ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 42

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia

DIVISIONE VICENZA E REPARTI VARI

di Giulio Bedeschi

In conseguenza del trasferimento della Julia nel settore della Cosseria, dal 18 dicembre in avanti la Divisione di fanteria Vicenza venne inserita in linea nelle posizioni tenute fino allora dalla Julia, e avendo ai fianchi la Tridentina e la Cuneense ebbe la responsabilità del settore di fronte per un intero mese; dopo di che divise fino all’ultimo giorno della ritirata le vicende del Corpo d’Armata Alpino nella duplice direttrice di Waluiki e di Nikolajewka e lasciando sul suo cammino, per le vicissitudini del ripiegamento e per i combattimenti sostenuti, la quasi totalità dei suoi effettivi.

La Vicenza era stata inviata in Russia con compiti di presidio e di retrovia, essendo costituita per lo più da uomini anziani, della più varia provenienza, in buona parte ceduti dai servizi dell’aeronautica, male armati, peggio equipaggiati (molti dotati soltanto, ancora in pieno inverno, della sola divisa di tela). Suddivisa in due soli reggimenti (il 277º e 278º di fanteria) per un totale di circa 12.000 uomini, la Vicenza era anche priva del reggimento di artiglieria; alle sue dipendenze vennero quindi posti i Battaglioni alpini Morbegno, Vestone e Pieve di Teco, ed alcuni reparti di artiglieria a cavallo della Divisione Celere, assieme ai quali tenne con valore e sacrificio la linea sul Don, fino a quando il 17 gennaio venne raggiunta dall’ordine di ripiegamento.

Giulio Bedeschi

In tale data, muovendo di pari passo fra gli alpini della Tridentina e della Cuneense e mantenendo in forza i reparti alpini soprannominati, suddivisa in due scaglioni raggiunse rispettivamente Podgornoje e Popowka, e da allora le vennero assegnati dal Comando del Corpo d’Armata Alpino compiti di retroguardia, la cui esecuzione risultò durissima, trovandosi la divisione esposta quasi in continuità ad attacchi dei russi che agganciavano in combattimento la coda della grande colonna.

Trasferitasi il 19 a Ssamoilenkoff, a sera venne fatta proseguire su Lessnitschanskij dove con un duro combattimento conquistò il paese, e proseguì poi marciando per tutta la notte fra frequenti attacchi di partigiani e raggiungendo nella mattinata del 21 Nowo Karkowka e in nottata Lymoriwka, fra indicibili fatiche rese insostenibili dal gelo e dalla fame che operavano uno sterminio fra le file dei fanti ormai stremati.

Nella serata del 22 la Vicenza giunse a Scheljakino, già rioccupata dai russi che durante la giornata erano stati cacciati dalla Tridentina; soltanto a prezzo di un durissimo combattimento la Vicenza col Pieve di Teco poterono infrangere e superare l’ostacolo, per riprendere la marcia nelle ore notturne, lasciando sulla neve di Scheljakino il quartier generale della divisione e la quasi totalità di un battaglione, distrutti durante il combattimento.

Reparti della Vicenza si spingono nella zona di Warwarowka e si trovano impegnati nel combattimento e nella strage che i carri armati russi operano sul Morbegno della Tridentina, che rimane praticamente distrutto, e sugli altri reparti che si trovano a diretta portata dei cingoli, o sotto tiro delle mitragliatrici e dei cannoni di bordo.

Dal 24 al 26, in condizioni sempre più insostenibili la divisione prosegue in una serie di marce massacranti, spesso attaccata dal nemico; nei combattimenti si impegna in particolare il Battaglione Pieve di Teco, che mai cessa di portare ai più provati reparti di fanti il suo determinante apporto nei numerosi combattimenti, esempio preclaro di solidarietà fra alpini e fanti. Il 26 gennaio il grosso della divisione giunge in vista di Waluiki, ma le residue speranze crollano nel trovare il cammino sbarrato da forti contingenti russi contro i quali la Vicenza e il Pieve di Teco ingaggiano combattimento.

Fanti ed alpini lottano aspramente insieme per l’ultima volta innanzi a Waluiki, poiché la strapotenza delle forze russe si impone con determinante evidenza. Quando lo sbarramento si è dimostrato assolutamente invalicabile, e la morte per assideramento nella notte incipiente è cosa certa per le truppe immobilizzate sulla neve, un parlamentare russo si fa innanzi e offre la resa, che il generale comandante della Vicenza suo malgrado si sente in dovere di accettare.

Ma prima della resa formale, dal Battaglione Pieve di Teco si leva l’ordine, subito eseguito, di presentare le armi ai caduti. Nella stessa ora, sul venir della sera, un’altra più ridotta colonna della Vicenza che con diverso itinerario si era trovata a seguire la marcia della Tridentina, scendeva con le armi in pugno il costone che portava a Nikolajewka.

