ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 60

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Capitano Virginio Liut
Comandante la 113ª Compagnia A. A., Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini

La sera del 25 gennaio 1943, superata Nikitowka, il Battaglione Verona fa sosta oltre Sruzkaja. Alla giornata tersa, limpidissima, succede una notte di gelo feroce: anche l’aria sembra cristallizzata. Sistemo gli alpini nelle isbe, gonfie di gente fino a scoppiare. La fame dilania le viscere: mangiamo qualcosa, più che altro per illudere lo stomaco, masticando.

Ci avvolge la notte densa di minaccia e di mistero: presagi sinistri, stanchezza suprema. Mi
scuote violenta, come una folgorazione benefica, la domanda che alcuni “bocia” mi presentano a mezzo del sottotenente Mori: “Capitano, si può cantare?”. Giro la domanda al maggiore che mi è vicino: “No, non è il momento!” è la secca risposta. Ma io vorrei abbracciarli tutti questi “bocia” meravigliosi e decorarli sul campo, se fosse possibile, per la spavalda serenità con cui vanno incontro all’estremo destino, scagliando alla morte la sfida del loro giovanile ardimento.

Trovo rifugio a tarda notte in un’isba dove sono alloggiati gli ufficiali del Genio: li comanda Cazzoli, un mio amico. Qualche ora di sonno profondo e poi la sveglia, brusca, improvvisa: fuori, si parte, si continua l’orrida cavalcata attraverso il deserto di neve. Sono le prime ore del 26 gennaio. Si marcia, ubriachi di sonno e di patimenti impossibili, verso il tragico appuntamento di Nikolajewka. In testa, il comando di reggimento col colonnello Signorini, il tenente colonnello Prat ed altri ufficiali.

Sorge il sole che, attraverso l’aria purissima, spande una luce intensa, quasi irreale, tanto che gli occhi non sostengono il riverbero della neve. Si cammina speditamente, pensando vicina la salvezza. A un tratto, su un costone parallelo al nostro, notiamo una colonna russa che, a forte andatura, procede verso la nostra stessa meta. Non c’è tempo per combattere: bisogna arrivare presto, possibilmente prima: non è questo il luogo e il momento di giocare l’estrema partita.

Verso le 8 giungiamo in vista di Nikolajewka, dove è pronta a scattare una spaventosa trappola di morte. Breve sosta. Intanto lo sguardo corre laggiù, nella conca, alle isbe che si assiepano oltre la ferrovia. Tutto tace: ma è il silenzio teso e sinistro che precede il terrificante rito della battaglia. Il maggiore ordina al tenente Dona di formare un unico reparto con gli uomini validi della 56ª, 57ª e 58ª e di attaccare l’abitato sulla sinistra, in direzione della stazione. Io, con la 113ª, devo portarmi in posizione avanzata e mettere subito in postazione gli anticarro 47/32. In breve eseguisco l’ordine e mi trovo coi pezzi a circa 8/900 metri dalla stazione, esattamente di fronte alla stessa.

Un attimo: e d’improvviso si scatena l’inferno sulle colonne attaccanti, la neve ribolle di scoppi, la terra freme e sussulta. Bisogna ch’io freni la smania che mi divora: le munizioni sono così scarse che neppure un colpo deve andare perduto. Per questo ordino ad ogni puntatore di non sparare per nessuna ragione se prima, al reticolo del mirino, non abbia esattamente centrato lo scoppio di partenza degli anticarro russi, annidati sotto i ponti della ferrovia. Bastano così pochi proiettili dirompenti per eliminare i centri di fuoco nemici della prima linea di resistenza. Va detto che anche la fortuna ci assiste perché quasi tutti i colpi che raggiungono la nostra linea pezzi s’infilano nella neve restando inesplosi.

Faccio continuare il fuoco (sia pure economizzando il più possibile i colpi) per richiamare l’attenzione dei russi sulle mie postazioni e così proteggere nella maniera più efficace la discesa del tenente Dona: insieme con lui, i resti del Verona stanno vivendo un dramma terrificante, esposti come sono a un fuoco infernale senza riparo. La neve si va punteggiando di morti, le file si diradano a vista d’occhio, il fragore della battaglia è spaventoso. Ma Dona è una punta di diamante: raggiunge la ferrovia, conquista la stazione, vi si sistema a difesa, continua a combattere con accanimento indomabile.

