a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Artigliere alpino Rino Picco
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Dal Don a Nikolajewka. Raggiunto il paese dopo una lunga marcia con freddo e fame ci siamo fermati vicino alla ferrovia in quel giorno 26 gennaio. Io e il mio compagno Toni Covre avevamo quattro compagni congelati sulla slitta. Nel frattempo la Divisione Tridentina e altri reparti combattevano per rompere il cerchio dei russi. Dopo quattro ore da quando siamo arrivati noi, con un freddo di circa 30 gradi sotto zero, passavano gli apparecchi russi che mitragliavano la nostra colonna. Io e Covre abbiamo abbandonato la slitta e i nostri compagni, correndo fuori del tiro delle mitragliere degli aerei.
Si sentivano le grida dei feriti (“Picco! non lasciateci morire qui”), e ci richiamavano indietro. Vicino a noi c’era il sottotenente Ferrari, che ha cercato di ritornare alle slitte con i feriti, nella colonna dove c’erano i nostri comandanti colonnello Domenico Rossotto, capitano Ugo D’Amico, il sottotenente medico Giulio Bedeschi e altri nostri ufficiali pochi rimasti. A tarda sera passò un lungo grido fra tutti noi come un ordine; il generale Reverberi era salito su un carro armato tedesco; forza alpini andiamo fuori dalla sacca.
Allora ci siamo buttati oltre la ferrovia, al buio purtroppo si camminava sui morti come sui sassi. Dopo altri cinque giorni di un lungo cammino con i nostri congelati e con fame e freddo abbiamo trovato il primo smistamento dei feriti in un paesetto che non ricordo, con le autoambulanze, così io e Covre abbiamo caricato i feriti, soddisfatti di aver compiuto il nostro dovere di compagni d’arma e di italiani. Poi riprendemmo il cammino.
Artigliere alpino Isaia Pasianotto
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Io come alpino ed uno dei pochi superstiti della nostra gloriosa Divisione Julia mi sento in dovere di esprimere qualche mio sentimento perché questo libro sia scritto e messo nel cuore delle nuove generazioni. Mai mi dimenticherò quando lasciai nell’agosto 1942 i miei familiari e la mia cara patria per recarmi con i miei compagni in quella immensa steppa russa per compiere il mio dovere.
In quella lunga marcia della ritirata io stesso ho potuto constatare e vedere in quella gelida steppa con 30 e 40 gradi sotto lo zero, tanta sofferenza e tanto sangue sparso in quel mare di neve, quello che ho potuto vedere durante la ritirata è l’eroismo soprattutto degli alpini a gettarsi sopra il nemico aprendo il varco fra i soldati russi.
Non posso mai dimenticare quel giorno, sempre nella ritirata, che mi ritrovai a Scheljakino in mezzo ai partigiani russi ferito a una spalla da scheggia di mortaio e congelato a un piede di secondo grado e dover continuare la marcia in mezzo a molti che erano peggio di me. Mi si chiude il cuore sempre quando penso come lasciai in agonia il caporal maggiore Olivo Augusto Maronese, capo pezzo della 15ª Batteria del Gruppo Conegliano, medaglia d’oro alla memoria, da Meduna di Livenza, il 20 gennaio 1943 in una isba a Nowo Postojalowka, e che oggi onoriamo con onore in una lapide posta qui, in Comune, alla sua memoria.
Dopo qualche giorno mi trovai in ospedale militare a Karkow, ove assieme a me eravamo a centinaia stesi sui pavimenti senza un letto, e quanti ne vidi a morire con la parola in bocca “mamma, aiutami”. Dopo tre giorni per fortuna ho preso il treno ospedaliere assieme a qualche centinaio, fra i quali una decina sono morti prima di arrivare al Brennero. Concludo queste poche righe ricordando tutti coloro che non sono tornati, ed augurando alle future generazioni che non si trovino mai in simili circostanze.
Artigliere alpino Severino Quaglia
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Voglio raccontare l’episodio più drammatico che ho vissuto in Russia. Nei dintorni di Ssolowjew mi trovavo alla retroguardia. Io ero capoarma della squadra mitraglieri ed avevamo l’ordine di impedire ad ogni costo ai russi di avanzare per prenderci alle spalle. Quando li avvistammo cominciò un vero combattimento, ma noi eravamo troppo pochi e i russi continuavano ad avanzare. Ad uno ad uno vidi cadere nella neve che diventava rossa di sangue, tutti i miei compagni di squadra, carissimi amici.
Così mi son trovato da solo con i compagni morti e i russi che venivano avanti. Allora mi sono attaccato alla mia mitraglia e ho continuato a sparare, sparare, sparare finché quelli non si son fermati. Allora mi son tirato su e, visto che ero solo, ho tentato di agganciarmi ad altri reparti e raggiungere il grosso. Mai più avrei sperato! di ritrovare la mia batteria. Invece mi indicarono dove si trovava e così mi presentai al mio capitano Ugo D’Amico. Lui mi guardò, mi toccò e mi disse: “Ma tu sei corpo o spirito?”. E io: “Ma signor capitano, son qua da solo”.