Colonnello Giulio Cesare Salvi
Comandante 277º Reggimento Fanteria

Dopo il 15 dicembre la Vicenza è destinata a sostituire in parte la Julia sul Don, mentre il I/277º rinforzato dalla compagnia cannoni reggimentale, deve sostituire il Battaglione sciatori Monte Cervino nella difesa sudest di Rossosch. Si hanno i primi morti a Semejki, Husinki, sulla penisola “Beitrame” e sugli altri caposaldi.

La situazione peggiora. Il 15 gennaio ’43 il I/277º dislocato alla difesa di Rossosch, viene travolto dai carri armati russi e pochissimi ufficiali e soldati riescono a sfuggire. Lo stesso giorno i carri armati entrano in Rossosch e il comando del C. A.A. ripiega verso nord a Podgornoje. In linea non si ha ancora la sensazione precisa della gravità della situazione. Il giorno 17 il C. A.A. ha ricevuto ordine di ripiegare verso ovest; avverte le divisioni che devono considerarsi come operanti in alta montagna, distruggendo e abbandonando tutti gli automezzi.

La Vicenza che aveva i suoi battaglioni dispersi lungo tutto il fronte del C. A.A., i quadrupedi in nuclei sparsi nell’ampio settore, quindi praticamente priva di mezzi, deve raccogliersi in valle Rossosch e costituire fiancheggiamento prima, retroguardia poi, alla divisione Tridentina che, fuori dalle piste, muove verso Podgornoje. Nella notte sul 18 i reparti della Vicenza largamente intervallati, spezzettati da mille contrarietà, iniziano il loro movimento verso ovest.

La tragedia ha inizio. Marcia lenta, penosa, col fardello minimo indispensabile di qualche galletta e scatoletta. L’ordine parla di viveri per 4 giorni, ma non è possibile eseguirlo. Penso ancora con sdegno all’incendio di un magazzino di passamontagna. I miei soldati sono stati un mese in linea sul Don senza di essi, perché mi era stato detto che non c’erano disponibilità. …Postojalyi presenta un tremendo spettacolo di morte e devastazione. Ovunque cadaveri russi, qualche alpino, qualche fante, carogne di muli uccisi dal ferro e dal gelo.

Superato Postojalyi e dopo breve sosta a Nowo Karkowka, la Vicenza raggiunge nella notte sul 22 Limarew, mentre la Tridentina sta per lasciare il paese. Incendi, devastazione, morte ovunque e sempre. Nello stesso pomeriggio, il 277º Reggimento riceve ordine di portarsi in testa alla colonna Vicenza che, sempre come retroguardia della Tridentina, deve puntare su Scheljakino e proseguire oltre.

A Warwarowka, per testimonianza di diversi scampati, rientrati successivamente nella colonna rimasta ai miei ordini, si sono svolti nei giorni 23 e 24 gennaio, combattimenti sanguinosissimi. Il 1^ Gruppo dell’artiglieria a cavallo, dopo aver sparato sino all’ultimo colpo contro i carri armati russi, inchioda i pezzi. Fanti del II/277º alzando le torrette di due carri armati, immobilizzano gli equipaggi a colpi di bombe a mano.

Gli alpini del Morbegno confermano la loro eroica tradizione, Non c’è dubbio che lo scopo assegnato durante il ripiegamento del Corpo d’Armata Alpino alla Divisione Vicenza sia stato, a costo di perdite gravissime, pienamente raggiunto. Le forze nemiche trattenute, impegnate, logorate per oltre sette giorni consecutivi, non hanno potuto gettarsi nella scia della Tridentina che procedeva in testa lottando eroicamente contro le forze nemiche che aveva di fronte. Ma il sacrificio quasi totale della Divisione Vicenza a favore del Corpo d’Armata Alpino nei primi sette giorni della durissima vicenda, non è stato né valutato né ricordato da nessuno.

Occorre pensare che i reparti della Vicenza, a differenza di quelli alpini, non disponevano di quadrupedi né di slitte. Che costituendo retroguardia la Vicenza lungo l’itinerario della Tridentina, non riusciva a trovare quasi nulla di che vettovagliarsi. Prima di chiudere questa breve sintesi, voglio ricordare gli eroici fatti d’arme di Nikitowka e Nikolajewka che per essere avvenuti al termine della residua capacità combattiva dei reparti, meritano un particolare rilievo.

