a cura di Cornelio Galas
Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia
Tenente Osvaldo Zuliani
15ª batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Alpini
Siamo arrivati a Ssolowjew nella serata del 19 gennaio 1943 con le Batterie 13ª e 15ª, il Val Piave e altre batterie della Cuneense (?), oltre si intende gli alpini dell’8^. Ci siamo raccolti attorno al gruppo di isbe del paesino. A difesa di questa posizione, oltre a una linea di alpini dell’8^, disponemmo tutti i nostri pezzi defilati dalla cresta del mammellone verso NE e il grosso paese di Nowo Postojalowka situato in quella direzione.
Alla linea pezzi restò di servizio fino a mezzanotte il capitano Monzani; dopo la mezzanotte fino al mattino io stesso.
La nostra 15ª Batteria era così schierata:
- 1^ pezzo: capopezzo Elia Fornasier di Rauscedo;
- 2^ pezzo: capopezzo Olivo Maronese di Meduna di Livenza;
- 3^ pezzo: capopezzo Dal Molin;
- 4^ pezzo: capopezzo Emilio Bertoia di San Lorenzo di Valvasone.
A fianco della 15ª e a breve distanza, c’era la 13ª Batteria su due pezzi, comandata dal capitano Ugo D’Amico, che aveva mandato in avanti in appoggio degli alpini il suo 3^ pezzo al comando del sergente Bellina di Moggio Udinese.
Alle prime luci dell’alba è cominciata l’orchestra: i russi, usciti dal paese attaccano in forze con fanteria e carri armati la nostra linea; gli alpini partono al contrattacco e ricacciano la fanteria russa al di là dell’abitato; ma i carri armati li ributtano indietro verso la nostra linea pezzi. In uno di questi attacchi il pezzo del sergente Bellina viene schiacciato, per cui il capitano D’Amico chiede alla Ì5^ un pezzo: viene consegnato alla 13ª il 2^ pezzo, quello di Maronese, per cui questi rimane senza pezzo e le due batterie 13ª e 15ª su tre pezzi ciascuna.
Sviluppatesi a fondo l’attacco russo con l’appoggio di un corpo corazzato (circa una dozzina di T 34) la linea degli alpini viene! costretta a ripiegare fino alla nostra linea pezzi per cui entriamo in contatto diretto con i carri armati. Uno di questi viene immediatamente messo fuori combattimento al limitare del bosco sulla nostra destra: l’equipaggio viene preso prigioniero dagli alpini e si può constatare che quello era il carro comando; viene catturato così nientemeno che un colonnello russo che passa poco dopo davanti alle nostre batterie scortato da due carabinieri.
Gli attacchi dei carri russi si susseguono a ondate: la battaglia si fa sempre più cruda; i pezzi di alcune batterie, sospinti troppo allo scoperto sono eliminati ad uno ad uno e i serventi uccisi, mentre noi, leggermente defilati riusciamo ancora a sparare e a sostenere i gruppi di alpini che continuano a resistere e ad attaccare. Se i carri armati sono immobilizzati davanti alla nostra linea. Ma quale prezzo!
Durante la seconda ondata dell’attacco russo, il capitano Monzani e il capopezzo Maronese partono di corsa dalla linea della 15ª per andare ad un pezzo (della Cuneense) rimasto senza serventi; si buttano perciò allo scoperto; individuati sono presi sotto il fuoco concentrato dei carri armati e appena raggiunto il pezzo colpiti in pieno: il capopezzo Maronese muore e il capitano Monzani viene ferito.
Proprio durante questa 2^ ondata i carri russi arrivano fino a 20 metri davanti a noi e ci tempestano con le mitragliatrici di bordo. Noi continuiamo a sparare furiosamente, cadono attorno alla nostra linea pezzi, morti e feriti a decina: fra i primi il caporal maggiore Bortolussi di Zoppola colpito a morte, viene ferito dal rinculo della bocca da fuoco il capopezzo Dal Molii muore il sottotenente De Gaudenzi. Anche la 13ª accanto a noi subisce perdite tremende ma continua a sparare sotto la guida del capitano D’Amico.
Fu allora che, al comando del colonnello Rossotto, balzarono avanti tutti gli uomini liberi del Conegliano trascinando all’attacco con loro i rimanenti nuclei degli alpini che avevano tenacemente combattuto, in un susseguirsi di attacchi e contrattacchi, fin dalle prime ore del mattino. Fu un attacco portato alla cieca contro le fanterie che avanzavano al riparo dei T 34, ma portato con tanto impeto che riuscivano a ristabilire la situazione. Le fanterie russe si ritirarono e i carri armati ripiegarono e i nostri si spinsero fino al paese che rimase in nostro possesso.
Fu durante il predetto attacco che si distinsero particolarmente per il loro temerario coraggio i nostri mitraglieri De Meio e Toniolo: essi balzarono in avanti, Toniolo tenendo sulle spalle il mitragliatore e il De Meio sparando in continuazione contro le torrette dei carri, facilitando così agli altri gruppi la prosecuzione dell’attacco. Verso sera la situazione era ristabilita: i russi non davano più segni di vita; la piana di Ssolowiew era in nostro possesso con le carcasse dei carri russi distrutti, i nostri pezzi infranti e le isbe piene di feriti e di uomini stanchi in cerca di riparo e riposo.
Sul tardi ordine di partire, di abbandonare morti e feriti e di incolonnarsi in silenzio. Ci aspettano ore di marcia dura, faticosa nella neve… mentre su di noi girava instancabile un ricognitore nemico. Il 20 gennaio 1943 la Julia diede prova di supremo valore e dimostrò quanto vale la fredda determinazione di voler tener duro ad ogni costo contro chiunque.
Caporal maggiore Igino Mancini
Reparto Comando Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
La ritirata l’abbiamo fatta, passo passo, quasi insieme, dal giorno 16 gennaio ripiegando uniti alla 13ª Batteria ed al Battaglione Tolmezzo comandata dal maggiore Talamo. Giunti a Popowka ebbi il compito di portaordini. A cavallo in continuo collegamento fra i comandi dell’8^ Reggimento e Gruppo Conegliano con il Battaglione Cividale comandato dal tenente colonnello Zacchi che marciava d’avanguardia. Arrestata la marcia dai russi, si aprì quella dura battaglia di Nowo Postojalowka.
