ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 46

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

Tenente colonnello Mariano Rossini
Comandante del Gruppo Mondovì

Il 17 gennaio 1943, quando l’ordine di ripiegamento giunse ai gruppi, trova le batterie in piena efficienza, nonostante la carenza di quadrupedi che, trasferiti in buona parte in accantonamenti invernali, distanziati dalle batterie, erano già stati in parte travolti da infiltrazioni di mezzi corazzati russi oltre le nostre linee. Le batterie, per la previdenza dei loro comandanti, che avevano fatto costruire delle slitte con materiale di ripiego, trovano ancora la possibilità di trasportare un abbondante munizionamento.

Il 18 gennaio la colonna della Cuneense che nella giornata aveva sostato dopo la marcia notturna addiacciando sulla neve, prosegue verso le ore 16 la marcia in direzione di Popowka. Cominciano le prime avvisaglie coi partigiani. Nei pressi di Taschajtzpowa la colonna della Cuneense subisce i primi scontri con forze russe.

L’attacco è sostenuto dai battaglioni del 2^ Alpini appoggiati dalle batterie del Pinerolo; il nemico è disperso e, sotto la protezione di queste forze, la colonna può proseguire la marcia. Nel mattino del giorno 19 il Gruppo Mondovì marcia col 1^ Reggimento Alpini alla testa della Divisione Cuneense; la giornata è particolarmente rigida; i viveri portati al sèguito cominciano a scarseggiare, gli uomini risentono le fatiche delle precedenti marce perché, all’aperto, non hanno potuto riposare a causa del freddo.

Nel tardo pomeriggio del giorno 19 la testa della colonna della Cuneense di cui fa parte il Battaglione Ceva e il Gruppo Mondovì si incontra coi reparti della Julia 8^ Reggimento Alpini e Gruppo Conegliano; sistemati a difesa, in semicerchio su di una altura a cavallo della pista da seguire avevano attaccato il kolkhoz di Nowo Postojalowka e, dopo successo iniziale, avevano dovuto ripiegare sotto l’azione dei carri armati pesanti e intenso fuoco di
armi automatiche.

Viene allora deciso di attaccare le posizioni nemiche con il Battaglione Ceva appoggiato dal Gruppo Mondovì allo scopo di aprirsi un varco. 20 gennaio. I due comandanti di battaglione e gruppo, sulle posizioni, prendono gli accordi ed impartiscono ordini ai dipendenti reparti per l’inizio dell’azione. Le batterie si schierano a scacchiere. Verso le 4 del mattino il Ceva attacca il caposaldo avversario impegnandosi a fondo fin dall’inizio dell’azione e dopo avere lasciato sul terreno numerosi morti e feriti, deve ripiegare sulle posizioni di partenza.

Si concreta un nuovo piano di attacco; l’azione ha inizio verso le 8, le batterie battono i centri di resistenza. La reazione del nemico si fa intensa; violento fuoco di artiglieria e di armi automatiche si scatenano sugli attaccanti che riescono, sia pur con forti perdite, ad avanzare ai margini dell’abitato, quando vengono contrattaccati da numerosi carri armati pesanti. Il Battaglione Ceva cerca disperatamente di contenere l’offensiva, le batterie del Mondovì con precisione e a distanza di tiro utile aprono il fuoco sui carri armati; un buon numero viene immobilizzato ma ancora altri carri pesanti continuano ad avanzare; intanto interviene nella battaglia la 73ª Batteria del Gruppo Val Po.

Le compagnie del Battaglione Ceva che ha sulla sinistra il Battaglione Mondovì continuano a combattere accanitamente. I pezzi serviti dai loro bravi e valorosi serventi, sostenuti dal l’incitamento e dall’esempio dei loro capi, continuano a fare fuoco fino a che i carri avanzando stirano i pezzi, schiacciando nella loro scia materiale e serventi che, anziché abbandonare i propri pezzi hanno preferito essere travolti con essi. Numerosi e sublimi sono gli atti di eroismo in queste ore di lotta degli alpini e degli artiglieri tutti, galvanizzati dalla calma e serenità con cui affrontano il pericolo i comandanti.

