a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Sottotenente Decio Camera
58ª Compagnia, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini
Nikolajewka: io c’ero, si, ma su una collina fra una disordinata moltitudine di slitte cariche di soldati feriti in precedenti combattimenti; fra sbandati di vari reparti italiani, tedeschi, rumeni ed ungheresi. Ero un ferito ormai inerme in attesa, in quel pomeriggio del 26 gennaio, che gli alpini della Tridentina ancora validi trovassero la possibilità di forzare il blocco russo oltre la ferrovia. A Nikolajewka io non ho potuto che attendere il sacrificio di altri, per questo con non poco timore mi appresto a raccogliere qualche ricordo ormai impallidito dal trascorrere di tanti anni.
Ricordo il mio arrivo al Battaglione Verona, ben fiero del mio grado di sottotenente. Sono partito dall’Italia nell’autunno del ’42 con i complementi dalla val di Fiemme, carico di entusiasmo; ma solo pochi giorni di viaggio verso le pianure polacche, su un treno lentissimo, mi avevano non poco smorzato la fiducia nella nostra causa. Vedevo lungo la linea ferroviaria la “retrovia” con le sue amarezze. Città sconvolte e soprattutto civili, uomini e donne di ogni età, denutriti e vestiti miseramente, addetti a lavori pesanti sotto la severa sorveglianza di una guardia. Chi erano? Era questa la domanda che spesso si ripeteva fra noi.
Solo dopo qualche anno ho potuto comprendere il grande sacrificio di quella povera gente.
All’arrivo fui assegnato al Battaglione Verona, 58ª Compagnia. Lì ritrovai amici e non poca fiducia. Fu appunto con la 58ª che ebbi la possibilità di farmi una sufficiente esperienza. La nostra prima linea era un camminamento con un debole reticolato, più in là un dirupo ci divideva dal Don. Quante notti in ansia in attesa della pattuglia russa! E quanta soddisfazione dopo averla respinta!
Poi venne l’ordine di abbandonare tutto presso il Don, senza avere una precisa sensazione di quanto stesse accadendo. Infine l’attacco su Postojalyi, il 19 gennaio, con il completo sacrificio del Verona. Non mi è possibile descrivere quanto è accaduto quel giorno, fu un attacco disperato. Eravamo sotto il tiro continuo dei mortai e, più si serrava verso il nostro obiettivo, ogni alpino veniva bersagliato dalla fanteria russa che non riuscivamo a distinguere fra le case del paese. Penso proprio che non sia possibile raccontare di quel giorno, ogni sopravvissuto ha una sua visione personale, forse contrastante con altre, ma tutte raccontano.
Il ricordo più emozionante che per me rimane una sintesi di quella eroica ed anche inutile tragedia è di un alpino ferito alla testa appunto nell’attacco del 19 gennaio su Postojalyi. Ricordo che era nei pressi di una grande stalla, oltre questa vi era un avvallamento, poi il paese occupato dal nemico. L’alpino era seduto nella neve e si sosteneva con una mano, il suo viso era una maschera di sangue e si dondolava lentamente senza chiedere aiuto, senza
un lamento.
Forse non ne aveva più la forza, forse pochi minuti lo separavano dalla fine. Dopo Postojalyi, quanti pericoli abbiamo dovuto superare per il ritorno verso casa! Ogni giorno, ogni ora fino a Nikolajewka ed oltre. Ma sempre per me rimane nel cuore il ricordo di quell’alpino della 58ª, come un’immagine sacra alla quale va la mia preghiera, per lui e per i suoi cari che per anni lo hanno atteso invano.
Alpino Luigi Marchesini
113ª Compagnia Cannoni, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini
Il giorno 26 gennaio 1943, lo ricordo bene quel giorno. Io ero con gli sbandati perché il mio battaglione era stato distrutto (o quasi) il giorno 19. All’alba io mi trovavo su di un ridosso con ai lati boschi fitti di pini o querce (non ricordo bene) di fronte si vedeva un paese grande in salita, mi pare che c’erano delle torri o ciminiere, eppoi più tardi seppi che era Nikolajewka. Continuamente da quel paese arrivavano colpi di mortaio che facevano sempre centro perché eravamo in una grande massa di gente, tutti vicini l’uno all’altro.
