ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 47

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

DIVISIONE TRIDENTINA

di Giulio Bedeschi

Fra le Divisioni del Corpo d’Armata Alpino la Tridentina fu la prima ad avere il battesimo del fuoco allorché, il 1^ settembre 1942 alla quarta marcia verso il Caucaso venne invece dirottata e impiegata nel settore della Divisione Sforzesca. Si trovarono impegnati specialmente i Battaglioni Val Chiese e Vestone, che combatterono con grande valore ed ebbero in una sola giornata diverse centinaia di morti e feriti. All’inizio di novembre la Tridentina si ricongiungeva al Corpo d’Armata Alpino e si schierava sul Don, in linea con la Julia e la Cuneense, avendo sul suo fianco sinistro l’Armata Ungherese.

Fino a metà dicembre sui 45 chilometri di fronte tenuto dagli alpini non si ebbero operazioni di rilievo: tutto si limitò a tiri delle opposte artiglierie, a uscite notturne di pattuglie che compivano incursioni esplorative o di disturbo sulle due sponde del fiume. Anche quando la Julia venne trasferita più a sud, dopo il 16 dicembre e fino a metà gennaio la stasi operativa si protrasse sul fronte della Tridentina e della Cuneense.

Con lo sfondamento del fronte tedesco verso sud, e la puntata dei carri armati fino a Rossosch e il conseguente trasferimento del comando del Corpo d’Armata Alpino a Podgnornoje, tutto precipitò all’improvviso: fra il 14 e il 16 gennaio i russi attaccarono ripetutamente e violentemente specie nei settori dei Battaglioni Vestone ed Edolo, e da quei giorni in poi anche la Tridentina si trovò coinvolta nel pieno dell’offensiva invernale russa, quando finalmente, e in grave ritardo, il Corpo d’Armata Alpino veniva autorizzato dai superiori comandi germanici a ripiegare dalle insostenibili posizioni sul Don.

Il 17 gennaio, quindi, la Divisione Tridentina lasciava la linea sul fiume ed eseguiva la prima marcia di ripiegamento raggiungendo la sua base di Podgornoje nella mattinata del 18 gennaio (mentre la Julia e la Cuneense giungevano faticosamente nella vicina Popowka). Aveva inizio così la ritirata dell’intero Corpo d’Armata Alpino, il quale per sua fortuna aveva nella Tridentina una grande unità ancora pressoché intatta nella sua efficienza in uomini, armi e materiali.

Nel muoversi da Postojalyi verso ovest, si unirono al comando della Tridentina il comando del Corpo d’Armata Alpino, quello del XXIV Corpo d’Armata corazzato tedesco che disponeva di qualche migliaio di soldati, di quattro grossi semoventi, di un gruppo con 5 cannoni da 152 e di una batteria di lanciarazzi multipli; uomini ed armi con congrue munizioni che, assieme alle potenti stazioni radio sarebbero stati preziosi in combattimento e in marcia fino a Nikolajewka e all’uscita dalla sacca.

Il giorno 19 su due diversi itinerari di marcia, le colonne della Tridentina furono avviate ad occupare Skororyb ed Opyt, mentre il Battaglione Verona venne autotrasportato e portato innanzi per l’occupazione di Postojalyi. Nel pomeriggio i Battaglioni Edolo e Tiràno, appoggiati dalla 29^ Batteria del Gruppo Valcamonica e da semoventi tedeschi, vinsero la forte resistenza russa ed espugnarono il paese di Skororyb nonostante i russi impiegassero ingenti quantitativi di artiglieria, mortai, mitragliatrici e carri armati.

Nello stesso giorno 19 il Battaglione Verona, con l’appoggio della 33ª Batteria del Gruppo Bergamo attaccava Postojalyi fortemente tenuta dai russi, ma dopo ore di combattimento doveva desistere e ripiegare, avendo già avuto duecentodue caduti e oltre cento feriti. Durante la notte sul 20 l’altra colonna della Tridentina, in sosta ad Opyt, venne ripetutamente attaccata da ingenti forze russe contro le quali si impegnarono in combattimento la 54ª Compagnia del Vestone e la 45ª Batteria del Vicenza, strenuamente affiancate dall’azione del II Battaglione Misto Genio che in quel combattimento perse circa il 60% dei suoi soldati.

Il 20 gennaio la Tridentina entrò in Postojalyi nelle prime ore del pomeriggio, e suddivisa in due scaglioni riprese la marcia ostacolata da insistenti attacchi, specie notturni, di russi che aggredivano la colonna con reparti volanti; il giorno 21, superatà Nowo Karkowka, l’avanguardia composta dal 6^ Alpini, dal Gruppo Vicenza e da quattro carri e relativi reparti tedeschi, attaccò decisamente le forze russe che si erano attestate a Krawzowka e in un’ora di combattimento le annientò completamente: i russi lasciarono sul terreno cinquecento morti.

La colonna riprese la marcia sotto l’infuriare di una violenta bufera di neve, e, mentre la temperatura calava a 40^ e diventavano impressionanti i casi di congelamento, di assideramento e di pazzia, con uno sforzo collettivo e una resistenza fisica quasi inconcepibili vennero raggiunti altri due paesi fra loro vicini, Limarew e Nowo Dmitrowka: fra questi e Krawzowka, in una indescrivibile confusione e con estremo disagio causati dalla scarsità delle isbe pernottarono gli alpini della Tridentina e i reparti tedeschi.

Dopo le diciotto la radio del comando del XXIV Corpo corazzato germanico riuscì a mettersi a contatto con la lontana radio del comando dell’8^ Armata italiana e a captare un messaggio di capitale importanza: Waluiki era ormai in saldo possesso dei russi, i reparti del Corpo d’Armata Alpino dirottassero su Nikolajewka per uscire dalla sacca.

Questa comunicazione trasmessa ai comandi dipendenti della Tridentina, mise la divisione sulla pur aspra via della salvezza; non pervenuta, per impossibilità di collegamenti, alle altre tre divisioni, queste si reincamminarono verso il compimento del dramma che avrebbe portato alla distruzione la Julia, la Cuneense e la Vicenza.

