ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 33

a cura di Cornelio Galas

Fonte: “Nikolajewka: c’ero anch’io”. Giulio Bedeschi. Testimonianze fra cronaca e storia.

Sottotenente Giuseppe Prisco
Battaglione L’Aquila, 9^ Reggimento Alpini

Facevo parte di un battaglione costituito in gran maggioranza di alpini abruzzesi, che avevano lasciato i loro monti con ben scarse cognizioni d’ogni genere ma portavano entro di sé ben chiara e precisa la volontà di fare fino in fondo il loro dovere di soldati e di uomini. Essendo oltre milleseicento in partenza dall’Italia, cominciarono la ritirata in circa trecento, gli altri erano tutti rimasti feriti o morti o dispersi durante il mese precedente, quando il battaglione dovette tenere la linea schierato fra il resto della Julia e i tedeschi, sul settore di fronte antistante il quadrivio di Seleny Jar.

Tali cifre dovrebbero parlare un loro linguaggio assai eloquente, ma da sole non rendono l’idea della continua agonia e dello sforzo sovrumano ai quali si sottoposero gli alpini de L’Aquila che gli stessi tedeschi guardavano con sguardi trasecolati e ammirati al termine degli assalti violentissimi, delle azioni svolte con l’appoggio dei loro carri armati, o delle strenue difese dagli attacchi russi protratte per giorni e giorni a sbarrare quel velo di trincea sul quale gli alpini non mollarono mai, anche se di volta in volta si ritrovavano sempre più esausti e sempre più in pochi: oggi sono considerate alla stregua di qualunque altro ritaglio di metallo, ma allora avevano un senso le croci di ferro con le quali il tedesco generale Eibi decorava sul campo gli umili alpini della Majella per il loro eccezionale valore dimostrato in combattimento.

Non potrò mai descrivere adeguatamente i sentimenti che in quel tempo mi suscitò il dividere la mia vita con quella di quei montanari, e la commozione che me ne veniva nel constatare l’infinita ricchezza di virtù, gli slanci silenziosi e esemplari di cui quotidianamente davano prova uomini tanto semplici; dapprima per me fu meraviglia, poi quasi incredulità, poi un indicibile affetto misto all’ammirazione che tuttora perdurano, nel ricordo e nella mia vita d’oggi.

Giuseppe Prisco

Peccato che la maggior parte morì, per eccesso di altruismo, di valore e di dedizione al senso del dovere: l’Italia ha perduto in loro una grande ricchezza, incalcolabile e non riproducibile. Dio voglia che se ne salvi almeno il ricordo esemplare. Quando cominciò la ritirata eravamo rimasti in pochi, ma quei pochi affrontarono ancora con coraggio la sorte, e mai si tirarono in dietro quando si trattò ancora di combattere, anzi non conobbero esitazione allorché nelle battaglie dei primi giorni nella sacca si trattò di buttarsi avanti contro le enormi forze russe nel tentativo di aprirsi il varco verso l’Italia.

I più morirono giorno per giorno, uno due o tre per volta, per una pallottola o una rosa di schegge, lasciando la loro macchia di sangue sulla neve e diventando su quella un piccolo mucchietto di stracci, tutto ciò che restava dei miei cari compagni. Uscimmo dalla sacca in 163 alpini e 3 ufficiali, tutto ciò che de L’Aquila sopravvisse. Oltre l’onore, si intende, e l’esempio che ha un suo peso, poiché arricchisce per sempre la storia di un intero popolo.

Tenente veterinario Baldo Vitalesta
Battaglione L’Aquila, 9^ Reggimento Alpini

Queste brevi note si riferiscono al giorno 24 dicembre 1942, quando il battaglione L’Aquila era in linea al quadrivio di Seleny Jar. Quel giorno potrebbe essere intitolato la Nikolajewka del Battaglione L’Aquila. E” l’alba del 24 dicembre: livida, gelida, con una temperatura che si aggira sui 30 gradi sotto zero. I resti del Battaglione Monte Cervino si sono ritirati a Krinitzschnaja insieme ai pochi alpini rimasti della 143ª Compagnia. In linea la 108ª, la 93ª, la 119ª Compagnia de L’Aquila con la 264ª e 365ª del Val Cismon; di rincalzo la 277ª del Val Cismon.

Nel silenzio di ghiaccio dell’alba incombente ogni alpino sente che l’attacco da parte dei russi sta per essere scatenato. Infatti in lontananza si vedono raggruppamenti massicci di truppe russe che avanzano verso le posizioni tenute dagli alpini de L’Aquila e del Val Cismon: i russi con ingenti forze sfondano la prima linea difensiva, dilagano e si avventano verso il quadrivio di Seleny Jar, in direzione dell’isba sede del comando del Battaglione L’Aquila.

