a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Artigliere alpino Giovanni Tonon
Reparto Munizioni e Viveri, Gruppo Udine, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Sono uno dei tanti che nella primavera del 1942 abbiamo risposto all’appello, quando la patria chiamò sotto le armi i suoi figli residenti all’estero, e così anch’io sono venuto e non mi sono tirato indietro per fare il mio dovere di patriota; certamente non con il sorriso, purtroppo c’era la guerra, e non occorre dire di più.
Così un mattino d’aprile sono partito da una grande città del nord della Francia, e una bella sera mi ritrovai con altri richiamati come me nel forte di Osoppo per dormire nella paglia con abiti borghesi fra i muli in una scuderia della 13ª Batteria. Così cominciò la naia. All’ultimo momento passai effettivo al reparto munizioni e viveri del Gruppo Udine col capitano Musitelli, e si partì per la Russia.
Per me posso dire che la ritirata cominciò dieci giorni prima che per gli altri, o almeno fu un antipasto, quando il 7 gennaio ricevetti l’ordine di partire col sergente maggiore Chittaro, dovevamo andare a prendere del materiale e dei pezzi di ricambio per gli obici d’artiglieria da 75/13 rimasti fuori uso in prima linea. Partimmo dalla base a piedi, fino a Podgornoje e da lì fino a Rossosch, dovevamo andare fino a Woroschilowgrad al comando dell’8^ Armata, e tutto questo viaggio con mezzi di fortuna.
Siamo stati fortunati, a Kupiansk il sergente trova un suo amico che sa dove sono i pezzi di ricambio che ci occorrono; e l’indomani si riparte, poi passiamo per Waluiki, Rowenki, ecc., e arrivo a Rossosch, a mezzanotte si riparte a piedi verso Popowka. Intanto la luna si è alzata, e si è quasi vicini a un paesetto, quando vediamo arrivare verso di noi un gruppo di cavalieri, ci fermiamo e vediamo passare davanti a noi i cosacchi del Don Ostreiter che scorrazzano in piena notte, sono le due del mattino, e vanno verso il Don, saranno qualche centinaio, e spariscono in una nuvola di nevischio…
Arriviamo alla base all’alba del 14 gennaio, morti di stanchezza. Qualcuno partì col materiale ma non ho mai saputo se sia arrivato a destinazione, dato che ci fu l’attacco a Rossosch. Il 18 gennaio partiamo quasi all’alba (ricordo sempre il saluto e il bacio che ci diede la padrona dell’isba dove avevamo abitato tanti mesi, lei non ci trattò mai da nemici, ma come degli ospiti forse non graditi, ma lì per forza di cose). La colonna è abbastanza lunga, non so che strada facciamo e dove andiamo, con gli autocarri non si corre velocemente sulla neve, la strada sembra molto lunga, sostiamo qualche ora in un paese, forse quella fermata ci sarà fatale.
Il sergente maggiore Mosè Candeago mi chiama e mi dice che devo presentarmi dal tenente colonnello comandante dei servizi logistici, io credo che sia uno scherzo ma vado con lui e mi presento, vedo un ufficiale superiore e sto sull’attenti. “Riposo” mi dice: “da questo momento si metta a mia disposizione”; parole pronunciate con forma pacata, così, bonariamente; “intanto mi trovi un po’ di latte.” Eseguisco, e dopo tanto peregrinare io e il sergente riuscimmo a trovarlo; lo faccio scaldare e glielo porto; lui me ne offre la metà (quante volte la vidi poi quella scodella davanti agli occhi sulla steppa!).
Poi mi chiede notizie personali, e mentre si parla si leva gli scarponi e i calzetti e mi ordina di fare altrettanto e mi da una scatola di grasso anticongelante, “tienila da parte che ne avrai molto bisogno d’ora in poi”; si spalma i piedi e mi dice: “non avere paura di sporcarti, più ne metti meglio è”.
Obbedisco (forse questo mi salvò dal congelamento ai piedi). Poi mi da un paio di calzetti nuovi da tenere di scorta (in sèguito li riempirò di zucchero) e aggiunge: e adesso che siamo a posto possiamo affrontare le difficoltà che ci attendono, se abbiamo fortuna! Io gli domando soltanto: è l’ S.O. S. come il Titanic? e lui mi risponde sottovoce per non farsi udire dagli altri ufficiali che si trovano nell’altra stanza: povera nostra Divisione Julia, questa volta la distruggono completamente. Poi dice che in caso che fossimo divisi dovevo prendere la direzione BelgorodKarkow. Io rispondo signorsì, e mi scusi signor colonnello, non so il vostro nome. Voghera, servizi logistici, mi dice.
Alpino Luigi Giacomini
18ª Batteria, 3^ Gruppo Udine, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Quello che ho scritto qui non ha importanza come azione di guerra e non servirà a scrivere la storia. Ma mi sembra importante lo stesso per altri aspetti. Il pomeriggio del 21 gennaio 1943, eravamo in ritirata da cinque giorni e da due avevamo, dopo strenui combattimenti, abbandonato slitte, muli, pezzi, e vettovagliamento. Alcuni carri armati russi avevano attraversato la colonna proprio davanti a noi della 18ª Batteria. Così, assieme ad altri ci eravamo fermati cercando alloggio in alcuni capannoni.
Mentre cercavamo di ristorarci con quel poco che ci era rimasto da mangiare, i carri russi si erano attestati attorno ai capannoni, schierandosi a poche centinaia di metri, due da una parte e tre dall’altra. Noi avevamo solo moschetti e bombe a mano; eravamo ormai in attesa della nostra fine. Verso le undici della notte si sentirono i rumori dei carri armati sempre più vicini; fuori si era sentito un certo lavorio e subito dopo tutto un mitragliamento.
Al richiamo di una voce che dall’esterno esortava all’attacco, come una folata uscimmo dal portone centrale. Appena fuori, un carro armato avanzava accostandosi al capannone, forse a una quindicina di metri e sparando con quattro o cinque mitragliatrici, ma non su di noi. La neve era gelata e solo qualche volta si affondava fino al ginocchio. Cercavo di correre, ma dopo poco le forze mi mancavano; facevo molta fatica e facevo il possibile per allontanarmi dal pericolo.
Dopo 400, 500 metri, due carri armati si avvicinarono a me, mi fermai e mi appoggiai su un fianco ad aspettare la fine. Sì, avevo paura, non di morire (magari!) ma di soffrire; il cuore mi batteva tanto forte che credevo mi scoppiasse; più i carri armati si avvicinavano, più mi pareva di impazzire… Mi passarono di fronte, a 40, 50 metri; senz’altro mi avranno visto, essendo la zona spoglia di tutto. Appena allontanati, mi son messo a correre, ma per poco, facevo molta fatica.
Era notte, ma il chiarore della neve dava luminosità; dietro a me, verso i capannoni, sentivo scoppi di granate, crepitio di mitragliatrici. Mi girai un momento e proprio in quel momento, dal tetto vidi il lampo, lamiere che volavano e poi lo scoppio. Cercavo di correre, ma le forze mi venivano meno. Camminavo, barcollavo, andavo avanti fino allo stremo; non mi fermavo, non mi appoggiavo sulla neve, cadevo, avevo il cuore in gola, respiravo affannosamente, cercavo di rialzarmi, ricadevo di nuovo.