Il successivo 22 gennaio fu la giornata di Scheljakino. Il paese, che si sapeva già fortemente presidiato dai russi, distava neppure una decina di chilometri. Nella tarda mattinata la grande colonna si fermò nei pressi del poi famoso “ponte di Scheljakino”, e le compagnie del Val Chiese e del Vestone, con i resti del II Battaglione Genio si schierarono all’attacco.

I primi carri armati russi che puntarono verso il Vestone vennero messi fuori combattimento dai semoventi tedeschi, mentre le compagnie italiane facevano il vuoto nelle file delle fanterie russe e successivamente eliminavano le incalzanti fanterie che seguivano una ancor più pesante puntata di carri, a loro volta immobilizzati dai pezzi della 76ª Batteria italiana e dai semoventi tedeschi; infine, sgombrato il terreno dalla tenace resistenza nemica, gli alpini si lanciavano a stanare le ultime resistenze arroccate nelle isbe, e occupavano il paese.

Più tardi, a più riprese, nuove puntate dei russi tendevano ad aggirare il paese e a prendere di fianco le colonne italiane in arrivo; ma era determinante l’esemplare reazione del Vestone, dell’Edolo e del Tiràno magnificamente appoggiati dalla 110ª Compagnia A. A. che metteva fuori combattimento tre carri russi, e dai pezzi del Val Camonica.

In serata e durante la nottata giungevano a Scheljakino, dopo una marcia accanita, i superstiti dei reparti della Julia che durante il giorno erano riusciti a disimpegnarsi dalla morsa russa a Nowo Georgiewka, e rientrando così sul percorso giusto dividevano da allora in poi le sorti della Tridentina.

Verso sera la testa della colonna si rimise in marcia e a mezzanotte fece sosta a Shabskoje mentre il grosso pernottava a Ladomirowka. Mancavano tuttavia all’appello il Battaglione Morbegno, la 31ª Batteria del Gruppo Bergamo, un Gruppo d’artiglieria a cavallo, un raggruppamento di artiglieria, la 82ª Compagnia cannoni, oltre che reparti di salmerie: avevano preso la strada che conduceva a Warwarowka, dove per tutta la notte e il mattino seguente erano stati attaccati da ingenti forze russe sostenute da molti carri armati, che con implacabile azione infierirono contro quegli sfortunati reparti fino a ridurli a una distruzione pressoché completa; soltanto poche decine di uomini riuscirono a sfuggire a tale sorte e a reimmettersi nell’itinerario della Tridentina.

Nella mattina del 24 gennaio, dopo alcune ore di marcia, l’avanguardia della colonna si imbatté in una forte resistenza nemica che sbarrava la strada in corrispondenza dell’abitato di Malakijewa: subito si impegnarono in combattimento i Battaglioni Val Chiese e Vestone, sostenuti dai pezzi dei Gruppi Vicenza e Bergamo; Il combattimento si svolse accanito, con grave sacrificio specialmente del Vestone che per portare a termine una manovra avvolgente dovette assoggettarsi alla disumana fatica di manovrare velocemente sprofondando nella neve altissima.

Sotto il fuoco di tre batterie da 105 russe, poi catturate, uno dei quattro preziosissimi semoventi tedeschi venne centrato e immobilizzato nel pieno del combattimento; ma quando con un razzo che si levò nel cielo il comando russo diede il segnale di ritirata, circa seicento soldati sovietici giacevano morti sulla neve.

Ancora in giornata la colonna del 6^ Alpini si rimise in marcia e fece tappa nelle isbe di Romachowo, dove entro mezzanotte giunse anche il 5^ Alpini. Moltissimi alpini, data la piccolezza del paese, non trovarono posto nelle isbe e furono costretti a pernottare sulla neve fra l’infuriare della tormenta, aggravando il quotidiano contributo di vittime sacrificate ad una situazione insostenibile che si andava prolungando oltre i limiti di ogni umana possibilità di sopravvivenza.

Ripresa la marcia nella mattinata del 25, al primo pomeriggio venne raggiunto il grosso abitato di Nikitowka, dove la colonna sostò dopo che furono vinte le abituali resistenze dei partigiani; in avanguardia vennero inviati reparti del Val Chiese, del Verona, e la 32ª e 33ª batteria del Gruppo Bergamo, che si inoltrarono in direzione di Nikolajewka e si attestarono rispettivamente nelle località di Terinkina, Ssruzskaja e Arnautowo.

Mentre il grosso della colonna finalmente trovava un qualche ristoro di calore e di cibo a Nikitowka e in questo accogliente paese passava la notte, l’avanguardia fu subito attaccata dalle truppe russe; in particolare la 33ª Batteria venne impegnata a fondo e sostenne fino all’ultimo sangue, senza mai mollare le posizioni, un terribile combattimento che si protrasse per sette interminabili ore fino a mattina, essendo sempre più evidente il tentativo russo di tagliare in due la colonna per procedere poi più agevolmente alla sua distruzione, ogni giorno perseguita ma mai ottenuta in una settimana di lotte ad oltranza.

Durante la notte anche il paese di Nikitowka venne attaccato, cosicché venne deciso di accelerare i tempi e all’alba fu mandato innanzi il Battaglione Tiràno, che giunse ad Arnautowo appena in tempo a sollevare la 33ª Batteria dall’estremo e totale sacrificio, essendo già caduti o feriti quasi tutti i suoi componenti al loro posto di combattimento, con una esemplare ed eroica dedizione al dovere militare. Di fronte alla sempre più accentuata resistenza nemica, il Tiràno si schierò e impegnò i russi in un combattimento che si protrasse fin verso le dieci.

Impossibile riassumere i prodigi di valore compiuti dagli alpini del Tiràno, dopo i quali il ferreo battaglione risultò semidistrutto, ma fiero di aver tenuta aperta alla grande colonna la strada di Nikolajewka. Spalleggiato, in ciò, dall’intervento di alcuni pezzi dei Gruppi Val Camonica e Vicenza.