Dopo circa un’ora, mi raggiunge un suo portaordini che accompagno indietro dal maggiore: Dona chiede disperatamente rincalzi e munizioni. Mi viene ordinato di scegliere gli alpini validi delle salmerie e del plotone servizi, dotarli di armi e munizioni il più possibile, formare dei plotoni, ciascuno al comando di un sottotenente, e mandarli giù alla stazione. Riesco a mettere insieme 2 o 3 plotoni (non ricordo bene), che immediatamente entrano in azione. Falcidiati a loro volta dal fuoco incessante di anticarro, mortai e  mitragliere, quando raggiungono la ferrovia sono ridotti a un pugno di uomini: nonostante la protezione dei miei pezzi, anche questa volta il massacro è stato tremendo.

Poco dopo le 9, arriva l’artiglieria alpina che si dispone alle mie spalle, appena defilata da un basso costone: anche gli artiglieri (guidati dal generale Martinat e dal loro comandante tenente colonnello Calbo) sparano continuamente pur cercando di fare ogni possibile economia. Ora la conca di Nikolajewka sembra veramente il cratere di un vulcano in eruzione: roghi di fiamme, squarci di bombe, sventagliate di pallottole che segano l’aria, lugubre urlare di feriti, comandi concitati e rabbiosi, spettacoli di morte.

Scorrono lente le ore, come un’interminabile agonia; i russi continuano a ricevere rinforzi e la nostra situazione si fa drammatica, per non dire insostenibile: e senza il provvidenziale sopraggiungere del 5^ Alpini, che attacca violentemente sulla destra con arrembaggio furibondo, la partita sarebbe perduta nonostante il nostro disperato valore.

E’ questo il momento di giocare l’ultima carta: la Tridentina, la divisione ostinatissima, è tutta qui e non può confidare che in se stessa: o spacca il cerchio ancora una volta o Nikolajewka sarà la sua tomba. Martinat e Calbo, in osservazione poco lontano da me, decidono di scendere con tutti gli artiglieri in colonna serrata: del resto le munizioni sono finite, è stato sparato l’ultimo colpo, i pezzi non servono più.

L’ordine che mi da Martinat, prima di partire in testa al reparto è che il Verona (ma quale Verona ormai!) segua l’artiglieria senza intervallo. Si parte, avanti! Ma si sono percorsi forse 200 metri, quando i russi scaraventano sulla colonna un tale volume di fuoco, una così apocalittica tempesta di colpi, che la sua marcia viene bloccata.

Immediatamente si formano due colonne, distanziate fra loro: una con il generale Martinat, l’altra con il colonnello Calbo. E di nuovo avanti: ora si scende a corpo perduto: la valanga di gente rotola giù per la china con cieco furore, passa sulla ferrovia come vento di tempesta, dilaga inarrestabile nella piazza e fra le isbe.

La partita è vinta: l’urto frontale, imponente e rabbioso, ha travolto il nemico, grazie anche all’intervento dell’Edolo che, arrivato sulla parte alta, ci ha consentito di stringere i russi tra due fuochi. Ma ancora una volta le nostre perdite sono gravissime: tra i morti, il generale Martinat e il tenente colonnello Calbo; i feriti non si contano più. All’altezza della ferrovia, incolonno i feriti e i resti del Verona e raggiungo la piazza, oltre la stazione, dove si è fermata l’artiglieria.

Per me è urgente cercare qualche isba dove alloggiare i feriti e quindi mi dirigo verso una compagnia dell’Edolo che sta accantonandosi. A un tratto il sergente Consolini m’informa che il caporale Salvetti è rimasto oltre la ferrovia, accanto a suo fratello gravemente ferito: non vuole staccarsene, non vuole lasciarlo, preferisce morire con lui. Incarico il tenente Butturini di prendere il mio posto, gli indico le isbe da raggiungere e ritorno sui miei passi.

La piazza è ancora gremita di artiglieri; in mezzo alla calca (che cerco di attraversare il più rapidamente possibile) incontro un carissimo mio alpino, Oreste Caselli, uno di quelli che avevo mandato giù con i plotoni di rincalzo. “Capitano, ho fatto quanto ho potuto!” mi dice. Lo ringrazio, gli spiego che devo tornare alla ferrovia, gli indico la direzione da seguire per raggiungere la colonna e me ne vado di corsa.