In un supremo atto di abnegazione cadono da prodi il comandante del Battaglione Ceva tenente colonnello Avenanti, il comandante del Battaglione Mondovì, maggiore Trovati, tutti i comandanti delle tre batterie del Gruppo Mondovì, capitano Cassone della 10^ Batteria, il capitano Sibona della 11ª Batteria, e il capitano Calanchi della 12ª Batteria; questi per citare i nomi di alcuni fra tutti. La zona di combattimento, in un gareggiare di atti di eroismo, è ricoperta di morti e feriti.

I superstiti artiglieri, con i pezzi inutilizzati, con alla testa il loro comandante di gruppo, si uniscono agli alpini e gareggiano con questi per contenere e ricacciare il nemico prodigandosi in ripetuti attacchi, affrontando i carri armati con moschetti e bombe a mano; riescono al fine ad aver ragione degli attaccanti. Mai come in quel giorno, forse, alpini e artiglieri alpini sono una cosa sola. Si combatte per tutta la giornata, vanno in linea anche i conducenti.

Il terreno è tutto ricoperto di corpi stroncati, maciullati; è uno spettacolo allucinante. Ma gli alpini e gli artiglieri alpini non hanno ceduto ed hanno immobilizzato nel loro cammino schiaccianti forze in numero e mezzi e questa titanica battaglia contribuirà in modo rilevante alla uscita dalla sacca della Divisione Alpina Tridentina e di altri reparti alpini. Nella notte, approfittando dell’oscurità i superstiti riusciranno ad attraversare il cerchio nemico in direzione nord quasi senza l’ausilio delle armi col solo impeto della massa, disposta ad affrontare la morte pure di sottrarsi alla cattura.

21 gennaio. I pochi superstiti del 4^ Artiglieria, privi ormai dei pezzi  proseguono il ripiegamento con le sole armi portatili dividendo con gli alpini compiti e sacrifici. Il comandante del 1^ Reggimento Alpini coi resti del Gruppo Mondovì e del Val Po e con una aliquota di sbandati, sosta in un bosco presso Postojalyi che presenta forti pendenze da non consentire ai carri nemici che circondano lo scaglione, di schiacciarli. Nel pomeriggio, con l’allontanarsi dei carri russi, viene attaccato il paese di Postojalyi, occupato dai partigiani e dopo breve accanito combattimento il paese è occupato.

Si riprende poco dopo la marcia e si cammina ininterrottamente tutto il giorno. Dopo un’altra durissima marcia, con forte gelo, senza un effettivo riposo da quando è iniziato il ripiegamento, digiuni da oltre tre giorni, la colonna raggiunge, verso le ore 2, Nowo Karkowka che è sgombra dal nemico e reca tracce evidenti di recente combattimento; superato il fiume gelato, raggiunge il paese successivo dove finalmente gli alpini trovano delle case ove pernottare al coperto e qualche patata da mangiare.

Alle 3 circa, dopo cinque ore di marcia, la colonna di cui faceva parte la Villanova, Batteria di formazione, subisce violento tiro di armi automatiche e cannoncini a tiro rapido. Delineandosi il pericolo di un’azione di mezzi corazzati nemici i quattro pezzi prendono posizione. Sparano alcuni colpi su postazioni di armi automatiche nemiche. Le compagnie del Pieve di Teco disperdono gli attaccanti e riprendono la marcia raggiungendo, anch’esse, verso le dieci, Nowo Karkowka.

Sono ancora gli alpini che in combattimenti sanguinosi liberano l’abitato dalla presenza del nemico. Si sosta, sempre sotto la minaccia di incursioni di carri armati coi pezzi puntati e le armi al fianco. Si riparte il pomeriggio stesso e si raggiunge, nella notte, un paese sconosciuto ove si pernotta in capannoni aperti. 22 gennaio. Alle ore otto, ripresa la marcia, i Gruppi Mondovì e Val Po, e parte della colonna 1^ Alpini, raggiungono il grosso della Cuneense. Le perdite in congelati e feriti sono rilevanti; non si riesce più a portare i colpiti sulle slitte.

La coda della colonna viene continuamente attaccata da puntate di carri russi isolati, la testa raggiunge il grosso della Divisione Vicenza in sosta in un abitato e sorpassatala si ferma a pernottare nel villaggio di Nowo Dmitrowka due chilometri più avanti. Alle ore 23 muoverà la Vicenza, sorpassando la Cuneense che da meno riposa; questa si accoderà alla Vicenza per seguirla nel suo itinerario. Frattanto la Batteria Villanova riprende la marcia con la Divisione Vicenza. Nel pomeriggio si raggiunge Scheljakino ancora occupata da forze russe, alpini e fanteria liberano il paese in duri combattimenti.