Gettai il moschetto che era ingombrante, non mi son detto dove dovevo andare, dove arrivare; sono scappato solo per allontanarmi dal pericolo; ero parecchi chilometri lontano. Cercavo di farmi coraggio, andavo avanti finché cadevo un’altra volta. Ho sfilato dal collo il passamontagna; avevo l’impressione che mi aiutasse a soffocare; lo usai come cuffia. Avevo anche il rotolo di due coperte a tracolla; in una caduta esso si era sfilato dalla testa; quando mi sono rialzato non me ne sono neppure accorto, e lì è rimasto.
Non ho dato importanza: almeno ero più leggero, tanto, in quella sera non pareva che fosse freddo, o forse io non lo sentivo. Mentre camminavo, davanti a me, di colpo ho visto la pista dove aveva proseguito la colonna. Sì, la pista, e non la pista di carri armati. Appena la vidi, sentii, un raggio di guida; non caddi, ma mi tuffai su di essa; il corpo cadde sulla neve battuta e le gambe mi son rimaste sulla neve alta. Ero sfinito, gemevo, respiravo a bocca aperta. Davanti a me a una decina di metri c’era uno accovacciato ai bordi della pista; a carponi mi avvicinai, l’ho scrollato, ed ho visto che era morto.
Volevo ugualmente parlargli anche se non sentiva, ma non potevo. Il respiro lo avevo affannoso, ma con il pensiero gli ho detto: “Almeno tu sei morto, invece io mi trovo qui solo a soffrire per poi egualmente morire!”. Dopo poco mi alzai, feci un giro su me stesso, lentamente scrutai l’orizzonte; proprio in quel momento non si sentivano, non si vedevano incendi, scoppi, razzi luminosi come si vedevano le notti precedenti, ma solo un’immensa pianura di neve. Pensai che anche per me era la fine e come per aggrapparmi a qualcosa allargai le braccia e chiamai: “Mammaaa!…” come se le avessi dato l’addio.
Se qualcuno mi avesse sentito, avrebbe pensato che non era voce umana; di nuovo mi adagiai vicino al morto; chiusi gli occhi volevo morire senza soffrire. Dopo poco aprii gli occhi, mi alzai come se qualcuno mi avesse aiutato; non so spiegarmi come mi son ripreso e dopo pochi momenti il cuore era ritornato al suo posto e il respiro era normale. Ero calmo, non sentivo né stanchezza né fame, mi pareva che nulla fosse accaduto. Ero in piedi e guardavo il morto: pensavo a una cosa soprannaturale, sì, alle preghiere di mia mamma che forse in quel momento stava pregando come al suo solito, dopo tutti i lavori domestici.
Non andava mai a dormire senza aver dedicato un po’ del suo tempo alle preghiere quotidiane. Sottovoce pronunziai ancora: “Mamma, mamma!”, come se avessi vicino lei, e proseguii per la pista. Si camminava bene, diversamente che sulla neve vergine. Ero rassegnato, tanto che qualsiasi cosa mi fosse capitata non mi avrebbe fatto paura. Dopo pochi chilometri arrivai in una zona che pareva incolta.
C’erano gli steli secchi dei finocchi selvatici e delle erbe minori piegati dal vento. Intanto il chiarore della neve era diminuito. Dopo un chilometro circa sulla pista, ad una decina di metri, vidi alzarsi un’ombra che mi veniva incontro. Subito notai che era un soldato russo, ma non ebbi paura, appena arrivati uno di fronte all’altro ci stringemmo la mano. Neppure lui era armato e cominciò a dirmi: “Italianscki, karasciò: buoni italiani!” e mi fece capire che gli italiani erano passati su quella pista e che lui si chiamava Stefan. Volle pure sapere il mio nome.
Mentre mi parlava, girandomi verso destra vidi la sagoma di un altro soldato russo curvo sotto gli steli selvatici di finocchio che ci osservava, ed a sinistra un altro: non ho avuto paura. Poi Stefan sfilò dalla spalla uno zainetto, lo aprì ed andò ai bordi della pista per prendere un po’ di neve pulita, ne fece una palla e la mise dentro lo zainetto e con la mano vi cominciò a fare qualcosa. Poi mi diede quella palla di neve e mi fece cenno di mangiare. Ubbidii: era zuccherata.
Poco dopo cominciammo a camminare assieme e dopo pochi chilometri trovammo sulla pista altri cinque soldati russi che dormivano; lui voleva svegliarli, ma io glielo impedii. Penso che si trattasse dei prigionieri russi in precedenza alloggiati nei capannoni, e lasciati liberi dagli italiani senza far loro alcun male. Riprendemmo a camminare, e dopo qualche chilometro, scendendo dall’alto verso il basso, vedemmo in lontananza un gruppo di ombre.
Quando fummo vicini, con immenso sollievo vidi che erano alpini del Battaglione L’Aquila, che si stavano riposando. Appena arrivati vicino, appena il tempo di scambiarci due parole
che riprendemmo a camminare… Anche in quella occasione neppure cinque minuti di riposo. La testa della colonna aveva aperto il varco. Intanto si era fatto quasi giorno e verso mezzogiorno trovai uno della mia batteria e ci aiutammo a vicenda. Dopo due giorni che si camminava assieme non avevamo ancora mangiato niente e neppure dormito.
Finalmente trovammo una quindicina di uomini della nostra batteria; essi si erano messi in salvo perché in quel pomeriggio si trovavano a circa un’ora di ritardo dalla batteria quando i carri ci avevano fermati e la colonna dietro a noi era girata al largo facendo un’altra pista. Per noi fu un vero sollievo unirci a loro e rimanemmo sempre uno per tutti e tutti per uno, per gli altri giorni successivi.
La ritirata durava da 8 giorni e per giungere a Nikolajewka ci sarebbero voluti altri tre giorni. Della giornata di Nikolajewka ricordo particolarmente una persona rimasta a me sconosciuta che in quel giorno di sfondamento aveva messo negli uomini più fuoco che una tempesta di mortai. Io c’ero là e quell’uomo me lo ricordo così. Era il 26 gennaio 1943. La Tridentina, che all’inizio della ritirata era efficientissima, dopo ben dieci combattimenti si stava esaurendo nel tentativo di sfondare. Combatterono per tutta la giornata, e noi stavamo ad aspettare l’esito.
Fin dal mattino la grande massa degli sbandati si andava accalcando a ridosso della cittadina. Se ci fosse stata ancora una notte di combattimento inconcludente, i russi si sarebbero ancor più rafforzati e sarebbe stata davvero la fine di tutti noi. Allora vidi tra la folla, a qualche metro da me, un alpino; penso fosse un ufficiale (aveva una giacca a vento, con un cappuccio, non mostrava gradi ma era uno sbandato come tutti noi), cominciò ad urlare delle frasi che ora io ricordo circa così: “Non abbiamo avuto paura fino adesso, là ci saranno poche decine di russi che sparano, ci siamo sacrificati per arrivare fin qui, ora non ci possiamo fermare…”.
Ed incitava la massa di gente. Allora, come un’ondata uragano, disperati, eccitati come dei pazzi, quasi tutti senz’armi, siamo partiti travolgendo ogni cosa davanti a noi. Così io credo che tutti noi abbiamo collaborato allo sfondamento di Nikolajewka. Il giorno dopo non si aveva niente da mangiare ed avevo un piede congelato; ad ogni passo sentivo una stilettata di dolore, ormai non vi facevo caso. Giunti fuori della sacca, il cammino si era fatto più sopportabile, si poteva dormire e ci davano anche da mangiare, sia pure poco. Così per altri quindici giorni di ritirata.