Caporal maggiore Pirro Perosa
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Il 20 gennaio 1943 eravamo a Nowo Postojalowka, in ritirata; avevamo preso posizione con la nostra 13ª Batteria del Gruppo Conegliano vicino alla strada che porta a Rossosch; su questa si vedeva un movimento di truppa e carri armati. Io ero caporal maggiore e capopezzo del secondo pezzo; in un dato momento vedemmo marciare verso la nostra posizione un carro russo. Allora il capitano Ugo D’Amico comandante la batteria mi diede ordine di spostare il pezzo una ventina di metri dal punto in cui era piazzato.
Appena presi posizione, il carro armato piombava sulla prima posizione del pezzo, quando sento la voce del comandante che mi ordinava di sparare contro il carro armato. Sparati due colpi, il carro restò immobilizzato. Mentre succedeva ciò, io stavo seduto al pezzo, sul sedile del puntatore, e parlavo con il capitano D’Amico; stavamo commentando i movimenti del nemico. In quel punto mi sento chiamare per nome dal capitano; mi fa vedere che in quell’istante una pallottola gli aveva perforato il cappotto, la giubba e gli era arrivata alla pelle, però per fortuna questa non l’aveva toccata.
Io gli dissi: “Vede comandante come è intelligente la pallottola?” e ci siamo fatti una risatina. Continuando la conversazione, da lì a poco si sentono tiri dell’artiglieria nemica, un proietto colpisce il mio pezzo nella corona della bocca da fuoco e
mi rotola ai piedi senza esplodere. Sorpreso, chiamo il capitano per fargli vedere quello che era successo, e lui mi ha risposto: “Vedi, Perosa, come è intelligente anche il proietto?”.
Chiamò il sottocomandante di batteria Fausto Broggi, il sottotenente Aldo Corbellini e il sottotenente medico Giulio Bedeschi per fargli vedere il caso che ci era successo; e ci siamo messi a ridere soddisfatti.
Tenente Mario Candotti
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Golubaja Krinitza, fronte del Don. Sono passate da poco le 23,30 del 16 gennaio 1943. Sfilano nella notte gli ultimi reparti alpini diretti verso nord: pattuglie di retroguardia del Battaglione L’Aquila, elementi del Battaglione sciatori Cervino. Fra gli ultimi il mio amico tenente Baldo Marchetti di Tolmezzo, distaccato con un plotone mortai a un battaglione alpino. Un addio e anch’egli scompare con i suoi uomini verso Rossosch.
I miei 23 soldati sono raccolti nella prima isba del paese. A turni di un quarto d’ora, a due a due, escono per il loro servizio di guardia accanto al nostro pezzo tedesco anticarro che ci è rimasto intatto e al camion sempre col motore acceso perché non geli: la temperatura stanotte è scesa sotto i 40^ sotto zero e non si deve correre il rischio di rimanere bloccati! Freddo tremendo: brucia terribilmente il naso, bruciano le guance, il fiato forma nuvole di vapore attorno a noi…
Siamo rimasti soli! Alle prime ore del pomeriggio la Julia si è sganciata dal fronte del Don. Gli uomini, le batterie, i muli, i camion, le slitte si sono mossi verso nord prendendo la strada della ritirata. Io, con la mia sezione anticarro, con quell’unico pezzo rimastomi, sono di retroguardia qui ai margini sud del paese per contrastare eventuali puntate di carri russi.
Nessuno passa più: il flusso di uomini nell’ultima ora è andato via via rallentando ed ora è cessato del tutto sulle piste che provengono da sud (dalla zona di Kantemirowka) e da est, dalla linea di resistenza tenuta saldamente dalla Julia per un mese intero, subito al di qua del Don. Sotto il chiaro di luna, siamo nel plenilunio, le alture sembrano fatate; si possono
vedere senza distinguerne i particolari i fianchi coperti di neve, le macchie di arbusti, i capannoni del kolkhoz. Tutto immobile e silenzioso. Sembra proprio dì essere in un deserto ove amici e nemici sono scomparsi… Verso nord vampe di lontani incendi, ma i rumori non ci pervengono in quell’atmosfera ovattata dalla neve.
Entro nell’isba. I miei soldati dormono stretti uno contro l’altro. In un angolo sul tavolo una lampada a petrolio accesa e una vecchia che sembra assopita; dall’altra parte un vecchio dalla barba bianca fluente volge verso di me uno sguardo interrogativo… In tutto il pomeriggio non mi ha detto una sola parola, eppure sono certo che sa tutto, che noi siamo in ripiegamento, che i russi stanno per arrivare; mi pare che cerchi di afferrare ogni rumore proveniente dall’esterno; ma conserva la calma aspettando gli eventi.
Sta approssimandosi l’una di notte del 17 gennaio, l’ora stabilita per il mio sganciamento. Un colpo alla porta ci fa sobbalzare: l’uomo; di guardia ha visto qualcosa e mi avverte. Mi precipito fuori. Da est si intravede avanzare una linea scura di uomini che camminano verso di noi. La fila si arresta a un centinaio di metri; un’ombra si stacca, avanza con penosa lentezza attraverso il torrente gelato e sale nella nostra direzione.
