nella fornace di Nikolajewka, è caduto da gigante dopo avere validamente contribuito alla vittoria delle nostre armi.

Don Pierino ed io avevamo le lacrime agli occhi ricordandoci di lui, della sua bontà d’animo, della sua saggezza, del bene che voleva ai suoi soldati che lo ricambiavano anche se avevano il doppio degli anni suoi, dell’amore per la sua Italia alla quale aveva donato la vita. Don Pierino scomparve nella massa degli sbandati che premevano da ogni parte. Il freddo intenso (eravamo certamente a meno quaranta) mi fece accartocciare lo stomaco che da giorni era quasi vuoto. Mi era rimasta una scatoletta di latte condensato per i casi di emergenza: la divisi con il tenente de Sabbata, mio compagno di viaggio. Poi riprendemmo in silenzio il cammino nella steppa che all’orizzonte si fondeva con il cielo in un opaco grigiore.

Caporale Egidio Fachin
Compagnia Comando, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Il 26 gennaio ’43 mi trovo con il mio reparto ancora organicamente unito; non è ancora chiaro il giorno, spariamo con i pezzi da 75/13 sulla cittadina, davanti a noi sono gli alpini che attaccano per rompere l’ultimo accerchiamento. Intorno a me scoppiano fitte le granate e la neve spumeggia per le pallottole provenienti dai russi asserragliati nelle case del villaggio.

Mi guardo intorno trasognato, completamente incosciente, i miei compagni che erano a me vicini per un raggio di una trentina di metri giacciono sulla neve feriti, urlanti o gementi. Due fratelli di Brescia che mi erano particolarmente amici caddero ai miei piedi fulminati, io solo rimasi in piedi illeso in mezzo a quell’inferno; non mi pareva vero, mi sembrava sognare e impazzire.

La battaglia intanto infuriava, ad un certo momento gli alpini improvvisamente indietreggiarono riversandosi su di noi determinando una grande confusione; i russi avevano avuto un momento di sopravvento, era la nostra fine. In breve fortunatamente la situazione ritornò quella di prima. La battaglia continuò per tutto il giorno e soltanto sul calar della sera i russi furono costretti a cedere e tutta la massa di nostri soldati si riversò nelle case; io andai oltre pernottando in un villaggio di cui non seppi mai il nome, ove ritrovai i miei compagni perduti, Antonio Zagni da Brescia e Fausto Milesi da Bergamo.

Capitano Luigi Miglietti Comandante 76ª Compagnia Anticarro, 2^ Reggimento Artiglieria Alpina

Nell’inverno del 1942 comandavo la 76ª Batteria Anticarro della Divisione Tridentina. La batteria – 4 ufficiali, 120 artiglieri, 6 cannoni anticarro da 75/13, 6 mitragliatrici Breda – era schierata sulla linea avanzata del Don. Avevo assunto il comando della sezione di centro, quella posta a difesa della cosiddetta “porta” di Belgoroje. Abbiamo passato ottobre, novembre e dicembre tranquilli; qualche azione di pattuglia, niente di eccezionale da ricordare salvo le salve di katiuscia che mi hanno sempre dato un profondo senso di impotenza e di angoscia.

Sull’imbrunire del 15 gennaio 1943 ho ricevuto l’ordine di ripiegamento. L’ordine era di battere eventuali infiltrazioni di carri armati e fanteria russa segnalata in movimento verso Podgornoje. Si stava quindi chiudendo alle nostre spalle il primo anello, il primo accerchiamento. Era la ritirata. La mia sezione con una ventina di uomini, 2 cannoni, 2 mitragliatrici aveva ricevuto per gli spostamenti 2 trattori Spa, macchine fortissime che non ci hanno mai dato noie.

Tutte le munizioni possibili al sèguito, massima dotazione di nafta, viveri per cinque giorni, niente scorte di indumenti, coperte, teli da tenda. Eravamo stracarichi di munizioni ma in definitiva con una quarantina di colpi per pezzo perché era materialmente impossibile caricarne altri, avevamo i serbatoi pieni di nafta ed un fusto da 200 litri posto sul sedile posteriore del trattore. I soldati sedevano sull’affusto del cannone, altri appesi alle fiancate del trattore con i piedi sui predellini, senza poter fare alcun movimento, con il freddo che tutti sanno e che noi ricordiamo con sgomento.