Sistemazione in abitazioni civili. Nella notte il paese è attaccato da elementi nemici, fuoco nutrito di armi automatiche. La batteria è schierata a sbarramento della strada: gli altri uomini a difesa dei pezzi e del materiale. In breve l’attacco è stroncato. Alle ore quattro del mattino del 23 Scheljakino è ancora attaccata. Stavolta sono mezzi corazzati; un pezzo della Villanova è portato sulla strada in posizione avanzata e concorre alla distruzione di un carro nemico.

Alle sei si riprende la marcia; due pezzi della Villanova marciano in testa alla colonna per difesa anticarro. In sèguito a notizie che forti reparti carristi russi hanno attaccato la Vicenza che starebbe cercando di disimpegnarsi per proseguire per altra via, i residui della Cuneense, con in testa il loro comandante, il Battaglione Dronero, seguito da reparti fucilieri del 4^ Artiglieria si inoltrano per piste aperte nei campi lasciando sulla sinistra Scheljakino e attraversando le successive vallate che confluiscono al Kalitwa.

Alle ore dieci muovono all’attacco carri armati nemici. In tale azione il sottotenente Tartufoli della 10^ Batteria, che volontariamente aveva assunto il comando di un pezzo per dirigerne il tiro, veniva colpito da raffica di mitragliatrice e decedeva all’istante. Dopo una marcia di circa trenta chilometri si sosta allo scopo di far riposare la truppa prima di attraversare il nuovo fondo valle che si suppone occupato dal nemico. Per consentire il ristoro ai reparti, viene attaccato un abitato tenuto dai partigiani che dopo breve combattimento vengono respinti.

Si riprende la marcia ma poco dopo le pattuglie di testa danno nuovamente l’allarme. Sono le dodici circa; la colonna si ferma nei pressi di un kolkhoz mentre le artiglierie si schierano attorno all’abitato. La Batteria Villanova si distingue per perizia ed audacia dei serventi suscitando l’ammirazione e la riconoscenza dei componenti la colonna. Più carri armati vengono arrestati e gli equipaggi annientati. Cessato il pericolo si riprende la marcia.

A sera si giunge a Warwarowka. Il paese è occupato da reparti nemici. Nel combattimento che ne segue il nemico è forte di numerosi carri armati; dopo un’estrema difesa da parte di tutti i componenti la colonna, questa viene travolta. Giunge l’ordine di abbandonare materiale e quadrupedi e cercare una via di scampo con i superstiti. Smontati gli otturatori prima di abbandonare i pezzi i superstiti della Villanova, coi propri ufficiali, si avviano in direzione ovest attraverso una palude e riescono a sciogliersi dal contatto col nemico.

24 gennaio. La ripresa del movimento avviene verso le ore 21. Siccome si presume che tutti i fondi valle che si devono attraversare e le rotabili siano controllate dal nemico, il quale occupa gli abitati e controlla gli intervalli con puntate di carri armati, occorre attraversare le zone presunte controllate sempre di notte, lontano da paesi, articolandosi in scaglioni non numerosi allo scopo di passare inosservati e, se del caso, svincolarsi più facilmente.

La marcia nella notte si svolge regolarmente. Continuano le perdite per assideramento che ormai raggiungono proporzioni impressionanti. Il passaggio del fondo valle avviene senza essere disturbati. Sulla grande pista che si attraversa sono evidenti le tracce di numerosi carri armati passati da poco tempo. La testa della colonna si arresta verso le ore sette in un abitato che viene utilizzato per sostare durante la giornata. Gli ordini sono di proseguire la
marcia fin che è possibile di notte, perché da qualche giorno, aerei da ricognizione sorvegliano la zona; di continuare fuori strada, allo scopo di lasciare incerto il nemico sulla direzione che si intende seguire; attraversare rapidamente i fondi valle per evitare di essere attaccati.