Nel primo e nel secondo episodio i fanti superstiti della Vicenza che avevano serrato sotto ai compagni della Tridentina, non furono solamente spettatori. Infatti, verso le ore 15 circa del 26 gennaio, attraverso il maggiore Di Leo, sottocapo di stato maggiore della Tridentina, ricevetti richiesta dal generale Reverberi di inviare uomini per l’estremo attacco a Nikolajewka. Riunii così circa cento fanti, che vennero impiegati con gli alpini…

Capitano degli alpini Luciano Damiani
Comandante la 5^ Compagnia, 277º Reggimento Fanteria

Sono un ufficiale che ha avuto il singolare merito e privilegio di aver servito la patria come fante e come alpino. Che posso dire di Nikolajewka? Se cerco di riportare la mia mente esattamente al pomeriggio del 26 gennaio 1943, quando cioè non si poteva sapere che stava per iniziarsi una determinante battaglia che, in sèguito, sarebbe entrata nella leggenda, devo dire onestamente che Nikolajewka, pur presentando caratteristiche del tutto particolari, rappresentò allora per me semplicemente uno dei tanti combattimenti e, sotto un profilo strettamente personale, non il più importante.

A Nikolajewka ero fra gli sbandati ed a stento sono riuscito a salvare un corpo stremato e ormai privo di quell’anima che avevo lasciato accanto ai caduti del mio reparto, lungo il tormentoso e insanguinato itinerario che dai capisaldi del Don mi aveva appunto portato al terrapieno di Nikolajewka; per me hanno un angoscioso significato le feroci battaglie di Scheljakino prima e Warwarowka poi dove, in quest’ultima località, il mio reparto eroicamente combattè in sublime emulazione con gli alpini del Morbegno e dove vidi morire il maggiore Sarti. Là il reparto fu totalmente distrutto.

Ecco perché, per quanto personalmente mi riguarda, Nikolajewka ha importanza relativa: fui uno spettatore, non un protagonista. Nel febbraio del 1943 ho riportato in Italia dei frammentari appunti che successivamente ho voluto riordinare. Qui trascrivo quanto testualmente leggo:

“All’alba del 26 gennaio riprendiamo faticosamente la marcia: sono rimasti con me soltanto una quindicina di uomini. Raggiungiamo Nikolajewka verso le prime ore del pomeriggio e noto che reparti della Tridentina si stanno schierando in ordine di combattimento ai margini della località. In testa al 6^ rivedo il colonnello Signorini, il mio vecchio caro comandante di compagnia al Bassano; il 5^ Alpini in posizione più avanzata sta fronteggiando i russi lungo un terrapieno sul quale corre un binario ferroviario.

Mi avvicino ad un reparto di alpini e metto i pochi uomini a disposizione: se ci sarà da combattere ancora, combatteremo con loro. “Calano le prime ombre della sera quando gli alpini della Tridentina furiosamente investono Nikolajewka: la massa degli sbandati ha serrato sotto, pronta a intervenire anch’essa nell’ultimo disperato tentativo. Ho perso il contatto con il reparto di alpini e sono raggiunto dagli sbandati che, quale gigantesca inarrestabile ondata, avanzano anch’essi incuranti del fuoco che rabbiosamente li investe.

Più avanti la battaglia è feroce: da una parte i russi che intendono distruggere la golosa preda, dall’altra gli alpini che lottano per la sopravvivenza. “Dopo alterne, tragiche fasi la resistenza russa è spezzata ed attraverso il varco liberatore passano di slancio i resti vittoriosi del Corpo d’Armata Alpino: siamo rimasti in pochi, non più uomini ma spettri addirittura, con la fronte alta però come chi ha dato tutto senza mai piegare, per l’onore della patria.”

Qui terminano i miei appunti…

Capitano Valentino Husu
Comandante la Compagnia cannoni anticarro 47/32, 277º Reggimento Fanteria

Dopo un primo schieramento anticarro sulla sinistra della Divisione Julia, che dal Don si era portata verso Rossosch a protezione dell’ala destra del Comando Corpo d’Armata, minacciato di avvolgimento dalla rottura del fronte, la compagnia cannoni anticarro del 277º Reggimento Fanteria, Divisione Vicenza, veniva (con altri reparti del Corpo d’Armata Alpino) destinata a proteggere verso sudest la piazzaforte di Rossosch, sede del predetto Corpo d’Armata. In particolare doveva sorvegliare in funzione anticarro le provenienze dalla direttrice Kantemirowka, caduta in mano delle forze sovietiche.

Il 15 gennaio 1943, quando i sovietici sferrarono il loro violento attacco di sorpresa contro la località di Rossosch, sede del Corpo d’Armata Alpino, la città venne occupata e perduta due volte in due giorni, la compagnia confermava in cruentissime azioni di fuoco, nell’impari lotta contro i soverchianti carri armati sovietici, la fiducia che il reparto aveva meritato.

Nei numerosi episodi che le tragiche circostanze di quei lontani giorni portarono all’annientamento di tutti i reparti schierati alla difesa sudest di Rossosch, i reparti della compagnia scrissero pagine di assoluto sacrificio. Ricorderemo fra i tanti quello del 3^ Plotone Cannoni 47/32 agli ordini del sottotenente Bernardi. Tale plotone schierato a cavallo della pista KantemirowkaUkrainez, aveva il compito di sbarrare le provenienze dei carri armati da Kantemirowka.