Ricordo che una slitta di feriti, o congelati, a pochi passi da me è saltata in aria centrata in pieno da un colpo di mortaio, non so nemmeno io come sia rimasto illeso dopo essere stato scaraventato a terra dallo spostamento d’aria e da corpi che mi sono piovuti addosso. Durante tutta la giornata siamo rimasti lì senza andare avanti né indietro. Ricordo che ogni tanto arrivavano i caccia russi a mitragliarci. Noi ci buttavamo a terra solo quando mitragliavano; per i mortai non valeva neanche la pena, tanto i colpi venivano di continuo.
Ricordo che fra noi sbandati c’erano anche degli ufficiali di fanteria della Divisione Vicenza che cercavano di formare delle squadre per andare giù alla ferrovia, prendevano possibilmente quelli che avevano ancora qualche arma. Verso l’imbrunire io mi trovavo a 2-3 cento metri dalla ferrovia e tutti quelli più avanti di noi hanno incominciato a scappare verso di noi così anche noi siamo scappati verso il bosco. Ma poi come d’incanto si sono tutti girati e di corsa avanzando verso il paese.
Chi piangeva, chi chiamava forse per non perdersi dai compagni. Io e un mio compagno, Vittorio Gamberoni, (anche lui della mia compagnia) correvamo insieme verso il paese e passata la ferrovia, un ufficiale tedesco con la rivoltella in mano ci faceva cenno di prendere a spalle un ufficiale vestito di bianco, lui diceva che era camerata italiano, ma noi abbiamo visto che era tedesco. Era molto ferito.
L’abbiamo preso a spalle in due e l’ufficiale tedesco, sempre con in mano la rivoltella ci diceva: “Komm, komm”. Ma alle prime case l’ufficiale non l’abbiamo più visto, forse è rimasto ucciso senza che noi ce ne accorgessimo. Sparavano ancora dappertutto, noi stanchi sfiniti distrutti, con un uomo più morto che vivo a spalle, ci siamo diretti verso un gruppo di tedeschi che stavano per entrare in una casa, ma loro immaginando le nostre intenzioni hanno cominciato a gridare: “Raus, raus, cikail Deutsche Platz”. Via via fuori, qui è posto per i tedeschi.
Noi abbiamo tentato di spiegar loro in qualche modo che questo ferito era tedesco, ma loro non hanno voluto ascoltare niente, e ci hanno chiuso la porta in faccia, così noi abbiamo adagiato il ferito che ormai non dava più segni di vita sulla soglia della porta. Dentro il paese ho trovato due fratelli, miei paesani: “Marchesini anche loro” che non li vedevo da tutto il giorno e dubitavo molto della loro sorte. Invece li ho trovati salvi, e in più loro hanno trovato un sacchetto di tubi (pasta) che sarà stata 3-4 chili. Eravamo salvi. Abbiamo incominciato a mangiarla cruda, ma poi a furia di cercare abbiamo trovato una latta, come
quelle per la benzina, l’abbiamo pulita un po’”con la neve, e poi abbiamo acceso il fuoco e riempito di neve.
Ma quando era sciolta la neve, rimanevano tre dita d’acqua. Abbiamo faticato molto per trovare la neve un po’”pulita, perché Nikolajewka era diventata tutta nera dai colpi che ha ricevuto durante la giornata. Quando l’acqua era sufficiente e che presto bolliva, ecco la beffa! Il sacchetto era sparito. Ci siamo per un po’ guardati impietriti, smarriti: senza mangiare ancora per tutta la notte era morte sicura. Il mio paesano Valentino Marchesini, con una barba rossa a tutta faccia, mugugnando madonne e brandendo una sciabola, ha incominciato a frugare per trovare il lestofante, l’avrebbe sicuramente ucciso se l’avesse trovato.