E’ un alpino imbacuccato nel passamontagna che gli copre l’elmetto e quasi tutta la faccia, coperto da incrostazioni di ghiaccio e di neve. Lo faccio entrare. Al mio sguardo interrogativo comincia a parlare stentatamente. “Sono di retroguardia con un plotone della 6^, egli dice, ho l’ordine di fermarmi alle “Case diroccate” che sono da queste parti. Non ho carta topografica. Potresti indicarmele?” Apriamo insieme la mia carta… Ecco, le “Case diroccate” sono segnate, ma il plotone le ha già superate di ben tre chilometri. L’ufficiale mi guarda con occhi freddi.
Anch’io lo guardo comprendendo quello che gli passa per la mente. “A che ora hai l’ordine di ritirarti?” chiedo. “All’una e un quarto” risponde. “Non potresti fermarti qui accanto a noi… poi ci muoveremo insieme verso nord” consiglio timidamente io. L’ufficiale, un giovanissimo ufficiale forse in linea da poche settimane, mi guarda ancora a lungo, riflette, scuote la testa, poi senza dire una parola si volta, esce e lentamente ritorna verso il suo plotone che attende immobile nella neve…
Dopo poco il plotone risale verso quello che era il fronte per attestarsi alle “Case diroccate”… Li seguo con lo sguardo nella cruda luce lunare e rimango immobile per molto tempo dopo la loro scomparsa. Mezz’ora ancora: scocca l’una. Raduno i miei uomini, faccio agganciare il pezzo, saliamo in camion. Un do svidanija (arrivederci) ai due vecchi e via attraverso le strade deserte di Golubaja Krinitza, tra le file delle isbe “intatte”, da cui non trapela un filo di luce.
Per me e i miei ufficiali è iniziato il ripiegamento nella sacca… ma quell’ufficiale e quegli alpini della 6^ non hanno un mezzo a loro disposizione… …La lunga giornata di Nikolajewka per me ebbe inizio il 25 gennaio 1943 quando il colonnello Rossotto mi inviò in avanti a cercare alloggio per il gruppo. Il colonnello Rossotto mi diede il suo cavallo bianco, qualche indicazione ed io partii verso la testa della colonna che vera fiumana procedeva compatta verso ovest.
Dopo circa un’ora entrai in Nikitowka e in breve presi possesso di due isbe scrivendo col gesso sulle porte “Comando Gruppo Conegliano” e mi misi in attesa dell’arrivo dei compagni. Ma il tempo passava e nessuno era in vista; anzi, dopo alcune ore il flusso rallentò fino a cessare del tutto. Sicuro che il gruppo non sarebbe più arrivato, cominciai a girare per le isbe vicine, fino a quando incontrai degli uomini della 13ª Batteria con i quali
decisi di passare la notte. Era infatti poco consigliabile rimanere soli o con soldati completamente estranei.
La serata fu tranquilla, la notte fu un continuo allarme: sparatorie in tutte le direzioni, tonfi e schianti vicini e lontani, tanto che dovemmo stare sul chi va là, con le poche armi a disposizione pronte, fino al mattino. Alle prime luci dell’alba, intontiti e stanchi più che riposati, siamo in piedi per ripartire. Non sappiamo che sarà una giornata decisiva… ma qualcosa c’è nell’aria: ansia, timore, paura di non farcela… speranza che sia l’ultima marcia nella sacca.
E si parte in colonna, si esce dalla città lungo la strada e si prende quota sul pendio di una collina. “Sembra che quest’oggi non ci siano sbarramenti, che tutto cominci col meglio”… dicono i nostri sguardi fissi in avanti verso la testa della colonna che ha già girato la collina e che scompare alla nostra vista…
Ma questa sicurezza è di breve durata: scoppi, raffiche di mitragliatrice e di mitra, colpi secchi e ripetuti di cannoni anticarro ci richiamano alla dura realtà. Anche oggi come gli altri giorni. Ci vogliono prendere ad ogni costo. La battaglia però si conclude presto: i colpi diventano più radi, le scariche si allontanano verso ovest e la colonna si rimette pigramente in moto. E’ così che dopo qualche tempo attraversiamo la località di Arnautowo, piccolo paese posto all’imbocco di una valle tra due grandi colline.
Nella breve piazza alcuni cannoni anticarro russi ancora in posizione e attorno i cadaveri, già divenuti blocchi di ghiaccio, dei serventi… Come sembrano piccoli e rattrappiti quegli uomini nella morsa del gelo! Si inizia la salita del colle che sta tra noi e l’ovest, ma la colonna rallenta ancora, procede a sobbalzi, ha delle pause esasperanti ed alla fine si arresta definitivamente… Molti proseguono lateralmente per vedere che cosa ci arresta, molti altri attendono…
Nella colonna ferma ci si guarda intorno; accanto a me, presso il cavallo bianco, c’è Baldi di Invillino, uno della 13ª Batteria che non mi ha lasciato dalla sera prima; un po’ più a destra un tedesco sull’orlo di una profonda balka si esercita al bersaglio (!) contro due russi che faticosamente risalgono il pendio opposto a circa tre-quattrocento metri da noi. Sono scampati all’attacco del mattino della Tridentina: ai primi colpi del tedesco rallentano o affrettano il passo… ma poi sembrano non sentire più nulla e procedono nel loro penoso salire…
Il tedesco finisce le munizioni e bestemmia. Noi guardiamo senza parlare, senza pensare. Solo ora a distanza di anni quella scena mi torna alla mente nella sua illogicità… nella sua crudeltà… Improvvisamente la colonna riprende il suo moto: quante ore erano passate? Impossibile saperlo, abbiamo perso la nozione del tempo. Il moto diventa veloce: presto ci avviciniamo al culmine del grande mammellone e cominciamo ad intuire quello che sta capitando avanti a noi.