Giunti ad Atktirka, presso Kiew, entrai in un ospedale di fortuna per farmi almeno medicare, ma vi restai solo due giorni; poi partenza per l’Italia. A Foggia feci 60 giorni di quarantena. Finalmente a casa la mattina del mercoledì santo, ero nella mia camera ad indossare i vestiti borghesi ed arrivò mia madre, la quale, essendo molto religiosa, era andata a messa.
Dopo baci ed abbracci, mi chiese se la notte fra il 21 ed il 22 mi era successo qualcosa e se l’avessi chiamata diverse volte. In quel momento, dalla commozione, mi sono mancate le forze. Durante tutto quel tempo di travaglio non avevo versata neppure una lacrima, ma in quel momento l’ho riabbracciata e non riuscivo a calmare il pianto, dicendole: “Quanto hai pregato per me!”. Pure ora che scrivo questo particolare, non sono riuscito a trattenere le lacrime, essendo lei morta da poco. Perfino su un calendario aveva in quella notte del 21 gennaio 1943 segnato una croce.
Luigi De Lorenzo Buffolo da Candide, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina, Gruppo Val Piave, Divisione Julia
Notifico non di preciso che nella 35ª Batteria, quelli che siamo ritornati è circa 55; fra questi: caporale Remo De Bemardin da Campolongo, Mario Coston da Costa San Nicolò di Comelico, Giuseppe Piler da Sappada, Giovanni Palu da Costalta.
Questi sono tutti gli avanzi di tutto il Comelico superiore e inferiore della 35ª Batteria; eravamo in 22 quelli che siamo partiti, il mio capitano è Alberto Aurili di Livorno. Fra i combattimenti ed il ripiegamento partendo da Kalitwa per raggiungere Nikolajewka abbiamo perso tutti i compagni, tra feriti malati e congelati e morti e la marcia proseguì fino a Gomel, all’arrivo del treno, io ferito congelato affamato, senza scarpe, pieno di “pedòci”.
Sono grato essere da voi riconosciuto dopo 30 anni di silenzio, delle sofferenze e patimenti vissuti lontani dalla famiglia, ero sposato con moglie e due figli. Basta questo per capire la storia di Napoleone. Ho visto molto, che la gente non sa quanto abbiamo sofferto.
Tenente Vittorio Trentini
aiutante maggiore Gruppo Val Piave, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Kopanki, 19-20 gennaio 1943: sono un nome e una data da ricordare tra le vicende più aspre che segnarono col sangue degli alpini la lunga marcia di ripiegamento della Julia iniziata due giorni prima, quando fu dato l’ordine di abbandonare le posizioni estremamente difese e incrollabilmente tenute nella zona di Kalitwa.
Quell’ordine giunse a noi del Val Piave la sera del 17 a Krinitzschnaja dove dal mattino stavamo combattendo fianco a fianco degli alpini del Tolmezzo e del Cividale, ultima retroguardia a protezione dei reparti, in prevalenza tedeschi, che si erano già sganciati. Ci muovemmo che era quasi notte. Dopo ore e ore di grande fatica arrivammo a Popowka; ma i partigiani là annidati, come se fossero ad attenderci, ci costrinsero a riprendere il combattimento.
Il 19 dovemmo sostenere e respingere un nuovo attacco di forze russe provenienti da Rossosch. Si riprese la marcia a sera tarda: noi seguivamo la stessa direttrice e lo stesso percorso del 9^ col colonnello Lavizzari e della 18ª Batteria del Gruppo Udine. Ma alcune ore dopo, nella notte gelida, la colonna, giunta alle prime isbe di Kopanki, – un piccolo paese in fondo a una conca – urta contro una formazione corazzata: si è appena affacciata sull’orlo dell’altura verso il paese che le mitragliatrici russe cominciano il loro tiro. Non si può proseguire.
Allora il colonnello Lavizzari porta il suo comando con i radiotelegrafisti in un’isba ed organizza subito l’attacco. L’Aquila, magnifico battaglione con un magnifico comandante, il maggiore Sallustio, e il suo aiutante maggiore tenente Zannier, l’Udine e il Val Piave coi loro forti artiglieri si schierano rapidamente. Sallustio si mette alla testa di una pattuglia e va in esplorazione; raggiunge il paese, si scontra con i russi, si difende con le bombe a mano e riesce a rientrare con tutti gli uomini: intanto Aurili, comandante della 35^, manda in posizione avanzata uno dei suoi pezzi al comando del tenente Decio Quarti che si mette subito a far fuoco centrando ad uno ad uno, con grande precisione, tutti gli obiettivi!
illuminati dal chiarore della luna: alcune isbe si incendiano, alcuni carri si allontanano.
Rispondono i russi con le loro mitragliatrici, e poi coi carri armati. Un primo attacco viene respinto; ma il cerchio subito si stringe; notiamo chiaramente le sagome dei carri che si muovono verso di noi, anche le fanterie si avvicinano, i mortai ci hanno inquadrati, un pezzo anticarro ha preso di mira i nostri pezzi e riesce a colpirci, facendo molte vittime, tra cui il tenente che comandava una sezione dell’Udine.
Contro il nemico che avanza anche gli alpini e gli artiglieri si muovono, avanzano, si lanciano all’attacco; gli artiglieri si portano a distanza ravvicinata e sparano a zero contro i carri, alcuni ne inchiodano con le granate anticarro (ne avevamo pochissime) altri invece sono appena scalfiti dalle altre granate.
Ma i russi, forse sorpresi da così forte resistenza, si arrestano; hanno avuto molte perdite, hanno bisogno di riorganizzarsi, fanno affluire rinforzi. A mezzogiorno riprendono l’attacco, mandano avanti i carri, i primi travolgono i nostri pezzi anticarro, gli alpini si buttano contro gli ordigni corazzati, fanno argine col loro indomito coraggio e li respingono; ma quelli riprendono ad avanzare.
Allora vedemmo il maggiore Sallustio lanciarsi al contrassalto coi suoi alpini, gli artiglieri non indispensabili ai pezzi lo seguono coi loro ufficiali in testa, gli altri sparano tutte le granate. Il combattimento si fa furioso, si protrae fino alle prime ombre della sera con alterne e sanguinose vicende; alla fine il nemico non resiste di fronte a tanto risoluto ardimento, indietreggia e si ritira nel paese. I nostri alpini, i nostri artiglieri affratellati nella sorte, uniti nell’offerta e nel sacrificio, scrissero quel giorno una delle tante pagine del loro grande valore. Morirono in tanti.
Morì da eroe il fortissimo bocia della 36ª del Val Piave tenente Aldo Bardini, figura d’atleta, caro e buono quant’altri mai. Quando le sorti della battaglia sembravano volgersi al peggio, lui, comandante di una sezione, rimasto senza munizioni, formò una pattuglia coi suoi capi pezzo, il sergente Orio e il caporal maggiore Cappa, con i mitraglieri della 36ª e il capo arma, sergente Dal Monte, i due cugini Centeleghe e Barbisan, mitraglieri della 35ª; tutti si offrirono volontariamente di andare con lui all’attacco di un nido di mitragliatrici.