Sul costone antistante a Nikolajewka, intanto, già dalle otto del mattino si erano attestati i primi reparti del Val Chiese, che ben presto scesero il lungo pendio che al fondo dell’avvallamento portava al rilevato terrapieno della ferrovia, che a sua volta in largo raggio incorniciava al basso l’opposto rilievo sul quale si estendeva, in quota, il grosso paese di Nikolajewka; paesaggio e visione che per l’intera giornata ossessioneranno tutti gli alpini e resteranno nitidi nel ricordo dei sopravvissuti per tutta la vita.

Verso le 9,30 venne ordinato l’attacco. Il Verona, ridotto alla forza di una compagnia di 140 uomini, il Val Chiese, con una sola compagnia, e il Vestone, più efficiente, che disponeva anche della Compagnia di formazione costituita dai superstiti del valoroso II Battaglione Genio, si lanciarono al basso e raggiunsero la ferrovia, fatti segno da un intensissimo fuoco nemico; in più punti riuscirono a salire il contropendio e a raggiungere le prime isbe, dove si asserragliarono; anche la stazione ferroviaria venne conquistata; ma le perdite erano gravissime, le munizioni venivano rapidamente ad esaurirsi, i plotoni si trovavano in posizione criticissima nonostante l’appoggio dei quattro pezzi della 32ª Batteria del Bergamo, di sei pezzi da 47/32 e dei semoventi tedeschi.

I reparti avanzati cercavano disperatamente di mantenere le posizioni raggiunte, fra le isbe la stazione ferroviaria e la chiesa, in attesa di rinforzi o quanto meno di un rifornimento di munizioni. Subentrò una sosta nel combattimento, mentre anche i semoventi tedeschi ripiegavano al coperto dopo che uno venne centrato e immobilizzato dal tiro dei moltissimi
cannoni anticarro russi, che spadroneggiavano letteralmente sul campo di battaglia.

Subentrò un violento attacco nemico contro i reparti avanzati, ma questi resistettero sulle posizioni malgrado l’enorme superiorità numerica dell’avversario. La situazione però diventava sempre più critica, anche nell’edificio della stazione gli occupanti erano quasi tutti morti o feriti; ma per questa stessa disperata resistenza ai limiti dell’impossibile, i russi desistettero dagli attacchi; e nel frattempo gli altri reparti della Tridentina si facevano avanti da Arnautowo e stavano avvicinandosi in zona.

Giunsero sul mezzogiorno il Gruppo Vicenza e i 150 superstiti del Tiràno; giunsero poco dopo la Compagnia Comando dell’Edolo, e altre frazioni di reparti che furono subito avviate a rinforzo sul campo di battaglia. Frattanto, sul costone, le schiere di soldati disarmati, congelati e feriti che costituivano, essendo circa trentamila, il grosso della grande colonna al sèguito dei reparti organici della Tridentina, si addensavano sulla neve fra slitte e muli, esposti in massa ai ripetuti mitragliamenti e bombardamenti degli aerei russi.

La situazione si faceva man mano più tesa e preoccupante, perché il sole cominciava a declinare ed era evidente che una permanenza sul costone nelle ore notturne avrebbe significato l’assideramento e la morte per tutti. La necessità di scendere e occupare il paese insinuava nuovi fermenti nelle ammassate e inermi schiere della colonna. E forse mai le vite di tanti soldati di varie nazioni – trentamila, quarantamila – erano dipese direttamente, ora per ora, dal valore, dalla generosità, dal carattere, dalla forza d’animo di così pochi combattenti.

Anche piccoli gruppi di sopravvissuti detta Julia e della Cuneense portavano il loro contributo di esigue forze scendendo ad affiancarsi al tremendo sforzo degli attaccanti della Tridentina. Il combattimento non si risolveva. Allora il generale Reverberi, comandante della Tridentina, preso a braccio il generale Nasci comandante del Corpo d’Armata, s’era avviato innanzi nell’intento di dare l’esempio, ed era giunto a ridosso del sottopassaggio della ferrovia quando sopraggiunsero tre compagnie del Battaglione Edolo, che subito vennero spiegate sul terreno e lanciate avanti per l’attacco risolutivo.

Mentre queste prendevano contatto col nemico, il generale Reverberi salì su un carro cingolato tedesco al quale diede l’ordine di avanzare e gettò tutta la sua anima nel famoso grido “Tridentina avanti!”, grido che rimbalzò di schiera in schiera ripetuto da soldato a soldato, ed ebbe il potere di scuotere l’immensa colonna che come una valanga si gettò al basso ed avanzò a rincalzo degli strenui combattenti; a ridosso di questi dilagò ad occupare il paese, mentre le strapotenti forze russe si davano a precipitosa fuga abbandonando cannoni, mitragliatrici e materiali d’ogni genere.

La battaglia di Nikolajewka era conclusa. Ora gli alpini si disseminavano al riparo nelle isbe a trovar sollievo alla mortale stanchezza, mentre squadre di soldati si portavano sulla neve del campo di battaglia a tentare di riconoscere nel buio della notte, e strappare al gelo e alla morte, i feriti ancora in vita. Un grande silenzio, un grande dolore calavano su Nikolajewka.

All’indomani mattina, 27 gennaio, quando la colonna si rimise in marcia, toccò ancora all’Edolo annientare lo sbarramento fatto dai russi con mitragliatrici e anticarro. Ancora la marcia divenne frenetica e prolungata a dismisura, con improvvisi dirottamenti, a causa di altri sbarramenti nemici. Compiuti 40 chilometri, la colonna pernottò a Uspenska e ripartì alla mattina successiva, 28 gennaio, puntando verso Nowyi Oskol che notizie radio davano occupato da un presidio tedescoungherese.

