a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Alpino Guerino Giudici
6′ Compagnia, Battaglione Tiràno, 5^ Reggimento Alpini
La sera del 24 gennaio 1943, dopo una estenuante marcia nella steppa in mezzo ad una gelida tormenta che aveva messo a dura prova uomini e muli, il mio reparto alloggiò per il pernottamento in un capannone. Stanco e senza cibo mi sdraiai sopra dello strame che ricopriva il pavimento ai bordi del capannone, e tra il vociare e l’imprecare dei primi contro i ritardatari in continuo afflusso mi addormentai.
Faceva ancora buio ed ebbi una insolita sveglia, me l’aveva data un mulo legato fuori dal capannone il quale, spinto dalla fame, aveva divorato la paglia che ricopriva una finestra, che guarda il caso, sboccava all’interno proprio sulla mia testa. Dall’apertura fischiava un gelido vento, il quale mi costrinse ad alzarmi in compagnia ad altri alpini, e mi aveva indurito le scarpe che tenevo legate ai lati della testa (per sicurezza).
Non riuscendo a calzarle uscii dal capannone, il quale era tanto stipato di gente rannicchiata e sdraiata per terra che per uscire fuori fui costretto a passare dal foro che il mulo aveva aperto, e mi avvicinai a un fuoco poco distante che avevo scorto già dall’interno del capannone. Con le scarpe in mano mi accostai il più possibile al fuoco, girandole e rigirandole finché divennero morbide, per poi infilarle nei piedi tiepide come pantofole.
Sedutomi, assaporavo il calore del fuoco, ed a tratti giravo lo sguardo scrutando le facce di quelle creature umane mute ed immobili accovacciate sulla neve, facendo corona al fuoco che non era altro che i resti di un’isba in fiamme, un focolare domestico distrutto che nella fase della sua estinzione col suo calore e il suo bagliore contribuiva a donare alle creature che l’attorniavano la sensazione di rivivere, ridonare la speranza di rivedere il loro focolare. Esse tenevano il tipico atteggiamento di coloro che sono forzatamente costretti a passare una notte all’addiaccio, traendo dal fuoco dei benefìci fisicoumani che solo chi ha vissuto una di quelle notti in quelle tragiche circostanze può comprendere e giudicare.
Fui distolto dal mio fantasticare da una domanda che mi fece l’alpino seduto al mio fianco, il quale mi chiese informazioni sul Battaglione Tiràno, a lui risposi che anch’io facevo parte del Tiràno, 46ª Compagnia, la quale era accantonata nel vicino capannone. Quell’alpino ebbe un sussulto ed esclamò: “E’ la mia compagnia! Finalmente l’ho ritrovata! Quanto ho tribolato per raggiungerla, l’avevo persa a Podgornoje”. Mi voltai e lo guardai, non lo conoscevo, ma in quello stato difficilmente lo avrei riconosciuto, fui colpito dall’espressione del suo sguardo, al bagliore del fuoco i suoi occhi emanavano qualcosa di un profondo umano impossibile a descrivere, direi che non fosse altro che la gioia nella sofferenza.
Lo guardavo con attenzione, mi faceva pena, dimenticavo me stesso che condividevo le sue condizioni. Scarno, gli occhi affossati nelle occhiaie, la barba rada e irta gli copriva il mento e le guance in parte coperte da uno sdrucito passamontagna sopra il quale stava ben calcato il cappello alpino deformato; teneva il fucile a tracolla ed una bisaccia che penzolava sui fianchi, chissà quale miseria quella bisaccia racchiudeva in sé. Nel tempo il fuoco lentamente si estingueva, il freddo si faceva più pungente ed il gruppo che attorniava il fuoco non mollava, anzi continuava ad ingrossarsi; così venne l’alba.
Una voce che gridava: “Adunata Tiràno” mi fece abbandonare il fuoco ormai semispento, ed intorpidito dal gelo e dalla posizione in cui mi ero soffermato per tanto tempo, barcollando mi infilai nella mia compagnia che stava adunandosi, seguito dall’alpino a me sconosciuto. Il 25 gennaio il cielo era azzurro, splendeva un sole che ci donava la speranza, facendo dimenticare il pericolo che incombeva su migliaia di giovani vite. Nel pomeriggio attraversammo Nikitowka distesa con le sue isbe ai fianchi della strada per alcuni chilometri, fortuna nostra perché in quelle isbe affondammo le nostre mani alla ricerca del cibo con risultati soddisfacenti.