Nella notte sul 15 gennaio un massiccio attacco di sorpresa di carri sovietici si scatenò sulla debole cortina difensiva della piazzaforte di Rossosch. Il plotone cannoni affrontava l’impari lotta con furore selvaggio. Ad uno ad uno i serventi dei pezzi, sottoposti al massiccio fuoco delle mitraglie di bordo e dei pezzi, venivano messi fuori combattimento.

Il sottotenente Bernardi, fulgida figura di soldato, dopo aver trasportato in una vicina isba gli ultimi due serventi feriti, affrontava da solo con spavalda decisione i carri armati avanzanti, sui quali purtroppo i proietti anticarro nulla potevano contro le corazze. Ferito a morte dalle raffiche ravvicinate delle mitraglierie di bordo, il sottotenente Bernardi si abbatteva sul cannone, venendo successivamente maciullato per schiacciamento del carro armato, contro il quale aveva inutilmente sparato gli ultimi colpi di granata.

Tale episodio, come tanti altri, a causa dell’annientamento di tutti i reparti schierati nella zona, sarebbe rimasto ignorato se non fosse stato raccontato da un superstite, il tenente Dall’Oglio comandante la 2^ Compagnia del I/277^, schierata sulle alture alla destra dei cannoni, il quale dall’alto della sua posizione aveva assistito de visu alle varie fasi dell’eroica vicenda.

L’ufficiale rimpatriato nel 1949 dalla Russia, oltre a raccontare il fatto esaltando la condotta dell’eroico sottotenente Bernardi, disse che dopo il passaggio dei carri, si recò sulla piazzuola del pezzo e constatò la morte del sottotenente Bernardi e di tutti i serventi dei pezzi ad eccezione dei due feriti ricoverati dal Bernardi nella vicina isba prima di affrontare da solo l’eroico sacrificio.

Tenente Franco Infantino
277º Reggimento Fanteria

E’ giusto che il silenzioso ed umile sacrificio dei fanti della Vicenza sia tramandato ai posteri insieme a quello delle “penne nere”. Accomunati agli alpini in trincea (il mio battaglione sostituì in linea il Gemona) e lungo il duro cammino della ritirata, i combattenti della Vicenza si sono guadagnati, io credo, l’onore di una citazione al merito nell’albo d’oro della Julia e delle altre divisioni alpine.

Riferendomi alla battaglia di Nikolajewka, quel che io ricordo chiaramente di quella drammatica e titanica lotta sono i furiosi attacchi degli alpini e dei reparti superstiti della Vicenza incitati all’attacco dal colonnello Salvi, il quale sempre in piedi correva a destra e a manca incurante dei proiettili di mortaio che ci scoppiavano intorno, trascinandosi dietro, lungo l’interminabile china cosparsa di morti, noi pochi scampati alla sacca di Warwarowka.

Ricordo che, mentre sostavo con lui dentro un cratere prodotto un attimo prima dall’esplosione di un mortaio, corse voce che era morto il generale Martinat. Salvi mi lasciò dicendo che sarebbe andato a prendere contatti con il comando della Tridentina. Io mi avvicinai ad un’isba che stava alla mia destra da dove un pezzo di artiglieria sparava incessantemente sull’abitato e mi improvvisai servente al pezzo. Un tenente alpino a testa nuda che dirigeva il tiro in piedi, allo scoperto, mi rivolse un sorriso e poi continuò a bestemmiare ed a lanciare improperi contro i russi.

Geniere alpino Tomaso Torri
Comando del 30º Battaglione Guastatori del Corpo d’Armata Alpino

Il 15 gennaio del 1943 mi trovavo a Rossosch, quando la mattina alle 7,30 circa presi una telefonata dal generale Tamassia; riferii immediatamente al mio tenente Mario Furio di Milano il quale ordinò di partire con qualunque mezzo per il bivio di Podgornoje perché stavano arrivando a grande velocità i carri armati russi. Così arrivati al comando ci incontrammo con altri guastatori compreso il comandante del battaglione, Vincenzo Mazzuchelli, uomo di alto coraggio.

La sera verso le ore 20 ritornammo ancora al nostro accantonamento; purtroppo il maggiore Mazzuchelli mancava. I nostri guastatori hanno fatto strage quel giorno distinguendosi su tutto e dappertutto, purtroppo la mattina seguente abbiamo dovuto abbandonare ogni cosa e metterci in marcia.