Nel pomeriggio però, già in vicinanza di Nowyi Oskol, fu accertato che Nowyi Oskol era invece saldamente tenuto dai russi. Al fine di espugnare tale resistenza venne subito dato ordine di costituire un battaglione e un gruppo di formazione, ma nonostante ogni sforzo non fu possibile mettere insieme due reparti che fossero anche minimamente armati: tanto le munizioni individuali quanto le granate residue erano ridotte a quantità irrisorie, e gli stessi tedeschi comunicavano di aver esaurite le scorte per le loro artiglierie e la benzina per i due superstiti semoventi che si erano trascinati sui cingoli fino lì.

Anche la colonna della Tridentina aveva ormai esaurita la sua capacità offensiva; di fronte alla impossibilità di combattere, come già avevano fatto Julia e Cuneense la sera del 20 a Nowo Postojalowka, venne deciso di porre in atto l’estremo tentativo di affidarsi alla fortuna aggirando l’ostacolo eludendo il nemico arroccato: in grande silenzio, sprofondando nella neve alta, di balka in balka, la colonna riuscì ad eseguire una conversione e ad evitare il pericoloso contatto; giunse a notte fonda a Slonowka e là fece tappa.

Il 29, nuova lunga marcia e pernottamento a Besserab. Marcia anche il 30; ma al pomeriggio, finalmente, il generale Nasci dall’alto di un carro cingolato tedesco fermo sul ciglio della pista annunciava ai reparti di alpini che gli sfilavano innanzi, l’incredibile notizia: ci si poteva ormai considerare fuori dalla sacca, si poteva procedere riducendo le misure di sicurezza.

Il 31 gennaio e l’1 febbraio marce, ma infine sosta di tutti i reparti a Schebekino, Logowoje e Par. La grande tragedia era giunta al suo termine, gli strenui combattenti della Tridentina potevano concedersi riposo, e con loro la sterminata colonna che i combattenti avevano salvato. Lungo le vie della ritirata nella steppa restavano soltanto i caduti, gli assiderati stesi nella neve.

Personificazione del dolore degli alpini, il colonnello Signorini comandante del 6^ Alpini decedeva improvvisamente per attacco cardiaco nel rendersi conto, al di fuori di ogni dubbio, di quanto pochi erano i soldati superstiti del suo reggimento. Ancora un mese di marce per uscire dalla zona di pericolo, allontanarsi dalle puntate dei carri armati e porre in salvo i resti tragici di quello che era il Corpo d’Armata Alpino sul fronte russo.

Sottotenente Vito Raiteri
Battaglione Edolo, 5^ Reggimento Alpini

Di Nikolajewka, e di tutto quanto l’aveva preceduta, ho saputo solo al mio ritorno in patria, dopo tre anni e mezzo di prigionia. Sottotenentino di complemento (nappina verde dell’Edolo nel 5^ Alpini) da soli due mesi ero in trincea, sul Don, al comando del caposaldo “Ponte di Legno”.

Due mesi che, oggi, la decantazione del tempo mi fa ricordare quasi con nostalgia, certo con benevola reminiscenza; ma che allora, tranne per due brevi uscite esplorative, mi parevano uggiosi, soffocanti, interminabili. Quando pertanto dai superiori comandi venne la richiesta di un ufficiale volontario per una puntata sull’isoletta che sul Don ghiacciato fronteggiava proprio il mio settore, mi offersi con un entusiasmo che seppe vincere anche le perplessità del carissimo maggiore Belotti, allora comandante dell’Edolo.

Non sto a raccontare come caddi prigioniero, all’alba del 15 gennaio 1943. Anche se la mia coscienza non ha macchie di cui vergognarsi, ciò non è argomento di questi miei appunti; in quanto a ciò che ho provato “dentro”, non sono in grado di descrivere lo smarrimento, la disperazione, l’angoscia, il senso di impotenza che mi paralizzarono cuore ed intelletto quando, con alcuni dei miei compagni di sventura, alpini e guastatori, fui costretto ad alzare le mani da una turba di armati biancovestiti che ci avevano inesorabilmente circondati.

Ripensandoci in sèguito, ho benedetto quella specie di “trance” che, ottundendo ogni mia capacità di reazione, mi ha impedito qualche gesto inconsulto che avrebbe decretato la morte certa non solo per me (e giuro che in quei momenti non me ne sarebbe importato), ma anche per i miei uomini. Ed eccomi prigioniero, privato dei guanti di lana, del giubbotto di pecora, delle ultime sigarette (l’orologio mi venne tolto in sèguito) e soprattutto tagliato fuori dal mio mondo, dai miei affetti, dalla mia vita di prima.

Dopo una sosta in un rifugio – mentre si placavano rassegnate le ultime scariche della nostra artiglieria che si era messa in azione non vedendoci tornare – in testa ai miei poveri compagni (avevo infatti dichiarato di essere l’unico ufficiale), diedi inizio a quella marcia infernale che, ora a piedi ora in carro bestiame, doveva sinistramente contrappuntare i lunghi anni della prigionia.

Ma sono appunto quei primi passi che desidero mettere in risalto per l’enorme sbigottimento che mi procurò ciò che vidi nelle immediate retrovie russe e ciò che intuii dovesse esserci ancora, più indietro. Allorché lasciammo i boschi dell’isola e, attraverso il Don gelato, risalimmo sull’altra riva del fiume, il chiarore del giorno era ormai diffuso; ed allora vidi incrociarsi ed avviarsi verso il fiume, cioè verso la prima linea, una vera marea di soldati, carri armati, camion e camionette, carri cingolati e mezzi corazzati: era uno spettacolo impressionante, allucinante!

Bisogna considerare che oltre a tutto non sapevo nulla di quanto già era accaduto sugli altri settori del fronte, ignoravo che in effetti gli alpini erano già in una sacca e che l’offensiva sovietica – di cui tutto quel terribile potenziale bellico in movimento era il presupposto ed il preludio – si sarebbe scatenata il giorno successivo.