La temperatura improvvisamente si abbassa in modo straordinario arrivando a – 40^; una vera bufera di neve si scatena, di tale violenza, che rende inutile ogni tentativo di avanzare; l’orientamento diviene difficilissimo; una quantità di quadrupedi e di uomini restano congelati; si ritorna agli accantonamenti nel villaggio da poco oltrepassato per riprendere la marcia nel mattino seguente. Ma al ritorno dei reparti il villaggio risulta incendiato da qualche fuoco rimasto acceso e propagatosi col vento; perciò il resto della notte deve essere passato bivaccando attorno ai fuochi che però non riescono a riscaldare.

25 gennaio. La colonna riprende la marcia verso le ore otto con temperatura molto rigida. C’è da attraversare un nuovo fondo valle, e questa volta di giorno. Alle ore 11 circa la testa della colonna giunge ad un paese del fondo valle dal quale subito parte fuoco di mortai e mitragliatrici appostate nelle case e nelle chiese. Il Battaglione Dronero, ch’è ancora il reparto più efficiente, si spiega per l’attacco, ma la neve alta e la necessità di sgelare coi fuochi le mitragliatrici inceppate fanno perdere tempo prezioso, durante il quale le perdite aumentano.

Senza attendere che le armi automatiche siano pronte il Dronero si lancia all’attacco e il nemico viene sloggiato alla baionetta. Distrutta una autoblindo, liberati 200 uomini della Tridentina, fatti prigionieri da due giorni, in paese si trova qualche cosa da mangiare. Si sosta nella notte in due abitati contigui, già occupati dai russi e trovati, per il momento, sgombri. La situazione munizioni è critica: non ci sono che poche munizioni per moschetti ’91 e poche bombe a mano.

Il movimento riprende alle prime luci dell’alba del 26 gennaio. Si segue ora un fondo valle, che sbocca dopo circa 40 km a Nikonorowka (a nord di Waluiki), la colonna avanza penosamente sul terreno completamente scoperto. Alle ore 10 circa aerei da caccia e bombardieri leggeri russi mitragliano e spezzonano la colonna, 7-8 apparecchi contro i quali non è possibile agire, che si abbassano a meno di 100 m e offendono indisturbati. Esauriscono il carico, si assentano per pochi minuti e ritornano; devono avere il campo molto vicino. L’azione degli aerei dura fino alle 17 circa.

La colonna prosegue la marcia senza neanche più cercare di sparpagliarsi sotto l’offesa. Le forze ormai allo stremo non lo consentono, ed ora si è a poca distanza da quella linea che dovrebbe essere tenuta dalle truppe tedesche. Nel tardo pomeriggio si è costretti a compiere un lungo giro fuori strada per evitare intenso fuoco di mortai da un abitato, senza che però si manifestino attacchi avversari. All’imbrunire la colonna sosta un’ora per raccogliere gli elementi rimasti eccessivamente distaccati.

Mentre si riprende il movimento alle ore 20, la testa viene attaccata da alcuni squadroni cosacchi con mitragliatrici appoggiati da una batteria da 122. Il Battaglione Dronero, insieme agli artiglieri alpini del reggimento rapidamente schierati a difesa su un pianoro cosparso di pagliai, passa successivamente all’attacco. Il nemico si ritira. La marcia riprende e continua per tutta la notte. In pari tempo, a questa data gli artiglieri della Villanova, con elementi del reparto munizioni e viveri del Mondovì, raggiungono la coda della Divisione Tridentina e con questa proseguono il ripiegamento.

27 gennaio. La temperatura è di circa – 35^. Gli uomini avanzano faticosamente, sfiniti dalle privazioni e dalla stanchezza. Non è possibile fermarsi per il freddo. I feriti sulle slitte sono tutti assiderati. Si giunge all’alba presso Nikonorowka (12-15 km a nord di Waluiki). Mentre si sta attraversando la strada ferrata, raffiche di mitragliatrice investono la colonna che successivamente viene attaccata in forza. Dopo breve combattimento, finite tutte le munizioni e completamente circondati, i reparti vengono catturati; sono le ore 5,30.

Con questo termina l’odissea del reggimento che è quella di tutta la Cuneense condotta con disperata volontà di riuscire, seminata di migliaia di caduti e di assiderati, illuminata da infiniti episodi di sublime ed ignorato eroismo. Ognuno compì il proprio dovere sino al limite del possibile ed oltre. Imponente e senza dubbio tale da costituire una “normalità” nella condotta del ripiegamento è la massa di coloro che perirono nei vari combattimenti e di quelli che inerti stringono ancora oggi nelle dita rattrappite, l’arma su cui la morte li colse tra il Don e il Donez.