Come arrivo sopra la ferrovia e lo sguardo può abbracciare all’intorno i pendii che digradano verso Nikolajewka, il cuore mi si stringe di sgomento e d’infinita pietà: un’immensa distesa di morti punteggia di nero la neve fin dove la vista può arrivare. E penso che, ad ognuno di quei fitti puntini neri, corrisponde una giovane vita che si è immolata per aprire ai sopravvissuti, ed a me, la strada verso l’Italia e la casa. Reagisco alla commozione violenta che vuole serrarmi la gola e urlo disperatamente: “Verona! Verona!”.

Ascolto se qualcuno risponde: ma il mio grido si perde senza eco in un silenzio di morte. Capisco che è inutile cercare i fratelli Salvetti: e torno indietro di corsa. Raggiungo di nuovo la piazza che trovo assolutamente deserta: incredibile: saranno passati 15 minuti e nella piazza, prima stipata di artiglieri, non c’è anima viva. Cosa sia accaduto in questo breve lasso di tempo, non lo saprò mai. Chiamo ripetutamente Caselli: invano. Sempre di corsa raggiungo la mia colonna che si sta fermando nel luogo designato. Chiedo di Caselli: nessuno l’ha visto, nessuno lo rivedrà più: si è dissolto nel mistero.

Mentre sto sistemando gli uomini, mi si presenta il portaferiti Bruno Gaccioli, un alpino burbero e coraggioso, reclutato nella zona toscoemiliana. Ha la faccia sfigurata e varie ferite in altre parti del corpo. “Capitano” mi dice in tono risoluto, quasi aggressivo; “sono stato tutto il giorno ad aiutare i medici; ho fatto il mio dovere: ora lei faccia il suo, perché io voglio tornare a casa.” Gli assegno il mio attendente: e Gaccioli tornerà a casa.

Sistemati i feriti e alloggiati gli altri alpini in due o tre isbe, dispongo le sentinelle e stabilisco i turni di servizio. Quando ormai sto crollando di fatica, il comandante della compagnia dell’Edolo (non ne ricordo il nome) mi offre ospitalità per la notte nella sua isba che, date le circostanze, è abbastanza confortevole. Accetto di buon grado: ma prima mando due sottotenenti in cerca del comando di reggimento e di battaglione per ristabilire i collegamenti. Ritornano verso le 18: non hanno trovato nessuno: e saprò l’indomani che i comandi hanno raggiunto Nikolajewka soltanto verso le ore 20.

Notte di luna, chiara e freddissima. Attacchi russi a ripetizione, violenti e improvvisi. Mischie feroci infuriano qua e là per le vie. Ma niente ci scuote dal nostro sonno di pietra: del resto le sentinelle fanno buona guardia: prova ne sia che, quando alle 3 esco all’aperto, vedo molti morti nella via e fin quasi sulla porta dell’isba. Sveglio gli altri: partenza immediata. In breve tempo ci ricongiungiamo alla colonna che è riuscita da poco ad aprirsi un varco e, alle prime luci del nuovo giorno, raggiungo il comando di reggimento e di battaglione.

Caporal maggiore Primo Battistini
56ª Compagnia, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini

La sera del 17 gennaio 1943, ore 17, lasciammo il fronte sul Don, furono fatti saltare i depositi di munizioni, si camminò tutta la notte stracarichi, per lasciare sempre meno roba in mano al nemico. Al mattino del 18 raggiungemmo Podgornoje, ci rifocillammo, e alla sera fummo caricati su automezzi, non sapendo dove si andava, e quello che stava succedendo. Radio scarpa diceva che si cambiava fronte.

Si girò tutta la notte, e verso l’alba del 19 la colonna si arrestò. Fummo fatti scendere, e soltanto con armi e munizioni ci incamminammo a piedi. Dopo circa mezz’ora, arrivammo in vista di un paese; sapemmo più tardi che si trattava di Postojalyi, occupato dai russi. Da lì capimmo la nostra situazione: “Accerchiati…”. Attaccammo il paese mettendo in fuga i russi; ma per poco, perché poco dopo ritornarono preceduti da carri armati; opponemmo la massima resistenza, ma fummo costretti a retrocedere, dopo avere lasciato sulla gelida neve morti e feriti. Fu riconquistato verso sera, dopo ripetuti attacchi, e l’intervento dell’artiglieria, e katiusce.