Ancora pochi passi e la scena si apre: una valle, una ferrovia, una città che si prolunga a nord e a sud della nostra direttrice di marcia verso ovest… verso il passaggio tra due grandi colli che chiudono l’orizzonte e la nostra salvezza. E’ Nikolajewka, occupata da ingenti forze russe. E laggiù si combatte: vedo gli uomini, neri contro il biancore della neve sulla scarpata della ferrovia, vedo colonne di altri soldati che si dirigono verso nord e sud come per aggirare la città, vedo in particolare a nord le vampe di colpi in partenza che l’esperienza mi avverte essere anticarro.
Sulla breve spianata, sulla cima del mammellone, su un cingolato tedesco, un ufficiale italiano urla instancabilmente “Avanti! Avanti!”… Altri ufficiali ripetono quel grido; ci accorgiamo di ripeterlo anche noi come automi. Ma grido che fosse o comando, ha il potere di scuoterci e tutti in blocco compatti scendiamo il fianco della collina verso la ferrovia, verso la battaglia.
La massa si allarga a macchia d’olio, nuove correnti si formano: sono uomini, slitte, muli e uomini ancora che si accalcano, si comprimono, si spingono e avanzano verso il basso… I russi concentrano il loro tiro su questa massa: i colpi anticarro arrivano in continuazione e ad ogni colpo cappotti vòlano in aria – questo mi sembra nella luce abbacinante del sole che sta già tramontando – e i morti e i feriti rimangono nella neve senza che la colonna si accorga di loro, si fermi a guardarli ed assisterli. Bisogna andare avanti e avanti si va!
Un lanciarazzi tedesco lancia gli ultimi razzi; dal terrapieno della ferrovia i colpi diventano sempre più nitidi, più secchi… Siamo già alla scarpata. Un ultimo balzo, e mi trovo al riparo di un capannone parallelo alla linea ferroviaria. Dall’angolo del capannone mi sporgo: davanti c’è una piazza che mi sembra vastissima; in mezzo ad essa un carro armato tedesco corre a zigzag sparando all’impazzata, al riparo del carro gruppi di alpini che balzano al momento opportuno nelle viuzze laterali; si vedono passare sulla neve le raffiche in arrivo…
Un ufficiale della Tridentina si avvicina seguito da un gruppo di alpini: sento il suo richiamo: “Avanti Vestone”; si arresta un momento accanto a me… gli sussurro “Aspetta un istante, guarda che è troppo battuto il terreno là davanti”; mi sorride con gli occhi e sogghigna “naja”, e avanza scomparendo in breve sulla mia destra… Chissà se quell’ufficiale e quegli alpini valorosi della Tridentina sono ancora vivi? Non so quanto darei ora per saperlo!
Ma i miei ricordi qui si bloccano: so confusamente che la battaglia d’improvviso finì, che mi colpì il silenzio profondo che cadde su Nikolajewka, seguito dalle urla, dalle imprecazioni, dai richiami della fiumana di uomini che si riversava al di qua della scarpata della ferrovia e che prendeva d’assalto le isbe per cercare, dopo una tremenda giornata, un po’”di fuoco, un po’ di cibo, e la possibilità di un’ora di riposo.
Anch’io seguii la corrente, trovai un’isba vuota, mi buttai dentro con alcuni artiglieri del Gruppo Conegliano che avevo incontrato poco prima e caddi in un sonno mortale… Era la sera del 26 gennaio 1943. L’indomani seppi che l’ultimo sbarramento russo della sacca era stato infranto, che la strada verso la libertà era stata aperta… Grazie, Tridentina.
Caporal maggiore Gino Brovedani
77ª Batteria controcarro, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Siamo partiti da Golubaja Krinitza durante la notte fra il 16 e il 17 gennaio 1943 e ci siamo diretti verso nord fino a Podgornoje. Quest’ultima località era in fiamme quando noi siamo arrivati in piena notte per cui dovemmo fare dietro front e ritornare verso sud. Ma la benzina finì e il tenente Mario Candotti, che comandava la nostra sezione controcarro, ordinò di distruggere il pezzo e bruciare il camion. Gli ordini furono eseguiti immediatamente e noi, con le poche cose che ci rimanevano nello zaino, ci mettemmo in cammino sulla steppa coperta di neve.
Nel mio zaino tenevo pure gelosamente custodito il ruolino, il giornale di contabilità e la cassa della batteria, contenente circa 60 marchi prelevati pochi giorni prima al comando reggimento, fondo che conservai durante tutta la ritirata e che consegnai al colonnello Rossotto quando uscimmo dalla sacca.
Poco tempo dopo incontrammo il comando reggimento e restammo aggregati a tale reparto. Mi ricordo che formammo dei gruppi di testa e di coda armati con un mitragliatore. Facevano parte del nostro gruppetto io, il sergente Larese e sette compagni della 77, fra cui Boria di Verzegnis, Marcello Martelli di Roma e un certo Tonon della provincia di Treviso.