Indisturbati dal nemico, era buio quando ci accantonammo in una isba adibita a stalla. Tra il discutere di ognuno, alcuni alpini accesero il fuoco nel bel mezzo della stalla e diedero inizio a cuocere un capretto allo spiedo, seppur senza ingredienti, analfabeti nell’arte culinaria; quello spiedo emanava un profumo di tale mole che nell’attesa di divorarlo faceva trangugiar saliva così di frequente da indolenzire nel ritmo dei colpi l’apparato digerente di quella gioventù affamata di cibo e di vita. Stavo gustando il pezzo di capretto da poco mangiato, allorché sentii alcuni spari isolati i quali mi tolsero la voglia di dormire.
Mi appisolai più volte, ma nel dormiveglia sentivo l’intensificarsi dei colpi di armi automatiche sempre più vicini, i quali misero in allarme quanti stavano nell’isba. Non saprei dire l’ora esatta, ma alle quattro, le cinque del mattino vi fu l’allarme. Non ci sorprese, ed in poco tempo il Tiràno fu pronto. La 46ª Compagnia comandata dal capitano Grandi si mosse per prima, e al mio plotone fu dato il compito di avanzare in avanscoperta onde impedire eventuali attacchi a sorpresa.
Si sentiva il tuono del cannone ed il crepitar delle mitraglie sempre più vicino, al bagliore dei combattimenti in corso faceva corona gli innumerevoli proiettili traccianti che solcavano luminosi nel buio seppur stellato cielo di quel mattino. Era ancora notte che avemmo contatto con gli artiglieri della 33ª Batteria e del comando Gruppo Bergamo, i quali ci misero al corrente della precaria situazione in cui si trovavano, dicendomi che il nostro intervento li salvava da un sicuro annientamento; avevano subìto gravi perdite per i
combattimenti che si erano protratti tutta la notte, avevano in efficienza solo un cannone e due mitragliatrici.
Ci fermammo dietro a un’isba; mentre si formavano i gruppi di fuoco, scaldai e controllai se era in efficienza il fucile mitragliatore, ed allo spuntare dell’alba del 26 gennaio prendemmo posizione qualche decina di metri fuori dell’abitato di Arnautowo, oltre l’ondulazione del terreno che lo proteggeva dal tiro delle mitragliatrici nemiche. Con sorpresa rividi l’alpino a me sconosciuto il quale faceva parte del mio gruppo di fuoco. Ci appostammo in una piega del terreno discretamente profonda, con noi vi era il comandante di compagnia, capitano Grandi.
Ci accorgemmo che eravamo in una situazione molto critica, i russi ci dominavano con armi superiori alle nostre per potenza di fuoco, avvantaggiati da posizioni migliori predisposte da alcuni giorni. Indirizzai alcune raffiche su una posizione che sparava su noi con efficacia, vi furono i primi morti e feriti, ma ormai eravamo a tu per tu con i russi e dovevamo rispondergli con le dovute rime. Il fuoco delle mitragliatrici russe aumentava di intensità, era preciso, guai alzare la testa, chi osava era spacciato, e così le nostre perdite aumentavano.
Questa era la situazione in cui ero venuto a trovarmi il mattino del 26 gennaio 1943, disteso sulla neve semiassiderato, con i componenti il mio gruppo di fuoco, comandato dal sergente maggiore Rinaldi. Il capitano Grandi dalla nostra postazione seguiva il combattimento, rischiava per individuare le postazioni russe che da breve distanza causavano gravi perdite alla sua compagnia. Il capitano, individuata un’arma che sparava sul nostro fianco e dei soldati russi in movimento per prenderci a tergo, di persona decise di segnalare ad una nostra postazione poco distante il pericolo di essere eliminata; dalla nostra postazione era impossibile esporsi a sparare sui russi in movimento, pena la pelle a chi osava.
Il capitano Grandi con sprezzo del pericolo con un balzo tentò di raggiungere la postazione minacciata dai russi, per poi eliminare l’arma nemica e bloccare i russi in movimento. Ma la stessa arma che voleva eliminare lo colpì al ventre, e cadde tra le due postazioni. Vi fu in noi un attimo di disorientamento, poi senza riflettere con un balzo fui vicino al capitano ferito, fui subito raggiunto dal sergente Pasini il quale mi aiutò a caricare sulle spalle (stando a carponi) il capitano, e a carponi nella neve lo portai per un breve tratto per poi raggiungere un’isba distante alcune decine di metri.