Il 18 sera ho ricevuto l’ordine di portarmi a Podgornoje e chiudere la colonna della Tridentina che ripiegava verso Opyt. L’ordine era di ritardare il più possibile l’incalzare dei carri russi lasciando a me la scelta della località dove costituire il caposaldo a sbarramento.
Intanto le altre due sezioni della mia batteria erano già in marcia, disposte lungo la colonna in ritirata.

Alle spalle di Podgornoje si eleva il dosso di una balka che degrada rapidamente su di un fossato poco largo, con sponde alte, attraversato da un ponte in legno. Ricordo la rampa di strada in rapida salita sulla balka, completamente esposta al tiro di chi fosse giunto a Podgornoje. Erano poche centinaia di metri, ma molto, molto esposte. Mentre vedevo allontanarsi la coda della colonna ho provveduto a fare ammucchiare attorno al ponte che si trovava fra il paese e l’inizio della salita, quanti più autocarri potevo; autocarri carichi di nafta, munizioni, scorte, e che erano stati abbandonati perché non erano in grado di seguire gli alpini sulle piste innevate.

Avevo intanto mandato il secondo pezzo con le mitragliatrici in alto per proteggere il nostro ripiegamento ed ho atteso con il primo pezzo l’arrivo dei russi che non si sono fatti attendere molto. Il paese era tutto a fuoco, i tetti in paglia bruciavano con strani crepitii innalzando al cielo una colonna di scintille che illuminavano in rosso la neve ed il cielo di Podgornoje. Era uno spettacolo che avrei rivisto più volte durante la ritirata.

Quando ho visto numerosi russi affannarsi attorno agli autocarri ed alcuni carri aprirsi il varco in mezzo ad essi per lanciarsi all’inseguimento della colonna, ho aperto il fuoco ed è stato il caos. Caos che mi ha permesso di coprire in tutta sicurezza la rampa in salita che tanto temevo. Poco prima di Opyt ho raggiunto la colonna ed ho trovato la mia seconda sezione (tenente Pedassi) e la 45ª Batteria del Gruppo Vicenza schierati, unitamente a reparti alpini, a difesa del paese. Ho ricevuto l’ordine di proseguire subito per Postojalyi dove il Verona attaccava ma non riusciva a passare. Sono giunto tardi, il Verona ripiegava, i russi contrattaccavano.

Abbiamo aperto il fuoco con i cannoni contro autoblinde russe, non so se le abbiamo colpite, comunque non sono più venute avanti. Poco dopo hanno sparato i lanciarazzi tedeschi, noi eravamo in mezzo fra le nostre linee e le linee russe ed ho rivissuto le emozioni provate quando sparavano le katiusce, ma questa volta non eravamo noi i bersagli.

Al mattino mi veniva comunicato che la mia seconda sezione e la 45ª del capitano Vinco erano state travolte da un attacco in massa di carri russi; era la prima tragica notizia e la dimostrazione che una sezione poteva fare ben poco contro un attacco in massa. Ma dovevamo dare, o tentare di dare, un po’ di aiuto a tutti e la colonna era lunga circa una quarantina di km; non si poteva far altro che combattere per sezioni.

Il giorno dopo, sulla strada di Nowo Gorlowka è andata persa la terza sezione e mi sono trovato con due cannoni a tentare di fare qualche cosa in aiuto ai miei compagni. Da questo momento, mi pare fosse il 21 gennaio, non ho più ricevuto ordini; dovevo agire di iniziativa intervenendo dove si manifestava l’attacco dei carri o dove si incontrava la resistenza più forte. E’ incominciata la mia corsa avanti e indietro lungo la colonna, dove sentivo sparare, dove sentivo chiamarmi. Credo di non aver bisogno di ricordare ai miei compagni il grido “Miglietti avanti”. Era terribile per me perché sovente, se non quasi sempre, arrivavo in ritardo, i carri erano già passati lasciando la loro tragica scia di morti falciati dalle armi di bordo o travolti dai cingoli.