Non so per quanti chilometri ci fecero proseguire nell’interno, prima di farci sostare in un villaggio: ricordo solo i grossi oscuri crateri provocati sul terreno innevato dalla nostra artiglieria: e pensavano i soldati russi di scorta (per la precisione, erano asiatici) a farceli notare con gesti minacciosi; e ricordo, ripeto, quell’enorme macchina bellica in movimento
verso il fronte, con ondate che pareva non dovessero cessare mai più! E’ così che io ho avuto il triste privilegio di assistere allo schieramento, e direi quasi di passare in rivista, le enormi forze russe corazzate e motorizzate che si apprestavano a circondare da vicino il Corpo d’Armata Alpino, cosa che avvenne all’indomani.

Con sgomento i miei occhi videro, e il mio animo presagì, il calvario e la carneficina che stavano per abbattersi sugli alpini, lungo una strada che dal Don li avrebbe portati a Nikolajewka. Avrei voluto poter dare l’allarme, gridare: “Salvatevi!”. Vidi tutto. Ma, per me e per loro, il destino era già segnato, doveva soltanto giungere a compimento.

Caporal maggiore Michelangelo Divitini
Compagnia Comando Reggimentale, 5^ Alpini

Ferito ad un piede il giorno 22 gennaio 1943 mi trascino avanti per tre giorni con l’aiuto dell’allora colonnello Nestore Zucchi e del capitano Fulvio Pedrazzini. 26 gennaio ’43. E’ notte fonda quando vien dato l’allarme; tutte le isbe si trasformano in fortini; i colpi partono ed arrivano intensissimi. Appena giorno l’ordine di movimento. Ci dirigiamo verso Arnautowo.

Il Tiràno è di “giornata”; il mio battaglione prosegue deciso di sfondare, di liberare tutti dalla grande e penosa morsa. Un dosso traditore nasconde l’insidia e chi l’oltrepassa è sotto il tiro preciso delle armi nemiche. Quando ci siamo mossi in massa il nemico ha avuto paura, ha ceduto e si è ritirato più indietro ove già stava sistemandosi per ostacolare il nostro duro cammino e finalmente annientarci. Ricordo i capitani Grandi e Briolini che prima di muoversi hanno abbracciato e baciato il colonnello Adami come prevedessero la loro gloriosa morte.

… In fondo alla collina vediamo un cavalcavia; oltre quello un grande villaggio: Nikolajewka. Chi ha vissuto questo 26 gennaio non potrà mai dimenticare l’orrore e la durezza di questa battaglia. A combattimento ultimato la grande massa di sbandati si precipita ad occupare le isbe. Mi trascino in cerca degli amici più cari, e Dio vuole che trovi
Castelletti da Clusone il quale, senza che lo sapessi combattè al mio fianco per tutta la giornata e, a calma ristabilita, andò in cerca dei suoi due fratelli e li trovò sani.

Non così Riva da Talamona che trovò solo il più giovane mentre del maggiore non seppe più nulla. Ci sistemiamo in un sotterraneo e dormiamo un sonno ristoratore. Il mattino seguente, prima di metterci in cammino, una buona pattuglia dell’Edolo fa tacere per sempre un nido di resistenza che vuole ostacolare la nostra marcia.

Facciamo nostra una magnifica coppia di buoi. Su una grande slitta prendiamo posto in 12 feriti e congelati e ci avviamo verso Lutowinowo. Durante la marcia la slitta si rompe e nel tempo occorrente per la riparazione Castelletti viene preso da congelamento agli alluci. Procediamo con una lametta da barba ad amputare le estremità degli alluci onde evitare eventuale cancrena.

Alpino Lazzaro Grassi
Compagnia Reggimentale, 5^ Reggimento Alpini

Spunta l’alba del 26 gennaio; si attacca sulla sinistra del sottopassaggio (attacco non riuscito). Ore 14 circa: massa imponente sull’altura della balka in direzione della ferrovia. Un ordine: Reggimentale e 49ª Compagnia del Tiràno raggrupparsi per la partenza; poco si sa, ma si prospetta un attacco alla ferrovia. Mio comandante di plotone è il sottotenente Gariboldi.

In pochi uomini semiarmati, salvo qualche bomba a mano appesantita dal ghiaccio, a ordine sparso, scendiamo lungo la balka per l’avvicinamento al tunnel della ferrovia. D’acchito siamo attaccati dai mortai russi, ogni buca scavata nella neve dai colpi dei mortai stessi, rappresenta un provvisorio riparo. Giunti a carponi a pochi metri dal sottopassaggio, dalla zona laterale boscosa, siamo attaccati da armi leggère (parabellum), mentre la neve sollevata dagli scoppi s’infarina sul viso; le pallottole che brulicano tutt’attorno, i pochi rimasti (tra cui il sottoscritto) conquistiamo il sottopassaggio.

Nel medesimo tempo tre aerei russi (“Rata”) ci sorvolano a bassa quota, e s’avventano sul bersaglio grosso (vedi spiazzo antistante alla balka della ferrovia, dove poco prima siamo partiti noi per l’attacco) mitragliando e spezzonando; a questo punto il grosso raggruppamento, comprendente tedeschi, romeni, italiani, ecc., come una fiumana si precipita verso la ferrovia.

Oltre il tunnel, è un fuggi fuggi generale di uomini e slitte russe (qui ferito e congelato sono medicato dal tenente medico Aldeghi di Lecco). Un cingolato tedesco (il solo rimasto) si piazza aldilà del tunnel, e comincia a cannoneggiare e mitragliare le prime abitazioni, se non erro il campanile di Nikolajewka. Qui sostiamo. A mezzanotte siamo attaccati da pezzi anticarro, ma non siamo centrati. Qui lascio due cugini e tanti compagni, per sempre.