Alpino Mario Faverio
Quartier Generale del Corpo d’Armata Alpino

Era il 25 gennaio ’43. Da più di due giorni non mangiavo, e nei precedenti avevo mangiato molto, ma molto poco. Le forze mi mancavano ed il levare una gamba dopo l’altra dalla neve alta mi costava una notevole volontà. Quasi all’improvviso vidi un alpino passarmi accanto con il suo cappello in mano e notai che era colmo di patate, o così mi parve.

Lo chiamai più volte, lo supplicai di darmi una patata, l’avrei mangiata così cruda, subito, ma lui non mi rispose, neppure mi guardò. Pensai poi fosse sordo, o non so che, non potevo credere che mi negasse quel poco che gli chiedevo. Proseguii la marcia coi miei compagni e dopo poco tempo (forse erano passati minuti o forse ore) vidi davanti ai miei piedi fra la neve una patata. L’avrà persa l’alpino di prima, pensai, e la raccolsi immediatamente.

Un secondo dopo la portai alla bocca e solo allora mi accorsi che non era una patata ma sterco di mulo. La gran fame che sentivo aveva fatto trasformare ai miei occhi quello sterco in una patata, visione che mi fu difficile cancellare. Risciacquai la bocca con la neve e proseguii. Il giorno dopo, 26 gennaio, a pochi passi dal generale Reverberi, udito il suo incitamento mi spinsi all’attacco per la conquista di Nikolajewka.

Sottotenente Ottobono Terzi di Sissa
2^ Batteria, 1^ Gruppo, Reggimento d’Artiglieria a Cavallo

A Nikitowka, dietro l’isba dove avevo passato la notte, c’era il vuoto. Non c’era anima viva in questo primo mattino. La pianura ucraina mi sembrava un’immensa piazza chiara in cui il vento aveva dilatato i colori e le misure. L’occhio vagava senza confine. I russi non si erano ancora mossi. La notte era trascorsa nella calda isba e tutti i nostri soldati, sdraiati sullo sporco pavimento, si stavano sgranchendo le membra, lentamente, nel risveglio: era quasi l’alba ed eravamo più stanchi di ieri.

Sarebbe venuta pure per noi una vita da cristiani o avremmo dovuto rincorrerla, come in quei momenti, ora per ora, giorno per giorno, continuamente? La notte passata non era trascorsa tranquilla per noi: si erano uditi parecchi colpi di artiglieria in lontananza e lo sferragliare rapido sulla pista gelata di molti T 34 russi e, durante la corsa, lo sparo dei loro cannoni contro le isbe del villaggio.

Una casa si era incendiata, laggiù sulla sinistra, e con essa chi la occupava; alcuni soldati italianierano usciti correndo e rotolavano nella neve come sacchi pesanti. La marcia della colonna doveva riprendere, bisognava assolutamente partire. Alcuni superstiti della Sforzesca e della Vicenza erano indecisi a muoversi, tanto, dicevano, nessuno tornerà più in Italia. Convincerli non fu cosa da poco. Finalmente tutti in marcia. I tedeschi avevano le carte topografiche e noi non avevamo nulla. Domandai ad un ufficiale del Bergamo dove ci saremmo diretti e mi rispose con un nome solo: Nikolajewka.

Ero entrato nella lunga colonna della Tridentina due giorni prima, insieme ad alcuni tedeschi ed ai miei soldati con il tenente Fagnani. Pochi, è vero, ma tutti miracolosamente sfuggiti alla prigionia russa. Ricordavo bene quando mi avevano arrestato a Warwarowka, quella mattina del 24, il mitra del partigiano ucraino puntato sulla mia schiena (ricordo ancora oggi dopo tanti anni il punto preciso), e la frettolosa, rapida perquisizione personale.

Le sei piccole bombe a mano che avevo indosso dall’epoca della “linea” sul Don, e l’unica scatoletta di carne congelata, a terra, sulla neve ghiacciata. Tutto il mio avere custodito con tanto amore… La tragica notte di Warwarowka era ancora ben chiara nei miei occhi: il carro armato russo lanciato come una catapulta sopra i nostri pezzi, quasi a schiacciarli, la strage dei cavalli legati ai cassoni dei proiettili, il rumore dei T 34 che si allontanavano per poi scomparire nella gelida oscurità.

Il sangue era dappertutto, illuminato dalle numerose isbe in fiamme. Perché tanta strage? Il reggimento di Artiglieria a Cavallo cui appartenevo, aveva fatto cose superlative, insieme ai valorosi alpini del Morbegno ed agli artiglieri del Bergamo. Quattro carri armati sicuramente centrati e molti altri seriamente danneggiati. E le colonne dei superstiti italiani che si allontanavano dal centro della battaglia, come lancette impazzite di un orologio ruotanti in tutte le direzioni, verso un caposaldo alleato che non esisteva… La breve prigionia, l’evasione con i miei soldati ed il rientro nella Tridentina, che lentamente ripiegava trascinando con sé i suoi dolori e la sua disperazione.