L’isba era stipata di feriti, perciò il capitano ferito fu disteso sopra una coperta dietro l’isba, lo prese in consegna il tenente Ravelli il quale con le lacrime agli occhi disse che nell’isba giaceva morente il tenente Perego. Le prime cure vennero prestate dall’infermiere di compagnia, caporale Todeschini, mentre il capitano imprecava contro i russi che gli avevano bucato le “budelline”. Non so quanto mi fermai sul posto, ma ho ben chiaro che l’artigliere Visinoni mio compaesano mi invitò a entrare nell’isba ove era un altro mio compaesano e amico, l’artigliere Balduzzi, il quale giaceva gravemente ferito.
Non entrai nell’isba, ma istintivamente raccolsi da una slitta carica di munizioni una cassetta spalleggiabile di caricatori da fucile mitragliatore, me la misi in spalla e con la mano ne afferrai un’altra trascinandola nella neve, e giù a salti verso la mia postazione. Trovai la postazione più arretrata, mi sdraiai e cominciai a passare le munizioni al caporale Danieli che sparava con il mitragliatore. (Vorrei segnalare alcuni nomi che ricordo di caduti che facevano parte del mio plotone: Troina, Tiraboschi, sergente Rebustelli, Brembilla; fu ferito Marchetti e di striscio il comandante di plotone, tenente De Minerbi.)
Poco distante si sentiva il lamento di un ferito, il quale ripetutamente implorava un nome: “Margherita!”. Non si poteva rischiare per soccorrerlo, eravamo troppo bersagliati. Con sollievo finalmente sentimmo i colpi della nostra artiglieria che sparava a schrapnel sulle postazioni di fronte a noi colpendole con precisione; seguiva un nutrito lancio di bombe sparate da un mortaio 45 il cui mortaista dimostrava abilità centrando con precisione le postazioni russe.
Sotto i nostri colpi e l’aumentata pressione degli alpini che non badavano alle perdite pur di aprire un varco, i russi cominciarono ad abbandonare le postazioni compreso le armi pesanti, sbandandosi, volgendo a noi le spalle. Per meglio colpirli mi alzai a sparare, in quell’attimo vidi l’alpino a me sconosciuto, che imbracciava ancora il fucile, con il suo deformato cappello alpino in testa, con la faccia ancor più scarna, la bocca ritratta dalla smorfia della morte che gli aveva mozzato il suo lamento mentre implorava la sua Margherita, la quale era di certo la sua vita.
Era bastato quell’attimo: la morte di quell’alpino a me sconosciuto ha lasciato in me per tutta la vita l’immagine della sofferenza di coloro che in quelle tragiche circostanze donarono la vita per dovere di patria e per l’umana fratellanza. Infatti, mai come allora, nel vortice della guerra, pur nell’istintiva preservazione della vita, uno donava all’altro il suo essere perché qualcuno vivesse e ricordasse coloro che onorarono nel dovere la bandiera col sacrificio della propria vita.
Sparavo inginocchiato nella neve, il tenente Da Re mi aveva ripetutamente tirato il pastrano perché non mi esponessi troppo sparando sui russi in fuga. Ci buttammo all’inseguimento con la neve fino alle ginocchia, nel primo tratto della balka il tenente sparava con il fucile mitragliatore appoggiato sulle mie spalle. Attraversammo la balka in lungo combattendo con accanimento, annientando ogni resistenza nemica, proseguendo fino sulla strada che costeggiava la balka.
Sulla strada fummo raggiunti dal generale Reverberi con il suo sèguito. Con il mio gruppo di fuoco composto dal sergente maggiore Rinaldi, dal caporale Danieli che imbracciava il fucile mitragliatore, dal caporale Avioli, dagli alpini Marchetti, Vanoni, Bongin, proseguimmo raggiungendo il costone di una grande balka, ai suoi piedi si adagiava un grosso abitato da cui proveniva l’eco dei combattimenti in corso; era iniziata la battaglia di Nikolajewka.