I tedeschi in pochi minuti agganciano al traino la loro batteria di katiusce che sparavano 72 colpi in pochi secondi e si dileguano verso ovest. Sgomento e rabbia scesero nell’animo degli alpini nel vedere quella formidabile difesa rinunciare alla lotta che di minuto in minuto stava diventando sempre più accanita e violenta. Carri armati russi, cannoni, mitragliatrici, mitragliatori, mitragliere da 20 mm sparavano migliaia di colpi in un infernale frastuono; proiettili traccianti vomitavano sulla gelida distesa di neve un uragano rovente.

Il maggiore Boschis manda allora a chiamare i pochi ufficiali rimasti e dice loro di costituire plotoni di formazione con tutti gli alpini disponibili; poco dopo si vedono piccoli gruppi di alpini che avanzano verso i russi; si odono voci che gridano “Aquila avanti!”, ed in quell’inferno gli alpini avanzano decisi a contrastare fino all’ultima possibilità le truppe russe. La lotta continua violenta e senza pause per sette o otto ore; poi d’un tratto subentra il silenzio.

Il maggiore Boschis dice: “Se ne sono andati”; ed i suoi grigi occhi guardano tanti piccoli punti neri sparsi nella sporca neve del falsopiano di Seleny Jar. I tedeschi in quel momento tornano con le loro katiusce e arriva anche un generale di corpo d’armata tedesco, il generale Eibi, che saluta per primo il maggiore Boschis e lo abbraccia a lungo e forte…

Caporal maggiore Adolfo Petrocco
93ª’ Compagnia, Battaglione L’Aquila, 9^ Reggimento Alpini

Il giorno 16 dicembre 1942 incominciò la nostra tragedia e lo sterminio di noi alpini. Allarme: al declinare del sole ordine di prepararci, che in nottata arrivavano le macchine e si partiva a destinazione ignota. Il giorno 18 mattina dopo oltre 30 ore di cammino in autocarri siamo arrivati nel posto stabilito.

Al comando del nostro signor maggiore Boschis che mai dimenticherò, ordinatamente si iniziò la marcia verso il nemico con l’accompagnamento delle artiglierie alpina e tedesca che riuscirono a fermare il nemico, dove il nemico era riuscito a mettere fuori combattimento le due Divisioni Cosseria e Ravenna che furono annientate quasi al completo.

In nottata fra il 18 e il 19 abbiamo preso postazione in prima linea, al mattino del 19 i russi sferrano un fortissimo attacco accompagnato con katiusce. I russi ricevettero grandi perdite, la terra si vestì di cadaveri e furono costretti i pochi viventi che erano rimasti a ritirarsi nelle loro postazioni.

Quindi, da quel giorno per tutto il mese di dicembre ’42 tutti i giorni erano attacchi e contrattacchi. Ma noi alpini eravamo sempre duri. Arrivarono i giorni natalizi, un grande freddo oltre i 30 sotto zero e furono colpiti vari alpini dai congelamenti. Ma con tutto questo gli alpini non mollarono all’insistenza dei russi. In questi giorni di aspri combattimenti una dura mattinata dopo il Santo Natale, i russi con forze soverchianti ci diedero addosso con armi e mezzi corazzati ma con questo non ci fu nulla da fare, in serata dovettero ritornare alle loro linee, con gravi perdite da ambo le parti.

Verso i sera vicino alle loro linee rimase colpito a morte il mio tenente comandante del II Plotone fucilieri Livio Porcarelli e in quell’istante avemmo l’ordine dal nostro comando di indietreggiare di circa due chilometri, perché il settore non andava tanto bene. Quindi si fece buio e notte e noi alpini si passava la parola l’uno con l’altro, chi era vivo e chi era morto. In nottata fui chiamato dal mio comandante di compagnia, capitano Carraro che mi chiese se volevo andare a ritirare la salma del mio tenente assieme ad altri due alpini.

Il capitano sapeva bene che noi ci amavamo come due fratelli che mai lo dimenticherò il tenente Livio Porcarelli. Mi feci il segno della croce e unito con altri due alpini andammo all’intermedio delle due linee italiana e russa e abbiamo raggiunto il posto della salma che io lo sapevo bene. Nell’atto del recupero della salma si presenta una grossa pattuglia di russi a pochi metri lontano da noi e dalla salma, gridandoci di fermarci; ma noi coraggiosamente lanciammo varie bombe a mano ma fummo costretti ad abbandonare la salma e a rientrare alla nostra linea per non essere catturati prigionieri.