Quando già erano a poca distanza dall’obiettivo, videro comparire sul fianco alcuni carri russi; allora quei valorosi, con mirabile prontezza e audacia si volsero ad attaccarli in un impari confronto. Bardini fu colpito in fronte, nel momento in cui si lanciava contro un carro con le bombe a mano: e con lui morirono tutti i suoi artiglieri, eccetto Barbisan e uno dei Centeleghe che però rimase gravemente ferito e morì ad Opyt due giorni dopo. Alla sera i russi avevano completato il nostro accerchiamento su ogni lato; nuove forze si erano ammassate intorno a noi, perfino una batteria a cavallo, e continuavano a spararci addosso.
Esaurite le munizioni, distrutti i reparti, si tentò lo sganciamento; dopo aver abbandonato tutto, eccetto le armi personali e una coperta, anche i feriti con un medico rimasto ad assisterli. Merita qui di essere ricordato il caporal maggiore di infermeria Ghetti, della 36ª, che si offrì di accompagnare le slitte dei feriti nelle linee russe perché fossero ricoverati nelle isbe, e si mosse avendo la sola protezione di una bandiera bianca. Ma fu vano quel simbolo: Ghetti cadde colpito da una raffica.
I resti del 9^, dell’Udine, del Val Piave si mossero in silenzio, nel buio profondo e riuscirono a raggiungere Ssolowiew e Ssamojlenkoff dove in quella giornata avevano strenuamente combattuto, con enormi perdite, l’8^ comandato dal colonnello Cimolino, e il Gruppo Conegliano col suo comandante alla testa, il tenente colonnello Rossotto, che, con il suo valore, fu di luminoso esempio. Scomparve per sempre la 36ª che non volle seguirci e prese incomprensibilmente altra via e fu catturata dai russi.
A Nikitowka i superstiti del Val Piave giunsero verso le ore della sera del 25 gennaio, quando le isbe erano già tutte occupate. Solo pochi fortunati poterono trovare ricovero per la pietà di qualche alpino sconosciuto o per la fraterna solidarietà di un compagno di reparto o di un amico ritrovato, magari dopo tanti anni, come capitò a Michele Grazioli, tenente della 36ª Batteria del Val Piave che, nell’alta figura di un ufficiale e nel suo caratteristico profilo, riconobbe il suo antico compagno di studi ginnasiali, Fabio Moizo, tenente del Val Camonica, che lo fece entrare tra i suoi.
E’ da ricordare che Moizo era riuscito a portare fin là due pezzi della sua batteria e furono gli ultimi due pezzi che spararono a Nikolajewka. Io e Picecco, invece, trovammo il nostro ineguagliabile e inesauribile maresciallo Bianchin che ci fece posto nell’isba dove si era sistemato alla meglio con alcuni dei nostri artiglieri.
L’indomani, 26 gennaio, partenza da quel paese nella luce e nel gelo del primo albeggiare: e subito un agguato di partigiani fece cadere tanti alpini. Gli altri che seguivano si sbandarono verso altre tre direzioni, furono tratti in inganno da uomini che vestivano uniformi tedesche e che li mandavano sulla via che portava nelle braccia dei russi. Noi del Val Piave intuimmo l’inganno e di corsa tra un’isba e un’altra ci portammo fuori del paese inseguiti dai partigiani.
Nella zona di Arnautowo raggiungemmo una batteria della Tridentina che stava ancora sparando, la oltrepassammo, e finalmente, faticosamente, stremati, arrivammo sulle alture che circondano Nikolajewka. Sul pendio che scende verso la ferrovia fummo raggiunti dalla colonna di sbandati che si ingrossava paurosamente per il continuo sopraggiungere di uomini di tutte le nazionalità.
Noi ci fermammo in un primo momento vicino a una katiuscia tedesca: e intanto arrivarono due aerei russi che mitragliarono e spezzonarono, mentre, nello stesso tempo, iniziò il fuoco intensissimo di mortai russi che sparavano dalle postazioni dietro alla chiesa e alle case del paese. Una granata scoppiò a pochi passi dal nostro gruppo in cui si trovavano il capitano Vittorio col suo attendente, il capitano Aurili, i tenenti Picecco, Trentini, Quarti, Grazioli, Aldo e Luigi Ferrazzi, Antonioli, Averardi, il dottor Rocco, il maresciallo Bianchin con i pochi artiglieri superstiti rimasti con noi.
Colpito in pieno petto morì l’attendente del capitano Vittorio, lo stesso Vittorio fu ferito ad
una spalla e ricevette le prime cure da Rocco, mentre Grazioli ed Averardi lo presero sottobraccio per aiutarlo a reggersi e a camminare. Tutti gli altri si portarono avanti fino al terrapieno della ferrovia all’altezza del sottopassaggio e si trovarono a fianco del generale Reverberi.
Ricordo che il generale ci domandò “Chi siete?”, alla nostra risposta Val Piave, “Avanti Val Piave” ci incitò. Allora ci buttammo oltre con gli alpini della Tridentina mentre egli lanciava il grido: “Tridentina avanti!”. Arrivammo alle prime case del paese, dovemmo battere isba per isba e snidare i russi, armi in pugno. Io ebbi la fortuna di entrare in una, verso il centro del paese, dove, su un tavolo, c’era del pane appena sfornato, ancora caldo, quel pane nero dei russi: ne raccolsi quanti più pezzi potei e andai in cerca dei miei artiglieri.
Trovai il fortissimo Gelosio della 36ª al quale potei ricambiare il dono fraterno di cibo che avevo più volte ricevuto da lui durante la marcia dei giorni precedenti (veniva apposta a cercarmi il caro Gelosio per dividere con me quello che trovava, fuori dal percorso della colonna, nei villaggi che egli, fortissimo, riusciva a raggiungere per cercare viveri): con lui erano Aurora ed altri due e a loro diedi con gioia tutto il pane.
Poi, era ormai sera tarda, mi fermai in un’isba dove giaceva bendato in tutto il corpo, un russo ferito. Era ancora buio pesto quando mi alzai per andare a chiamare ed a raccogliere i miei e riprendere la marcia.
Tenente Antonino Picecco
comando Gruppo Val Piave, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Nikolajewka, 26 gennaio 1943: sul colle antistante la ferrovia si trovavano concentrati, assieme ai reparti della Tridentina, i resti della Val Piave e cioè, quello che rimaneva della 35ª Batteria e del comando di gruppo nonché elementi della 36ª Batteria e del reparto munizioni e viveri. La possibilità di scendere dal colle per occupare le prime posizioni di Nikolajewka, o quanto meno per raggiungere la linea ferroviaria che, in quel punto, divideva gli italiani dai russi, si presentava quanto mai aleatoria, per il volume di fuoco impiegato da russi in interdizione.
Dopo, tuttavia, che due aerei ebbero sganciato bombe sugli alpini ammassati in attesa di ordini, una decisione si rese indispensabile; l’assunse il capitano Aurili, comandante della 35ª Batteria, dopo aver studiato, nei limiti di quanto a quel momento possibile, i tempi delle salve per batteria dei russi.
Ed il calcolo risultò così indovinato e il primo gruppo, scattato con Aurili ad un suo cenno, e del quale facevano parte i subalterni Averardi, Aldo Terrazzi, Picecco, Quarti Trevano, il sergente maggiore Bianchin e sei artiglieri, raggiunse incolume la ferrovia non solo, ma la superò, provocando l’armamento delle batterie di mortaio russe che, da quel momento non si fecero più vive.
Quasi contemporaneamente superava la linea ferroviaria un carro cingolato germanico sul quale, in piedi, il generale Reverberi, ( comandante la Divisione Tridentina, urlava ordini per l’ulteriore azione da svolgere ed al quale si affiancavano i 12 del Val Piave assieme ai reparti della Tridentina. ‘ Poco dopo veniva raggiunto dalla massa urlante il grosso edificio che dominava la parte est di Nikolajewka e l’azione si esauriva con l’occupazione della cittadina.