Alpino Cesarino Magatelli
46ª Compagnia, Battaglione Tiràno, 5^ Reggimento Alpini
Nikolajewka 26 gennaio 1943; chi l’ha vissuta è una data indimenticabile, che noi reduci di Bormio abbiamo sempre ricordato e commemorato a ricordo dei caduti. Questa terribile giornata che non so se basta chiamarla infernale, e solo chi c’era nel mezzo si chiede come abbiamo potuto salvarci in quel terribile uragano.
Dall’alba al tramonto è stato un fuoco senza tregua da tutte le parti da terra e dal cielo, il freddo a 40 e più, la fame i pidocchi che ci tormentavano. Mi resterà sempre impresso le gesta del mio capitano povero Giuseppe Grandi, medaglia d’oro, che ferito mortalmente gridava ancora avanti con le bombe a mano.
Si era diventati come tante belve, l’assalto a Nikolajewka l’abbiam fatto di corsa come tante belve infuriate, in mezzo a quell’inferno ben pochi siamo arrivati alla fine di quella terribile giornata. La vita non contava più pur di finire questo calvario. Senza il coraggio e l’unità degli alpini non sarebbe più tornato a casa nessuno.
Maresciallo Andrea Dante Bagiotti
Compagnia Comando Tiràno, 5^ Reggimento Alpini
Vorrei ricordare un episodio che col tempo forse sarà un particolare. Mi trovavo a Podgornoje verso la metà del gennaio 1943, tutto intorno c’era aria di tempesta e mentre aspettavo ordini sul da farsi vidi un crocchio di alpini che stavano parlando animatamente. Mi avvicinai più per curiosità che per interesse e riconobbi al centro Don Gnocchi, il cappellano della Tridentina, che stava parlando loro: “Ricordatevi che Dio è con gli alpini”. Dal crocchio si poté udire in coro: “Gli alpini sono degni di Dio”.
Nikitowka un villaggio di molte isbe, il 25 gennaio, 30 anni or sono. Nei nove giorni di dura marcia sul ghiaccio a 40^ sotto zero, il 5^ è uno dei reparti che hanno saputo conservare maggiormente la loro compattezza, malgrado la serie dei combattimenti malgrado le armi siano in gran parte inefficienti, malgrado lo sfinimento degli uomini. Le poche slitte servono per i feriti, sulla prima c’è la bandiera che il colonnello Adami ha giurato di riportare in Italia.
Ora da Nikitowka, dove il 5^ ha trovato precario riparo per la notte, la strada verso ovest è sbarrata da un forte reparto russo, che con molte armi automatiche, lanciarazzi e mortai occupa la selletta di Arnautowo. E’ l’ora del Tiràno: “Tiràno avanti!” è il grido passato di bocca in bocca, le nappine rosse del battaglione vanno all’attacco sotto una tempesta di colpi. La 46ª al centro, la 49ª a destra, la Compagnia Comando a sinistra. E’ una lotta selvaggia.
Per tre volte il Tiràno si butta avanti, e giunge alle postazioni russe: gli uomini si battono in un corpo a corpo crudele e sanguinoso. L’intervento della 48ª Compagnia pure del Tiràno decide la sorte della situazione: il nemico, che ha attaccato anche di fianco, si ritira. Il Tiràno è riuscito a passare, ma in mezza mattinata sono caduti undici dei suoi ufficiali e oltre metà dei suoi uomini. Con il sacrificio del Tiràno la colonna può riprendere la marcia verso Nikolajewka, l’ultimo ostacolo, il più duro…
Alpino Mario Galluzzi
48ª Compagnia, Battaglione Tiràno, 5^ Reggimento Alpini
Era ancora buio, la mattina del 22 gennaio 1943. Arrivò un ordine: “Si abbandonino le autocarrette”. A malincuore dovetti lasciare quel mezzo, ormai si era agli sgoccioli con la benzina. In compagnia del mio paesano Luigi Accerboni della Reggimentale del 5^, mi avviai come tutti gli altri, nell’intento di raggiungere ciascuno il proprio reparto, che era poco avanti. Verso le 10 stavamo per attraversare un bosco e solo dopo un po’”compresi quello che stava succedendo: tutti gli sbandati e i disarmati venivano fermati e trattenuti, per lasciare passare oltre i reparti organici della Tridentina.
Io e tanti altri si passò, preoccupati di raggiungere al più presto la propria compagnia. Verso sera l’Accerboni riuscì a prendere contatto con il suo reparto collegamenti, comandato dal sottotenente Gariboldi. Io rintracciai i paesani sergente Carlo Calcagni e l’amico Lodovico Ambrosioni, entrambi della nostra 48ª Compagnia.