Nei primi 15 giorni del mese di gennaio i russi si erano fatti persuasi che contro gli alpini non c’era niente da fare. Il 16 gennaio ’43 noi alpini eravamo bene appostati e preparati; ad un tratto venne un ordine di abbandonare e ritirarci, che eravamo accerchiati dai russi. E cominciò la ritirata. Ancora per due giorni eravamo in organico di guerra; poi dopo non si capì più niente dove andarono a finire i nostri compagni e i nostri ufficiali.

Dopo sei giorni di dura ritirata e durante il cammino, attacchi continui dei russi, il giorno 22 gennaio ’43 venivamo sopraffatti da una colonna corazzata di carri armati e ormai senza munizioni fummo costretti a deporre le armi ed a passare sotto il comando russo. Darò un piccolo accenno della mia dura prigionia nella distesa steppa russa senza speranza dei miei indimenticabili compagni che non hanno fatto ritorno alle loro care famiglie e alla nostra bella Italia.

Il giorno 23 gennaio incominciò una nuova vita senza armi alle dipendenze delle forze armate russe che ci trasportarono ad un campo chiamato Krinowaja, il campo dello sterminio e della morte degli italiani dove nel mese di maggio ’43 furono seppelliti ventinovemila cadaveri, dove mi toccò, anche a me, di trascinare i cadaveri nelle grandi fosse nelle quali venivano disposti come pezzi di legna.

Quindi la mia prigionia la trascorsi per 21 mesi nell’ansa fra il Don e il Volga; negli ultimi 14 mesi fui trasportato quasi vicino ai monti Urali dove il 7 ottobre 1945 venne l’ordine del comando russo di cominciare la marcia in tradotta verso la nostra Italia piena di sole. Il 15 novembre ’45 rientrato al Brennero, e fermata a Pescantina per prendere i nostri connotati, dove erano tanti e tante familiari che aspettavano i loro cari dalla prigionia della
Russia. Il giorno 19 novembre ’45 arrivo nel mio paese nativo, Scanno, trovando i miei tutti sani e salvi con l’aiuto di Dio. Distinti saluti ai signori che leggeranno il mio scritto e scusate degli errori. Vi ho dato un piccolo accenno del fronte russo.

Alpino Domenico Tizian
Battaglione Vicenza, 9^ Reggimento Alpini

Trascrivo questa mia storia vissuta a Nikolajewka a memoria e ricordo delle “Penne nere” ed amici del mio paese (Villaverla, Vicenza) rimasti dispersi o deceduti nelle lontane steppe russe. Alpino della Divisione Julia, in Russia, fui aggregato alla 60ª Compagnia, del
Battaglione Vicenza, comandata dal tenente Quaglia (disperso in Russia) in qualità di radiotelegrafista, con una stazione radio di linea R.2.3 che serviva di collegamento fra compagnie e comando di battaglione.

La sera del 17 gennaio 1943, è una data che ricordo molto bene in quanto presi io stesso il marconigramma dal comando di battaglione il quale pressappoco diceva le frasi: At comando 60ª Compagnia. Disporre preparativi per spostamento truppa portando seco cose utili distruggendo rimanenti. Poco dopo lo stesso tenente Quaglia ci ordinò a noi della squadra radio, composta da cinque elementi e precisamente dal caporal maggiore radiotelegrafista capo Liani di Udine; Zattera di Schio; Santin di Vicenza; Buzzatta di Valdagno ed il sottoscritto, di raggiungere il comando Battaglione Vicenza che si trovava a circa quattro chilometri dalla linea del fronte e rientrare nella nostra Compagnia Comando.

Ci presentammo dal nostro capitano Meneghello, il quale ci disse di stare tutti uniti e che tra non molto si doveva partire. Infatti, dopo circa un’ora tutta la 60ª Compagnia rientrò al comando battaglione e, a notte profonda con un bellissimo chiaro di luna ed un freddo polare, iniziammo tutti compatti la grande odissea. Non mi soffermo a descrivere il mio lungo calvario sofferto durante la ritirata, ma mi limiterò a descrivere le fasi finali, vale a dire la pagina di Nikolajewka, perché proprio li io c’ero.