Durante la notte, quando arrivarono quelle bestie di carri armati e i pezzi della 13ª Batteria spararono a zero, di cui il primo pezzo (capo pezzo Perosa) fu schiacciato da un carro armato, io ero lì e proprio allora avevo portata una bottiglia di acquavite al compianto capitano Ugo D’Amico, mandata in omaggio dal colonnello Cimolino. La mattina fu dato ordine di andare tutti all’attacco.
I carri armati russi passavano in mezzo a noi come se andassero a passeggio, ne immobilizzammo diversi, ad un tratto un colpo di mortaio nemico scoppiò vicinissimo e ci ricoprì di neve. Mentre mi spolveravo, l’amico Ugo Frattolin della 13ª Batteria che era al mio fianco mi disse “Mancini: tieni, fùmati una sigaretta”.
Avevo conosciuto Frattolin nella campagna di Grecia e nelle due battaglie di Russia del dicembre-gennaio e notai il suo coraggio ed il suo sangue freddo. Gli dissi di spostarci; con il suo sorriso semplice e affettuoso mi disse: “Non vedi gli altri, come si muovono, si trovano peggio”. In quel momento vicino a noi fu ferito il capitano Monzani.
In quella dura battaglia perirono tra quella neve e ghiaccio i nostri migliori amici: il tenente Pagni, il sergente maggiore Pasianotto e tanti e tanti altri. Infine, al momento del ripiegamento, una granata colpì in pieno il compianto amico Lino Minatto da Lovadina di Spresiano (Treviso). Onesto, povero figlio nel tempo in cui eravamo insieme all’osservatorio mi diceva sempre: “Mancini, tu porterai i miei saluti a casa mia e ad Ada”. Questa era una sua parente di Venezia a cui scriveva spesso, l’amava e non glielo aveva mai detto. Quando comunicai ad Ada l’amore di Lino non so esprimere la commozione che provai nel vederla più volte svenire e rotta da un pianto silenzioso.
La marcia riprese, durante la mattina ci fu una dura battaglia, la sera ce ne fu un’altra più forte, la mattina dopo il nostro amatissimo comandante colonnello Rossotto mi disse di avvertire tutti a tenersi pronti per riprendere la marcia. Finito il mio compito, mi fermai un attimo con i tenenti Emett e Candotti; improvvisamente arrivano e passano le autoblinde russe con truppe autotrasportate. Il tenente Emett mi disse: “Corri Mancini; avverti i colonnelli”, andai ad avvertirli di corsa; uscirono immediatamente da quell’isba. Il capitano Magnani gridò: “Reggimentale adunata”.
Il colonnello Rossotto si diresse verso le batterie; ma il tempo fu così breve che i russi ebbero man vinta. Vidi cadere prigionieri il colonnello Cimolino, il capitano Magnani e tanti altri; nello stesso momento un po’ spostato si trovavano le slitte con i feriti, cercai di aiutarli unito a Guido Mommi e Giovanni Marcato; ma fu impossibile, perché i russi sparavano come dannati. Il sottotenente Passa ferito, mi disse Mancini, cercate di salvarvi, tanto per noi è finita.
Mommi e Marcato mentre prendevano alcuni ricordi dai loro parenti feriti, Bellizzo e artigliere Pietrobon, persero tempo e restarono prigionieri. Andando in giù vidi prigionieri i capitani San Martino, Paier, il tenente cappellano don Faralli ed altri ufficiali e soldati. Giù a valle tentammo di organizzarci alla meglio per salvare i nostri fratelli prigionieri, ma ogni tentativo fu vano, perché i russi con i cannoncini dei carri armati non ci diedero respiro.
Lungo la dolorosa marcia venne a raggiungerci la colonna del generale Ricagno, il colonnello Moro ed il capitano Damini e altri tutti a cavallo, il capitano Damini si fermò e disse: “Signor generale, domandiamo a lui cosa è successo”; spiegai l’accaduto; dissi dei signori ufficiali caduti prigionieri. Il generale replicò: “Non dire sciocchezze”; il capitano Damini rispose: “Signor generale, l’assicuro che è preciso”. Il colonnello Moro mi disse: “Allora sei proprio certo che il colonnello Rossotto, D’Amico e altri sono poco più avanti?”. Risposi di si. La marcia proseguì.
Ognuno di noi si avventurò alla propria sorte, il giorno prima della battaglia di Nikolajewka di mattina i tedeschi sbarrarono la strada. Davanti a Nikitowka non facevano passare nessuno. Io e l’amico Frattolin girammo al largo ed entrammo sparsi fra i primi in quel lungo paese. Entrammo in una casa; trovammo seduti 4 o 5 russi ben puliti e ben nutriti di età giovanile. La padrona di casa stava a sfornare il pane. Chiedemmo del pane, la donna chiese il permesso a quei giovani che con cenno dissero di si. Ci fecero mangiare una zuppa di patate, li ringraziammo tutti e quando fummo fuori, Frattolin mi disse: “Mancini che ne pensi di questo scampato pericolo?”.
La mattina dopo la battaglia di Nikolajewka non potei calzarmi i valenki perché diventati stretti, dovetti adattarmi con stracci di coperta. I miei amici se ne erano andati, mentre alzavo un po’ il passo per raggiungerli, mi sentii chiamare da due ragazzi, miei compaesani della Divisione Vicenza. Li pregai di venire con me, ma essi per non abbandonare un loro amico ferito che camminava barcollando, non vollero seguirmi. Purtroppo non sono tornati.
La sera prendemmo alloggio in una casa distaccata dalle altre. L’amico Frigo stava scorticando una pecora, quando arrivò un russo, parlò con la padrona di casa vicino all’uscio; dai modi che aveva sospettai una trappola; non esitai, gli puntai il moschetto, lo perquisimmo e gli trovammo due bombe a mano, lo legammo e così potemmo ristorarci con carne e patate senza sale e senza pane, il prigioniero lo rilasciammo il giorno dopo quando avevamo percorso un bel po’ di strada.