A questi si rivolga il nostro pensiero commosso e riverente. Gli ufficiali, sottufficiali e artiglieri alpini del 4^ caduti al pezzo e lungo il martoriato percorso della ritirata hanno mostrato, sui gelidi campi di Russia, quanto fossero degni delle fulgide tradizioni dell’artiglieria alpina.

Sottotenente Mario Radaelli
73ª Batteria, Gruppo Val Po, 4^ Reggimento Artiglieria Alpina

Nowo Postojalowka, 20 gennaio 1943. Fui l’ultimo, con il sottotenente Labardo, a rientrare in batteria dopo il contrassalto a bombe a mano ed alla baionetta condotto con slancio irresistibile dagli artiglieri alpini della 73ª. I russi ci erano venuti addosso all’improvviso, uscendo da un bosco alla nostra destra, ed in un primo tempo parevano tedeschi: ma fu solo un attimo perché incominciarono subito a mitragliare e non ci furono quindi più dubbi.

L’urlo di “Avanti Savoia” del nostro comandante di batteria, capitano Rossi, fu immediato e trascinatore: i serventi al pezzo scattarono come molle ed incominciò un epico combattimento che dopo un durissimo e lungo scontro si concluse vittoriosamente per noi. Inseguimmo i russi fin che ci fu possibile e poi rientrammo in batteria: la stanchezza prendeva le gambe ed il cuore, eppure tutto sembrava nulla nella gioia immensa per lo splendido successo ottenuto.

Quando il colonnello Cresseri, comandante del Gruppo Val Po, vecchio e valoroso combattente, visibilmente commosso, mi vide, mi chiamò e mi disse: “Oggi la 73ª si è tutta vestita d’azzurro! Sono fiero d’avere l’onore di comandare ufficiali e soldati come voi!”. E’ difficile, quando nella vita si è molto sofferto, sapersi ancora commuovere, sentire ancora la fierezza di un orgoglio, avere grande e viva nell’anima la fiamma di una passione! Chi però ha avuto, come me, la grande ventura di far parte di un reparto come la 73ª, questa commozione, questo orgoglio, questa passione li avrà sempre nel cuore in un ricordo fatto di fede, di purissimo amore, di eterno rimpianto!

Gli ufficiali, i sottufficiali, gli artiglieri della 73ª sono rimasti quasi tutti laggiù, pochissimi sono i superstiti della tragedia di Russia. Ma io, unico ufficiale sopravvissuto, li ricordo tutti uno ad uno, li ricorderò sempre perché eravamo tutti come fratelli, perché eravamo legati da sentimenti di amicizia e d’affetto, perché la 73ª non si può dimenticarla! Tutti i nomi dei miei compagni sono legati ad atti di raro valore, per tutti dovrei scrivere tante pagine fatte di elogio, di riconoscenza, di esaltazione al loro eroismo!

Ma forse non saprei neppure farlo: le mie sono poche parole che escono dal cuore, parole semplici e commosse. E” un ricordo quasi intimo che serbo nella mia anima: i visi di tanti eroi mi passano davanti agli occhi e li ricordo tutti come quando erano vivi, quando portavano con orgoglio la penna nera, sorridenti, con lo sguardo limpido e leale di gente onesta, di bravi ragazzi che consideravano la loro batteria come una cosa sacra, da difendere con tutte le forze, sino al supremo sacrificio.

Ricordo il tenente Renato Simoni di Verona morto eroicamente in combattimento con il sergente Ferretti ed alcuni artiglieri, travolti da carri armati nemici, l’artigliere Tarditi Giovanni di Genova, morto per una raffica di mitraglia mentre salito su un carro armato russo tentava di aprire la torretta, e tanti, tanti altri morti da eroi. Molti altri morirono in prigionia: il capitano Rossi Giuseppe, i sottotenenti Edoardo Pedrazzani, Labardo, Sandro Petitti di Roreto, l’ufficiale medico Carlo Sisto, i sergenti Roncallo, Giacobbe, Gentile e quasi tutti gli artiglieri alpini.