Questa zona io la raggiunsi assieme ai gruppi di sbandati con i pochi rimasti della mia squadra, in quanto il mio reparto l’avevo perso fra Podgornoje e Waluiki. Di questo gruppo faceva parte anche un alpino della compagnia mortai, sempre del Battaglione Vicenza, da me raccolto esanime perché ferito e congelato al piede sinistro con evidente cancrena. Lo portavamo avanti caricato sopra una piccola slitta trainata da una mucca, in quanto il nostro mulo era stato ucciso pochi giorni prima. Tale ferito si chiamava Antonio Menegozzo di Santorso (Vicenza) e che, da poco, ebbi il piacere di rivedere a casa sua.

A Nikolajewka si unì alla mia squadra un mio paesano, Vittorio Dorfelli in forza al comando Reggimento 9^ Alpini. Quel giorno pur essendoci un sole splendente, il freddo era intenso; sarà stato verso le ore 10 quando la colonna si fermò. Noi della squadra, decidemmo di portarci verso la testa della colonna al fine di essere tra i primi ad entrare in paese onde poter racimolare qualcosa da mangiare. Con uno sforzo sovrumano, battendo una pista nella neve riuscimmo a farcela.

Qui ci accorgemmo che in una piccola conca, disseminati come si vedono in tanti film, si trovavano diecine di cadaveri, la maggior parte di essi, alpini della Divisione Tridentina, i quali con il loro sublime sacrificio avevano infranto la prima accanita resistenza russa. Intanto gli spari giù a valle andavano aumentando sempre più e sorsero in me i primi timori che qualcosa di grave si stesse delineando. Il paese ancora non si vedeva, in quanto si camminava sul dorso di una zona collinosa, mentre Nikolajewka si trovava al di sotto.

Nel frattempo “radio scarpa” diffondeva una brutta notizia: si diceva che la Divisione Tridentina, l’unica unità avente ancora qualche reparto efficiente, non riusciva ad entrare in paese per l’accanita resistenza nemica. La colonna si mosse a sobbalzi e dopo poco, ecco apparirci nel cielo i caccia bombardieri russi che dall’alto, indisturbati, ci bersagliavano ripetutamente seminando strage e creando un panico indescrivibile tra la massa che nel frattempo si era infittita.

Per sfuggire agli aerei, si correva avanti ed indietro e proprio in uno di questi spostamenti ad un certo punto ci apparve sotto di noi un grosso paese, conosciuto più tardi come Nikolajewka. Intanto la lunga colonna aveva serrato le file ed in cima allo spiazzo definito costone, la massa si era talmente infittita che sembrava di vedere un raduno nazionale di alpini.

Giù, in paese, che dall’alto si vedeva molto bene, continuavano a vedersi lampi come un brutto temporale d’estate; erano i cannoni rivolti verso di noi che dal basso sparavano sulla massa. In qualche modo cercammo riparo dietro ad un pagliaio, ma i russi, che dal paese ci vedevano ad occhio nudo, colpirono il pagliaio con proiettili incendiari ed in un attimo divenne una torcia.

Anche di lì dovemmo fuggire. Intanto i russi, che avevano aggiustato il tiro dei loro cannoni, acceleravano il ritmo producendo tra le file di questi superstiti un’indescrivibile carneficina. Proprio vicino a noi una slitta tedesca trainata da due grossi cavalli e non come la nostra trainata da una mucca, fu colpita in pieno da un proiettile di grosso calibro e letteralmente disintegrata. La grande esplosione, noi eravamo vicinissimi, ci scaraventò tutti a terra, ma per fortuna nessuno della mia squadra rimase ferito.

A questo punto la disperazione e la sfiducia cominciarono ad impadronirsi di noi tutti e divenne per qualcuno addirittura drammatica specie quando vedemmo alcuni reparti della Tridentina che ripiegavano verso di noi. Difatti vidi io stesso un ufficiale, non so di quale reparto avesse fatto parte, suicidarsi con la pistola. Ci fermammo in un piccolo avvallamento disseminato di morti e feriti abbandonati; quest’ultimi chiedevano di essere raccolti. Fingemmo di non sentire in quanto noi avevamo nella nostra slitta appena il posto per il Menegozzo.

Uno di questi feriti approfittando della sosta e trovandosi vicino alla nostra slitta, si aggrappò ad essa e con accento bergamasco esclamò: “Non lasciatemi quassù, ma portatemi solo giù in paese”. Visto che per arrivare a Nikolajewka si doveva scendere, lo sollevammo e in qualche modo lo caricammo nella slitta assieme all’altro ferito. Questo era
ferito gravemente ad una gamba, da una grossa scheggia. Aspettammo con la speranza che i pochi reparti rimasti nella Tridentina entrassero e conquistassero il paese.