Intanto si vedevano alcuni che rosicchiavano rape trovate in un bunker, ma quando siamo entrati noi non c’era più niente, e abbiamo visto 3-4 alpini che si contendevano un gatto che era anche lui dentro quella specie di cantina sotterranea, e sempre il mio paesano con la sciabola in mano, è saltato in mezzo a quella mischia (gridando da mettere paura) che il
gatto era suo, che l’aveva portato dentro lui, e poi il gatto gli era scappato. Così ci siamo impadroniti noi di quella bestiola e spellata alla meglio, l’abbiamo messa a bollire al posto dei tubi che poco prima ci avevano rubato.
Abbiamo bevuto noi tre, tutto quel brodaccio senza sale, e mangiata la carne. Se non c’era quel gattino forse io non sarei qui a scrivere questi tristi ricordi. Tutta la notte sono rimasto a Nikolajewka. Ricordo che noi tre, Marchesini e parecchi altri, siamo saliti in soffitta di quella isba per lasciare posto al pianoterra ai feriti. Noi tre Marchesini abbiamo lasciato Nikolajewka al mattino molto presto. Ricordo anche che prima di lasciare il paese ho visto il mio capitano, Virginio Liut. Anche lui stava per lasciare il paese, era coperto come noi di stracci, ma sopra il passamontagne aveva il cappello alpino.
Sottotenente Luigi Bressan
Compagnia Comando, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini
Era ancora notte, la notte sul 26 gennaio, quando ci rimettemmo in marcia. Le stelle ammiccavano luminose. Gli arti irrigiditi faticavano a trovare la cadenza giusta. Piedi e scarponi erano un solo blocco di ghiaccio. Le membra indolenzite chiedevano sonno; lo stomaco cibo. Marciavamo in silenzio, su colonne parallele. Noi, del Verona, eravamo in testa a quella di sinistra. L’aria fredda ci tagliava la faccia; il fiato si condensava in ghiaccioli sul pelo incolto che ci incorniciava il viso. A poco a poco il cielo illividiva e le stelle sparivano.
La neve soffice, nella quale affondavamo i passi, rendeva più faticosa la marcia. Salivamo un dosso e, prima di raggiungerne la sommità, il maggiore Bongioanni, comandante il battaglione, si staccò dalla colonna e chiamò a rapporto gli ufficiali. Ci guardammo in viso. Eravamo un drappello di disperati, malconci nelle divise, i volti segnati. Ma eravamo ancora pronti a tutto. Il maggiore ci disse che, oltre quel dosso, c’era una valle sul cui fondo correva la linea ferroviaria; al di là dei binari, sul versante opposto, c’era un paese. La strada per l’Italia passava di là e là c’erano i russi. Quel paese era Nikolajewka.
Il nostro compito, comunque, non era impegnativo (il battaglione era già stato duramente provato a Postojalyi e il suo organico ormai non superava, forse, quello di una compagnia. Le munizioni e l’armamento erano ridotti al minimo). Dovevamo solo svolgere una azione dimostrativa, di disturbo e di alleggerimento, mentre altri reparti del nostro reggimento, il 6^, e del 5^ Alpini, a ranghi meno ridotti, avrebbero sferrato l’attacco decisivo al centro e sulla destra dello schieramento.
Il maggiore affidò il comando dell’azione al capitano Enno Dona, comandante la 56ª, ci augurò buona fortuna e ci rimandò ai nostri uomini. Lo rivedemmo solo a sera. Per quanto già decimati, noi ufficiali eravamo ancora abbastanza numerosi: la 56ª, oltre che sul suo comandante Dona, poteva contare sui sottotenenti Da Ros e Longobardi; della 57ª erano validi, ch’io ricordi, i sottotenenti Bernasconi e Mori; della 58ª il tenente Burloni; con la Compagnia Comando eravamo Pessagno, io e un sottotenente del 2^ Artiglieria, di cui non ricordo il nome, già in servizio, in linea, presso l’osservatorio del nostro battaglione e rimasto con noi al momento del ripiegamento.