Artigliere Francesco Drei
Gruppo Val Piave, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Avevo già trascorso alcuni giorni di ritirata entro la sacca, che comprendeva dal Don al Donez. In queste terribili giornate di marcia forzata, avevamo attraversato molti paesi, in ognuno dei quali prima di entrare, si doveva combattere e alla mattina bisognava aprire il fuoco di nuovo per uscire. Quindi i reggimenti alpini furono decimati; molti gli alpini morti nei combattimenti, dispersi lungo le strade, feriti, congelati, denutriti, sfiniti dalle dure fatiche delle marce e che rimanevano per sempre nella bianca steppa nevosa.
Il giorno 26 gennaio arrivammo nei pressi di Nikolajewka; era un pomeriggio di sole; assieme a un gruppetto della 36ª del Val Piave ci fermammo lungo il pendio che giungeva alla cittadina. Mi ricordo che avevo una sola scarpa, perché l’altro piede era congelato; mi sedetti sulla neve, mi levai le calze bagnate e mi avvolsi il piede con strisce di coperta e lo legai con lacci.
Intanto la colonna era ferma, alcuni reparti della Tridentina combattevano da alcune ore per liberare la città da formazioni dell’esercito russo, ma in Nikolajewka non si poteva entrare. Dopo poco arrivarono alcuni carri armati tedeschi; ad uno di loro era attaccata una katiuscia, che incominciò a sparare rimanendo in colonna verso l’abitato. Tutti noi fummo spaventati dal ruggito della katiuscia; lingue di fuoco arrivavano sull’abitato incendiando parte della città.
Sul carro armato che trainava la katiuscia c’era ritto in piedi il generale Reverberi che gridava ai suoi alpini: “Forza Edolo ora tocca a te è scoccata la tua ora”.Un gruppetto del Val Piave nel quale c’ero anch’io decise di uscire a sinistra della colonna, per poter arrivare tra i primi ad occupare le isbe, ma in quell’istante arrivò una granata da mortaio, scoppiò in mezzo a noi, io rimasi illeso, mentre vicino a me cadde l’attendente del capitano Vittorio colpito da una scheggia sopra l’occhio, e morì senza dire parola, rimase pure ferito il capitano e il maresciallo Bianchin, mentre i rimanenti del gruppetto non ebbero assolutamente nulla.
Ricordo che caricammo il capitano Vittorio sopra un cavallo, mentre io assieme al caporal maggiore Malimpensa e altri del Val Piave scendemmo di gran passo e entrammo in un’isba. Pensammo poi di mandare qualcuno incontro al capitano ferito e affinché potessimo riunirci assieme, decisi di andarci io. Mi sembravano poco distanti, girai per qualche ora ma non trovai nessuno. Quella notte c’era la luna; si vedeva quasi come di giorno in quella distesa di neve, e non trovando nessuno pensai di ritornare nell’isba dove erano i miei compagni della 36ª ma non trovai nemmeno quella; continuai a cercare da isba a isba fino a tarda notte mentre i partigiani avevano incominciato a sparare coi parabellum.
In un’isba dove mi rifugiai c’erano artiglieri della 35ª e rimanemmo fino all’alba con loro. La mattina del 27 gennaio quando uscimmo, a Nikolajewka soffiava un vento gelido: il freddo era di molti gradi sotto zero, parte del paese era incendiato, si doveva passare dal terrapieno della ferrovia; ma dietro i russi sparavano molto con le mitragliatrici e molti alpini cadevano morti, formando una siepe alta.
Vedendo la strage che si svolgeva intorno a noi, pensammo di scendere giù dalla scarpata del terrapieno in modo da non essere visti dai mitraglieri sovietici. Dopo qualche giorno uscimmo dalla sacca, ma ci aspettavano ancora duri giorni prima di poter entrare nei confini della nostra gloriosa patria.
Artigliere alpino Anselmo Bolzan
35ª Batteria, Gruppo Val Piave, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Appartenevo alla 35ª Batteria del Gruppo Val Piave, comandati dal capitano Alberto Aurili. Dopo la battaglia di Kopanki è uno dei tanti nella marea di sbandati diretta ad ovest. Alla mattina per tempo, del 26 gennaio ’43, si doveva attraversare un fiume gelato, chi attraverso un ponte e chi attraverso le acque ghiacciate; l’artiglieria russa aveva incominciato a sparare.
Io attraverso il fiume e corro a proteggermi sotto una scarpata; alcuni colpi di calibro abbastanza grosso arrivano sul fiume che era gremito di soldati, slitte e feriti; un colpo giunge proprio vicino ad una di queste; il fiume se la ingoia con tutto il suo carico. Guadagnai l’altra sponda e qui mi accorsi che la colonna camminava molto a rilento; vidi lungo la pista molte postazioni russe con molti soldati morti; mi resi conto che le cose erano molto serie.
Arrivato in cima al pianoro, vidi una massa di soldati fermi; ufficiali che scrutavano con i binocoli il paese che ci stava dinnanzi. Seppi poi che quel paese era Nikolajewka. Saranno state le ore 13. Tutti a terra! Due aerei russi passano mitragliando e lasciano cadere alcune bombe che esplodono a pochi metri da me; rialzatomi ho dovuto constatare i tristi risultati.
Tornata un po’”di calma e girando fra la massa dei soldati, ritrovo il mio capitano, ufficiali e soldati della mia batteria e della 36ª. Il capitano ci dice di restare tutti uniti perché “laggiù c’è da combattere per tutti”. Egli va a consigliarsi con altri ufficiali che non conosco e poi torna da noi. Quante armi abbiamo? Io e qualche altro artigliere abbiamo il moschetto con pochi colpi e qualche bomba a mano; il sottotenente Quarti ha un parabellum russo con una cinquantina di colpi. Il capitano ci fa capire chiaramente che bisogna andare a dare una mano agli alpini che stavano combattendo nel paese (erano quelli della Tridentina) altrimenti nella notte moriremo congelati. Se sfonderemo avremo una possibilità di tornare a casa.
Cominciammo ad avviarci ma non appena in cima alla collina che ci proteggeva, è arrivata una scarica di artiglieria; molti sono i feriti e molti si gettano in cerca di protezioni. Il capitano grida: “Aiutiamo i feriti fino a sotto quel terrapieno e poi si vedrà”. Di fronte a noi c’è una scarpata che ci avrebbe protetti dal tiro. Raggiungo la scarpata, salgo in cima e vedo che si tratta di una ferrovia; mi volto indietro e vedo la marea di sbandati (di tutti i reparti) che ci sta seguendo, forse animati dalla nostra decisione.
Tutti si accalcano lungo questa scarpata. Oltrepasso il binario della ferrovia e vedo, nascosto dietro la piccola stazione, un pezzo da 75/13 (della Tridentina) che spara. I serventi sono stremati. Vado ad aiutarli; è un inferno di colpi che arrivano! Mi sposto un po’ fuori dal fabbricato per vedere da dove venivano i colpi e mi accorgo di una fiammata che parte da un’isba a circa 200 metri; avverto subito il tenente che comandava il pezzo; lui si accerta e poi ordina di spostare il pezzo allo scoperto e di sparare su quell’isba a tiro diretto. Il puntatore, alzo zero, centra con il primo colpo l’isba e con il secondo il pezzo.