Arrivati a sera inoltrata in un paese siamo stati spostati col nostro mitragliatore a sud del paese: avevamo il compito di fare la guardia. Ma per la stanchezza estrema, cademmo tutti in un sonno mortale e ci svegliammo all’indomani quando il sole era già alto. Nessuno in vista, né amico, né nemico! Ci guardammo intorno, discutemmo di quale direzione prendere e non ci trovammo d’accordo; per cui io con alcuni, Martelli, Boria e Tonon prendemmo una direzione con una slitta, rubata nella sera precedente ai tedeschi, e il sergente Larese con un altro gruppetto di artiglieri proseguì nella direzione opposta alla nostra. Questo gruppetto non lo rivedemmo più.
Da quel paese, marciammo alcune ore nella pianura coperta di neve; verso sera incrociammo la Tridentina, con la quale il nostro gruppetto rimase per tutto il rimanente periodo del ripiegamento e con la quale partecipammo ai combattimenti della sacca fino a Nikolajewka. Solo il 3 febbraio 1943, ritrovammo i resti della 77ª Batteria e gli altri scampati del Conegliano. Un altro fatto mi è rimasto stampato nella memoria.
Durante la prima notte passata con la Tridentina incontrammo sulla pista un gruppo di ufficiali italiani: erano il colonnello Mai dell’11ª Artiglieria d’Armata, un tenente colonnello dello stesso reparto, ferito gravemente, una dozzina di uomini con la bandiera del reggimento. Il colonnello ci chiese aiuto e noi caricammo lui e il ferito sulla nostra slitta. Con noi essi uscirono dalla sacca e poterono in sèguito rientrare in Italia.
Tenente Ivo Emett
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Il 22 gennaio eravamo a Nowo Georgiewka, un paese russo come tanti su una delle numerose colline. Sono con noi il comando dell’8^ Alpini e finalmente il Comando Gruppo Conegliano e la mia “tredici” dalla quale mi sentivo lontano da molto tempo, dopo che ero andato a far parte della 77ª Controcarro con Candotti, il carissimo amico compagno di corso allievi ufficiali, col quale mi ritrovo.
Viene uccisa una mucca, al nostro sèguito come riserva viveri; siamo infinitamente stanchi ed affamati e decidiamo di preparare alla meglio un rancio caldo e di riposarci alcune ore. Le isbe e le stalle abbandonate si riempiono di alpini. Nella piazza al centro del villaggio si accendono subito fuochi, sopra i quali cominciano presto a bollire le marmitte di fortuna con dentro grossi pezzi di vacca. E” meraviglioso lo spirito di iniziativa e di adattamento di questi nostri alpini. Tutto sanno fare senza mezzi; tutti sanno procacciarsi: sono infaticabili ed intelligenti.
Ecco ad un tratto che sono avvistati alcuni carri armati, che in un primo tempo ritenuti tedeschi, scatenano contro di noi un violento fuoco di artiglieria. Sulla piazza ove sono ammassate le nostre residue salmerie cadono fitti i proietti dei carri pesanti. Mentre ferve un impari combattimento (i nostri alpini hanno solo poche armi e scarse munizioni), alcuni reparti riescono a sganciarsi e ad avviarsi verso ovest ma la maggioranza rimaniamo accerchiati.
Nelle prime ore del pomeriggio, quando comincia a far buio, la situazione diventa per noi insostenibile; le munizioni mancano e gli uomini sono sfiniti dalla stanchezza. Credo morto Candotti, che era andato al comando dell’8^ Alpini a ricevere ordini. I russi si avvicinano, entrano nel villaggio e continuano a sparare. I carri armati passano sopra i corpi dei feriti schiacciandoli nella neve: è orribile.
Terminato questo crudele scempio, cominciano ad ammassare i prigionieri. Penso di scappare: se pure l’impresa è difficile, anche per mia infinita stanchezza, posso almeno tentare di vendere cara la pelle, tanto sono convinto che da prigioniero mi uccideranno, mi
nascondo in uno dei piccoli bunker, ove i russi conservano le provviste di patate e barbabietole per l’inverno, davanti ad un’isba; segue subito il mio esempio l’attendente del colonnello Cimolino, morto in prigionia, comandante dell’8^ Alpini.
Copriamo l’apertura del bunker con della paglia per non farci notare ed attendiamo notte. Il freddo è intenso e l’attesa spasmodica. Intanto fuori per alcune ore si odono grida inumane: risuona rabbioso il davai crudele e feroce delle guardie russe, che ebbe poi a seguirci per tutta la prigionia. Quando ci accorgiamo che il buio è intenso ci avventuriamo fuori per tentare la fuga disperata. Approfitto di un momento in cui la luna è coperta e camminando carponi, seguo la fila di isbe che conduce all’estremità del paese verso la valle; segue a distanza l’alpino, secondo il nostro accordo.