Verso sera davanti a noi si sentivano degli spari; si capì solo quando era già notte cosa stesse succedendo. All’improvviso, come se fossero usciti dall’inferno, si pararono davanti a noi due enormi carri armati russi, che ci fecero retrocedere fino ad un paese, di cui non ricordo il nome. Mentre questi due ordigni di morte sparavano e le pallottole traccianti delle mitragliatrici passavano sopra le nostre teste, un cappellano recitava il santo rosario e noi alpini rispondevamo in coro, mentre ognuno, nell’intimo, pensava ai propri cari lontani e malediva quella sporca guerra.
Raggiungemmo le isbe in quel villaggio, erano ormai già tutte piene zeppe di alpini, tanto che non ci si stava neppure in piedi. Verso le 21 incominciò l’inferno, i carri armati russi scorrazzavano avanti e indietro in mezzo ad alpini, muli, slitte con feriti e congelati; fu un vero massacro. Con bombe a mano si tentava di fermare quei mostri, ma non si faceva loro che solletico.
Con il Calcagni e l’Ambrosioni mi imbattei nell’altro paesano Spirito Codega, appartenente alla 107ª Compagnia Cannoni del Morbegno. Si appartò con noi per circa dieci minuti; e ad un tratto un proiettile sparato da un carro russo colpì in pieno il pezzo a cui il Codega era addetto, ferendo mortalmente quanti stavano attorno. Fu una carneficina.
Durante tutta la notte, inoltre, si sentivano ovunque gemiti e lamenti di feriti che invocavano la mamma lontana, che non avrebbero forse più rivisto; altri inveivano contro la guerra, altri ancora chiedevano informazioni del proprio reparto. Dopo la notte passata all’aperto, verso l’alba ci imbattemmo in una slitta abbandonata, con un mulo a terra, morto; era la slitta del plotone mitraglieri della 48ª del Tiràno, con due mitragliatrici pesanti e con cassette di munizioni, il tutto intatto e funzionante.
Recuperammo un mulo, la slitta con il suo carico e ci accingemmo a raggiungere il battaglione. Purtroppo, quando si fece chiaro ci rendemmo conto che eravamo circondati. I carri russi si erano portati sulle balke a circa 100 metri l’uno dall’altro: quindi non era tanto facile uscire di lì. Mentre si stava osservando e studiando la situazione, arrivò un maggiore degli alpini, che disse: “Se vogliamo uscire vivi di qui e raggiungere il reggimento dobbiamo tentare da quella parte e farlo subito, forse i russi stanno dormendo; altrimenti saremo fatti prigionieri e… addio Italia!”.
Ci mettemmo in marcia, ci volle circa un’ora e passammo a non più di dieci metri dal carro russo. Passammo in pochi però, perché ad un tratto il carro cominciò a muoversi e a sputare fuoco. Rimanemmo circa una cinquantina; alcuni furono costretti a retrocedere al paese, molti rimasero sul campo. Il giorno dopo era il 23 gennaio, nevicò: buon per noi altrimenti i carri russi, che ci superavano ai lati, ci avrebbero visti. Alla sera, stanchi e affamati, arrivammo in un villaggio e lì trovai il sergente Pedrana di Bormio, anche lui della 48ª.
Pernottammo in un’isba al caldo, ma al mattino presto arrivò una masnada di tedeschi che cominciarono a piantar grana per avere loro il posto e… ci toccò sloggiare. Ci mettemmo di nuovo in cammino, faceva appena l’alba. In lontananza si vedeva una colonna che veniva verso di noi, era la Tridentina con i suoi battaglioni, con il generale Reverberi in testa. Fu la nostra speranza e la nostra salvezza, nonostante le molte altre peripezie, prima e dopo Nikolajewka.
P. Narciso Crosara
cappellano del Battaglione Tiràno, 5^ Reggimento Alpini
A Scororib passai la notte tra i feriti. Al mattino, prima di riprendere la marcia verso ovest (porta misteriosa della salvezza) mi venne a cercare il fedele attendente David. L’unica cosa che mi era rimasta era uno zainetto, caricato sulla slitta del comando, che conteneva i documenti più importanti e alcuni preziosi rotoli di fotografie scattate sulle rive del Don. Bisognava liberare la slitta per caricarvi i feriti ed i pochi viveri rimasti. Vidi le mie cose sparse qua e là sulla neve.