Nikolajewka mi apparve in quel gelido pomeriggio di gennaio dopo una marcia iniziata all’alba. Prima mi apparvero le cupole della grande chiesa ortodossa, poi la collina che scendeva dolcemente verso la ferrovia con il sottopassaggio ed infine la città che si stendeva verso nord ed una grande moltitudine di soldati stesi a terra come massi neri sul candore della neve. Gli alpini erano là distesi da molte ore ed io li vedevo solo ora. A tratti si udivano raffiche di mitra, fragore di bombe a mano e di mortai, poi un silenzio tragico di
morte.

Il sanguinoso scambio riprendeva dopo breve tempo. Il mortaio piazzato vicino alla chiesa continuava a sparare ad intervalli brevi. Vedevo alcuni corpi immobili che giacevano nella neve: ma quali erano i vivi? Tutti erano uguali nel combattimento. Stavo assistendo ad una grande tragedia, con un palcoscenico dilatato, enorme. Un colpo del solito mortaio colpì a pochi passi da me un giovane cavalleggero del Novara. Rantolava a terra. Accorse un cappellano.

Gli occhi del giovane disteso sulla neve guardavano il cielo ed egli mormorava qualche cosa. Gli presero il piastrino, il portafoglio e l’orologio. Non c’era più niente da fare: era in coma. I colpi dei mortai continuavano a cadere ed a uccidere. Una tragedia senza fine. La battaglia si presentava d’esito incerto. Il tramonto si approssimava veloce e, gli alpini non mollavano da ore ed ore. Se non si fosse entrati quella sera a Nikolajewka si sarebbe morti tutti congelati sulla collina gelata.

Ad un tratto vidi il generale Reverberi farsi largo tra la folla dei soldati, salire su un semovente tedesco e con voce roca dal gelo gridare incitando tutti: “Avanti, avanti, Tridentina, avanti alpini!”. Tutti gli uomini distesi, alpino e no, si alzarono di scatto, puntarono le armi correndo laggiù verso il sottopassaggio della ferrovia, stretto ed oscuro.

Alcuni con le baionette inastate, altri con i mitra presi ai russi, altri con solo delle bombe a mano. Tutti correvano sicuri che questa volta ce l’avrebbero fatta… Il grosso della colonna che era alle mie spalle si mosse lentamente, inesorabile come l’acqua di un fiume che avesse rotto gli argini travolgendo ogni cosa. Avevamo vinto; sì, avevamo superato il sottopassaggio, eravamo con le prime avanguardie nei dintorni della chiesa, verso le prime isbe.

Dopo alcuni giorni venimmo a sapere quello che avevano fatto gli alpini in quel giorno terribile: avevano sconfitto, senz’armi o quasi, un’intera divisione sovietica giunta nella notte a Nikolajewka per sbarrare la strada alla Tridentina e distruggerci. La vita, la nostra vita di soldati e di uomini, c’era stata ridata ancora una volta. Gli alpini l’avevano offerta a noi con le loro mani ancora tremanti per i tanti colpi di moschetto, sporche di tanto eroismo e di tanta lotta disumana.

Sapevano che era in gioco la nostra esistenza e si erano sacrificati tutti per noi. La nostra vita è ancora con noi, mi dicevo guardando le ultime fasi della battaglia, è ancora nostra… Domani avremmo ripreso la marcia verso l’ignoto con una grande e nuova speranza nel cuore.

Alpino Sandro Bianchirli
Pattuglia di Collegamento presso la 7^ armata tedesca

Era il 26 gennaio del triste anno della ritirata di Russia, sulle prime ore del pomeriggio. Dall’alba si combatteva o si battevano i piedi nella neve a temperatura siberiana, mentre un fuoco di fila di cannoni e mitraglie di ogni calibro inchiodava i nostri reparti sulla discesa che portava al terrapieno della ferrovia che favoriva i difensori del villaggio russo che intralciava la nostra ritirata: Nikolajewka.

Tra la folla più o meno disciplinata di quei soldati che cercavano una via di scampo, scorsi improvvisamente vicino a me il tenente Ugo Merlini (eravamo amici d’infanzia). Al ritrovarci in quel frangente, dove la vita era attaccata ad un lievissimo filo sia per il fuoco nemico che falciava vite umane a più non posso, sia per il freddo che, digiuni e demoralizzati come eravamo, faceva crollare i fisici più temprati, ci abbracciammo; ci domandammo a vicenda come stavamo.

Merlini, il momento dell’attacco decisivo era imminente, vistomi affamato e malmesso mi
disse: “Coraggio…, o la va o la spacca, bisogna mettercela tutta; prendi, è l’ultima scatoletta che ho, tu hai più fame di me (e mi consegnò una preziosa scatoletta di carne) prendi anche questa, ora ci vuole anche lei (e mi consegnò una bomba a mano), se hai la fortuna di passare da questo inferno e di tornare a Lecco, dì a mia madre che fin qui c’ero anch’io. Se la fortuna sarà mia dirò alla tua “veda” che in questa maledetta balka eri con me. Ciao…”.