Nel frattempo la massa degli sbandati raggiunse il punto dove eravamo noi. Non si capiva più niente tale era la confusione, ed a un certo momento proprio vicino a me un omino, più tardi conosciuto per il generale della Divisione Tridentina Reverberi, salito sopra ad una autoblindo tedesca con quanta voce aveva e con l’aiuto delle braccia, indicando il paese, gridava: “Armati e non armati, giù tutti, altrimenti è la nostra fine”.

Queste frasi le ho sentite con le mie orecchie in quanto mi trovavo a passare vicinissimo a quell”autoblindo da dove il generale gridava; tanto vicino da poterla toccare con la mano. Quella scena mi incuriosì a tal punto da farmi sostare un attimo per osservare e udire meglio le parole del generale. E che fosse proprio il generale Reverberi me lo confermarono alcuni ufficiali e, a guerra finita da un pezzo, un altro reduce della battaglia di Nikolajewka, il ragioniere Ruggero Danieli, artigliere alpino della Tridentina.

Il Danieli, trovandosi fra gli sbandati accanto all’autoblindo, fu testimone dell’episodio. Dopo quell’incitamento, la massa ebbe un attimo di smarrimento, poi si diresse incurante del pericolo che incombeva, sul paese sottostante. A questo punto prendemmo a scendere anche noi e raggiungemmo in breve il terrapieno della ferrovia. Una buona parte di questa massa, che non aveva nulla da portare con sé, scavalcò in un attimo il terrapieno della ferrovia; noi invece che ci trascinavamo la slitta coi due feriti, dovemmo cercare un passaggio meno ripido; purtroppo, dovemmo tornare subito indietro, in quanto da quel punto i russi sparavano ancora.

Finalmente, dopo tanto, trovammo un punto meno ripido e passammo dall’altra parte della ferrovia e subito ci trovammo alla periferia di Nikolajewka. Per ripararci dal freddo entrammo in una grande stalla semibuia ove all’interno si trovavano alcuni gruppi di alpini che si riscaldavano raggruppati intorno al fuoco. Anche noi ne accendemmo uno per cuocere alcune patate e riscaldarci. Purtroppo per alimentare il fuoco andai a cercare la legna all’estremità della stalla. Qui, mi trovai di fronte a diecine di cadaveri russi avvolti con coperte.

Ad un tratto, quando le patate non erano ancora cucinate, entrarono alcuni ufficiali italiani e tedeschi e ci ordinarono di metterci in marcia in quanto i russi stavano ritornando in paese. Nessuno di noi diede ascolto a questo comando. Intanto, nel frattempo, io avevo scaricato dalla slitta il ferito della Tridentina, già privo di sensi e sistematolo vicino al fuoco gli posi sopra alcune coperte da me poco prima ricuperate tra i cadaveri dei soldati russi.

Poco dopo altri ufficiali della Tridentina entrarono e ci pregarono di metterci in cammino assicurandoci anche che con un altro piccolo sforzo avremmo raggiunto le linee tedesche. A questi abbiamo segnalato la presenza dell’alpino del loro reparto, gravemente ferito, e dell’impossibilità che noi avevamo di portarcelo appresso. Il mio gruppo, meno il ferito della Tridentina, si rimise in marcia, mentre gli altri non diedero ascolto all’ordine superiore ricevuto e rimasero nella stalla.

Una volta usciti ci dirigemmo verso il centro del paese, trascinandoci sempre dietro il Menegozzo. Qui ci rendemmo conto, dalla quantità di armi abbandonate dai russi, della stragrande maggioranza di forze che i russi avevano impiegato per fermarci. In ogni via di Nikolajewka si trovavano cannoni e carri armati abbandonati, nonché morti disseminati ovunque. Questi erano italiani nella stragrande maggioranza, russi, tedeschi, ungheresi, romeni ed anche tanti civili. Sembrava, a vista d’occhio, che vi fosse passato
un grande tornado.

Camminammo quasi tutta la notte ed al mattino seguente, “radio scarpa” diffuse la voce che tutti quelli che erano rimasti a Nikolajewka erano stati presi prigionieri dai russi. Verso il pomeriggio del giorno 30, apparvero avanti a noi alcuni automezzi, li scambiammo subito per russi, tanto è vero ch’io mi preoccupai di mettere a riparo dietro ad un’isba la slitta del ferito, ed increduli osservammo da lontano il movimento di questi mezzi che, a loro volta avanzavano con molta cautela. Dopo poco davanti a noi udimmo delle grida di gioia; erano alcuni gruppi di alpini che avevano riconosciuto in quegli automezzi i liberatori.