Raccolsi rotoli fotografici e alcune carte. E il cappello? Ero partito dalle rive del Don con il passamontagna in testa e con la tuta mimetica da sciatore. Il freddo, a 40^ sotto zero, passava attraverso le maglie di lana e arrivava alle tempie pungente come aghi. Il mio cappello lo scorsi in testa ad un alpino. Egli capì che avrebbe dovuto restituirlo al suo cappellano. “Va là…” gli dissi. “Hai freddo quanto ne ho io; tienilo pure ma toglici i segni di cappellano e poi, se vuoi, mettici i gradi da generale.” Così il cappello se ne andò. Spero che gli abbia portato fortuna. A me sì. Averlo sacrificato fu la mia salvezza.
La sera del 25 gennaio raggiungemmo Arnautowo. Le file si erano assottigliate. I superstiti camminavano a stento, brancolanti, spossati dalle marce forzate, dal sonno, con le carni doloranti per le ferite, mutilate dai congelamenti, affamati e laceri. Le scarpe indurite dal gelo stringevano i piedi tanto da farli sanguinare. Cammina, cammina, di giorno e di notte sulla neve che pareva sabbia mobile.
Varcai il ponticello gettato sul fiumiciattolo della palude, mi riparai nella prima isba che incontrai, lasciando il villaggio alle spalle. Passai la notte, la prima in verità che mi offrì una sponda di letto, condiviso con il maggiore Zaccardo ed alcuni ufficiali. C’erano nell’isba dei bambini, un vecchio e delle donne, raggomitolate a dosso del forno. Dormire? Un ufficiale rannicchiato in un angolo del letto bruciava dalla febbre. Ogni tanto mi scuoteva. “E allora, cappellano, ce la faremo?” “Sì. Vedrai che ce la faremo ad uscire da questo inferno.” Avevo questa speranza; la sentivo profondamente nel cuore.
Nella tarda sera e per tutta la notte si ripeterono insistenti gli attacchi dei russi contro il Valchiese e la 33ª Batteria del Bergamo, che con noi avevano trovato rifugio in quelle isbe, tagliate fuori dal paese. Ne seguì una lotta violenta a corpo a corpo. La battaglia si estese, arrivò sino alla nostra isba senza travolgerla. Quando spuntò l’alba, arrivò il mio battaglione. Tirai un profondo respiro di sollievo. Avevamo appena incominciato a risalire la selletta che incominciarono a piovere colpi di mortaio. Vidi la slitta di Viale colpita e l’ufficiale fuggire e scomparire verso la palude tenendosi la testa tra le mani.
Fu un momento di incertezza e sbandamento. Lungo tutto il ridosso si sentiva chiamare: Tiràno… per farci coraggio e tenerci vicini. Giunti al colmo della sella il Tiràno fu investito da forti formazioni russe. Avanzavano baldanzose, cantando, protette da mortai; attaccando con parabellum, mitraglie e fuciloni anticarro. Il nemico tentava di spezzare in due la colonna e rompere la compagine del” reggimento. Se ci fossero riusciti, le sorti degli alpini sarebbero state segnate fin dal mattino con l’annientamento e la nostra fine.
Mi trovavo in testa con la 49ª Compagnia, comandata dal capitano Briolini. Mi avventurai con loro all’attacco. Caddero molti alpini con in testa i loro ufficiali. Mi meravigliavo di non essere travolto con loro. Mi passò vicino, di corsa, il sottotenente Slataper gridando: “Viva il 5^!”. Lo vidi stramazzare al suolo. Chi avanzava era falciato via. Fui preso da una terribile ribellione contro quella carneficina. So di avere urlato, imprecato contro i nemici, finché le loro armi finalmente tacquero, sopraffatti, travolti dall’impeto disperato del Tiràno.
Cercai di smistare a valle i feriti. L’isba convertita in ospedale rigurgitava di gente che si lagnava, che soffriva: ma i più erano là sulla bianca distesa, senza vita. Consegnai i feriti a padre Tonidandel arrivato in Russia con i complementi. Moltiplicava le sue energie per fare l’impossibile. Sapevo che essi erano in buone mani; cercai di raggiungere il resto del battaglione, ridotto ormai a duecento uomini! La massa degli sbandati si muoveva lentamente sul dosso della collina verso Nikolajewka. Per vasto spazio il terreno digradava verso il villaggio in una piana a forma di anfiteatro.