Alle tante mamme ed alle tante spose che invano hanno atteso il ritorno dei loro cari, vorrei dire una parola di conforto e di coraggio: ma so che non servirebbe a nulla. Tutte però debbono sapere che i loro figli ed i loro sposi sono stati sempre i migliori, i più coraggiosi ed appartenevano alla più bella batteria alpina del mondo, erano della 73ª, la batteria vestita d’azzurro.

Alpino Guido Cabri segnalatore ed eliografista, Plotone Comando del 104º Reggimento di marcia, aggregato al Quartier Generale

Noi mitraglieri eravamo di scorta al quartier generale e sempre vicino a noi il nostro generale di divisione, Emilio Battisti (chiamato da noi “papalino”). Era sempre allegro, sempre in mezzo ai suoi alpini, scherzava con tutti e noi eravamo felici di avere un così bravo generale. Con l’inverno sul fronte i russi attaccarono le nostre posizioni. Il 1^ e il 2^ Reggimento Alpini, entrambi impegnati, stroncarono gli assalti distruggendo i reparti avversari che nella notte attraversavano il fiume Don.

Le risposte alle azioni nemiche erano così dure e decise che i sovietici alla fine non insistettero più. Tentarono altri attacchi contro le posizioni della gloriosa Julia e ancora contro la Cuneense, ma avevano capito che non sarebbero mai passati. Il freddo si faceva sempre più intenso ed io avevo sempre roba da lavare; mi feci amico di alcune ragazze russe; grazie al loro aiuto non fu più necessario che lavassi la biancheria con il rischio di congelamenti alle mani; ricordo ancora i loro nomi: Katia, Nadia, Maruska, Anna; tutti mi volevano bene, anche i miei superiori perché forse ero il più giovane del quartier generale, avevo solo vent’anni.

Il giorno 20 dicembre 1942, a 42^ sotto zero, ero disperato; sugli altri fronti tutto era peggiorato, mentre sul nostro tutto era calmo; noi facevamo confine con la gloriosa Julia. Montai la guardia in una notte fredda e gelata vicino ai reticolati, per dire la verità avevo terribilmente paura benché ci fossero le nostre pattuglie che giravano in continuazione. Tre giorni dopo, da posizioni avanzate, vennero segnalati minacciosi movimenti nemici.

Dalle feritoie dei capisaldi “Vignolo”, “Vinadio” “Valdieri”, (gli alpini avevano battezzato le loro posizioni coi nomi delle loro terre) si scorgevano i preparativi avversari e l’artiglieria sovietica martellava le nostre linee. L’attacco fu violentissimo. Per molte ore si combattè con gran accanimento. In qualche punto la battaglia ebbe alterne vicende; davanti ai capisaldi “Valdieri” e “Vinadio” la mischia era furiosa: le armi degli alpini facevano strage dei nemici, ma i sovietici rinnovavano gli assalti con nuove schiere. Le valorose batterie del quarto e il gruppo dell’artiglieria a cavallo facevano una cornice di fuoco davanti alle nostre posizioni, decimando le colonne avversarie prima che giungessero a tiro delle nostre mitraglie.

La 106ª Compagnia armi accompagnamento si portò in prima linea e sparò quasi duecento colpi a zero contro le masse sovietiche che minacciavano di travolgerla. Due compagnie ed una degli sciatori del Monte Cervino battendosi a corpo a corpo con il nemico, stroncarono l’attacco. Davanti alle nostre posizioni c’erano centinaia di caduti russi; il nemico non era passato; altri tentativi, altri assalti vennero ugualmente rigettati: la Cuneense come la Julia e la Tridentina teneva l’estremo saliente delle posizioni fra le ondate nemiche; la punta più avanzata sul Don era quella di noi alpini.

Poi tutto si calmò, ma i russi riuscirono a sfondare da sud e da nord. Io mi trovavo all’ospedaletto in preda ad una forte febbre, quando venne l’ordine di ritirarsi; ci fu un po’”di panico fra noi alpini, incominciammo ad incolonnarci ed a ritirarci in buon ordine, era una colonna che non finiva più. Io con qualche amico camminammo sei giorni senza fermarci quasi mai, riposando qualche ora nelle case della popolazione russa e mangiando cosa si trovava; eravamo circondati da tutte le parti.