Infatti si trattava di italiani e tedeschi che ci venivano incontro. La gioia che tutti noi provammo in quell’istante fu indescrivibile. In uno di questi automezzi riconoscemmo il generale Nasci, comandante del Corpo d’Armata Alpino, che ci incoraggiava assicurandoci che la ritirata stava per finire. Difatti il giorno successivo trovammo un paese, ove i comandi italiani avevano organizzato il raduno per reparto dei superstiti. Quivi il nostro Menegozzo fu preso in consegna dai reparti di sanità e ricevette le prime cure.

Sottotenente Giovan Battista Corvino
Battaglione Val Cismon, 9^ Reggimento Alpini

La sera del 27 dicembre 1942 ero a quota 205,6 di Seleny JarDeresowka con un plotone della 265ª Compagnia del Battaglione Val Cismon. Con me vi era anche il sottotenente Ettore Annone con il plotone sciatori del battaglione. In una bica di paglia, che chiamavamo “il pagliaio” avevamo praticato delle buche per ripararci dai rigori del freddo. Sulla destra del pagliaio avevamo costruito quattro postazioni distanti circa cento metri l’una dall’altra e l’ultima postazione l’avevo affidata al sergente maggiore Cipriani.

Le postazioni erano arrangiatissime, consistevano solo in buche quadrate di circa un metro di lato ed altrettanto profonde, né ci era stato possibile far di più perché eravamo giunti da pochi giorni ed in quel settore di fronte non vi era un po’ di tranquillità per gli attacchi quasi giornalieri dei russi. Oltre le nostre postazioni, al di là del vallone, il fronte era controllato dai tedeschi. Il collegamento veniva effettuato con pattuglie. Spesso facevo il giro delle postazioni, discutevo con gli alpini facendo previsioni di attacchi, che in genere si sviluppavano verso le 3 o le 4 del mattino.

Verso la mezzanotte del 27 dicembre iniziai il solito giro; indossavo il pastrano con pelliccia e su di esso avevo il cinturone con pistola, mentre nelle tasche c’erano alcune bombe a mano; con me veniva il mio attendente Sbardellini, che portava il moschetto a tracolla. Dopo aver fatto visita alle prime tre postazioni, intrattenendomi con gli alpini, mi avviai verso l’ultima di esse. Giunto a distanza di 10-15 metri dalla buca saltarono degli uomini in tuta bianca che mi puntarono contro un’arma automatica.

Pensai che si trattasse della pattuglia tedesca venuta per il collegamento senza peraltro preavvisare, per cui, gesticolando, feci loro intendere che ero l’ufficiale. Ma quando furono vicini a me notai che sotto il cappuccio bianco avevano il berretto di pelliccia sul quale spuntava la stella rossa. Mi disarmarono, togliendomi la pistola e le bombe a mano e successivamente passarono a disarmare l’attendente.

Superato l’attimo di sbandamento, non ragionai ma il girarmi, correre verso le mie postazioni, dare l’allarme fu un’azione forse più veloce dello stesso pensiero. I russi non fecero fuoco. Raggiunto il pagliaio, trafelato raccontai ad Annone l’avventura; stentava a credermi, ma appena cominciammo a muoverci iniziarono le prime raffiche di mitra. Pensammo subito ad un colpo di mano o ad un’infiltrazione, per cui richiamammo gli alpini dalle postazioni attestandoci su un unico fronte, per crearci la possibilità di difenderci.

Mentre Annone rimase sul posto mi recai al comando di compagnia situato a qualche centinaio di metri ed al capitano Bertolotti raccontai l’accaduto. L’ordine, sia del comandante di compagnia che del comandante di battaglione, capitano Valente, informato a mezzo telefono, fu uno solo: “Quota 205 non deve essere abbandonata. Si devono riprendere e controllare tutte le postazioni”. Ritornando sul posto incontrai alcuni feriti che venivano trasportati, tra di essi il sergente maggiore Ruggio ed il sottotenente Annone che colpito al torace da una pallottola veniva trasportato in barella al posto di medicazione.

Riorganizzate le idee ed in ottemperanza agli ordini ricevuti, con il sergente maggiore Romanin e gli alpini andammo all’attacco per riprendere le postazioni. Durante tale azione fui colpito da una pallottola di mitra al braccio sinistro che mi procurò una ferita trasfossa. Riprese le postazioni, fui sostituito dal sottotenente Corti, che dopo qualche ora mi raggiunse al posto di medicazione, perché anche lui ferito, e mi riferì di essere stato sostituito dal tenente Renzo Sigle, che morì poco dopo colpito da un proiettile anticarro.