Il 1^ febbraio raggiunsi il nostro comando proprio quando il tenente Risso e il capitano Damini erano su un camion per trasportarli all’ospedale. Sì, quella sfortunata e sbagliata guerra ci ha dato tanti dolori e tanti ricordi che ci uniscono ad amarci sempre di più.
Tenente colonnello Domenico Rossotto, Cav. Ord. Mil. d’Italia
comandante del Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Ho avuto l’onore ed il privilegio di comandare in Russia un raggruppamento d’artiglieria della Divisione Julia, schierato sul Don, raggruppamento costituito dal Gruppo Conegliano, dal Gruppo Val Piave, da un gruppo pesante campale da 105, da una batteria a cavallo, da una batteria anticarro, da una batteria mortai da 81, da una batteria cannoni da 47/32, e successivamente una colonna durante il ripiegamento.
Posso con fierezza testimoniare di quale tempra e di quale senso del dovere erano animati quei meravigliosi artiglieri che io chiamavo leoni e che tali si dimostrarono ancora nelle successive e cruente battaglie durante la leggendaria ritirata. Il mio compito di comandante è stato facilitato dagli ufficiali di primissimo piano, che avevo alle dipendenze sia ai comandi, sia alle batterie ed agli osservatorii sia ai servizi, ufficiali che sempre ed ovunque si distinsero in atti di valore e che furono di costante esempio ai loro dipendenti.
Desidero mettere in evidenza, per quanto concerne il mese fino al 16 gennaio, durante il quale mantenemmo uno schieramento di emergenza sulla neve, che i tiri di detto raggruppamento erano così massicci da arrestare oltre la linea di sicurezza sul Don i continui e furenti attacchi di divisioni russe che si succedevano continuamente con truppe fresche appoggiate da numerosi e potenti mezzi corazzati.
Tiri così tempestivi ed efficaci che il colonnello Cimolino comandante dell’8^ Reggimento Alpini, nel compiacersi e nel ringraziare dell’appoggio che le mie batterie davano ai suoi alpini, mi ripeteva di frequente che l’effetto dei tiri stessi si poteva paragonare ad una pentola in ebollizione: e spesso esentavano gli alpini dal prendere sotto il fuoco delle loro mitragliatrici l’irruente nemico.
Fra questi valorosi alpini dell’8^ ed i miei artiglieri regnava un tale affiatamento ed intesa che i russi, superiori di uomini e di mezzi corazzati, malgrado accaniti e ripetuti attacchi, non riuscirono mai, durante un intero mese, a sfondare lo schieramento nostro. Solo quando arrivò l’ordine di ripiegamento i russi riuscirono a varcare la nostra linea.
Il generale Eibi, comandante del corpo d’armata tedesco da cui noi tatticamente dipendevamo, assistendo da posti avanzati a quei furenti attacchi del nemico, e all’attacco del Battaglione Cividale dell’8^ Alpini, appoggiato da un pezzo ardito della 15ª Batteria, sulla quota 194 sul Don, rivolgendosi a me esclamava: “Ah! se avessimo pure noi dei meravigliosi alpini come i vostri!”.
Durante questi violenti attacchi dei russi vedevo spesso l’allora maggiore Sangiorgio in servizio di stato maggiore presso il comando della Divisione Julia, recarsi in primissima linea per rendersi conto di ciò che succedeva, e incurante del pericolo prendere viva e attiva parte a quei cruenti combattimenti.
Se in questa prima fase ho avuto modo di constatare l’efficienza ed il valore dei miei reparti, durante il ripiegamento ne ho avuto la conferma, ed ho sentito ancora l’orgoglio e la bellezza di comandarli specie a Nowo Postojalowka dove si era costituito un comando tattico d’artiglieria alle mie dipendenze con i Gruppi Conegliano, Mondovì, Val Piave, e Val Po e dove gli artiglieri alpini, dopo aver bloccato e distrutto alcuni carri armati russi T 34, frammischiati agli alpini dell’8^ e del 1^ e agli uomini di sanità e di cucina, sbaragliarono all’arma bianca il nemico e si aprirono, per loro e per gli altri, un varco per procedere nella ritirata.
Mentre la lunga colonna, al chiarore della luna, si ritirava snodandosi lungo l’itinerario, veniva sorvegliata e mitragliata da aerei russi che la sorvolavano a bassissima quota. Giunta al mattino, dopo una notte così vissuta, in un boschetto di betulle con la neve che cadeva fitta fitta, si riunivano quivi, nelle poche ore di sosta, i comandanti dell’8^ e del 1^ alpini e il sottoscritto, per coordinare le forze rimaste, alpini e artiglieri alpini, onde fronteggiare il nemico che si faceva sempre più minaccioso, con mezzi corazzati che già roteavano poco lontani.
Difatti, giunti noi all’indomani a Nowo Georgiewka, carri armati russi ci accerchiarono, mentre dalla torretta di uno di essi un fuoruscito, parlando in piemontese, invitava alla resa con l’onore delle armi, aggiungendo che del resto sarebbe stata vana ogni resistenza. Evidentemente quel fuoruscito riteneva di trovarsi in mezzo a reparti della Cuneense, mentre quelli erano per la maggior parte della Divisione Julia. I cui alpini e artiglieri alpini veneti, consci di ciò che la prigionia russa avrebbe riservato loro, con alla testa i loro ufficiali, in lotta corpo a corpo, appoggiati dai pezzi della 13ª Batteria che sparò le sue ultime munizioni rimaste, riuscirono ancora ad aprirsi un varco per ripiegare.
Pure qui altri eroici caduti, e feriti gravi che la colonna riuscì, con gli altri feriti dei precedenti combattimenti a portare, su slitte di circostanza, con indicibili stenti, di tappa in tappa fuori della sacca per inviarli poi in Italia. Fra tutti questi voglio ricordare: il caporale artigliere alpino Bertoluzzi che, colpito a morte vicino al suo pezzo, respinse ogni soccorso e domandò solo di potere baciare il suo comandante di gruppo al quale, mentre ci
abbracciavamo, chiese: “Signor colonnello, ho fatto il mio dovere? Viva l’Italia! Mi saluti la mamma se riuscirà a rientrare in patria”.