Passammo la notte nelle isbe del paese, e il mattino del 20 gennaio si riprese il ripiegamento, stando col mio reparto, a volte in testa, a volte in coda, combattendo in tante altre occasioni, in paesi dei quali non ricordo più il nome, perdendo perché feriti o congelati, tanti nostri fratelli, e continuando a camminare in mezzo alla neve, alla tormenta, combattendo in più del nemico, con la fame, il freddo, e la stanchezza… La mattina del 26 gennaio, in una giornata di sole, arrivammo in vista di Nikolajewka.

La mia compagnia comandata dal tenente Enno Dona, con tutto il resto del 6^ Alpini, fummo i primi a partire per attaccare i russi, asserragliati in paese. Prima di arrivare alla ferrovia, fummo centrati da cannonate e colpi di mortaio. Una granata ferì gravemente il tenente Dona ad una gamba, ed io al viso, e tanti altri morti e feriti. Pochi del mio reparto riuscirono ad arrivare alle prime case; fu lì che alla testa del suo plotone, trovò gloriosa ed eroica morte il tenente Eros Da Ros, 56ª Compagnia, decorato di medaglia d’oro alla memoria.

Allora il tenente Dona, non potendosi muovere, chiese a me se mi sentivo in grado di camminare; io risposi di sì. Torna indietro, vai al comando e dille di mandare rinforzi, fare intervenire se era possibile l’artiglieria, e i portaferiti per portare un poco di cure ai feriti. Sotto alle cannonate che cadevano ovunque, riuscii a raggiungere il comando, e portare a voce l’ordine del mio tenente. Mi curai le ferite, che grazie a Dio erano leggère; fui di nuovo incolonnato, con altri armati (perché erano tanti i non armati) per ritornare all’attacco. Ma in quel momento arrivarono quattro apparecchi russi, che buttarono bombe e mitragliarono tutta quella massa di soldati, lì radunati non potendo proseguire.

Quando incolume mi rialzai da terra, (dove mi ero buttato) la scena era terrificante; un vero macello, vi fu così un poco di sbandamento e smarrimento; io pure in quel momento, pensai di non vedere più la famiglia, la mia cara patria. Il coraggio e le forze ritornarono, quando il nostro eroico generale Reverberi, salito su un cingolato tedesco, urlò: “Tridentina avanti”. Così trascinati dal suo esempio, raggiungemmo Nikolajewka, che era quasi buio.

Cercai per un poco, i resti della mia compagnia, non trovandoli passai la notte in un fienile, stanco e senza mangiare. Il 27 mattino ritrovai alcuni della mia compagnia; fui lieto di vedere il tenente Dona caricato su di una slitta, ferito ma ancora in vita. Si riprese a camminare, ma i disagi e i combattimenti non cessarono, fino che non si raggiunse quella linea provvisoria, prima di Schebekino. Fu lì che dopo averci guidati, e incoraggiati per tutta la ritirata, si spense la bella figura del nostro comandante del 6^, colonnello Paolo Signorini.

Alpino Alessandro Carpane 58ª Compagnia, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini

Sono anch’io uno di Nikolajewka e come per tutti ci sarebbero tanti episodi da raccontare, è quasi difficile cominciare. Io appartenevo al Battaglione Verona, 58ª Compagnia comandata dall’allora capitano Bernardo Venier. Ero portaferiti fino al giorno 19 gennaio, giorno memorabile per il nostro battaglione: una parte di esso fu distrutto in quel grande combattimento di Postojalyi. Quanti morti e feriti quel giorno! Difficile saperlo. Avemmo molto lavoro a portare i feriti nelle isbe per essere in qualche modo medicati.

Alla sera nell’isba quasi nell’oscurità giacevano due alpini senza alcun segno di vita. Un ufficiale per fare un po’ di posto perché altri alpini potessero ripararsi dal freddo, vedendo quei due alpini morti ci ordinò di portarli fuori coprendoli con un po’ di paglia. Io per mia iniziativa gli levai ad uno e precisamente a Massimo Ceschi il piastrino di riconoscimento e me lo misi in tasca. Dopo qualche giorno anch’io fui ferito e ricordo che più volte, frugando nelle tasche se c’era qualche briciola di pane, mi veniva in mano il piastrino del Ceschi; ma in sèguito lo perdetti come tante altre cose.