Ad un tratto la luna si scopre e rischiara la neve bianca; ho modo di dare subito un’occhiata al campo di battaglia in tutto il suo crudele e terrificante aspetto; è un caos di uomini, di muli e di materiali sconvolti e squarciati nelle più raccapriccianti pose, la morte sovrasta spaventosa ovunque. Ho appena il tempo di osservare il triste e desolante spettacolo che dal capannone del kolkhoz in cui i russi hanno rinchiuso i prigionieri, sento vociare concitatamente. Ci hanno scoperti.
Questa volta ancora con caparbietà non voglio cedere; c’è davanti a noi una ripida scarpata, poi una pista di neve battuta, come una grande strada, una breve radura ed infine un grande bosco che scendendo a valle, risale poi fino alla cima di un’ampia collina. Vediamo l’unica via ancora di salvezza in questo bosco; ma bisogna far presto, perché i russi corrono già al nostro inseguimento. Ci slanciamo giù per la scarpata, attraversiamo la pista, ove da circa cento metri di distanza sta venendo una slitta trascinata da un cavallo, carica di russi.
Guadagnamo la radura con la neve fino alle costole e raccogliendo le ultime energie dei vent’anni saltiamo come daini, passando miracolosamente tra un colpo e l’altro del fitto fuoco di mitra al quale eravamo fatti segno dai russi della slitta. I colpi sibilano da ogni parte, presi dalla disperazione accentuiamo i nostri sforzi. Il bosco è finalmente raggiunto; bisogna però allontanarsi il più possibile poiché i nemici ci danno la caccia e stanno cercandoci con grosse lanterne. Ci dirigiamo verso il fondo valle, nascondendoci dietro grossi abeti, finché raggiungiamo una zona di fitto sottobosco; qui ci riteniamo al sicuro e prendiamo fiato.
Lo sforzo sostenuto è stato enorme; ma ci compensa la gioia di essere ancora liberi e ci da fede e coraggio. Proseguiamo poi verso ovest orientandoci con le stelle. Sempre in compagnia dell’alpino camminiamo una notte intera nel fitto di un grande bosco di larici e abeti, nel silenzio più profondo rotto solo da qualche ramo spezzato nel nostro faticoso incedere verso ovest, orientandoci con la luna, con la neve fresca alta fino al ventre; finché alle prime ore del mattino sfiniti ed affamati, sentiamo lontano il caratteristico stridio di slitte trascinate sulla neve ghiacciata e vediamo in lontananza dei bagliori.
Cominciamo a camminare guardinghi. Usciamo su una pista molto battuta e sentiamo a un tratto un canto lento e triste come una nenia; un alpino sta seduto sulla neve davanti ad un’isba che brucia e forse impazzito dal freddo e dalla stanchezza, sta osservando inebetito lo spettacolo e canta una canzone della sua terra lontana; cerco di fargli prendere coscienza della realtà della situazione, ma invano. Ha i piedi congelati, non può muoversi.
Lo aiutiamo a camminare faticosamente e più avanti accanto alle prime isbe di un villaggio, che sembra abbandonato, troviamo una grossa slitta tedesca, carica di indumenti e finalmente di viveri con attaccato un cavallone della Pomerania; deve essere stata abbandonata dai tedeschi, forse uccisi dai russi, oppure i loro padroni, stanchi, dormono in qualche isba. Comunque ce ne impossessiamo, decisi a difenderla ad ogni costo e contro chiunque.
Raggiunta la salvezza, apriamo con la baionetta alcune scatolette, mangiamo carne con gallette e margarina tedesca in abbondanza: i nostri alleati si trattavano meglio di noi. Con l’amico alpino alla guida del cavallo, ormai pieni di fiducia, ci avviamo sulla pista ghiacciata che ancora è deserta, ma porta i segni di recente passaggio di truppe. Dopo circa una mezz’ora vediamo sfilare in lontananza una lunga colonna di uomini che lentamente si snoda, si ode nuovamente il cigolìo delle slitte che scivolano sul ghiaccio ed un vociare sommesso di gente stanca e senza vitalità e speranza. Questi finalmente sono italiani.
Ci avviciniamo: sono soldati della Divisione Vicenza e soldati di altre divisioni dell’Armir, che disperatamente, ma ormai con poca fiducia cercano di uscire dalla sacca; sono sfiniti dalla fatica con gli occhi infossati per il sonno e le gote incavate per la fame, con i baffi e la barba, da lungo non rasa, trasformati in ghiaccio. I baveri dei cappotti induriti sul davanti per l’alito condensato.
Avevo conosciuto in precedenza, quando nel dicembre vennero a darci il cambio a Kuwscin, i soldati della Vicenza, che male equipaggiati con i pastranacci di ordinanza, le normali scarpe chiodate della naja e con dei ridicoli ed inefficienti paraorecchi di stoffa grigioverde, venivano in linea a prendere il posto della Julia, che doveva andar a tamponare la falla creatasi sul fronte della Cosseria.
Mi avevano destato meraviglia questi uomini, i quali, quasi tutti distrettuali e di classi anziane, erano stati inviati in Russia solo per presidiare i territori già occupati nelle retrovie; ma inviati poi in linea per necessità, senza indumenti ed armi adeguate, entravano nei nostri bunker, costruiti dai nostri artiglieri alpini a regola d’arte con sacrifici e capacità non comuni, si sedevano attoniti ed ancora increduli (si trattava in gran parte di
meridionali) per il gran freddo patito e vedendo accesa una stufa esclamavano: “ah, u foco”, rimanendo poi a lungo silenziosi, come gente stupita, per ciò si cercava di ottenere da loro forse l’impossibile! Ebbene tutti fecero poi il loro dovere e nella maggioranza furono sacrificati, tanto da destare ammirazione.