L’artigliere alpino Luigi Forte che ferito mortalmente mentre portava due proiettili sulla linea pezzi trascinandosi carponi, con le gambe maciullate da una granata nemica, esprimeva al proprio “comandante la gioia suprema di avere compiuto il proprio dovere pronunciando con un fil di voce, prima di chiudere gli occhi per sempre, “Viva l’Italia”.
L’artigliere alpino Pietro Bucciol, caduto, di cui trascrivo integralmente un biglietto trovato nella sua giubba: “Signori ufficiali; lascio detto: se per il destino dovessi cadere sotto i colpi del piombo nemico ripeto, come dicono, chi muore per la patria è vissuto assai e scrivete ai miei cari che solo allora ho compiuto il mio dovere. Viva l’Italia, viva il re, viva l’artiglieria alpina della Julia”.
Il caporal maggiore Olivo Maronese con le gambe stroncate da proietto nemico trova nella grandezza del suo animo semplice la forza di continuare a combattere, incitando i suoi serventi, fino al dissanguamento. Quanto sopra, non va confuso con la retorica, quando si pensa che giovani figli di contadini e artigiani delle nostre valli morirono davvero vicini ai loro pezzi fieri del dovere compiuto. Vorrei ancora ricordare uno per uno i miei ufficiali, sottufficiali, artiglieri alpini perché tutti meritevoli di lode e riconoscenza per i loro atti di abnegazione e di sublime valore.
Per ora mi limito a ricordare il sergente maggiore di artiglieria alpina Luigi Pasianotto che rientrato dopo sette mesi di prigionia in Grecia, mentre il gruppo si apprestava per partire per la Russia, il 4 luglio 1942, mi scriveva da Taranto dove era sbarcato, una lunga lettera di cui trascrivo una frase: “…se voi comandate ancora il gruppo Conegliano sarebbe mio vivo desiderio di rientrare a fare parte di codesto glorioso strumento di guerra cui ho sempre appartenuto…”.
Il sergente maggiore Pasianotto che ebbe appena il tempo di trascorrere un mese accanto alla sua bambina ed ai suoi cari, partì con noi per la Russia, mentre poteva starsene in Italia; dove durante la ritirata cadde anche lui da eroe, mentre impugnava un fucile mitragliatore per tenere testa ai reparti nemici che ci cingevano sempre più da vicino per sopraffarci. La colonna sopra menzionata formata durante la ritirata, era costituita dal Gruppo Conegliano, dalla 17ª Batteria dell’Udine, dalla 35ª Batteria del Val Piove, dai resti del comando 3^ Artiglieria Alpina Julia e dai resti del 9^ Alpini, in totale circa 3.000 uomini.
La potete immaginare questa colonna con alla testa il suo comandante munito soltanto di una piccola bussola, avanzare su itinerario autonomo e sbaragliare i successivi accerchiamenti fino a raggiungere, la sera del 23 gennaio, a Scheljakino, l’itinerario di marcia della Tridentina, e con questa portarsi a Nikolajewka. Qui il Corpo d’Armata Alpino, con i reparti efficienti della Tridentina e con i resti delle Divisioni Julia e Cuneense fortemente decimate nei precedenti combattimenti, costituisce quella massa d’urto che dopo attacchi e contrattacchi riesce infine a sfondare lo schieramento nemico, e procedere nei successivi giorni di ritirata, per raggiungere la zona di sicurezza e cioè la linea difensiva tenuta dalle forze tedesche.
I sanguinosi combattimenti sostenuti, con forti perdite, dalle Divisioni Julia e Cuneense fino a tutto il 23 gennaio alleggerirono a mio parere la resistenza nemica incontrata dalla Divisione Tridentina nel raggiungere Nikolajewka stessa. Ho nominato poco sopra, una “zona di sicurezza” per modo di dire, in quanto la colonna che comandavo, benché fuori della sacca, veniva giornalmente tallonata e minacciata di accerchiamento da mezzi corazzati russi spinti molto in avanti dalle loro basi di partenza e di rifornimento.
Per quanto si cercasse di lasciare un vuoto fra noi e il nemico con estenuanti marce di giorno e di notte, i nostri comandi superiori per un ulteriore intero mese temettero fortemente sulla sorte della colonna stessa. Qui mi soffermo per accostarmi ancora di più, con la mente ed il cuore, come del resto sento ogni giorno, ai miei valorosi, caduti e vivi che tennero alto anche in terra di Russia l’onore della patria lontana, le cui gesta furono altresì riconosciute dallo stesso nemico nel suo bollettino di guerra n. 630 con le seguenti parole: “…Soltanto il Corpo Alpino Italiano è da considerarsi invitto in terra di
Russia”.
Tenente Massimo Risso
aiutante maggiore Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Giungendo da sudest, a quota di circa 200 metri, si arriva a Nikolajewka da un immenso declivio, da un gran dosso fatto ad arco convesso come una mezzaluna con la gobba rivolta verso l’abitato. Questo si trova invece a 120 metri in un grande impluvio e solo negli ultimi
chilometri si comincia ad intravvedere la parte più: bassa della città, quella lambita dalla ferrovia e con la stazione quasi al centro dell’abitato.
L’immensa steppa ucraina, che d’inverno è un deserto di neve, è tagliata da impluvi e calanchi: stretti ed anfrattuosi gli uni, larghi e dolci gli altri, come fossero il gran fondo di un fiume. Nikolajewka si trova al fondo di una di queste ampie incisioni, riparata dai venti travolgenti che da est spazzano spesso, in inverno, tutta la pianeggiante vastità della steppa.
Quel 26 gennaio 1943 splendeva un gran sole e chi avesse potuto guardare dall’alto avrebbe notato una lunga, immensa colonna di uomini; informe nei suoi dettagli, ma ben delineata nella sua massa, nereggiante sul bianco della steppa e ondeggiante e viva nel suo movimento lento e travagliato verso ovest. La colonna era tutta distesa per chilometri sul dosso da cui si scendeva a Nikolajewka; ma solo i reparti più avanzati la vedevano; gli altri più indietro intravvedevano soltanto le cuspidi delle chiese, situate nella parte alta dell’abitato.