L’organico degli ufficiali della 113ª Compagnia Armi da Accompagnamento (che, disponendo di una batteria da 47/32, chiamavamo pomposamente “compagnia cannoni”) era quasi al completo, dal suo comandante capitano Liut, il quale per noi giovani durante i precedenti difficili giorni di ritirata era stato, più che un superiore, un padre e seguitò anche dopo a sostenerci col suo esempio di virile resistenza e con il suo affetto sincero, al tenente Roberto Cacchi, ai sottotenenti Butturini e Marini, mentre Lucrezi era rimasto comandato in linea, e poi fatto prigioniero.
Con noi c’era anche il sottotenente Gianni Cortellini, coi resti della Compagnia Comando Reggimentale. Gli altri erano feriti e ci seguivano su slitte attrezzate ad ambulanza o con altri mezzi di fortuna; alcuni a dorso di mulo. Purtroppo non pochi erano rimasti, “penne mozze”, sulle nevi di Postojalyi. Il loro ricordo era, e rimane, nei nostri cuori. Forse, dei presenti alla vigilia dell’ultima battaglia, ho dimenticato qualcuno. Ma, a distanza di tanti anni, il ricordo, pur vivido in tutta la sua crudezza per alcuni particolari, per altri è nebuloso e monco.
Noi del Verona eravamo tutti amici, indipendentemente dall’età, dal grado e dall’esperienza, accomunati da eguale amore e ammirazione per gli alpini e per le virtù della gente di montagna; noi, alpini di città. Per quanto mi riguarda, posso dire che molto più è stato quello che io (allora studente universitario e ancora “figlio di famiglia”) ho imparato dai semplici alpini, sul piano del carattere, delle lealtà, della generosità, rispetto a quel poco che non fossi io in grado di insegnare a loro, nonostante una mia presunta superiorità culturale e di educazione.
Mi furono indiscutibilmente maestri in quelli che sono i valori essenziali della vita e della condizione umana. Io spero solo di avere assimilato negli anni la loro mirabile lezione. Le parole del maggiore non mi avevano rassicurato. Nella loro ostentata tranquillità c’era qualche cosa che mi turbava. Ma eravamo in ballo e non restava che ballare. Raccogliemmo i nostri uomini e una volta di più constatammo quanto fossero pochi e male in arnese. Raggiungemmo la sommità della collina e ci fermammo a guardare, nella luce ancora livida del mattino.
Davanti a noi un declivio innevato degradava senza strappi. Sul fondovalle spiccavano nitidi e freddi i binari. Al di là gli edifici dello scalo ferroviario e, dietro ad essi, arroccato sulle pendici della opposta collina, un agglomerato di non trascurabile entità, che, al chiarore ancora incerto, si offriva tutto ai nostri occhi. Non una luce, non un segno di vita. Poteva sembrare deserto; ma quel silenzio immobile mi pesò dentro, cupo e terrificante, come un agguato.
Imprecazioni smorzate alle mie spalle mi fecero voltare il capo. Gli alpini guardavano il pendio che scendeva liscio e piatto, nudo come il palmo di una mano: non un albero, non una buca, non una piega su quel terreno, che da grigiastro cominciava a farsi bianco. Guardai d’istinto le nostre divise, che l’umidore di cui erano imbevute rendeva ancora più scure. Pensai alle sagome del poligono di tiro…
Avvertii nello sguardo e nel respiro dei miei uomini il momento dell’ansia, che mi oppresse più di quel silenzio, livido e greve davanti a noi. Avrei dovuto dir loro qualcosa; ma non me la sentivo di dire ancora bugie. Tante cose mi passarono in quel momento per la mente: dissi solo “Coraggio, muoviamoci” e mi avviai senza voltarmi, affondando fino al polpaccio nella neve. Camminavamo con circospezione, distanziati l’uno dall’altro, con gli occhi fissi al paese giù in fondo; ciascuno di noi ufficiali alla testa di una sparuta squadra: tutto quanto rimaneva di efficiente del Verona.