Capitano Enzo Manusardi
Comando 5^ Reggimento Alpini

Un appuntamento, allo scadere d’ogni anniversario, ci vede riuniti sotto l’insegna di Nikolajewka. Un convegno, il cui scopo non è solo di rievocare lo scampato pericolo dei sopravvissuti – e, se appena dipendesse da noi, di provarci a riesumare l’insoluto problema dei prigionieri e dei dispersi – ma, altresì, di celebrare collettivamente la memoria delle “penne mozze”, riandando con la mente alle epiche vicende di quella fatale campagna di Russia, degna d’esser tramandata ai posteri da una vigorosa arte michelangiolesca, sì memorabili permangono in essa gli episodi di dedizione e di angoscia.

E’  un appuntamento, al quale non veniamo meno da quasi trent’anni e che non ci riuscirà mai di disertare, finché – a Dio piacendo – pulserà in noi un battito di vita. E”, d’altro canto, la voce stessa di chi rimase laggiù, nell’“inferno bianco”, che puntualmente ci chiama a raccolta…

Ne nasce, in tal modo, un fruscio di reminiscenze, in cui, tra l’altro, ci pare ancor d’avvertire lo schiocco dei ghiacci sul fiume, il sibilo della tormenta (il sognato crepitìo del ceppo natalizio), il lugubre sferragliare dei mezzi corazzati, il vociar dei conducenti nella gran calca, lo schianto della mischia, il gemito dei feriti che si perde nello squallore della steppa, il tumulto di tutta una folla eterogenea, stipata nel fetido tepore delle isbe, allorquando – in quella disperata odissea boreale – i “naufraghi” v’irrompevano, ammassati gli uni contro gli altri, in cerca di una momentanea àncora di salvezza… Ma c’è dell’altro: …il termometro scese a diciotto gradi sotto zero; ogni cosa spariva sotto l’universale candore.

I soldati senza scarpe si sentono morire i piedi; le dita violacee e rigide lasciano sfuggire il moschetto che scotta al contatto; i capelli sono irti di gelo, e le barbe del fiato che vi si congela; gli abiti malridotti che indossano diventano sul corpo una casacca di ghiaccio. Gli uomini cadono, la neve li copre; formano al suolo brevi solchi di tombe (…). Smarriti nella distesa, i diversi corpi accendono fuochi di bivacco per chiamarsi e riconoscersi (…). Durante le notti (…), battute dalle raffiche del nord, non si sapeva né dove sedersi né dove sdraiarsi (…).

All’alba (…) la luce crescente illuminava cerchi di fanti irrigiditi intorno a roghi spenti… (A chi attribuire la paternità di un così raccapricciante panorama, se non a un testimone oculare dell’Armir?… C’è quantomeno da supporlo. Ma ecco che il brano appartiene invece a… Renè de Chateaubriand. Se ne può trovar la documentazione nel suo libro: Napoleone. Nulla dunque è mutato.)

A questo punto, non è per cedere alle lusinghe di una stupida retorica, ma sta di fatto che, se appena ci voltiamo indietro, un’abbagliante fiamma pare ci si sprigioni dal di dentro, uno straordinario fulgore che ha la forza di ridestare anche le più sopite sensazioni, di sublimare ogni istintivo moto dell’animo e di guidarci, umili pellegrini, verso un favoloso presepio, popolato di ombre, di miti e di eroi.

Si tratta – quel che è positivo – di un avvenimento che, senza bisogno d’esortazioni, ci fa rientrare, per un istante, in noi stessi, invitandoci a ripercorrere, in punta di piedi, il tragico itinerario della “lunga marcia”... Sono momenti che valgono un’eternità. Ce li preannuncia immancabilmente, ogni anno, l’avvicinarsi dei primi freddi e della prima neve.

Maggiore Guglielmo Fabrocini
Comando 5^ Reggimento Alpini

Ero maggiore, addetto all’ufficio operazioni del 5^ Reggimento Alpini con il capitano Vittorio Leydi. A Podgornoje, il 18 gennaio, avevo avuto l’ordine di tenere il collegamento con la retroguardia divisionale costituita dal Gruppo Misto Novara e Savoia Cavalleria, appiedato, comandato dal tenente colonnello Bagnacci ed ero riuscito ad assolvere il mio compito sino al 22 gennaio a Scheljakino.

Nella notte sul 23 Bagnacci ed io c’eravamo salutati perché volevo vedere ciò che era avvenuto a reparti del Battaglione Morbegno, rimasti isolati dalla colonna della Tridentina, nell’intento di riportarli sull’itinerario che, supponevo, avrebbe seguito la Divisione. Alle prime luci del 26 raggiungemmo Arnautowo.

Il tenente colonnello Lantieri dè Paratico, vicecomandante del 5^, mi ordinò di lasciare i superstiti del Morbegno che erano con me (poco più di 60 fra ufficiali sottufficiali ed alpini) alla compagnia comando del reggimento, e di andare a riferire al colonnello Adami, poco più avanti, sulle circostanze del nostro rientro e sulla perdita di collegamento con la retroguardia, cosa che feci immediatamente.

Rintracciai il colonnello Adami, feci la mia relazione. Fui inviato alla ricerca del comando della divisione e del generale Reverberi che doveva essere poco più avanti, a Nikolajewka, con il Battaglione Verona e gli altri reparti del 6^ Alpini e del 2^ Reggimento artiglieria alpina. Fu così che, percorso il lungo rettilineo in leggera discesa, verso le 11 del mattino, raggiunsi l’ampio piazzale che separa la ferrovia dall’abitato di Nikolajewka, superai il sottopassaggio presso il quale agonizzava il tenente colonnello Calbo del 2^ artiglieria alpina e mi presentai al generale al quale riferii sugli avvenimenti relativi al Morbegno che erano a mia conoscenza.

Mi accingevo a tornare verso il comando del 5^ Alpini, ma il generale Reverberi mi intimò: “No, tu resta qui, ci sarà da fare anche per te”. Intanto, nell’attesa degli ordini che non venivano, osservavo ciò che accadeva attorno a me e, vedendo alcuni piccoli reparti russi dirigersi occultandosi fra le isbe, verso la chiesa ortodossa all’estremo nord est dell’abitato, e rendendomi conto del pericolo che avrebbero potuto correre i reparti del Tiràno che stavano affluendo verso la chiesetta, dissi al generale che “dovevo andare ad avvertirli”.