Sembra che camminino da sempre. Le slitte trascinano i feriti; muli e cavalli con i grandi occhi tristi e l’andatura lenta e stanca, camminano per inerzia, rassegnati, come fossero già consapevoli anch’essi della triste sorte che li attende. E’ il presentimento della fine. Seguimmo la colonna per ore ed ore, un po’ delusi per non aver ritrovato gli amici dei nostri reparti alpini; verso sera giungiamo in un grosso paese che ritengo trattarsi di Nikolajewka.
Cerchiamo ricovero in un’isba, ove si trovano due vecchi ospitali, mangiamo alcune patate lesse bollenti, e dopo brevi istanti ci addormentiamo di un sonno profondo, sui ripiani della grande stufa in muratura, che in ogni isba funge da divisorio alle due uniche stanze; sonno prepotente, sonno che niente avrebbe potuto impedirci di godere, neppure il sospetto che i nostri ospiti nel sonno avrebbero potuto ucciderci, o denunciarci ai partigiani russi, che numerosi circolavano nella zona.
Alle prime ore del mattino, veniamo svegliati dal rumore di una accesa battaglia, artiglierie, mitraglie, mitra, bombe a mano facevano un frastuono d’inferno. Ci rassettammo in tutta fretta, uscimmo dalla finestra, più vicina della porta e più sicura, non prima di aver salutato ed esclamato di cuore: spassibo (grazie) alla vecchietta nostra ospite, che ci volse uno sguardo amorevole e triste, quasi volesse esprimerci il dispiacere per il nostro riposo disturbato e per il presentimento della triste fine che ci attendeva.
Forse aveva un figlio al fronte. Mi capitò poi ancora in prigionia più volte di riconoscere simile atteggiamento in donne russe non più giovani, a due delle quali posso affermare di dovere forse la vita. Il cavallo con la slitta non ci sono più. Fuori è ancora buio pesto, ma rotto dai bagliori della battaglia che infuria tremenda; non riusciamo a distinguere chi è che combatte, poiché ci troviamo ai margini della lotta.
Vediamo però sfilare sulla nostra sinistra una lunga colonna nera di soldati che lentamente si snoda cercando di guadagnare una collina; ci uniamo a loro. Sono in gran parte tedeschi: di fianco veniamo assaliti dai russi. Spariamo qualche colpo e lancio le due ultime bombe a mano che mi sono rimaste; ora mi rimangono solo due caricatori per l’unica arma che possiedo: la mia Beretta calibro 9.
Alcuni colpi me li voglio lasciare per il peggio che deve ancora venire e sento che verrà. Con questa colonna di tedeschi e pochi italiani sbandati, camminiamo poi notte e giorno, tenendoci lontani dai villaggi fino al 31 del mese di gennaio: giorno di un sereno bellissimo e freddo intenso, che faceva sembrare l’aria di cristallo.
Camminiamo in cresta ad una collina e verso il fondo di un’ampia balka si può osservare un villaggio all’apparenza abbandonato. Mi avvicino agli ufficiali tedeschi che stanno consultandosi; tutti sono agli estremi delle forze e della fame: occorre assolutamente fermarsi, forse nel deserto paese troveremo del grano, qualche patata, o qualche barbabietola da far bollire. Faremo del fuoco e ci scalderemo riposandoci alcune ore. Bisogna tentare ad ogni costo, ad evitare di morire tutti di fame e di freddo.
Ci sparpagliamo e lentamente cominciamo a scendere sulla neve fresca; man mano che ci avviciniamo alle case, raccogliamo le ultime energie per affrettare il passo, pregustando la
gioia di un riposo in un luogo chiuso e magari di ingerire una bevanda calda, sia pure della neve sciolta e scaldata dentro una gavetta. Quando giungiamo ad un centinaio di metri dalle prime isbe; all’improvviso escono numerosi russi e da dietro le case stesse appaiono carri armati T 34, che cominciano a riversare su di noi rabbioso fuoco, con cannoni mitragliatrici e mitra; dall’alto della collina altri carri armati ad un tratto apparsi, ci prendono di mira.
I tedeschi cominciano a difendersi con le poche armi individuali e le munizioni rimaste, ma cadono numerosi sotto il fuoco nemico; i corpi, lacerati e sanguinanti rimanevano lì sulla neve candida appena arrossata dal sangue, subito rappreso, sotto quel cielo limpido di cristallo; sembravano irreali; era impossibile che degli uomini si uccidessero al cospetto di una natura così freddamente splendida: la ragione era smarrita.
Se non fosse stata la crudeltà, la ferocia del momento, ci sarebbe sembrato di vivere in un mondo irreale, in un mondo incivile, che millenni di storia non avevano migliorato; e allora sarebbe stato meglio distendersi sulla neve candida, nel furore della battaglia, e lasciarsi morire di freddo con gli occhi spalancati verso quel cielo splendido.