Misuravo con lo sguardo lo spazio che ci separava dal fondovalle e mi pareva enorme. In principio andò bene. Scendevamo in silenzio, quasi temessimo di richiamare l’attenzione di chi ci attendeva – se pure ci attendeva – nel villaggio. Ma quando fummo tutti ben visibili sul declivio, scure sagome in movimento contro sfondo bianco, si scatenò l’inferno. Fummo investiti all’improvviso da raffiche di mitraglia e da bordate di artiglieria. Una tempesta di ferro e di fuoco si abbatté su di noi fischiante e ululante. Vedevamo i bagliori sinistri dei colpi in partenza e subito sentivamo l’urlo dei proiettili.
La massa di fuoco che ci investiva era intensissima. E non c’era riparo. Era cominciata la battaglia di Nikolajewka per i resti del Verona. Avvertii un colpo secco al fianco destro, come di un sasso scagliato da una fionda. Contemporaneamente il caporale, alle mie spalle, gridò: “Sior tenente, mi hanno preso!” Traballò, ma ritrovò subito l’equilibrio e si mantenne saldo sulle gambe. Gli diedi una pacca: “Non è niente” gli dissi “cammina”. Il fianco non mi faceva poi gran male.
Quando finalmente giungemmo al fondovalle, ci trovammo al riparo dei fabbricati in mattoni della stazione. Li raggiungemmo d’un balzo e ci fermammo a ridosso del muro per prendere fiato e riorganizzarci. Mi volsi a guardare il declivio dal quale eravamo scesi. Era disseminato dei corpi dei compagni caduti. Di lontano sembravano mucchi di panni scuri abbandonati sulla neve. Il cuore mi batteva forte; ma non c’era tempo per la pietà. Altri vi avrebbero pensato.
Ci inoltrammo nel fabbricato deserto e ci affacciammo con cautela dall’altra parte, sul paese. Le pallottole entravano attraverso le finestre dai vetri rotti, rimbalzavano sulle pareti e sull’impiantito, costringendoci ad appiattirci contro i muri, negli angoli morti. Rispondevamo con parsimonia, lesinando i colpi, contando le cartucce che ci rimanevano in saccoccia.
Approfittando di una pausa, sbirciai fuori: mi rimangono nel ricordo un gruppo di isbe in un breve tratto pianeggiante, radi alberi più lontani, oltre i quali il terreno saliva e cominciava la collina tagliata alla base da una strada, parallela alla linea ferroviaria, che si addentrava a destra fra le prime isbe del paese. Due alpini appoggiarono un mortaietto Brixia sul davanzale, lo orientarono verso il gruppo di casupole davanti a noi. Uno lo tenne fermo, l’altro abbassò la leva e, con un debole schiocco, il proietto si slanciò traballando nell’aria. Il terzo colpo centrò il bersaglio; il piccolo obice scomparve nella paglia fracida del tetto, precipitò giù a mordere. La porta dell’isba si spalancò e ne uscirono di corsa alcuni uomini, che dileguarono verso il paese.
Davanti a noi, in quel momento non c’era nessuno. Balzammo fuori, superammo lo spiazzo scoperto e ci mettemmo al riparo delle piccole e basse costruzioni di legno, lungo la strada che saliva al paese. Frattanto Pessagno, con alcuni alpini, rendeva definitivamente inoffensivo un pezzo di artiglieria abbandonato precipitosamente dai russi, sorpresi dal nostro impeto, vicino alla stazione. Al di là delle case, dirette verso il centro di Nikolajewka passarono veloci alcune slitte cariche d’uomini. “I rinforzi!” gridò qualcuno: “arrivano i rinforzi!” Ma una scarica di fucileria, partita dalle slitte nella nostra direzione, troncò subito la speranza e ci fece appiattire sulla neve. Certamente erano reparti staccati, che andavano a rinforzare il grosso della truppa russa arroccata nel villaggio.