L’attacco dei carri era improvviso, arrivavano in piena velocità dai boschetti o da dietro alle isbe dove in agguato attendevano il passaggio della colonna, sovente si scatenavano contro le salmerie, gli sbandati, la massa pressoché inerme che seguiva i reparti da combattimento. Ed era la strage. La scarsa visibilità dovuta ad una quasi permanente foschia, favoriva l’attacco e il repentino scomparire nei boschetti e nelle balke, mentre io trovavo difficoltà a risalire la colonna sulle piste intasate di uomini, salmerie, muli, slitte ecc. Ricordo combattimenti contro carri a Nowo Gorlowka, Scheljakino, Malakijewa: era un attimo, come arrivavano sparivano sollevando con i cingoli due altissimi baffi di neve.

A Scheljakino, un mio cannone, dopo un intervento, era talmente circondato di soldati morti travolti dai carri che ho dovuto purtroppo ordinare al capo pezzo sergente Partesana, di passare con il trattore sui poveri resti perché non potevamo smuovere i cadaveri come era sua intenzione fare. A trent’anni dal fatto giustifico questo ordine: ricordai al mio sergente che poco più in là altri alpini erano alle prese con i carri ed anche un solo istante poteva essere decisivo per loro, per la loro sorte. Ma è stato penoso dare un ordine simile.

Se la Tridentina avesse avuto più cannoni anticarro come i miei (fornitici dai tedeschi) molti alpini sarebbero ritornati alle loro case, perché non è mai mancato il valore e la determinazione nell’affrontare i carri; sono mancate le armi. Chi ha visto le batterie alpine affrontarli con i loro obici da 75/13, perfino con i loro piccoli 47/32 non può che ammettere che uomini simili, armati adeguatamente, avrebbero risolto vittoriosamente tante dure e difficili situazioni. Distruggere i carri era compito terribilmente difficile per loro, non per noi che disponevamo di veri mezzi anticarro.

Ricordo che una volta ho inseguito due carri che dopo la solita azione sulla colonna si allontanavano verso un boschetto. Avevano già un buon vantaggio su di noi, siamo riusciti a farci sotto ed uno l’abbiamo fulminato da poche decine di metri mentre il secondo l’abbiamo colpito che era già lontano che quasi spariva alla nostra vista. Questo è successo non lontano da Malakijewa, il 23 o 24 gennaio. Vedevamo intento, di giorno in giorno, diminuire la nostra scorta di nafta, ed era allora la ricerca affannosa di isba in isba di un po’ di nafta, petrolio, olio, qualunque cosa che potesse alimentare i trattori e prolungare il loro impiego.

Di notte accendavamo il fuoco sotto i motori per tenerli caldi e poterli fermare un po’, ma la nafta non si trovava. Avevamo già abbandonato un trattore ed un cannone perché avevamo solo 6-7 colpi in tutto e pochissima nafta, ma appena dopo Arnautowo è mancata la nafta anche per quest’ultimo pezzo. Era la fine della batteria. Ho lasciato il sergente Partesana con l’ordine di attendermi per qualche tempo perché volevo raggiungere i due semoventi tedeschi che sapevo in testa alla colonna e chiedere a loro un po’ di nafta, sempre che ne avessero.

Ho raggiunto così, con quattro o cinque soldati, la testa della colonna ferma davanti ad un paesone, disposto ad anfiteatro, in leggera salita dietro ad un trincerone della ferrovia. Dal paese giungevano sulla colonna colpi di mortaio e di cannone, mentre dentro al paese stesso era un crepitio continuo di mitragliatrici. Era Nikolajewka. Il generale Reverberi, nel quale mi imbattei, mi disse che non avevano nafta nemmeno loro, che non c’era altro da fare che attaccare e passare a Nikolajewka con i mezzi che avevamo, là sul momento. Diceva a tutti che era l’ultimo sbarramento, che al di là c’era l’Italia. Questo era il suo incitamento.

Io ero là, indeciso sul da farsi, senza cannoni, senza la mia batteria; non sapevo cosa fare. Vicino a me ho sentito un alpino gridare in piemontese “forsa fieui, dumié na man”. Era un alpino della Cuneense che incitava uno sparuto gruppetto di alpini ad entrare nel paese, per fare qualche cosa, per aiutare i compagni che già combattevano. Così ci siamo scossi e siamo andati avanti, un gruppetto di uomini, alpini bergamaschi e piemontesi, senza ordini, senza comandanti, uniti dallo stesso impegno di fare qualche cosa, di aiutarci a vicenda per uscire da quell’inferno.