Durante la ritirata ne vidi di tutti i colori, morti, feriti, congelati, corpi senza braccia, senza gambe; chi chiamava, chi piangeva, chi gridava, non potrò mai dimenticare quelle terribili scene. A Nikolajewka ci fu un massacro d’ambo le parti; si era in un inferno di fuoco e di ferro, da tutti gli angoli sparavano; noi eravamo chiusi in trappola come topi davanti alla città; dopo un giorno di durissima lotta ci aprimmo un varco all’arma bianca. Non riuscii e non riesco ancora oggi a capire come abbia potuto arrivare in Italia sano e salvo.

Capitano medico Marino Martini
612º Ospedale da Campo, 1^ Reggimento Alpini

Usufruendo di un gruppo di isbe dietro Topilo, con una lunga e larga baracca di legno preformata organizzammo il nostro 612º Ospedale da Campo per ricoverare e curare i feriti e malati dei reparti vicini a noi trasportati. Verso la metà di dicembre, sul lato destro del fronte, la Divisione Cosseria ed altre italiane e tedesche erano state fortemente assalite da truppe russe, sopraffatte, e i resti costretti a indietreggiare verso Millerowo, Kantemirowka.

La Divisione Julia a metà dicembre fu inviata a proteggere presso NowoKalitwa il nostro fianco destro, cosa che fece con sacrificio e col suo leggendario valore per un intero mese di combattimenti con le truppe avversarie, alle quali aveva resistito in terribili condizioni di difesa e resistenza. Noi da Topilo avevamo modo di assistere a quei combattimenti. Le divisioni alpine lungo la zona occupata furono impegnate dal nemico, ma non intaccate, fino al 15 gennaio quando i carri armati russi con fanterie dal lato sud del fronte giunsero a Rossosch dov’era il comando del Corpo d’Armata Alpino.

Reparti ungheresi che tenevano il tratto del fronte a nord di quello, cedendo alla pressione russa, si sono ritirati, per cui le divisioni alpine sono state aggirate dal sud e dal nord. Il giorno 17 gennaio venne l’ordine per tutti i reparti del Corpo d’Armata Alpino di ripiegare dal Don, per sfuggire all’accerchiamento nemico già iniziato. Il giorno stesso noi del 612º Ospedale da Campo abbiamo avuto l’ordine di ripiegare mandando indietro su automezzi i feriti e congelati rimasti dopo lo smistamento dei giorni precedenti, e portando con noi su sei slitte tirate da muli lo stretto necessario materiale sanitario per cura d’urgenza, lungo la dura marcia, i necessari viveri a secco per alcuni giorni, indumenti ed armi in dotazione.

La direzione indicata dal comandante del reggimento era decisamente verso Popowka, a nord di Rossosch, dove si sperava di poter passare ancora, temendo la chiusura dell’accerchiamento nemico anche in quella zona. D’allora incominciò la massacrante vicenda del ripiegamento dal Don con faticoso cammino sulla neve, anche fuori da piste battute, spesso sotto l’imperversare della tormenta, il vento gelido, specialmente nei primi giorni senza riposar mai, neppure di notte, sotto la pressione e le sorprese del nemico, con azioni di carri armati, truppe dell’esercito, partigiani, incursioni aeree, indifesi dalla nostra aviazione.

Il nostro reparto fin dalla prima notte di marcia, tra la tormenta di neve e per il deviato percorso dallo stabilito, si trovò diviso dalla colonna del 1^ Reggimento Alpini, unendosi a quella del comando della Divisione Cuneense ad Annowka e in sèguito a reparti della Divisione Vicenza. Si susseguirono poi le gravi vicende in parte comuni a tutti i reparti che formavano la colonna, e in parte diverse a seconda delle circostanze e degli scontri con il nemico, con episodi e destino diverso. Pertanto sempre più di giorno in giorno, si verificavano perdite di uomini per ferite per scontri con il nemico, congelamenti, assideramento, sfinimento, esaurimento per fame con la fine delle provviste di cibo.

Dopo alcuni giorni di marcia, dopo aver partecipato a varie azioni di guerra, abbiamo avuto la ventura di unirci alla colonna della Divisione Tridentina. Della nostra Divisione Cuneense non abbiamo veduto, né saputo più nulla. Con la colonna della Tridentina, dopo la deviazione del percorso, sempre faticoso, pericoloso per gli scontri, massacrante per la neve e il freddo, dietro indicazione di un aereo tedesco, una “cicogna”, il giorno 25 gennaio arrivammo a Nikitowka, dove pernottammo, come il solito, buttati a terra sul pavimento di un’isba.