La colonna – cinquantamila individui tristi, e in ritirata – come una fisarmonica si allungava oppure si comprimeva, allargandosi verso i fianchi; e ciò avveniva quando in testa si combatteva, quando i reparti più avanzati incontravano ostacoli e dovevano lottare per aprirsi un varco. In quei momenti l’immenso biscione umano si contorceva, entrando in una più acuta sofferenza.
Ad un certo momento, anche il centro e la coda della colonna si dovettero arrestare, come da qualche ora si era arrestata la testa. Quel giorno erano gli alpini bergamaschi che guidavano la lugubre, la dura marcia di rientro del Corpo d’Armata Alpino e di altre decine di migliaia di militari tutti affamati, tutti distrutti dal non dormire mai. Quei disgraziati avevano consumato le riserve di ogni energia fisica ma resistevano psichicamente, sospinti da una tremenda volontà di venire a capo di quella avventura. Avevano perso ormai il senso dell’individuale per diventare uno dei cento, uno dei mille in ritirata; e se rimanevano soli era per morire d’inedia, uccisi dal freddo e dalla fame, o da un colpo ben assestato degli avversari.
Negli ultimi tre giorni il “siberiano”, quel tremendo vento a 40 che soffia gradi sotto zero non trattenuto da niente nella immensità della steppa ucraina, aveva falciato e inesorabilmente travolto ed ucciso tanti di loro; ma era ormai lontano verso ovest e sibilava su altre contrade gelate. Il sole che splendeva invece in quel mezzogiorno stava dando un’inspiegabile fiducia, una forza nuova; erano in più a credere che fosse ancora possibile uscire.
Fermi da ore, quegli uomini sentivano la stanchezza infinita di dieci o di quaranta giorni di combattimento all’addiaccio a venti, quaranta gradi sotto zero. Giorno e notte, con trincee e difese fatte di neve ghiacciata, mista a quel poco terriccio insacchettato che fatiche sovrumane avevano grattato dalla crosta gelata della nera terra d’Ucraina. Ed ognuno era portato a guardare solo i volti più conosciuti dei compagni di quella tragedia, isolando il proprio orizzonte quasi come una difesa.
C’erano però taluni che reggevano: i loro nervi, il loro cuore, la loro mente e la loro coscienza avvertivano la responsabilità di guidare gli altri. Di sapere quindi, d’intuire almeno, quello che avveniva più lontano, attorno davanti e dietro, per avere il senso di tutta la vicenda. Quelli insomma che, anziché essere travolti dal dramma o restare attaccati alle subitanee e momentanee speranze ed ai violenti egoismi di eventi palpabili o sperati, lottavano anche per gli altri, per realizzare il desiderio che li teneva vivi: tornare alle proprie case, allora così terribilmente lontane, tornare in Italia.
Uno di costoro, un tenente colonnello, era un uomo di mezza età, vigoroso e svelto; lo sguardo forte e calmo ma profondamente dolce; la parola pacata ma ferma e sicura; le decisioni pronte intense vissute. Ed in lui era intatta la lucidità di mente, pur in quel marasma imprevedibile in ogni sua fase e in ogni suo momento, che gli consentiva di inquadrarsi durante il giorno – che purtroppo era tanto breve – e durante la notte – lunghissima e durissima – per decidere e far attuare le decisioni. Era il tenente colonnello Rossotto (il colonnello “Verdotti” di Centomila gavette di ghiaccio).
In quel momento, stava osservando attentamente il volo di tre aeroplani, di tre “cicogne”, come venivano chiamati certi aerei tedeschi, che volteggiavano, profittando del sole e dell’assenza di vento, e ogni tanto scaricavano degli strani involucri neri, molto grandi, più grandi di una bocca da fuoco da 75/13, vicino ai quali taluni correvano e sembrava si battessero tra loro per prendere qualcosa da terra. Ma cosa? Ed ecco che uno di questi involucri, tutti lanciati senza paracadute, da bassissima quota cade vicino a Rossotto, colpisce ed uccide un artigliere alpino.
L’involucro si apre e si sfascia; ne escono tanti piccoli cilindri, una catasta che copre quel povero corpo; e tutti gli altri attorno ad arraffare quei cilindri. “Ma cos’è?” chiede Rossotto; “Cioccolato, colonnello, cioccolato vero: lo assaggi”. Era di un gusto delizioso. A quegli uomini, che da dieci giorni non toccavano se non i rimasugli di incredibili cibi trovati qua e là attorno o nelle cantine di qualche isba per caso, quel cioccolato da come una subitanea energia. I privilegiati, pochissimi nella grande massa, ne fanno ampia provvista. Poco lontano, gli altri, che non sanno, non si azzuffano per averne; pensano invece che siano armi o munizioni lanciate a quei reparti che da tanti giorni centellinavano gli spari ed i colpi per non restarne senza.
Ma nel primo meriggio in testa si accende il combattimento che sembra subito molto duro e che continuerà fino a sera. Dietro tutti fermi, ma facendo in modo che coloro che devono manovrare possano farlo liberamente. “Non tocca a noi oggi” dice Rossotto, “ma vigilate, preparatevi perché più tardi può essere ancora necessario aprirci un varco a nostra volta.” Rimbalzano dalla testa della colonna voci sul combattimento, come una eco sussurrata e ripetuta: “C’è un generale italiano in testa, su un’autoblindo; dirige l’assalto; incita, urla ordini che tutti sentono”. “Forse passano avvolgendoli dai fianchi.” Ma, poco dopo: “Il generale è Martinat, ma è morto”. Ed era caduto veramente mentre cercava di superare la linea ferroviaria.
Dopo qualche tempo: “C’è anche il generale Reverberi, il comandante della Tridentina”. Si ha di nuovo fiducia, anche se l’urto sembra diventare più duro. Sembra che questa volta sia più difficile passare. Ma all’imbrunire, proprio quando il sole sta per andarsene, la Tridentina sfonda ed occupa Nikolajewka. Subito dopo si alza la luna che illumina fiocamente quella distesa, per cui qualcosa si può ancora vedere, favoriti anche dai bagliori delle caserme, della stazione, delle isbe, dei carri armati ed autoblindo che bruciano: visibili resti di un durissimo scontro.