E siamo andati avanti così, direi allo sbaraglio, all’arrembaggio. Siamo entrati in una piccola valletta che si trova allo sbocco di un sottopassaggio della ferrovia e di isba in isba siamo arrivati in una piazza dove c’era un fabbricato in muratura, credo una scuola. Dall’altra parte della piazza, posta in leggera salita, vedevamo una chiesa; i russi sparavano con mitragliatrici, fuciloni anticarro, piccoli mortai, intanto una loro colonna stava giungendo in paese.

Era impossibile restare, abbiamo ripiegato rifacendo la stessa strada e ci siamo fermati dietro ad un piccolo dosso; i russi erano vicinissimi, a poche decine di metri, non venivano più avanti, sparavano raffiche di mitra ma non si muovevano più. Poco più in basso, sulla sinistra vedevamo la stazione ferroviaria avvolta in un uragano di colpi; dietro il trincerone le nostre batterie sparavano e noi vedevamo le vampate dei colpi in partenza. Intanto aerei russi sono scesi a mitragliare e spezzonare la massa ferma dietro al trincerone.

Abbiamo visto una colonna di alpini arrivare veloce e risalire verso il paese avvolgendolo sulla sinistra, passando più a sinistra della stazione ferroviaria. Intanto dietro al provvidenziale fosso rimpiangevo le bombe a mano e le raffiche di mitra che avevo sparato così, per farmi coraggio, per tenere i russi con la testa bassa, perché ero rimasto con una sola bomba e con pochissimi colpi di mitra. E così quelli che mi erano vicini. Ma i russi davanti a noi non si muovevano più, anche loro soggiogati da quanto vivevamo spettatori ed attori di una lotta belluina, combattuta alla vecchia maniera, uomini contro uomini.

Poi ricordo l’attacco della massa di alpini che attendevano da ore, al di là del trincerone. Non era un attacco secondo i canoni della strategia e della tattica militare, era l’avanzare impetuoso, irrefrenabile di una massa di uomini, muli, slitte, era una marea che saliva, sparando, urlando, imprecando, in mezzo a scoppi, raffiche di mitragliatrici, in un fragore che saliva, investiva tutti, una cosa che non so descrivere ma che ho ancora nelle orecchie, e non è un bel ricordo.

Ed i russi si ritiravano, e noi dietro, senza sapere, senza capire nulla. Avanti, avanti, e ci siamo ritrovati nella piazza, vicini alla casa in muratura. Là sono stato raggiunto dalla massa; era tutto finito. Qualche colpo, qui e là, qualche raffica e poi una calma, una calma strana, indescrivibile come è indescrivibile il fragore dell’attacco. Avevo perso il contatto con l’alpino della Cuneense; mi aveva detto che era di un paese fra Paesana e Crissolo, e che dovevamo vederci da borghesi perché non era possibile non ritrovarci più, dopo aver vissuto insieme ore simili.

Questa è stata la mia Nikolajewka; il combattimento di un piccolo gruppo di alpini che è entrato nel vivo del combattimento, senza ordini, senza essere inquadrato in reparti, spinto dallo slancio di aiutare a fare qualche cosa per la salvezza di tutti. Non sapevamo niente, non sapevamo del Val Chiese impegnato fin dalle prime ore del mattino, non sapevamo delle batterie del Bergamo, del Vicenza, del Valcamonica che sparavano a zero, del Tiràno e del Vestone e dell’Edolo che manovravano per piombare sul fianco del nemico, non sapevamo nulla di quelli che erano con noi, sulla nostra destra, sulla sinistra. Il nostro orizzonte era molto limitato e non sapevamo dove andare a chiedere ordini, non sapevamo nulla di nulla.

Sapevamo solo che altri alpini combattevano con noi la loro e nostra dura lotta per uscire da quell’inferno. A Crissolo una lapide ricorda in lungo elenco gli alpini della valle che non
sono tornati, che sono rimasti in Russia. Ho letto più volte i nomi, uno per uno, cercando nella memoria il nome del bravo alpino che a Nikolajewka mi ha tolto da ogni tentennamento e giustificazione verso me stesso, artigliere senza cannoni, obbligandomi con il suo esempio a continuare la lotta con i pochi mezzi che avevamo. E voglio ricordare con questo gruppetto tutti gli altri, e sono stati tanti, che hanno combattuto come noi, spinti dalla loro dignità di uomini perché così voleva la tradizione alpina.

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