Seguitiamo a scendere a balzi per evitare i colpi di arma da fuoco, finché giungiamo vicinissimi al villaggio, quelli avanti a noi cadono già prigionieri, alcuni resistono, ma vengono uccisi. Col mio amico alpino (strano è che non ho mai saputo il suo nome e non ho poi saputo più nulla di lui) ci consultiamo. Esclamo: “Proviamo anca a scappare”; risponde: “Sior tenente mi non posso più, son sfinìo”. Anch’io non posso fare più il minimo sforzo; guardo la mia pistola e mi sfiora l’idea di spararmi alla tempia: il momento è terribile.
Per un istante rivedo tutta la mia vita, penso a Dio, alla mia mamma lontana, che aveva sacrificato l’intera vita per me e che mi attendeva a casa in ansia, sono orfano di un ferroviere caduto folgorato sul lavoro, da quando avevo l’età di tre anni e mia sorella cinque; possibile che gli enormi sacrifici e la vita di stenti di mia madre, coraggiosa e dolcissima, dovessero finire così, senza neanche sapere quale fosse stata la mia fine, né dove fossi stato sepolto?
Ma alla fine non ho scelta; tolgo il caricatore, getto sulla neve la pistola, esito a gettare il portafoglio, poiché c’è anche la fotografia di mia madre e mia sorella, ma debbo farlo per non lasciare in mano ai russi documenti di riconoscimento, ecc. Senza neanche alzare le mani, gesto orrendo e quanto mai umiliante, mi unisco al gruppo che viene fatto entrare in un’isba per la perquisizione, prima di essere ammassati in un recinto circondato da fitte sentinelle con le armi spianate.
Non credono che non abbia più nulla, armi, documenti, ed urlano parolacce contro di me, perché consegni tutto; alla fine si convincono, ma accorgendosi che ho ancora l’orologio, mi gridano davai classi (fuori l’orologio) e me lo strappano dal polso con gioia ammirandolo, è un cronometro comprato a Tirana. Seppi poi che davai classi fu la frase pronunciata in modo perentorio a tutti i prigionieri. Mi tolgono anche il cinturone e peggio la cintola dei pantaloni, per cui, fui costretto a reggerli con le mani, durante tutta la prima marcia del davai, finché non trovai un laccio per legarli. Poi in sèguito mi tolsero anche i valenki ed altre cose.
Un interprete chiama fuori dalla folla dei prigionieri (parecchie centinaia compresi quelli di altre colonne poi aggiuntesi alla nostra), gli ufficiali tedeschi. Ne escono sette; sotto i nostri occhi vengono messi in fila su di un rialzo davanti ad un’isba e dopo aver annunciato che debbono morire perché si sono opposti con la forza alla cattura, mentre avrebbero dovuto arrendersi senza sparare, con due sventagliate di mitra vengono abbattuti.
Poi un ufficiale russo con una pistola passa a dare il colpo di grazia ai sette; mentre spara al sesto, il settimo, un giovane di neanche vent’anni, che era stato ferito non gravemente ai primi colpi, si slancia improvvisamente per la fuga. E’ una scena che lascia col fiato sospeso. Alcuni soldati russi puntano subito i fucili per ucciderlo; ma una giovane donna (evidentemente una partigiana), fa loro cenno di abbassare le armi e dopo aver fatto allontanare un po’ il giovane tedesco, ridendo sguaiatamente fa il tiro al piccione col proprio fucile, finché l’ufficiale più volte colpito, cade morente sulla neve.
C’è da rimanere scossi e allibiti, non tanto per l’ingiustificata fucilazione di prigionieri, quanto per il gesto crudele della ragazza, che ci lascia smarriti e distrutti di fronte ad un mondo a noi sconosciuto. Vengono chiamati fuori gli altri ufficiali, non so se per sottoporli allo stesso trattamento; comunque con l’ansia nel cuore mi faccio avanti e ne escono altri due dei quali ignoravo la presenza.
Nel frattempo l’ufficiale addetto alla perquisizione esce dall’isba con le mani colme di orologi e le tasche rigonfie, parla a lungo con l’altro che probabilmente ci dovrà fucilare: alla fine gli cede un paio di orologi, si avvicina poi a noi, ci domanda di che nazionalità siamo ed alla nostra risposta, con un violento spintone ci caccia fra gli altri prigionieri esclamando: “Italianskij karasciò – rabota i cusciak” (Buoni italiani – lavoro e cinghia).
Questi istanti valsero per me un’eternità e mi invecchiarono, a un tratto, di vent’anni. Non auguro a nessuno di trovarsi in simili contingenze; eppure mi trovai poi ancora più volte in prigionia in simili frangenti; ma forse quei momenti servirono a farmi sopportare le incredibili e tristissime vicende di una lunga prigionia in terra di Russia, ove tutto può capitare anche ad un prigioniero di guerra, dalle umiliazioni alle torture fisiche ed alle più raffinate torture morali.
Ecco perché oggi, dopo aver trascorso quattro anni e mezzo in quell’inferno, sento ed ho bisogno di sentire tanta fiducia nella vita, nella famiglia, nell’amicizia fraterna della quale sono maestri gli alpini, ed anzitutto e soprattutto in Dio.