Saranno state le ore 15-15,30 quando quel pezzo fu messo a tacere. Potendomi muovere mi accorsi che vicino c’era un sottopassaggio della ferrovia. Là tanti alpini giacevano morti! Tutta la massa di soldati che si era portata dietro la scarpata, incominciò a passare, ed il pezzo da 75/13 fu sommerso da questa marea. L’ufficiale gridava di stare al largo altrimenti ci saremmo uccisi tra di noi. Ma nessuno lo intendeva e l’ufficiale dovette far cessare il fuoco.
Anch’io mi avviai come tutti, verso il paese; avevo finito i pochi colpi della mia carabina ed ero nelle mani della Provvidenza. Incontrammo un’autoblindo paralizzata dalla marea di soldati che arrancava per raggiungere il paese; l’ufficiale che era sopra gridò di fare largo. Seppi poi che era il generale Nasci. Alcuni alpini mi domandano “Dov’è il Val Cismon?”. “E chi lo trova in questo caos?” rispondo. Capisco dalla pronuncia che quelli sono miei paesani, uno è proprio del mio paese, è Primo Bonetto.
Chiedo: “Ma come mai voi venite verso di noi e noi andiamo di là?”. Mi dicono che erano stati fatti prigionieri dai russi e che si trovavano proprio in quell’isba che noi poco prima avevamo centrato che ora stava bruciando. Saranno state le 16. Ormai la sera stava calando. Ora c’è un po’ di calma e la fame e la sete prendono il sopravvento. Vago, come tutti, per le isbe in cerca di cibo; dopo una prima ispezione senza risultato, entro in una seconda isba, assai grande, e vedo del pane ancora fumante! Fatto a pagnotte proprio come quello nostrano! Mi sembra un miraggio. Ne prendo quattro e mi affretto ad uscire ma oramai l’uscita è preclusa da tutti gli altri che stanno entrando.
Raggiungo l’esterno per una finestra, dopo aver rotti i vetri con un piede dacché le mani erano occupate con le pagnotte. Ora c’è da pensare al freddo, che ormai si fa sentire sempre più. In lontananza solo qualche raffica. Incontro il mio compagno di batteria Marino Moser, che è alla ricerca di acqua; vuol farsi un po’ di brodo caldo perché ha potuto scovare un pezzo di carne. Prendiamo l’acqua ed entriamo nella casa senza vetri, ma sempre meglio che fuori.
Là c’è anche il capitano della mia batteria, ed i sottotenenti Quarti, Antonioli e Ferrazzi; avevano acceso un fuoco e stavano asciugandosi scarpe e calze. Quando mi vedono con quelle pagnotte si mettono a gridare dalla gioia. “Ma questo è un miracolo, del pane fresco in mezzo a tanto inferno!” Quella notte abbiamo dormito là.
Artigliere alpino Giovanni Simonin
39ª Batteria, Gruppo Val Piave, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
L’ordine di ritirata dalle posizioni tenute sul Don, per attuare, come si diceva allora, la prevista e necessaria rettifica del fronte, venne diramato alla 39ª Batteria alle ore 11 del 17 gennaio 1943. Tra la perplessità generale, mal dissimulata persino dai comandi, la truppa iniziò il carico delle poche slitte in dotazione. La steppa immensa, paurosa e sconosciuta ci venne incontro col buio più profondo, punteggiato sinistramente qua e là dalle altissime fiamme dei villaggi incendiati.
Il mattino successivo, dopo una notte micidiale per il freddo e la tormenta, cascanti dal sonno e affranti nello spirito, entriamo a Podgornoje. Descrivere il caos assoluto e tremendo che regnava sulle strade di questa importante cittadina, è impresa assolutamente impossibile. Alle prime luci dell’alba del 19, dopo una nottata di incessanti tentativi per mettere un po’”di ordine e riorganizzare le file, la batteria, aggregata alla Divisione Vicenza, di fanteria, prende finalmente l’avvio.
Verso sera, al termine di una veloce galoppata, fra la moltitudine degli sbandati che si andava ingrossando man mano che si procedeva verso ovest, entriamo nell’abitato di Opyt.
I segni della battaglia sostenuta dai reparti della Tridentina che ci precedevano, apparivano evidenti in tutta la loro sinistra eloquenza. Dappertutto distruzioni immense e gran numero di caduti.
Il giorno seguente, il 21, dopo una notte di furiosi combattimenti contro preponderanti forze nemiche, la fame, questa terribile nemica, aggiungendosi alle tribolazioni del momento sconvolse gli animi dei meno temprati, già abbattuti per le spaventose vicissitudini in cui venivano a trovarsi coinvolti.
Verso il mattino del giorno seguente, dopo un’altra notte di combattimenti aspri e sanguinosi, sostenuti principalmente dal Morbegno, con il terribile parabellum russo che sgranava il suo rosario di morte da distanza ravvicinata, accaddero alcuni fatti la cui notazione serve a mettere in evidenza la tragicità della situazione in cui venivamo a trovarci.
Già nel buio di qualche ora prima, alcuni artiglieri erano dovuti intervenire a più riprese, per calmare le furie di un giovane delle ultime leve, il quale, in evidente stato di confusione, aveva tentato di scagliarsi, baionetta alla mano, verso un compagno, reo, secondo lui, di spionaggio a favore dei russi. Avvenne in sèguito, mentre la colonna procedeva faticosamente sotto la sferza di una tormenta davvero implacabile, che un altro giovane, un vicentino, proferendo minacce e frasi sconnesse, si mise a correre fuori della pista per scomparire di li a poco nel folto di un bosco vicino. Era diventato pazzo.
Durante i combattimenti della notte, mentre ferveva la battaglia era stato catturato un prigioniero. Diciamo catturato per comodità di linguaggio, perché in effetti era un ragazzino di appena diciassette diciotto anni, ferito a morte da una scheggia di granata conficcatagli nel petto, era venuto a cadere nelle nostre mani dopo aver perso l’orientamento. Poiché era a testa scoperta e semicongelato, fece tanta pena che provvidi ad adagiarlo sopra una slitta, coprendolo alla meglio con alcuni indumenti che avevo a portata di mano.
L’indomani mattina, quando lo rividi mi riconobbe immediatamente e, pur moribondo, mi avvolse con uno sguardo di gratitudine così intensa, umana e profonda, che ancor oggi a distanza di tanti anni, serbo il suo ricordo tenacemente radicato nel cuore. La sera stessa questo giovane combattente, disgraziato al pari di noi, venne trovato morto sopra un mucchio di neve, a ridosso del cadavere di un vecchio civile. Probabilmente, mentre sentiva sfuggirgli la vita, inconsciamente era stato attratto dalla presenza di uno dei suoi e aveva voluto esalare il suo ultimo respiro sul petto di un connazionale.
Il 23 mattina, sotto i raggi di un pallido sole, la colonna si mise in moto abbastanza rinfrancata. Non possiamo a questo punto esimerci dall’obbligo di citare il sublime comportamento della Tridentina nella battaglia per la conquista di Scheljakino. Eravamo presenti all’assalto finale delle postazioni nemiche da parte di alcuni reparti del 5^ e del 6^ Alpini, e possiamo dire che mai come in quel momento rifulse di gloria immortale l’abnegazione votata all’estremo sacrificio di queste splendide unità alpine.