Accanto al capannone, fra un cingolato ed un carro leggero tedeschi, vidi il sottotenente Bertolini, di Trieste, con alcuni alpini del Tiràno. Lo chiamai, gli spiegai la situazione e, subito dopo, assieme, prendemmo la rincorsa per attraversare i trecento metri del piazzale che ci separavano dalla chiesa. La piazza era deserta, coperta da un solido strato di ghiaccio, battuta dal tiro di numerose armi russe, ma noi correvamo veloci, a grandi salti, traballando sul ghiaccio mentre ci schizzavano addosso i ghiaccioli sollevati dai colpi delle mitragliatrici russe.

I nemici avevano capito la nostra intenzione e volevano fermarci. Poco oltre la metà del percorso, Bertolini cadde di schianto. Mi precedeva di 5 o 6 metri ed io mi gettai a terra accanto a lui e gli chiesi: “Si è fatto male?”. “Vada, vada, signor maggiore, mi hanno colpito alla colonna vertebrale, non mi muoverò più di qui!” Balzai in piedi e raggiunsi, trafelato, gli alpini della chiesa; diedi l’allarme. Dopo pochi rabbiosi assalti, i russi rinunciarono alla manovra ed iniziarono a ripiegare, sotto il nostro tiro, verso l’abitato.

Presi allora due alpini, staccai una porta interna della chiesa ed andammo a recuperare Bertolini; lo portammo in una camera ancora scaldata dalla stufa accesa e, vedendo un reparto tedesco di sanità del Gruppo Fischer, feci entrare nella chiesa il sottotenente medico ed i suoi uomini in modo che, usufruendo dei locali adiacenti alla chiesa egli potesse soccorrere, con i suoi feriti, anche Bertolini che parlava il tedesco benissimo.

Uscii dall’isba vicina alla chiesa che, forse, era stata la canonica, e, sul cadavere di un soldato russo raccolsi un fucile Mauser ed un cinturone con quattro gibernette contenenti due caricatori ciascuna. Il fucile non era bloccato dal gelo; controllai sui russi in ritirata il buono stato dell’alzo e del mirino. Riattraversai quindi la piazza e giunsi al capannone nel momento in cui il carro armato stava avviandosi verso l’entrata principale di Nikolajewka.

Il carro armato avanzava lentamente; ogni tanto si arrestava per sparare qualche raffica in direzione dei reparti russi che si potevano vedere e che io indicavo dopo aver battuto brevi colpi con il calcio del fucile contro lo scafo del carro fin che il capocarro si sporse fuori dalla torretta con un largo sorriso ed un pacchetto di sigarette in mano. “Nein, danke” risposi, “ich bin zu viel hungrig” (sono troppo affamato).

Il tedesco scomparve nel carro e riapparve un secondo dopo con una scatola di latta aperta contenente pasta di pesce. Ringraziai, mi misi il fucile a tracolla e, sempre seguendo il carro, trassi di tasca il temperino e cominciai a grattare e mangiare la pasta di pesce intrisa di minutissimi aghi di ghiaccio.

Eravamo ormai fra le prime case di Nikolajewka, nella strada insolitamente angusta, non si vedeva nessuno. Tutte le isbe parevano disabitate. Mi cacciai la scatola di pesce in una tasca del pastrano e ripresi a sparare contro i russi che, in uno spiazzo lontano, fra due isbe, stavano tentando di caricare una mitragliatrice su di una slitta. Finirono per lasciare la mitragliatrice e caricarono due feriti.

Mi volsi indietro e vidi la piazza affollarsi lentamente di piccoli gruppi di italiani armati, preceduti da un altro carro armato tedesco che non avevo visto prima, e dirigersi verso di noi ancora ostacolati da rarissimi colpi di mitragliatrice e da qualche scoppio di colpi di mortaio; e fu allora che pensai a procurare un ricovero per la notte al comando del 5^ Alpini. Tornai verso l’entrata del paese ove avevo notato un’isba con i vetri intatti ed abbastanza spaziosa. Vi entrai.

Nessuno nella prima stanza, quella della cucina. Nella seconda stanza un soldato russo era seduto sull’unico letto; disarmato; non si mosse al mio ingresso. Gli puntai il fucile al petto e gli ordinai di uscire con un perentorio cicai. Il russo mi guardò con un’espressione di sperata, allargò le mani che teneva intrecciate sul ventre e scoprì una grande macchia di sangue che si allargava sul camiciotto dicendomi rana (ferita). Interdetto, uscii per continuare l’ispezione nelle altre stanze dell’isba. Salii nel solaio e trovai un fucile semiautomatico con il caricatore inserito e ridiscesi.

Dalla stanza di prima il russo era scomparso e mi misi sulla porta dell’isba mettendo bene in vista i miei gradi ed i due fucili per impedire a chiunque di occupare quella che, da quel momento era la sede del comando del 5^ Alpini. Interrompevo di quando in quando la mia vigilanza per raschiare dal fondo della mia scatola ancora un po’ di pasta di pesce fin che essa non fu accuratamente pulita e, alle prime ombre della sera, giunsero finalmente il
comando del 5^ Alpini e quello della divisione. Dovemmo adattarci ad una coabitazione molto affollata e rumorosa.

Ma oltre a questi episodi, rimangono nitidi nella memoria altri episodi e ricordi: la bellissima giornata, limpida e gelida, le macchie di sangue sulla neve immacolata, le fucilate contro i lupi apparsi all’improvviso, i due biscotti che Bracchi mi regalò quando cercavo il comando della divisione, una battuta di Paroldo sul vento ed i partigiani, la faccia preoccupata di Di Leo e quella impassibile, serena e consapevole del generale Martinat un’ora prima della sua morte e tante, tante altre cose che, con il passar del tempo, assumono colori e contorni sempre più indefiniti ed incerti sul quadro nitidissimo di attimi e di gesti incancellabili.