Tenendoci per quanto possibile al riparo delle isbe, balzando dall’una all’altra, schivando i colpi e rispondendo solo quando era strettamente necessario (le saccocce e i tascapane si alleggerivano anche troppo in fretta) seguimmo la strada che saliva verso la piazza. Ma i russi s’erano attestati in posizione favorevole, ci controllavano dall’alto e aumentavano il volume di fuoco. Ho ancora davanti agli occhi la figura di Da Ros, che – portatosi nel mezzo della carreggiata – la rivoltella in pugno, si slanciò avanti. Lo vidi come impennarsi e traballare. Si curvò quasi a raccogliersi in se stesso, a cercare l’energia necessaria per un altro balzo.
Con sforzo si rizzò ancora sul busto, ma le gambe non lo sostennero. Bernasconi gli fu vicino; lo sorresse, lo trascinò contro un’isba, gli fasciò la fronte. Ma non c’era più nulla da fare. Senza un grido, Da Ros ci aveva lasciati. Ora, a Nervi, un vialetto ne ricorda il nome: Eros Da Ros, medaglia d’oro, 1921-43. Eros Da Ros, studente genovese, è rimasto inchiodato ai suoi 22 anni. Lo vedo ancora, contro quella parete di legno, la testa arrovesciata, la fronte coperta da una candida benda, che si tingeva di sangue. E accanto Bernasconi, che inutilmente cercava di soccorrerlo.
I russi s’erano riorganizzati, dopo il nostro assalto, e non mollavano. Il volume di fuoco era sempre molto intenso. Raffiche di mitraglia e di fucili automatici ci investivano ora da due lati. Dovemmo cercare riparo dietro le isbe, dal lato della ferrovia. Ci ritrovammo insieme Burloni, Cortellini, Longobardi, Bernasconi ed io. Mi guardai intorno. Con noi c’erano ancora pochi alpini. “Se qualcuno venisse a darci una mano” pensavo.
La cresta della collina dalla quale eravamo discesi, sotto il fuoco dei russi, brulicava di piccole sagome scure. Mi pareva lontana e irraggiungibile. Quello che restava della Divisione Vicenza era ammassato lì sopra, dietro gli ultimi pezzi da 75/13 che i muli dei nostri cugini artiglieri erano riusciti a trascinare fin là, perché sparassero gli ultimi colpi. “Possibile che non vedano; che nessuno venga ad aiutarci… Se avessimo rinforzi, anche adesso, anche in questo momento, ce la faremmo… C’è stato promesso l’appoggio dell’aviazione, pensavo: perché tarda tanto?”
Le ore trascorrevano inesorabili. Il sole era salito sull’orizzonte e cominciava già a curvarsi oltre Nikolajewka. Stringevo tra le mani un vecchio ’91, che mi ero fatto dare da un conducente prima di scendere. Improvvisamente, un colpo secco mi piegò le braccia; mi ritrovai fra le mani la cassa del fucile spezzata in due. Istintivamente mi volsi e, al di là della strada, vidi spuntare dietro l’angolo di un’isba un colbacco e la canna di un fucile che mi cercava. Spiccai un salto e, contemporaneamente, avvertii il morso del colpo alla coscia.
La falda del cappotto a pelo e il pantalone sinistro pendevano a brandelli. Miracolosamente, ero quasi incolume. Ancora non riesco a capire come la pallottola fosse esplosa – perché di pallottola esplosiva si trattava – al solo contatto del cappotto e come solamente una piccola, una minuscola scheggia metallica mi fosse penetrata nella carne. Longobardi si accasciò al suolo senza un gemito, fulminato da un colpo alla tempia sinistra.