Il colonnello Rossotto rientra in quel momento fra i suoi, dopo essere andato avanti in ricognizione per capire: “Si va, si passa; attenzione ai partigiani, però”. Era infatti abituale (dopo che gli abitati erano conquistati ed i reparti regolari degli avversari dovevano spostarsi in un altro caposaldo, sconfitti per quella giornata) che giungessero nottetempo dei civili ben armati a disturbare quei momenti di recupero degli uomini in ritirata, sparando nell’interno delle isbe, sparando ovunque per creare disturbi sanguinosi talvolta sconvolgenti.
Scendendo su Nikolajewka l’irruenza dei cinquantamila passava su tutto: sui resti delle cose ma anche, purtroppo, degli uomini sepolti dalla neve e calpestati da quella susseguente marea di altri uomini vivi che volevano portarsi ad ogni costo più avanti, che volevano perfino correre per tentare di avere un riparo in quelle isbe onde togliersi dai morsi mortali della notte ucraina. Il colonnello Rossotto era il punto di riferimento per i suoi artiglieri alpini, ma anche il barometro delle loro speranze.
Avevano imparato a conoscerlo, alcuni dal 1940, dalla campagna di Albania e Grecia, altri soltanto in quella di Russia, durante i mesi in cui si era tenuta l’ansa del Don, alla congiunzione con il Kalitwa: unica zona di tutto il fronte a nord di Stalingrado nella quale le avanzanti colonne avversarie non avevano potuto passare. E gli avversari lo avevano ammesso con inusitato riconoscimento nei loro bollettini di guerra, per ben due volte.
E così anche nello sfacelo della ritirata, frammezzo a tanto disordine, a tanta anarchia, bastava che Rossotto indicasse alt, qui e lì i suoi stavano; e, adagio adagio, si ritrovavano. I primi, più vicini a lui subito; e poi gli altri, gli ultimi, che arrivavano dopo vicende talvolta incredibili. Ma cercavano di rientrare vicino a Rossotto, al sicuro sotto la sua guida. Anche
i feriti rientravano; quelli colpiti alle gambe, all’addome, i più gravi, che giacevano sulle slitte trainate dai muli superstiti e portate avanti da una solidarietà di compagni che superava i confini di tutto.
Una solidarietà che anche in sèguito consentì che i muli rimanessero utilizzati come animali da traino per i feriti, anziché come carne per far sopravvivere gli affamati. Era l’esempio e la parola di Rossotto a determinare queste sublimi prove di altruismo e di dedizione. Si rinnovava ogni giorno intorno a Rossotto un senso di fiducia, e gli si univano intorno gli artiglieri alpini della Julia con atto volontario.
Perché Rossotto non aveva mai “chiesto” cose impossibili; aveva “fatto” cose impossibili, ma quando erano necessarie, quando giovavano a tutti. Non aveva mai chiesto cose disumane, ma aveva dovuto fare cose disumane quando queste servivano a non morire. Non aveva mai detto imperiosamente “vai, fai”, ma aveva ordinato fermamente e pacatamente “facciamo, andiamo”.
E così si offrivano in tanti per andare, anche senza di lui, per andare a fare quello che lui ordinava, a fare le durissime cose che la guerra imponeva. Durissime, ma sul piano umano talvolta anche bellissime, quasi emblematiche del fondo positivo che vi è negli uomini, in quasi tutti gli uomini. Perché in guerra gli affetti, la lealtà, la fraternità, la solidarietà esistono, si vedono, si sperimentano, sono elemento stesso di un dolore comune. Inserite però in un collettivo egoismo, come fosse di una famiglia: l’egoismo dei reparti, che sono le batterie, i battaglioni, i gruppi.
Mai Rossotto aveva fatto a quegli artiglieri alpini discorsi generici di sentimentalismo o di patriottismo: ma aveva detto spesso parole, anche improvvisando un discorso a qualche gruppo dei suoi, che toccavano i sentimenti più riposti, che toccavano il cuore, che toccavano l’amore per il proprio paese, il rispetto delle leggi della patria. E quando diceva queste cose aveva l’abitudine di guardare negli occhi quei suoi artiglieri alpini.
Essi sapevano che lui aveva, in Italia, una famiglia che adorava e che voleva tornare a godere. Sapevano anche che Rossotto, forse per dare l’esempio, o forse per istinto, non si spostava, non si riparava, anche se sentiva arrivare un ben prevedibile colpo di artiglieria o di katiuscia degli avversari: non aveva paura. Rossotto era un esempio palese e continuo, ma credibile e creduto. Lui che chiamava dolcemente “miei leoni” i suoi soldati; che non alzava mai il tono del comando, perché sapeva ordinare nel modo giusto per essere obbedito, ed era obbedito. Il suo era un prestigio di capo naturale e semplice.
Il prestigio di un uomo vero, di un uomo che sapeva forgiare anche negli altri uomini le qualità indispensabili per fare in guerra quanto tocca ad ognuno, per tutti. Cento volte Rossotto aveva provato queste sue doti naturali e normali; e cento volte i suoi lo avevano cercato con lo sguardo per capirlo, per obbedirgli fiduciosamente. Per obbedirgli perfino nelle piccole cose. Quelle sue “manie”, che in ritirata non valevano più, ma sulle quali fino a poco prima, ancora sul Don, pretendeva obbedienza con una semplice occhiata o con un piccolo gesto, senza iattanza.
Come quando voleva vedere gli scarponi puliti… “ma anche in guerra perdio!” dicevano i suoi artiglieri le prime volte. Come quando voleva il cappello senza acciaccature, portato, come lo definivano quelli degli altri reparti, “alla Rossotto”. E quelli degli altri reparti lo dicevano quasi a sfottere gli artiglieri che dipendevano da Rossotto, perché loro potevano, al loro cappello alpino – quasi come titolo di anzianità – fare tante acciaccature quante volevano. Come quando, appena fosse possibile, imponeva di mangiare seduti ad un appoggio qualsiasi: “A tavola”, come diceva lui, “si possono mangiare anche i poveri pasti della guerra”. “Ci vuole dignità; gli ufficiali in particolare devono avere sempre dignità.”