Un abbraccio, e un Savoia! urlato da migliaia di disperati lacerò l’aria; tra i primi ci gettammo per la discesa nevosa verso Nikolajewka. …Passammo entrambi e, più o meno malconci e feriti, ci riabbracciammo a Lecco dopo due o tre mesi d’ospedale.

Tenente alpino Carlo Melazzi
Nucleo di Collegamento con le armate tedesche

Sono stato ufficiale di collegamento interprete. La guerra non l’ho fatta, l’ho… parlata. Fu il tanto compianto generale Vigliero (allora colonnello) a farmi partire con il Nucleo di Collegamento con armate germaniche comandato dal colonnello conte Carlo Gavalleroi. A Karkow, nel primo periodo dello sfondamento russo, e cioè: al comando germanico erano assegnati il maggiore di stato maggiore (bande rosse) Muller, l’allora capitano Pietro De Giorgio ed il sottoscritto, tenente interprete.

Sull’andamento delle operazioni il maggiore Miiller rivolgendosi a me si espresse con questa frase: “Vedo che lei è degli alpini. Devo dire che sul fronte sono solo gli alpini che resistono”. Tradussi la frase; il capitano De Giorgio mi incaricò di rispondere che tutti i soldati italiani di tutti i corpi si comportavano con valore. Tradussi con piacere e con fierezza.

Caporal maggiore Clemente Santi
Comando Quartier Generale, Corpo d’Armata Alpino

Premetto che in Russia ci sono andato più come forzato che come alpino, quindi obbligatoriamente, proprio perché non dovevo difendere la Patria, ma per un qualcosa che assolutamente non sentivo. In Italia lasciavo la mia donna, due bambine, i miei genitori) tutto quanto di meglio può avere un uomo. Tra l’altro io ho sempre tenuto una corrispondenza fittissima con tutti i miei, quindi conoscevo bene tutte le traversie a cui essi erano sottoposti a causa della mia assenza.

Questo sta a significare tutta la rabbia che ho sempre avuto in corpo in quel dannato periodo 1942-43. Quel che ingigantì la di già acuta maldisposizione mia, è stato il contatto diretto con il popolo ucraino, più precisamente con quello che restava del popolo ucraino, donne, anziani di ambo i sessi, bambini. In ognuno di loro io vedevo i miei, tutti esseri alla buona, gentili, moderati, i quali hanno ben presto fraternizzato con noi alpini.

In noi essi vedevano i loro uomini, i loro figli, i loro padri; dico sinceramente, gran parte di noi, nelle occasioni che si son presentate, li ha difesi contro i loro veri invasori… Proprio per questi atti è sorta l’amicizia tra il popolo ucraino e gli alpini; molti, tantissimi di noi devono la vita proprio in virtù di questa fratellanza.

Non tocca a me descrivere gli orrori che ci è toccato di vedere, perpetrati dagli allora nostri alleati, contro popolazioni inermi. Il Comando Quartier Generale del Corpo d’Armata Alpino aveva sede in Rossosch, le prime avvisaglie che sull’attiguo fronte del Don le cose non andavano troppo bene, le abbiamo percepite nella prima decade del dicembre 1942.  La sede del Comando ogni giorno era soggetta a bombardamenti; buon per noi che i piloti non si sono dimostrati tiratori scelti e la sede stessa per alcuni giorni non venne direttamente colpita.

Intanto si arrivò alla seconda decade del mese e con questa le cose andavano sempre peggio, vennero sciolti tutti gli uffici, noi a secondo della primitiva nostra specialità fummo destinati a rinforzare la truppa operante. A me venne affidato il comando di una squadra mitraglieri, mi sono toccati compagni nuovi, mai incontrati prima di allora, ma come d’uso negli alpini il rapporto fra gli uomini è immediato.

Come da ordini ricevuti ci siamo posti nei giorni successivi a difesa della strada che immetteva in Rossosch che portava alla stazione ferroviaria. In quel periodo solo gli uomini di guardia restavano nelle postazioni, mentre gli altri erano sistemati in isbe distanti non più di 50-80 metri dalle postazioni stesse. Le isbe erano abitate da civili e come sempre in queste circostanze noi ci sistemavamo in cuccette sovrapposte, approntate da noi, anche se rozzamente, a tempo di record.

Mi ricordo bene, nella notte del Natale 1942, la stazione ferroviaria di Rossosch venne bombardata da aerei russi; tra gli altri si trovava fermo in stazione un carro merci con un carico di vino. Qual fu il nostro stupore, raggiunta la stazione subito dopo il bombardamento, trovarsi di fronte a delle botti sfasciate ed il vino in piedi a forma di botte al nostro cospetto, completamente gelato, uno spettacolo veramente eccezionale.