Solo all’alba potemmo darci spiegazione di quanto era accaduto, perché nel riprendere il collegamento con i tedeschi trovammo le postazioni abbandonate; evidentemente se ne erano andati senza preavvisarci. L’infiltrazione quindi era avvenuta dal settore presidiato dai tedeschi ed alle nostre postazioni i russi erano pervenuti dalle spalle. Del sergente maggiore Cipriani, dell’attendente Sbardellini e degli altri alpini dell’ultima postazione (6^ o 7^) non si ebbero più notizie. I russi li avevano fatti prigionieri e trasportati nelle loro linee.

Oggi riconosco di essere stato tanto fortunato in quel giorno, ma è ancora vivo il ricordo del dolore che provai, quando fui costretto a lasciare il fronte per raggiungere l’ospedale di Rossosch, lasciando in quell’inferno tanti alpini, tanti colleghi, tanti valorosi superiori.

Alpino Fioravante Tramontili
265ª Compagnia, Battaglione Val Cismon, 9^ Reggimento Alpini

Gradirei far presente che nella zona di Seleny Jar io partecipai a tutti i combattimenti che si svolsero dal giorno precedente il Natale 1942 sino all’accerchiamento, avvenuto il 16 gennaio 1943. Quando, ai primi chiarori dell’alba di ogni giorno sentivamo avvicinarsi i carri armati russi, da noi battezzati “le bestie nere”, facevamo il conto chi di noi, in quel giorno, avrebbe dovuto morire!

Da quelle gelide colline ben pochi, purtroppo furono coloro che tornarono vivi e per citare un esempio dirò che della mia squadra soltanto in due riuscimmo a raggiungere la località di Gomel, alla fine della ritirata. Quivi ebbi la gioia di ritrovare il mio vecchio e caro ufficiale Luigi Gui il quale, abbracciandomi, ebbe a manifestarmi tutta la sua commozione per le forti perdite subite dai suoi giovani alpini.

Sarei in grado di citare parecchi nomi di miei commilitoni caduti, dispersi o feriti; ne voglio ricordare alcuni, tra i quali il tenente Visioli (?) il cui plotone fu completamente annientato, gli alpini Roccon, Grande e Ravelli, l’eroico tenente Zanetti, già decorato dai tedeschi, il quale, quando ormai eravamo circondati da tutte le parti e ridotti ad uno sparuto gruppo di superstiti che battagliavano con disperato furore, ebbe ad incitarci di usare tutte le armi disponibili per tentare di contenere la formidabile pressione del nemico.

Uno tra gli episodi più toccanti riguarda la “penna nera” Bigolin da Arcade il quale, seriamente ferito al dorso e parzialmente congelato, ebbe la forza ed il coraggio di trascinarsi per ben quattro lunghi giorni sul terreno ghiacciato, sino a che le forze l’abbandonarono.

Alpino Sebastiano Barro
Battaglione Val Cismon, 9^ Reggimento Alpini

Sono un vecchio alpino della Divisione Julia; mi è stata concessa o piuttosto ordinata la retrocessione dal fronte avendo perduto un fratello in combattimento nel settore iugoslavo. Mi trovavo in una retrovia di salmerie composta da elementi dei tre battaglioni del 9^ Alpini. Verso la metà circa di gennaio del 1943 ci è venuto l’ordine di ripiegare, per una ventina di km; noi soldati era tutto quello che si sapeva, non sapevamo perché, ma si dubitava qualcosa di grave.

Da due giorni si vedeva un movimento insolito di truppe tedesche passare motorizzate, e a piedi. Caricato tutto quello che si poteva nelle slitte ci siamo messi in marcia, ma non è stata molto lunga; ben prima della nostra meta siamo stati fermati da un reparto di carri armati russi, che si son messi subito a sparare. Non potevamo difenderci, avevamo solo moschetti. I muli son rimasti tutti e noi chi a destra, chi a sinistra ci siamo sparsi.

Dopo non so quanto tempo, forse due o tre ore, ci siamo ritrovati in tre del Val Cismon in un bosco in fondo valle, la sparatoria era terminata da un pezzo, ci siamo sbarazzati del nostro corredo tenendo solo la scatola di anticongelante che avevamo in dotazione, guanti e calze di lana che tenevamo gelosamente, e ci siamo messi in cammino. Dove andare? Da che parte si poteva incontrare i nostri? Eravamo disorientati, ma ci è stato facile comprendere ch’eravamo accerchiati.