Sembrano oggi invenzioni di una favolistica di maniera; ma erano allora cose vere e valide e vissute e commentate. O come quando faceva mezz’ora al giorno di ginnastica, appena ci fosse un momento di calma, per tenersi, come diceva, “i muscoli, il cuore, i nervi in grado di rispondere”, di rispondere quando gli servivano. Quel 26 gennaio al sole che splendeva su Nikolajewka, c’era anche questo comandante; e c’erano i suoi artiglieri del Conegliano, del 3^ della Julia.
Quasi tutti friulani, gente assolutamente fenomenale negli atteggiamenti di guerra; ma uomini che per un’esperienza appresa girando a lavorare per il mondo e per una vecchia tradizione di solido realismo, erano contrari alla guerra e chiedevano che finisse… “che il Signor fermi le guerre, che il mio ben torni al pais”, come diceva in friulano quella strofa di una nenia sussurrata e sofferta.
Ma quel giorno a Nikolajewka gli uomini del Conegliano e Rossotto erano di riserva. Per i 40 giorni precedenti avevano tenuto loro il fronte sul Don, per tutti, insieme ai battaglioni dell’8^ e 9^ Alpini, dissanguandosi e lottando all’addiaccio in una situazione penosissima: ma vincendo quei tremendi quotidiani scontri e lasciando tanti di loro nel cimitero di Golubaja Krinitza o insepolti su quota 141.
Dal 16 dicembre per quaranta giorni, nello sfacelo di due divisioni tedesche, di quattro divisioni rumene, della Cosseria e di altri reparti italiani, Rossotto, prima con una sezione di pronto intervento, poi con il Conegliano, con il Val Piave e con le artiglierie semoventi Gesenau, aveva freddamente e lucidamente organizzato, come fosse ad una esercitazione, una difesa perfetta. Con il suo raggruppamento per un mese batté settore per settore i carri armati e le fanterie avversarie che non passarono mai. Glielo avevano detto gli alpini dell’8^ che i suoi pezzi – schierati a cento metri dalla linea degli alpini, in posizione eccessivamente avanzata secondo i canoni “tradizionali” – “ricamavano” il loro appoggio difensivo con una efficacia eccezionale.
Rossotto era artigliere d’intùito. Ancora sei giorni prima, il 20 gennaio, già in ritirata a Nowo Postojalowka e Ssolowiew, avevano rotto proprio loro la resistenza degli avversari, travolgendoli; ed avevano aperto il passaggio usando, le bombe a mano e la baionetta; sì, proprio la baionetta attaccata in cima al vecchio moschetto ’91. E Rossotto aveva fatto una cosa terribile, una cosa che quando si leggono i manuali delle scuole, dove si studiano le battaglie del Risorgimento, sembra una favoletta patriottarda.
Invece in un momento da incubo, quando gli avversari avevano il sopravvento ed i loro carri armati, cui seguiva la fanteria, incominciavano a schiacciare i nostri pezzi da 75/13 schierati avanti, ed in mezzo agli alpini, Rossotto aveva detto, e questa volta urlando: “Baionetta! avanti!”. E si trattava per quel suo reparto di uccidere e di essere uccisi in un modo nuovo, perché loro erano “artiglieri” cioè uomini adusi a far sparare i cannoni. L’aveva ordinato Rossotto con la pistola in mano.
Forse era la prima volta in vita sua che la usava. Anche allora avevano obbedito tutti, molti avevano obbedito per morire: come Enzo Pagni, come Passa, due ufficiali del comando di Rossotto, come Bortoluzzi e Maronese, due artiglieri che vollero dire a Rossotto parole esemplari e tremende, prima di morire, come cento altri. Avevano obbedito ed erano riusciti – con le bombe a mano, con i mitra Beretta, con l’arma bianca delle mille baionette, con un urlo terribile – a mettere in fuga gli avversari sorpresi prima, e sconvolti poi, dalla furia di quella gente che voleva assolutamente tornare a casa; e che per farlo aveva bisogno
di passare di là. E quelli che tentavano di impedirlo erano avversari di valore, che combattevano tenacemente e arditamente in casa loro per una causa sentita: liberare il loro paese dagli “invasori”.
Ancora 6 giorni prima, il 21 gennaio, in un bosco ceduo prima di Postojalyi, Rossotto partecipava, come il comandante di grado meno elevato, ad una riunione impressionante e drammatica. I comandanti alpini dei reggimenti e dei raggruppamenti ed i loro aiutanti maggiori si erano riuniti per decidere il da farsi, essendo quei reparti tagliati fuori da ogni collegamento operativo. I più propendevano per un tentativo di aprire il varco a piccoli reparti, penetrando attraverso le retrovie avversarie – il fronte era lontano ancora 400 km da Postojalyi – e muovendosi quasi di soppiatto, fidando ognuno solo in se stesso. Quasi un “si salvi chi può”.
Rossotto, imitato da Cimolino e Magnani, impose all’attenzione degli altri comandanti la sua tesi semplice ed umana da capo militare: “Mi apro il passaggio verso la linea del fronte insieme agli alpini dell’8^, tutti riuniti ed inquadrati a reparti completi, ma alleggeriti. O tutti fuori coloro che sopravviveranno, o tutti prigionieri”. I piccoli reparti voluti dagli altri saranno più facilmente annientati dai reparti regolari o dai partigiani. Il suo Conegliano uscirà invece dalla sacca ancora unito, dopo una terribile falcidia di vite umane, ma senza avere perso mai il senso dell’ “uno per tutti in obbedienza militare”.
Quella sera a Nikolajewka, arrivando nello stanzone di una grossa isba, forse il municipio o forse una scuola, già occupata da ungheresi, pigiandovisi in un modo disumano, Rossotto ed i suoi artiglieri alpini si ritempravano, per essere di nuovo dopo poche ore a camminare sulla steppa gelata, in una marcia da anabasi, unico mezzo per uscire da quella vicenda sfortunata.