Venne così distribuito a grossi blocchi ad ogni squadra, e composti dei rudimentali cavalletti fu messo a sgelare con gradualità nel vano entrata, cioè tra la doppia porta delle isbe da noi occupate. Si giunse così giorno dopo giorno, con un succedersi di notizie sempre più allarmanti, al mattino del 16 gennaio ’43. L’alpino di corvée in quel mattino, uscito dall’isba per recarsi a prelevare le razioni di caffè, fece ritorno di corsa e mi riferì di essere stato fatto segno ad alcuni colpi di parabellum.

Era stata una vera fortuna che avessero sparato quando era ancora troppo lontano. Subito venne dato l’allarme a tutte le postazioni onde evitare che altri si avventurassero in quella direzione; eravamo proprio stati noi i primi ad accorgerci di essere attaccati dai partigiani. Il problema in quel momento era di ricuperare i nostri compagni che si trovavano barricati nell’interno del fabbricato adibito a cucine.

Resici conto della direzione da cui provenivano gli spari, con cauti spostamenti abbiamo piazzato due mitragliatrici, mentre con un aggiramento ad ampio raggio un alpino riuscì a raggiungere gli addetti alla cucina. Ad un segnale convenuto è stato aperto un nutritissimo fuoco, così tutti sono riusciti a sganciarsi ed a raggiungerci. Non era questa che la prima avvisaglia, verso le ore 9 di quello stesso mattino i primi carri armati leggeri russi hanno fatto la loro apparizione, seguiti appresso dai carri medi, mentre la fucileria partigiana aumentava sempre più d’intensità. ^

Non è stata possibile alcuna difesa ad oltranza, la sproporzione di forze era enorme, c’è stato un atto più che di coraggio direi di disperazione, un alpino dopo aver gridato frasi incomprensibili, allo sbucare del secondo carro russo dalla curva che immetteva verso la stazione, ha atteso come un felino che passasse prossimo alle nostre postazioni, con un balzo è stato sulla pista ghiacciata e un secondo balzo è salito sulla griglia dei motori del carro, non sono mai riuscito a sapere come, gli ha dato fuoco, il terzo carro sbuca intanto dalla curva lo sorprese prima ch’egli raggiungesse nuovamente una delle postazioni, fulminandolo con la mitragliatrice di bordo e schiacciandolo infine con i suoi cingoli.

Dal carro armato in fiamme più avanti intanto uscivano i soldati russi componenti l’equipaggio, buon per noi che il terzo carro che stava in quel mento dirigendosi verso di noi ha cambiato rotta portandosi in soccorso dell’equipaggio del carro che lo precedeva. Tutto si è svolto in un tempo breve, ma quel tanto che ci ha permesso di sganciarci velocemente, ed intraprendere il cammino verso Podgornoje che raggiungemmo verso le ore 17.

Là mi ritrovai con tutti i miei superiori e compagni d’ufficio Comando: col. Bacchetta – cap. Romano – maresciallo Stecchi – magg. Tealdi – cap. magg. Trani – art. Morelli e gli alpini Loi e fratelli Julliaz. Di lì, aggregati alla divisione Tridentina, abbiamo vissuto l’odissea di tutti, perdendoci di vista e ritrovandoci a secondo dello svolgimento degli avvenimenti succedutisi in continuazione.

Raccontare quanto accadde in quei giorni occorrerebbero centinaia di pagine, quello che maggiormente è rimasto impresso in me è stata l’epica figura del generale Martinat, un uomo veramente eccezionale, padre, superiore e combattente in tutt’uno, con lui non ci si poteva perdere di coraggio ed il giorno della sua morte il 26 gennaio quando la battaglia di Nikolajewka stava per avere il suo epilogo egli cadde eroicamente; quello è stato vero e proprio eroismo con l’aggiunta incondizionata dello spirito di sacrificio; in quel memorabile giorno, nonostante tutte le mie amarezze, i miei dolori, piansi, sinceramente piansi.

Dopo quella funesta giornata, riuscii a trascinarmi ancora per altri cinque lunghissimi giorni fino a Schebekino, definitivamente fuori della sacca, era il 31 gennaio 1943. Sfinito, con gli arti inferiori in condizioni pietose che mi davano dolori lancinanti mi caricarono su un automezzo militare e lì condotto a Karkow ove venni ricoverato all’ospedale della riserva n. 6. All’8 febbraio successivo mi sistemarono sul portabagaglio in rete di una vettura ferroviaria e partii per il viaggio che a tappe mi portò gradatamente in Italia, ove il 1^ marzo venni ricoverato all’Ospedale Militare Territoriale.

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