Il nemico, asserragliato nella munita località, dovette sloggiare fornendo in tal modo di un giaciglio la stremata moltitudine degli sbandati che seguiva la divisione. Le conseguenze immediate si fecero però sentire ben presto, in modo cruento sulle nostre carni. Gli agguerriti reparti nemici, sbaragliati e cacciati da Scheljakino, si portarono prontamente nella vicina località di Warwarowka, su cui si stava dirigendo la Divisione Vicenza.
Ricordiamo nitidamente i fatti nella loro tragica cronologia. La lunghissima colonna, intasata di sbandati di tutte le armi, stava per raggiungere le prime isbe di questo importante centro, ubicato al termine di una ripida discesa.
L’avanguardia, costituita da un reparto del Morbegno venne affrontata da preponderanti forze nemiche, appoggiate da carri armati, nel preciso momento in cui la 39ª Batteria si accingeva a imboccare la scoscesa pista in discesa, cioè nel momento meno idoneo per organizzare una qualche difesa. Il tonfo sinistro dei mortai, fortunatamente smorzati dalla neve ed il crepitare delle mitragliere da 20 mm inchiodano il reparto sopra un terreno in cui non è possibile né proseguire né retrocedere. Un fuggi fuggi generale di sbandati non soggetti ad alcun comando completa il desolante quadro del mortale combattimento.
Di lì a poco apparvero alcuni carri armati, sbucati dalle isbe circostanti. Questi, fattisi sotto per concentrare il tiro sulla batteria, la cui efficienza era ridotta a due soli pezzi, completarono lo scompiglio generale. A nulla valse l’ardore feroce degli artiglieri, unitisi agli alpini del Morbegno per contrastare il passo ai mostruosi mastodonti nemici. Il volume di fuoco di questi, appoggiati dalla fanteria e da numerosi partigiani, fece il vuoto nelle nostre file, costringendo alla resa quanti si trovavano a ridosso dell’abitato.
I resti della 39ª Batteria, per sfuggire all’accerchiamento e per defilarsi dal violentissimo fuoco delle mitragliere, scesero in una balka vicina, portandosi dietro i numerosi feriti. In questa valle profonda, dalle pareti ripide e scoscese, con l’unica via di accesso situata entro l’abitato di Warwarowka fortemente presidiata dal nemico, la 39ª Batteria ha scritto la parola fine nel suo atto di partecipazione alla campagna di Russia.
Nello stesso tempo aveva inizio il calvario per gli uomini del reparto. Nel disperato tentativo di raggiungere la località di Waluiki, dove si riteneva apprestata la nuova linea del fronte, l’intero reparto, privo di collegamento con i comandi in ritirata, disarmati, stanchi e affamati tutti, dagli ufficiali agli artiglieri, il 24, nei pressi di Romankhowa, venne
accerchiato da soverchianti forze partigiane e costretto alla resa.
I superstiti di questa immane tragedia, circa una trentina, si ritrovarono fuori della sacca per aver avuto la fortuna di raggiungere la Tridentina durante la battaglia di Nikolajewka, facendosi in modo rimorchiare da questa invitta unità fin oltre gli sbarramenti del nemico.
Da un’indagine effettuata durante i tre giorni di sosta nella località di BolscheTroizkoje, risultarono caduti o dispersi 6 ufficiali 10 sottufficiali e circa 240 fra graduati e artiglieri alpini.
Maggiore Giuseppe Dal Fabbro
aiutante maggiore in 1^ del 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Il 3^ Reggimento Artiglieria Alpina della Julia, a causa delle gravi perdite subite durante la campagna sul fronte grecoalbanese, era stato ricostituito ben tre volte. Molti artiglieri già reduci dagli ospedali per ferite e dai campi di prigionia di Creta, sono tra i partenti. Ebbene, non c’è nessuna assenza arbitraria non solo, ma nemmeno un ritardatario alla partenza delle tradotte.
La difficoltà di completare i quadri è quella di convincere e consolare gli esclusi. Tutti vogliono partire. E ciò senza commenti. La doccia fredda ci coglie all’arrivo ad Isjum: la Julia, anzi, tutto il Corpo d’Armata Alpino, non sono più destinati al Caucaso ma sul Don. Il generale Nasci protesta a chi di dovere con la massima energia chiedendo che, se le truppe alpine non occorrono per i monti del Caucaso, vengano rimpatriate.
Il colonnello Gay scrive una lunga lettera a Roma all’onorevole Suardo, presidente del senato, perché, se occorre, la faccia leggere a Mussolini, e vi mette dentro tutto ciò che può sentire un comandante che ama i suoi soldati come un padre ama i propri figli e si sente responsabile della loro sorte vedendo che la propria unità è destinata ad essere impiegata in modo che definisce assurdo e criminale.
Niente da fare. I tedeschi non ci mollano. Per difendersi dai carri armati russi, danno al reggimento, per tutta la Julia, una batteria contro carro trainata da vecchi mezzi che, con fatica quando non c’è fango, marciano sulla strada. Data l’ampiezza del fronte assegnato al reggimento i gruppi sono schierati linearmente, ma per la scarsa gittata sono pochi i tratti del fronte che possono essere contemporaneamente battuti da più batterie.
Il colonnello Gay in brevissimo tempo riesce ad impiantare una perfetta organizzazione; fa sì che le nostre batterie siano in condizione di intervenire con la massima tempestività e precisione su qualsiasi richiesta degli alpini. Particolari azioni di fuoco vengono rivolte da “pezzi arditi” portati avanti e lontani dalle postazioni per non far rilevare la loro posizione.
Alle prime nevi tutti i reparti in linea hanno completato la costruzione dei meravigliosi ricoveri interrati a prova di bomba e del freddo. Sennonché il destino provvede in modo diverso: dal 16 dicembre tutta la Julia viene trasferita, nel settore della travolta Divisione Cosseria, e rimane letteralmente gettata sulla neve per un intero mese, fino al 16 gennaio 1943.
In tale periodo, resistendo in condizioni del tutto disumane e a prezzo di grandi perdite, l’intera Julia da nuovamente prova di ineguagliabile valore. Il 19 gennaio, da Podgornoje, al mattino, parte la colonna del Comando Divisione Julia così formata: comando divisione e quartier generale, comando 3^ Artiglieria Alpina e reparto comando Reggimento, IV Battaglione Misto Genio. Gli autocarri sono stati incendiati e così tutto il materiale, carteggio compreso. Sulle slitte solamente munizioni e viveri.
Si arriva a Ssamoilenkoff verso mezzogiorno, dove si incontra la Divisione Vicenza. Poiché la sosta si prolunga, il colonnello Moro, da poco comandante del 3^, decide di proseguire verso Ssolowjew, dove il Gruppo Conegliano con l’8^ Alpini sono durissimamente impegnati, e lo saranno di più fino all’indomani, assieme ai reggimenti della Cuneense, nell’accanita battaglia di Nowo Postojalowka.
E’ il caso, la fortuna o una particolare intuizione che nei momenti cruciali ci fa decidere d’acchito in un senso anziché in un altro e che poi risulta essere quello buono? Siamo miracolosamente giunti a Scheljakino, appena occupata, sfuggendo alla cattura dei russi a Nowo Georgiewka dove è rimasto il colonnello Cimolino con i resti dell’8^ Alpini e dove, sparati gli ultimi colpi, il Conegliano ebbe i pezzi schiacciati dai T 34.