Il cerchio di ferro e di fuoco si stringeva attorno a noi. Il sole compiva il suo corso; le ombre che già s’erano impicciolite sotto di noi, cominciavano ad allungarsi dall’altro lato dei nostri scarponi. E i rinforzi non arrivavano. Mi sentivo la gola arida e tutto svuotato dentro. Pensieri inutili mi passavano per la testa e non mi rendevo conto di come fosse potuto trascorrere tanto tempo. Chissà come andavano le cose negli altri settori! Noi eravamo qui, insieme ai nostri compagni morti, per un’azione di alleggerimento…
Chissà dov’era il mio attendente, Ferruccio Zamperini di Domegliara, con la sua voce chioccia e le sue spalle curve… Chissà dov’era il caporale che al mattino, sul declivio battuto dalla mitraglia, aveva urlato “Sior tenente, mi hanno preso!”. Non avevamo più caricatori, non avevamo più bombe a mano. Avevamo solo morti e feriti. L’azione diversiva era terminata. Lentamente, incuranti del fuoco, alla spicciolata ritornammo verso la ferrovia.
Mi accorsi di essere solo. Attraversavo lentamente lo spiazzo che mi separava dal fabbricato rosso della stazione. Affondavo i piedi nella neve soffice e alta; stringevo tra le mani la cassa spaccata del vecchio ’91. Camminavo lentamente e ogni passo mi costava uno sforzo. Sulla mia destra, distante forse un centinaio di metri, mezzo nascosto dal gradino di un’isba, un russo stava allungato sulla neve, il gomito sinistro bene appoggiato a terra, il fucile imbracciato a regola d’arte, come fosse al poligono, per una esercitazione di tiro.
E il bersaglio ero io: un bersaglio mobile ma non troppo; un bersaglio che non ce la faceva quasi più a reggersi e trascinava un lungo inutile ’91. Prese la mira con tutto comodo e sparò, il tiratore russo, col suo buon fucile a ripetizione. Le pallottole fischiavano davanti e dietro a me; sfioravano la neve e rimbalzavano con un sibilo metallico, sollevando pulviscoli iridescenti e si perdevano lontano. Due caricatori mi dedicò, ma non mi prese.
Non so se fu per imperizia, precipitazione o per una sorta di impietosa generosità. So solo che contavo meccanicamente i colpi e non riuscivo a pensare ad altro. Quando superai lo steccato e mi lasciai andare dall’altra parte, verso il terrapieno della linea ferroviaria, non lo sentii e non lo vidi più. Al di là dei fabbricati in mattoni c’erano alpini del Val Chiese. Un tenente, con voce roca, incitava e rincuorava i suoi. Udii urlare: “Una coperta!… Cercate una coperta!…”.
La voce del tenente si faceva sempre più fioca. Non so come e dove, uno straccio di coperta fu trovato, passò di mano in mano, fu steso sulla neve, contro il fabbricato di mattoni rossi e vi fu adagiato il tenente, che più non rincuorava i suoi se non con lo sguardo. Su quello straccio di coperta si chiudeva la vita terrena di Gino Ferroni, veronese, tenente degli alpini e assistente di diritto a Cà Foscari.
Mi distolse il grido di un alpino: “Tenente, tenente! Guardi là!”. Oltre il rettangolo d’ombra proiettato dall’edificio di mattoni rossi, accanto ad un fucile mitragliatore, allo scoperto, sulla neve illuminata dal sole sussultavano i corpi di due alpini, sui quali continuavano ad abbattersi raffiche di mitraglia. Era uno spettacolo atroce; ma i due – ormai – non soffrivano più. “Bisogna prenderlo! gridava l’alpino: bisogna prenderlo!” e guardava quel mitragliatore, sotto il sole, in mezzo ai due morti. “Sì, gli dissi: ma non ora” e pensavo come procurarmi un laccio per tentare il recupero.