Nella valle si era fatto silenzio, che soffocava il cuore nell’attesa. Avevo impegnato parecchio tempo per i feriti e per i morti. Ora camminando ora correndo lungo il lato della colonna stavo per raggiungere i resti del mio battaglione che avanzava all’attacco. Comparvero alcuni apparecchi russi che bombardavano e mitragliavano a bassa quota. D’improvviso si scatenò l’inferno, rabbiosamente. La neve appariva chiazzata di nero e di sangue sotto le raffiche delle mitraglie, le sventagliate dei parabellum, l’esplodere dei proiettili di mortai e di anticarro.
Vidi la massa ondeggiare, arrestarsi. Un apparecchio dopo aver sganciato alcune bombe, puntò con brusca virata verso di me, tanto basso da poter scorgere il pilota che arrivava mitragliando. Mi son visto perduto. Mi inginocchiai sulla neve. Promisi qualcosa al Signore. La neve si sollevò intorno a me ma non fui colpito. Deo gratias! Il generale Martinat a pochi passi da me gridava agli alpini di avanzare e cadeva colpito in testa alla Compagnia Comando del 5^.
Il generale Reverberi sopra un’autoblindo affronta il sottopassaggio; va all’assalto incitando i superstiti a seguirlo al grido: “Alpini avanti! Tridentina avanti!”. Gridavo anch’io a quanti portavano la penna nera o imbracciavano un’arma, di venire avanti… Ci voleva coraggio e bisognava farcelo a vicenda. In quel mentre ho sentito uno schianto vicino e mi sono sentito risucchiare come da una raffica di vento. Ebbi il tempo di pensare: cosa ci mettono i russi nelle granate? Nessuna ferita, neppure una scalfittura eccettuato quel terribile ruzzolone.
Mentre stavo per risollevarmi afferrai istintivamente, quasi senza rendermene conto, un elmetto che era lì sulla neve e me lo ficcai in testa sopra il cappuccio. In quel mentre mi investì un sinistro bagliore e fui travolto dallo scoppio di una granata. Non ricordo più nulla. Ho sentito una botta potente all’elmetto. Con gli occhi sbarrati non ci vedevo, e sulle carni sentii un calore intenso. Mi parve di essere fuori del tempo. Quando mi riscossi mi trovai immerso in una bolgia spaventosa.
Mi ricordai del mio cappello al quale avevo rinunciato, perché un alpino non si sentisse stringere le tempie dal gelo. Un gesto che valse per me la salvezza. Con un cappello alpino in testa, un elmetto non ci sarebbe stato. Mi guardai attorno. A pochi passi da noi padre Pedrini del Vestone cadeva ferito a morte. Alcuni ufficiali fecero per rialzarlo. “No” disse con voce stanca “non perdete tempo. Andate avanti. Dite a mia madre che io muoio da cappellano e da soldato”.
Quando tentai di riprendere a camminare per raggiungere i miei alpini sotto lo spalto della ferrovia, mi imbattei in un giovane russo, buttato sulla neve. Stringeva in mano un pugnale cercando con l’altra di strapparsi il bavero che gli stringeva il collo, per tagliarsi la gola. Siamo in combattimento sì… ma vedere quel giovane che voleva togliersi la vita, mi parve una cosa orribile! Gli presi il braccio gridando: “Vigliacco, perché ti ammazzi? Cosa ti facciamo ora di male?”. Mi fissò con occhi che mi parvero di fuoco e sangue. C’era in quello sguardo tanto odio e disperazione. Umanamente non potevo fargli nulla.
Gli misi davanti agli occhi il crocifisso che lo potesse vedere… Egli capì che mi faceva tanta compassione e gli volevo bene. Prese con mano tremante il pugno che stringeva il crocifisso e lo baciò ripetutamente. Mi guardò. I suoi occhi erano divenuti buoni. Mi consegnò il pugnale. Lo buttai più che potei lontano, perché non ripetesse più quel gesto. Mi chinai su di lui e, come meglio mi riuscì ad esprimermi, gli dissi, anche per me: “La Madre di Dio ti vuole bene. Abbi fiducia. Nessuno ti farà del male”. Mi guardai d’attorno. La vasta piana era punteggiata di morti.