La guerra finisce e vicino al mio paese in una festa d’alpini presenziava il simpatico, vecchio colonnello Marchiori e non so come fu che gli raccontai il fatto. E qui con grande stupore mi disse che l’alpino Ceschi era a casa, anzi, per assicurarmi, mi disse che era un suo dipendente. Era sì tornato ferito, ma stava bene. Io non sapevo più come spiegarmi del fatto. Ed ecco che un giorno il Ceschi mi venne a trovare, ma al primo incontro nessuno di noi due era capace di parlare, solamente le lacrime correvano dagli occhi.

Tornando al tempo della sacca, il giorno 21 gennaio ’43, al mattino presto, ancora buio, rimasi ferito da schegge ad una gamba; qualcuna di queste rimase conficcata nella carne e così non potei più camminare. Da quel momento fino al giorno 31 quel che io passai Dio solo lo sa. La fame completa, non potendo cercare tra le isbe qualcosa da mangiare, le mille difficoltà di trovare qualche mulo o slitta per salirci sopra, ma non voglio allungarmi perché tutti là hanno visto con i loro occhi e lo sanno molto bene.

Finché arriva il 31 e cioè il mio più grande episodio. Quel mattino ero ormai a condizioni quasi disperate, credo di aver avuto la febbre e non avevo neanche fiato di parlare, mi reggeva più che altro il pensiero della famiglia e le cose care. L’ora della partenza si rese ancor più triste perché non ero capace di trovare qualche posto sulle slitte e i muli perché questi erano ormai ridotti molto pochi. Ma ecco passarmi vicino un alpino con il mulo senza alcun carico sul basto, gli chiesi di salirci sopra e lui mi fece cenno di sì, cosicché con il suo aiuto mi arrampicai sopra.

Dopo circa un’ora, lui dovette fermarsi per un suo bisogno, se non che poco dopo mi accorsi che da quella posizione non si muoveva e nemmeno chiedeva qualcosa, mi sforzai e andai per alzarlo quando mi accorsi che le sue mani non si muovevano più, erano bianche e si erano congelate (i guanti li aveva perduti). Che cosa fare allora? Intanto lui si metteva a piangere vedendo che non era capace di muoversi. Ma con l’aiuto di qualcuno potemmo caricarlo sul mulo. Ed io, allora? Cosa mi restava?

Mi aggrappai al mulo camminando quasi con una gamba sola, ma per poco, perché ecco il miracolo: una colonna di camion con nostri soldati ci aspettava per caricarci sopra e portarci all’ospedale di Karkow, era venuto quel giorno. E qui mi fermo, ma quanti e quanti episodi ancora! Vorrei scusarmi se non sono troppo chiaro nello scrivere, ho cercato in qualche maniera, se può servire.

Sottotenente Giovanni Cortellini
Compagnia Comando Reggimentale, 6^ Reggimento Alpini, aggregato al Battaglione Verona

L’edificio ferroviario di Nikolajewka, scoperchiato, grigio, illividito dal riflesso sporco della neve, con gli enormi finestroni sbarrati dalle inferriate arrugginite, accoglie uno sparuto gruppo d’alpini che ripiegano sotto l’incalzare di un reparto russo. Sono quattro ufficiali: il tenente Gino Ferroni, il tenente Emilio Burloni, il sottotenente Luigi Bressan e il sottoscritto; e cinque o sei alpini.

I russi credono di riuscire ad aver ragione di questo modesto nucleo d’italiani anche stando a distanza e tentando l’accerchiamento dell’edificio. Noi spariamo dai finestroni “all’uomo”, parsimoniosamente perché le munizioni sono scarse: la fucilata parte solo quando siamo quasi certi di colpire l’avversario. Intuito il pericolo dell’accerchiamento e, quindi, dell’inevitabile fine, Ferroni sta consultandosi con Burloni sul da farsi, quando viene colpito a morte da una fucilata: un caro amico e un uomo in gambissima che ci lascia in un momento tragico.

Gli attimi diventano sempre più preziosi: dobbiamo evitare l’accerchiamento e la resa. Burloni, bellunese, “ciacolòn”, tutto pepe e energia, scatta come una molla, gli occhi di fuoco, e urla: “Fermi tutti, òstrega, che adesso qua comando mi! uno alla volta, andé fora da “sta porca de casa, salté el binario e via de corsa su per el pendio fino alla colonna che la xe ferma. Avanti: prima i alpini, dopo i uficiai!”.