Fermata la nostra colonna con i resti del reggimento, in gran parte costituito dal Conegliano, allo scopo di riordinarsi e far riposar un po’”uomini e muli, col tenente colonnello Rossotto ed altri ufficiali ci riscaldiamo accanto ad un fuoco acceso, se non erro, da alcuni alpini del Morbegno. Il tenente colonnello Rossotto valoroso comandante del Conegliano, propone molto giudiziosamente di non pernottare nel paese, perché certamente, data la sua importanza tattica, i russi avrebbero cercato di rioccuparlo quanto prima.
Concordando in pieno, propongo di attendere ancora un po’ date le condizioni degli artiglieri e poi proseguire verso Waluiki, meta fissata per la Julia. Sto spartendo una scatoletta che ho fatto sgelare quando ci passano accanto sferragliando alcuni semoventi tedeschi.
E qui veniamo al punto. “Rossotto, dico, quelli sanno con certezza qual è la via più sicura, perché i carri sono l’unico asso che rimanga ancora nelle mani dei tedeschi della nostra colonna, perciò seguiamo subito le piste fresche dei cingoli, certi che ovunque vadano, per noi andrà bene.” Pronta adunata del 3^ e via sulle tracce appena impresse nella neve. A notte inoltrata, all’inizio di Warwarowka, troviamo l’amico tenente colonnello Checco Bonsembiante, capo ufficio informazioni del Corpo d’Armata Alpino.
Avevamo imboccata la strada della salvezza. Il generale Ricagno che, col suo comando, aveva proseguito per Waluiki, vi trovò i russi che, dopo aspro combattimento lo catturarono insieme con i suoi. Altro fatto. E’ il 27 gennaio, giornata per me particolarmente nera, perché alla partenza da Nikolajewka, perso il contatto con il colonnello Moro e col reggimento, rimango solo pur tra migliaia di soldati. La marcia, che è poi una delle più lunghe di tutta la ritirata, in quelle condizioni è tragica; se, verso sera, non mi avesse raggiunto il tenente medico Rocco e il maresciallo Bianchin, del Piave, ora non scriverei queste note.
Verso le 20, col buio più profondo ci fermiamo in un’isba. Al mattino, molto presto, quando stiamo per adunarci, trovo il tenente Moroni coi resti della 17ª Batteria del Gruppo Udine, un brillante equipaggio: una slitta trainata da una vacca. Ma della colonna, con la quale avevamo camminato tutto il giorno prima, nessuna traccia.
Ci si mette in marcia ed entrati nella grande strada che porta a Nowyi Oskol veniamo sorpassati da autoblinde e autocarri tedeschi Poiché la nostra colonna aveva sempre camminato fuori strada, gli unici mezzi meccanici presenti in essa erano cingolati; ne veniva perciò di conseguenza che i tedeschi, che ci avevano sorpassati, giungevano da tutt’altra direzione. Eravamo forse già fuori della sacca?
Con l’animo pieno di speranza si va di buon passo, ma vediamo le autoblinde tornare indietro. “A Nowyi Oskol sono appena giunti i russi” mi spiega un tenente tedesco cui chiediamo notizie. “E la nostra colonna?” domando. “La colonna italotedesca è partita all’alba prima dell’arrivo dei russi. Noi andiamo ad ovest”, e con carta e bussola, con i suoi uomini appiedati, si butta fuori strada.
La neve è alta, farinosa, si è in pochi e la marcia sarebbe troppo difficoltosa. Raduno gli italiani e dico loro di ritornare fino ad un paese, che apprendo poi essere Olchowji, in fondo ad un ampio avvallamento da poco attraversato, e di seguire dal paese una stradina appena tracciata che ho visto andare verso ovest. D’accordo si ritorna sui nostri passi e come ci affacciamo alla conca vediamo che il paese, prima disabitato, è diventato un formicaio immenso. Ci avviciniamo. E’ la nostra colonna. Anziché il fanalino di coda siamo stati la punta d’avanguardia.
Avverto subito che Nowyi Oskol è occupata. Il generale Nasci pensa essere necessario, per aprirci il varco, di attaccare il paese. Viene poi seguito il mio modestissimo parere di dirottare e di far seguire dalla intera colonna del Corpo d’Armata quella stradina che avevo
proposto prima ai miei soldati. Anche questa volta era la giusta via della salvezza.
La colonna era come un lungo torrente nero su un greto bianco. Andava avanti a tratti ingrossato o reso sottile da passaggi difficili, o in più rivi che poi, un po’ oltre, si riunivano formando gorghi e qua e là come pozze d’acqua ristagnanti, gruppi, o alpini sparsi che esausti si fermavano sulla neve. E per sempre.
Il camminare sulla neve era diventato un incubo; farinosa, gelata, incomprimibile, rendeva il passo barcollante ed estremamente faticoso. Allarmi e sparatorie durante la notte sul 26 gennaio a Nikitowka. Vado a vedere: attacchi di partigiani sempre respinti dai nostri. Alle 6 parto col colonnello Moro che va dal generale Nasci per conoscere la situazione. L’uscita del paese è fortemente ostacolata da truppe regolari russe, ma il 5^ Alpini riesce a sfondare ed aprire il passaggio. Molti i russi caduti, armi varie abbandonate.
Avanti a tutti c’è il generale Reverberi che vuole raggiunger in fretta la colonna del 6^ ed incita il 5^ ad aprirsi la strada tra sbandati. I russi sparano ancora. Due tedeschi, ammirati dal comportamento del generale Reverberi mi chiedono chi sia. “E’ il generale comandante della Tridentina.” “Sehr gut”, commentano con molta considerazione e, pistola mitragliatrice imbracciata, si uniscono alla nostra avanguardia.
Presso Nikolajewka incontro il tenente colonnello Calbo comandante del Gruppo Vicenza. Breve scambio di saluti. E” molto affaccendato nello schieramento dei gruppi. Alla sera vengo a sapere che è stato ferito mortalmente. Bellunese, montanaro, mio maestro quando alla 23ª mi insegnava l’ABC del mestiere, mio amico carissimo sempre. Penso alle due figliolette, alla signora, ai genitori. I suoi artiglieri lo amano come un padre e, coricata la salma su una slitta, la portano fuori della sacca dove danno degna e cristiana sepoltura con gli onori delle armi.
Il 30 gennaio siamo all’ultima tappa prima di uscire dalla sacca. La colonna è ferma nei pressi di Bolsche Troizkoje. Nell’attesa di riprendere la marcia sto chiacchierando con i capitani D’Amico e Martinengo. Ai lati della pista c’è una slitta abbandonata con sopra una coperta da campo. Dico: “Vediamo che cosa c’è sotto! e tiro la coperta. Appare sul tavolato un solo oggetto che però risalta: una scatoletta rossa, da ricompensa al valore. La raccolgo, la apro. C’è una medaglia d’argento e c’è pure inciso il nome decorato: capitano Ugo D’Amico, il comandante della 13ª Batteria Conegliano.
Mi avvicino e, poiché vi era anche lo spillo attaccato al nastro, la appunto sul pelliccione del capitano dicendogli: “La proposta è stata fatta per una medaglia d’argento sul campo e sul campo decoro”. L’unica cosa certa di questo stranissimo fatto è che la sera del 14 gennaio a Rossosch presso il comando del Corpo d’Armata Alpini, su una sedia c’erano ben
accatastate le scatolette con le ricompense per la Julia che l’indomani avrebbero dovuto essere portate al comando della divisione dal generale Martinat. L’indomani, invece, i carri armati russi scorrazzavano già nella cittadina.