Tenente Giuseppe Cerosa
Compagnia Comando Reggimentale, 5^ Alpini

Si chiamava Giuseppe Adami, colonnello comandante il 5^ Alpini in Russia. Era al deposito di Milano e non l’avevo mai visto; come sempre succede, quelli del deposito erano ritenuti degli eterni imboscati. C’era stata la guerra di Albania e lui non s’era mosso da via Vincenzo Monti assieme a due subalterni di sua fiducia, inoltre si diceva che era abbastanza vecchio e che là ci sarebbe rimasto sino al termine della sua carriera.

L’ho incontrato per la prima volta nel cortile della caserma di Merano a Maia Bassa ed aveva risposto al mio saluto con tanta indifferenza, io ero addetto ai rifornimenti del battaglione comandato dal colonnello Martinoia. Il giorno dopo mi manda a chiamare e mi dice: ho qui la macchina e domani devo andare a Bolzano; c’è tutto il necessario, ma manca la benzina, procurane dieci o quindici litri; per lui sembrava la cosa più facile. Subito dopo mi aveva detto: vai pure.

Dal tono della voce avevo capito che non c’erano difficoltà da poter prospettare, per lui era quanto di più normale di questo mondo. Ne ho trovato presso un fornitore due canestri (40 litri); non mi ha detto neppure bravo, ma forse questo era il mio esame di maturità; infatti, dopo neanche tre settimane ero trasferito alla 5^ Compagnia comando reggimentale in approntamento per la campagna di Russia; il comandante del reggimento era lui.

Aveva formato una compagnia comando coi più disparati elementi: un latifondista, un ingegnere, due dottori commercialisti, un avvocato, un artista (Giuseppe Novello) due giovani sottotenenti (di carriera come lui), un medico e l’ufficiale di amministrazione mandato via sui due piedi alla vigilia della partenza perché si era sottoposto ad una prova poco decorosa in sèguito a scommessa coi suoi colleghi.

Sembrava un uomo di abitudini estremamente borghesi: la partita a bridge nel pomeriggio non la perdeva mai, come pure il tè, così almeno si diceva; con noi subalterni aveva poca dimestichezza, famigliarizzava dal capitano in su. Di come andasse il mio lavoro non mi chiedeva mai, forse si informava da altre parti, visitava sovente i reparti e si cominciava a capire che per il soldato lui aveva la massima comprensione ed affetto. Portava sulla divisa pochi nastrini, ma c’era l’azzurro e di azzurro ne ha aggiunto dopo la campagna di Russia.

Così un bel giorno ci siamo imbarcati su un lungo treno ove ci siamo rimasti per due settimane e lui non si vedeva mai, chiuso nel suo scompartimento. Una notte nei pressi di Brest Litowsk si sente un tremendo colpo ed il treno si arresta all’improvviso; lui non si muove ed io scendo a vedere cos’era successo: la locomotiva giace su un fianco come una balena ferita sbuffando vapore d’ogni parte” i partigiani l’hanno fatta saltare, vado da lui a riferirgli la faccenda e mi dice: meno male, questa notte si dorme. Pace dico io, questo qui non ha paura proprio di niente.

Il giorno dopo si riparte finalmente arriviamo a Nowo Karkowka dove si scende e così cominciano quei lunghi mesi durante i quali io, imboscato, me la passo discretamente. Il colonnello aveva detto che per dare da mangiare agli alpini ci voleva un ufficiale degli alpini e quindi io comandavo il quinto nucleo sussistenza, quattro cinque chilometri dietro la prima linea. Durante tutto quel periodo non l’ho mai visto, mi dicevano che frequentava sovente la prima linea (i suoi soldati).

L’ho visto ridere, una delle rare volte, quando il Battaglione Morbegno una notte mi aveva rubato kg 3,250 circa di oche pelate… fai un bel verbale e non pensarci più, si vede che non gli hai dato da mangiare abbastanza. Così mi aveva detto. Chi dei superstiti non ricorda quella terribile notte a Podgornoje? Già qualcuno aveva cominciato a perdere la testa, ma lui era sempre quello, sembrava di ghiaccio, impassibile e calmo. Raccomanda ai tuoi soldati di tenersi in ordine e puliti i piedi, mi disse; il giorno dopo, superata la salita iniziale, lo vidi in testa al reggimento ove rimase sino alla fine anche quando fu ferito da una scheggia alla gamba.

Circondato dai portaordini dava ordini come se si fosse trovato al deposito di Milano, sempre tranquillo, e la stessa calma la infondeva ai suoi soldati e ufficiali. La notte di Nikolajewka, l’avevo rintracciato in un’isba, su vicino alla chiesa; gli avevo comunicato che per me il tenente Ugo Merlini era da considerarsi spacciato in quanto ferito da una scheggia di cannone anticarro ad una spalla, e avevo visto com’era conciato. Solo un leggero tremito delle gote rivelava la sua emozione.

Domani mattina si parte presto mi disse. Ma gli occhi lustri glieli ho visti fuori dalla sacca quando volle vedere cos’era rimasto del suo reggimento. Una banda di barboni sfilava conciata in un modo difficile da immaginare; per poco non ha pianto ma anche in questa occasione era riuscito a dominarsi. Per descrivere il suo sangue freddo debbo dire che un giorno, dopo Postojalyi, dovendo uscire dall’isba dove ci trovavamo, vedo un carro armato russo a meno di cento metri; gli dico: signor colonnello, abbiamo qui vicinissimo un enorme carro armato nemico.

E lui mi risponde: lascialo fare, se è là non è qui. Anche il colonnello Adami è ritornato con noi; ora non c’è più è morto; gli avevano dato il grado di generale, ma non era il tipo di farla a gomitate per farsi avanti; era l’uomo che quando si presentavano situazioni difficili, sapeva risolverle nel migliore dei modi. Caro colonnello, molti ti devono la vita, io compreso.

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