Si tratta, evidentemente, di offrire il minor possibile bersaglio ai russi, nella lunga corsa di risalita. L’ordine è eseguito a puntino, anche perché l’atteggiamento di Burloni – pistola in pugno – è inflessibile. Al mio turno, mi lancio a capofitto oltre il terrapieno e inizio la corsa
folle a ritroso lungo l’interminabile pendio, mentre i sovietici infittiscono il tiro all’uomo: un punto nero sulla neve alla disperata ricerca della salvezza. , Direi che non ho pensieri particolari, che non provo sensazioni di alcun genere, forse nemmeno la paura. E’ una concentrazione d’energie fisiche (quali, dopo tanti giorni di marce, di combattimenti, d’inedia?) nell’effettuazione di una corsa.

Poco sotto la cima, dove sostano migliaia di sbandati in attesa, un uomo mi richiama alla dolorosa realtà del momento: un alpino, il volto duro, segnato dalla fatica e dalla sofferenza; è semisdraiato sulla neve, in una larga macchia di sangue; è stato colpito alle gambe e sta morendo. “Signor tenente, non mi lasci morire qui” mi chiede, implorante. Col cuore in gola, mi fermo: gli leggo la morte negli occhi e l’illudo, consapevolmente, dicendogli: “Stai tranquillo, vado e torno a riprenderti con una slitta”. “I russi continuano a spararmi addosso, e io, d’un balzo, raggiungo la colonna, alla ricerca, che so inutile, d’un’inesistente slitta per un alpino che muore.

La sera, quando riuscimmo finalmente a conquistare, a carissimo prezzo, Nikolajewka, getto uno sguardo sul pendio dal quale siamo scesi, disseminato di centinaia di alpini caduti, mentre calano le ombre della notte imminente e gli incendi divampano dovunque. Fra tutti quei punti neri c’è anche l’alpino dal volto duro, segnato dalla fatica, e ora, finalmente, composto nella quiete della morte e nell’illusione di poter salire su una slitta che un ufficiale non avrebbe potuto trovare mai. Un alpino, uno dei tanti che non sono tornati: lo rivedo anche ora, mentre scrivo, col viso più sereno, sfumato dal tempo, e gli domando perdono per quella slitta fantomatica che, lo spero, gli avrà reso meno inaccettabile la morte.

Caporal maggiore Bruno Carlotto
58ª Compagnia, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini

Ricordo che la colonna formata con i resti dei reparti del Corpo d’Armata Alpino con il quale seguivo unito ad una decina di amici più o meno tutti della mia stessa età ogni tanto si scorgeva soldati ossia graduati, sottufficiali e ufficiali stesi sulla neve resi immobili dal gelo oppure per gravi ferite riportate in sèguito alle solite scaramucce della guerra, alcuni con gli arti inferiori congelati completamente incapaci di proseguire più oltre, e un giorno notai un alpino della mia compagnia che implorava aiuto certo Adolfo Castello di Colognola ai Colli (Verona), con entrambe le gambe congelate sino al ginocchio.

Mi fece tanta pena che su di un mulo in cui caricavamo una piccola scorta di carne bovina e verdure varie, misere provviste però molto necessarie onde sopravvivere in quella desolazione senza alcun rifornimento, l’alpino Castello lo feci salire sulla bestia da sommeggio d’accordo con i miei amici alpini, e cioè gli abbiamo fatto raggiungere la località di raccolta per feriti, congelati e malati. Ed ora so che vive a Colognola ai Colli pur con le gambe amputate con sua moglie e due figli.

E dopo giorni duri e disagiati siamo arrivati nelle prime ore del 26 gennaio alle porte di Nikolajewka e ci siamo accorti che nella cittadina vi erano parecchi reparti militari russi ad attenderci credendo di obbligarci alla resa e farci tutti prigionieri. E lì per il ricordo che nelle immediate vicinanze di dove mi trovavo, in quegli istanti di terrore angoscioso, c’era il comandante di divisione di allora, generale Reverberi, e vicino a lui il colonnello Signorini i quali ci dissero: “Poiché si sta avvicinando il buio della sera e poi la notte rigida tremendamente insopportabile, per il nostro bene è meglio decidere e provare ad entrare nelle zone abitate ove si trovano i soldati russi cercando di spaventare ogni formazione nemica, chi con una bomba a mano e altri con la pistola altri ancora con bastoni e baionette in modo che tutti insieme riuscire a travolgere ogni tentativo di una definitiva resistenza”.