“Bisogna prenderlo, ripeteva l’alpino. Vado io. Vado” disse con voce decisa. “No, gli urlai, no! Aspetta.” Di morti ce n’era stati anche troppi. Non mi ascoltò e, scostandosi dal riparo del muro, si buttò al sole, verso l’arma. Tentai di trattenerlo; urlai ancora: “No, no. Aspetta!”. Ma, ormai, accanto al fucile mitragliatore silenzioso giacevano tre corpi inanimati. Mi sentivo nuovamente addosso quel senso di vuoto che avevo avvertito prima, fra le isbe di Nikolajewka; me lo sentivo dentro, nella testa e nei visceri e mi accorsi di vagare senza meta.
Guardavo in viso gli alpini che incontravo, ma non ne riconoscevo alcuno. Nessuno aveva la nappina bianca del Verona. Il Verona s’era dissolto, non esisteva più. Alzai lo sguardo verso il dosso dal quale eravamo discesi al mattino. Pochi uomini – gli ultimi – ne scendevano ancora alla spicciolata; ma non erano più reparti organici, erano semplicemente uomini, uomini isolati. A mezza costa, piantato sulle gambe divaricate, un ufficiale superiore di non so più quale unità, sollecitava i ritardatari. A me, che venivo dal basso, curvo sotto il peso di un fardello che non si vedeva, ma dal quale mi sentivo oppresso, sembrò un gigante, una figura da giudizio universale. Lo superai, rifacendo a ritroso il cammino.
Vagai ancora sull’altura. Cercavo Dona, che al mattino aveva preso il comando dell’azione, ma non lo trovavo. Seppi poi che era stato ferito piuttosto gravemente. Più lontano, una lunga colonna scendeva in frettoloso disordine, lungo una pista disseminata di rottami. Dai pali che la costeggiavano pendevano fili metallici spezzati. Un mulo, immobile, perdeva un filo di bava dalle labbra serrate. Teneva il muso basso e gli occhi sembravano di vetro. Anche la coda gli pendeva immobile.
Due o tre aerei apparvero alti nel cielo; rotearono un po’ pigramente, poi si abbassarono. Ma non erano “nostri”, quelli che aspettavamo dal mattino. Ci investirono con raffiche di mitraglia e poi scomparvero all’orizzonte. L’aria imbruniva rapidamente. Radi colpi di cannone scompigliavano ancora la colonna che entrava in Nikolajewka, ma era chiaro che ormai la battaglia era finita.
“Verona! Verona!” chiamavo. “Verona”. Ma nessuno mi rispondeva. Vidi De Marco, veterinario del Val Chiese, con i capelli brizzolati scomposti, lo sguardo acceso. Aveva gli avambracci scoperti, rossi di sangue. Scambiammo poche parole, poi lo superai. Verona, cercavo Verona! Finalmente, verso la testa della colonna, che si perdeva nell’ombra, giù, verso Nikolajewka, mi sembrò di udire voci fievoli e roche che ripetevano Verona! Corsi con quanto fiato mi rimaneva.
Era già buio quando ci riunimmo nella piazza. Seppi della fine di Pessagno e di Mori; seppi del generale Reverberi, alto sul carro armato all’ultimo assalto, del generale Martinat freddato da un colpo di fucile all’ingresso del villaggio. Seppi di tanti altri, che non c’erano più. Le tristi notizie offuscarono la mia gioia di essere ancora vivo; stremato e malconcio, ma vivo, fra cari amici. Pensavo a Pessagno, che non ce l’aveva fatta. E neppure Da Ros, con la fascia sulla fronte e sulla fascia una macchia rossa che si allargava; e neppure Longobardi, col buco nella tempia. Neppure Mori e gli altri.
Ero sfinito, amareggiato, deluso. Di nuovo mi assalse la sensazione di vuoto e neppure ascoltai quello che stava dicendo il maggiore. Entrai nell’isba. Un tepore buono mi fasciò le membra e mi sommerse il cervello. Non mi diedi pena delle mie ferite, fortunatamente leggère. Mi lasciai cadere sulla paglia e sprofondai in un sonno opaco, senza sogni. Fuori, nella notte, don Antonio vagava ai margini del paese, lungo i binari e sulla strada della stazione, e compiva la sua missione di pietà.