Sull’albeggiare del mattino seguente, 26, proseguimmo e oltrepassammo Arnautowo, dove poco prima era avvenuto un violento scontro tra i nostri e un reparto russo. Si notavano dei carri armati russi danneggiati e parecchi cadaveri russi e nostri caduti nell’aspra lotta. Per diverse ore si proseguì il consueto cammino irregolare, sempre faticoso sulla neve per i tanti indeboliti, congelati, feriti, menomati dai disagi e dalla fame.

Ad un certo punto, di fronte ad una grande distesa pianeggiante, la nostra colonna si è fermata mentre si sentiva non lontano fragore di lotta, schianti di ogni arma, di mortai, di cannoni, di spezzoni, di bombe d’aeroplani che spesso ci sorvolavano sparando. Eravamo nei pressi di Nikolajewka. La massa si era fermata in attesa che gli alpini della Tridentina si battessero contro i russi per vincere la loro resistenza, forniti di molti mezzi e forti dall’elevato numero di uomini e dalle posizioni fortificate già occupate al di là del terrapieno.

Si era in attesa di un ordine di avanzare, di partecipare possibilmente all’azione e di scendere la china che portava verso il paese, sorpassando il detto terrapieno della strada ferrata che era prima del paese, dietro il quale si erano asserragliati i russi. In questa fermata ho avuto modo di fare una fotografia che conservo. Ad un certo punto il generale Reverberi, comandante della Divisione Tridentina, salito su un carro armato tedesco, scendendo verso Nikolajewka, gridò: “Tridentina avanti!”. La massa che intanto si era riunita, ingrossata, si affrettò a scendere verso il paese, mentre di fronte e tutto intorno echeggiava la battaglia tra gli alpini e i russi.

Numerosi erano i feriti, i congelati, i menomati su slitte, numerosi erano i caduti lungo la discesa, colpiti dal tiro sempre vivo dei russi che operavano dal paese con varie armi. Con la nostra slitta ambulanza, occupata da congelati e feriti, circondati da diversi miei uomini, arrivammo al terrapieno abbastanza alto in quel punto e non facile a sorpassare. Io salii per primo sull’alto per regolare il difficile passaggio. Mentre i due muli attaccati avanti, tirati per la briglia da un conducente, urlando con voce rauca per il freddo, salivano la obliqua scarpata, la slitta veniva spinta dai miei soldati per farla salire all’altezza della strada ferrata.

Per farla poi passare con i pattini sopra i due binari assai alti, dovemmo usare come leve i moschetti che avevamo con noi. Nel far scendere poi la slitta dall’altra parte del terrapieno in discesa, mentre si aizzavano i muli, la si dovè trattenere con difficoltà perché non precipitasse contro le gambe posteriori del quadrupede. Si dovè fare questo lavoro con avvedutezza e calma mentre ancora i russi sparacchiavano all’intorno. Giunti al di là del terrapieno, assestati i muli e la slitta, ci accorgemmo che si era già fatto notte.

Nella semioscurità, nel procedere verso il paese si intravedevano sparsi tra la neve cadaveri e oggetti vari, muli uccisi, slitte a pezzi, residui della recente, aspra lotta, che si stava esaurendo con l’avanzata e l’occupazione delle isbe da parte dei nostri e la scomparsa dei russi. Così entrammo a Nikolajewka alla fine della battaglia decisiva per la nostra salvezza. Entrati in un’isba abbiamo visto su un letto nella prima stanza il cadavere di un borghese russo morto, ucciso poco prima da soldati russi perché ritenuto favorevole a noi italiani.

Era circondato da donne russe, sue familiari in lacrime. Passammo nella camera attigua e ci adattammo per riposare, che ce n’era estremo bisogno. Così ebbe fine per noi la tragica giornata di Nikolajewka. Anche se sono passati tanti anni, ricordo sempre, rivolgendo un grato, commosso pensiero, i tanti eroici caduti, che con il loro sacrificio hanno consentito il nostro ritorno alla nostra patria e alle nostre famiglie.

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