Così fu fatto. Certamente che con tutta la colonna incamminatasi su Nikolajewka eravamo talmente tanti che siamo riusciti a far evacuare la cittadina da ciò che era un raggruppamento di truppe di ogni genere. Trovammo le marmitte piene di rancio ancora caldo delle cucine militari russe, ormai abbandonate, e alquanto tranquillamente abbiamo sostato del tutto sicuri che quella era stata l’ultima resistenza della cerchia della cosiddetta sacca.

Nei giorni seguenti, dopo esserci riposati, contenti di essere una volta tanto fuori pericolo, malgrado ogni cosa si fosse svolta per il meglio avvenne un notevole inconveniente e cioè il colonnello Signorini fu colpito da un improvviso infarto ed è deceduto. Corsero le voci in merito che i nostri ufficiali sanitari avrebbero constatato che la morte avvenuta in sèguito al grande dispiacere nel vedere il reggimento disagiato e quasi totalmente distrutto. Per tutta la durata del subìto accerchiamento non potemmo raderci la barba. Gli abiti erano ormai laceri, sudici. Il nostro fisico era deperito per il freddo indescrivibile e le privazioni di ogni genere.

Essendo io allora aiuto furiere, ricordo che il giorno dell’iniziato “, ripiegamento il mio reparto contava 347 uomini tra ufficiali sottufficiali graduati e soldati, e una volta arrivati al campo contumaciale di Tarvisio eravamo rimasti in 67 compreso un ufficiale datoci in aggregazione, poiché nessuno dei nostri ufficiali era arrivato incolume. Dalle organizzazioni contumaciali di Tarvisio ottenemmo tutti una licenza di giorni 30 + 2.

Sottotenente Achille Gittoni
Compagnia Comando, Battaglione Verona, 6^ Reggimento Alpini

Io comandavo allora il plotone collegamenti della Compagnia Comando del Battaglione Verona. Riportai, purtroppo, un grave congelamento ai piedi nella prima notte di ritirata e dovetti perciò assistere passivamente agli infiniti episodi di eroismo di quei tragici giorni. Grazie al mio fisico di montanaro (sono nato a Pontedilegno) riuscii ugualmente a tornare a casa senza eccessivi danni. Persi infatti solo cinque falangi delle dita dei piedi.

Ricordo che l’attesa incominciò presto, quel giorno, a Nikolajewka. Sulla piana, immobili nel freddo, muli, slitte, feriti, congelati, tutti in attesa che giù, quelli che combattevano riuscissero a farcela. Io ero a cavalcioni di un mulo che la generosità ed il cuore dei miei alpini mi avevano trovato anche quella mattina. Da diversi giorni il miracolo si ripeteva ed il mulo non era mai lo stesso.

Il freddo era intenso: a fatica riuscivo a mantenermi in equilibrio sulla bestia, anche per la fame che attanagliava le viscere. Da giorni praticamente non mangiavo. Ma rimaneva ugualmente viva la disperata volontà di tornare a casa. Ogni tanto il vento portava il rumore della battaglia, fucileria, raffiche di mitragliatrice, colpi di mortaio e d’artiglieria. Improvvisamente, l’inferno.

Una pioggia di bombe di mortaio si abbatté nel luogo dove mi trovavo, facendo strage. Io, forse rassegnato, forse reso ormai indifferente da dieci giorni di patire non mi mossi e rimasi sul mulo, anch’egli immobile. Un colpo cadde a pochissimi metri, forse tre quattro, colpendo in pieno. Io, miracolosamente, rimasi incolume. Ma vidi contro il cielo bianco lentamente alzarsi, quasi volesse ascendere in cielo, un cappotto con le maniche aperte a croce.

Il cappotto si alzò tremolando fino all’altezza di tre quattro metri, rimase un attimo fermo e poi ricadde afflosciandosi al suolo. Bruscamente, come era iniziato, il bombardamento finì. Poco dopo, l’ultimo eroico attacco dei nostri riuscì a sfondare e potemmo raggiungere le isbe di Nikolajewka. Sono passati trent’anni, tanti avvenimenti lieti e tristi si sono succeduti. Ma ancora oggi è straordinariamente viva in me e non la potrò certo mai dimenticare l’immagine di quel cappotto che saliva verso il cielo bianco di neve e di freddo, quasi volesse riparare l’anima dell’alpino che fino a pochi attimi prima c’era dentro.

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