Le giornate orribili, come quelle della ritirata di Russia e tutte le altre disumane esperienze della guerra, io pensavo non dovessero essere conosciute dagli altri, per restare patrimonio doloroso di noi stessi, nel ricordo dei compagni rimasti in quelle terre lontane. Ho accettato invece per un dovere di riconoscenza, oggi che si vuol ricordare la vicenda di 30 anni addietro, ho accettato di ridestare fedeli memorie di affetti umani, devote rimembranze di tanto ardire, di tanto soffrire, di tanta capacità di comando. Soltanto per Rossotto ho rotto l’oblio di queste memorie chiuse e sigillate nel mio cuore.
Artigliere alpino Settimo Cassina
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Sono l’artigliere alpino Settimo Cassina della nostra 13ª Batteria. Perché lei dottor Bedeschi mi ricordi bene, io in Grecia facevo il trombettiere un po’ buffone, fino a passare poi a portaordini sul fronte russo. Al cadere della neve sono passato alla squadra guardafili. L’ultimo mese di battaglie sul Don l’ho passato aggregato al 2^ pezzo comandato dal sergente Bortolotto e dal caporal maggiore Perosa Pirro, fino che i russi con i loro potenti carri armati ce l’hanno schiacciato nella prima battaglia in ritirata, a Nowo Postojalowka.
Se si ricorda, il 24 dicembre alle ore 23,15 lei e il signor capitano Ugo D’Amico mi avete ordinato di trasportare l’artigliere Natale Cudicio servente del 2^ pezzo ferito nel piede destro, portandolo da solo sulle spalle giù all’infermeria nel fondo valle a Golubaja Krinitza; il ferito è stato decorato di una medaglia di argento, io sono rimasto col gelo e senza mangiare.
Lei chiede chi può dare informazioni riguardo alla battaglia di Nikolajewka. Mi dimentico la data ma non l’ora: quel giorno verso le dieci del mattino. Mi trovavo in coda a un reparto del Battaglione Edolo. Più tardi, arrivando la testa del battaglione alla ferrovia è aumentato il massacro degli alpini, la grande forza nemica impediva la nostra avanzata che purtroppo è stata quasi decimata. Al non poter rompere le postazioni nemiche i nostri reparti sono rimasti anche loro senza munizioni, e si è prodotto un ammassamento di soldati disarmati senza speranza di salvezza, sopportando i continui colpi di mortaio e anticarro, purtroppo quando piombavano era un macello.
Verso le ore 14 erano i momenti più disperati, è giunta anche l’aviazione russa aumentando il grande macello. Alle ore circa 17,30, quasi già persa ogni speranza sentimmo una voce gridare: “Avanti ragazzi, la città è libera”. Noi tutti credevamo che realmente fosse stato così. Inferociti dalla paura di non poter trovar riparo, tutti ci siamo lanciati in massa nella città. Il nemico nel vedere questo assalto disperato ha abbandonato armi e munizioni.
Ricordo perfettamente durante la notte in un’isba per mancanza di posto abbiamo dormito seduti. Verso la mezzanotte sento un rumore, apro gli occhi e vedo avanzar di dietro de la stufa, uscire la canna di un mitra, mi immaginai che si trattava di un partigiano nostro assassino. Io non avendo arma mi sono alzato tenendomi uno scarpone nelle mani, nel vederlo lo colpii non tanto forte nella testa e cadde nelle nostre mani; ringrazio Iddio di aver fatto bersaglio, altrimenti oggi non potrei raccontarla. Questo gesto può testimoniarlo il suo attendente Antonio Covre, insieme agli altri nostri duri sacrifici.
Artigliere alpino Giovanni Toffoli
13ª Batteria, Gruppo Conegliano, 3^ Reggimento Artiglieria Alpina
Ricordo i combattimenti e la ritirata di Russia. Ricordo quei feriti, e congelati e morti. Ricordo che il mio compito era di infermiere alla 13ª Batteria del Gruppo Conegliano. Aiutando il mio ufficiale medico Giulio Bedeschi si cercava al massimo possibile di soccorrere quei poveri giovani in quelle condizioni e in quelle posizioni così disastrose. Lungo la ritirata poi si cercava i peggiori, da far salire sulle slitte. Ho detto i peggiori, sì, perché purtroppo ce n’erano tanti di bisognosi; e i mezzi purtroppo di trasporto erano pochissimi.
Ricordo di un caro amico Giovanni Fregonese da Lutrano (Treviso), pure Mario Rossitto da Paese (Treviso), i quali erano congelati fin dalla partenza dalla linea. Cercavo il massimo per aiutarli assieme con altri compagni, passando giorni e giorni sempre con quel terrore dell’inseguimento, dell’incontro di carri armati e degli aerei, e quell’insopportabile freddo. Questi congelati ci chiedevano qualcosa da mangiare, la risposta era così semplice, ma dolorosa: “Non abbiamo niente”. “E da bere?” Sì, una grampata di neve buttata sulle luride coperte e dovevano arrangiarsi, perché il tempo era stretto anche per noi; e si arrangiavano con quelle mani che poco gli servivano.
Per fortuna ci siamo riusciti a trascinarli fuori, aiutandoci fra quelli che erano ancora in condizioni buone, attraversando anche i terribili combattimenti di Nikolajewka dopo quelli di Nowo Postojalowka. Sì, Nikolajewka mi ha lasciato tanti ricordi, purtroppo. Un ricordo ancora, del caporal maggiore Ettore Besega da Sarone di Caneva (Pordenone): in un mitragliamento aereo è stato colpito a morte, mentre si stava distesi attorno alla solita slitta con su i congelati che ho accennato.
L’ho girato, niente gli serviva più. Allora gli ho tolto il portafoglio; assieme c’era anche il sottotenente Ferrari, assieme abbiamo consegnato il portafoglio al nostro capitano Ugo D’Amico; tuttora quando mi incontro con i suoi famigliari non fanno a meno di farmi diverse domande. Ce ne sarebbero tante da ricordare, ma io termino. Tuttora faccio l’infermiere a Sacile. Quando vedo dei feriti ricordo quei tanti lasciati in quella lontana terra di Russia.