Camminando, da lontano abbiamo visto un’isba, poi due e tre; avanti da quella parte, ma non senza paura pensando alla sorpresa che potevamo incontrare. Cominciava a venir notte, freddo da cani, volevamo ripararci un po’”dal gelo, e col moschetto in pugno siamo entrati in un’isba; lì abbiam trovato una trentina circa d’italiani; non erano del nostro reparto, anche loro sbandati come noi. Venivano da Popowka, e fra questi un ufficiale di fanteria.

Ci dissero in quel paese tutto brucia; ci han dato ordine di bruciar tutto; le botti di cognac ancora piene sono rimaste, gli alpini che ripiegavano dal fronte, pieni di fame e sete, le bucavano con la baionetta e succhiavano il cognac, poi rimanevano per terra cioè sulla neve, abbiam visto i carri armati russi passarci sopra ch’erano ancora vivi, noi siamo qui per miracolo.

Dopo qualche momento di riflessione l’ufficiale disse: “Domani mattina presto chi vuol partire mi segua, cercheremo di raggiungere le nostre truppe”. Certi dicevano non ci fosse più niente da fare: “Andiamo a farci ammazzare, meglio rimaner qui ad aspettare la nostra sorte”. Noi tre alpini abbiamo risposto: veniamo. Ci siamo riposati un po’”alla meglio; verso le 2 del mattino si sentiva sparare tutt’intorno; si vedeva fuoco in diverse parti, e dopo averci dato una bella unta di anticongelante su mani, piedi e faccia, siamo partiti.

All’alba siamo stati attaccati, forse da partigiani; è stata una gran sparatoria, ma neanche loro, per fortuna, avevano armi automatiche; venivamo sempre più circondati; noi eravamo in una pianura, scoperti, e loro in cima ad un costone. Eravamo alla fine delle nostre munizioni e ridotti la metà, a sbalzi ci siamo portati in un canalone; pensavo: ormai è la fine anche per me.

Dopo un po’ hanno smesso di sparare; mi sono alzato in piedi e non li ho visti più, come un miracolo. Noi ci siamo avvicinati. Da lontano si vedeva una lunga colonna avanzare verso di noi, si radunavano in una pianura vicino a un paese. Non si sapeva più che cosa fare, se andar contro di loro o scappare dalla parte opposta; saranno dei nostri? dicevamo, o tedeschi, o russi? Non si poteva distinguerli data la distanza. Tutti d’accordo, sarà quel che Iddio vorrà, andiamo verso di loro, tanto è uguale; da un’altra parte saremo presi lo stesso prima o poi.

Il morale cominciava a guadagnarci; ma siamo andati incontro tremando, sempre con le orecchie tese; giunti a circa 150 metri ci sembrò di vedere cappotti grigioverdi; man mano che si avanzava la realtà ci assicurava d’aver trovato i nostri, quando abbiam sentito parlare italiano immaginarsi la nostra consolazione. Era la Divisione Tridentina, ci siamo messi in mezzo a loro, ed abbiam continuato il calvario della ritirata.

Nikolajewka, ricordo bene, l’abbiamo trovata dopo diversi giorni di ritirata, forse dieci giorni. Noi siamo arrivati verso sera, ma siamo stati diverso tempo fermi; non si poteva passare dal fuoco nemico, in testa alla colonna c’era la Tridentina che si batteva per aprire il varco. Stanchi e sfiniti come tutti, abbiamo cercato di riposarci. Abbiamo spazzato la neve con le scarpe, facendo un buco, e messo per terra rami secchi di alberi; stretti l’uno contro l’altro ci siamo stesi a terra, credendo di poter riposare. Ma per fortuna, abbiamo avuto la forza di rialzarci subito, dopo forse venti secondi, altrimenti saremmo rimasti tutti gelati.

Finalmente un ordine di traversare in massa sotto il fuoco, chi passa passa, chi resta resta, e così abbiamo passato Nikolajewka, ma si camminava sopra ai morti. Però nei primi giorni di ritirata, abbiamo avuto la fortuna d’incontrare dei compagni del Val Cismon che venivano dal fronte. Ricordo i nomi: Abbondio Sordi, Lorenzo Sordi, Amadio, Toffoletto, ecc. Ci hanno presi con loro; avevano un mulo e una slitta; è stata la nostra salvezza.

Però un giorno, approfittando d’una sosta in un paese, abbiamo lasciato il mulo incustodito per cercare qualcosa da mangiare; al ritorno non l’abbiamo più trovato. Allora, anche noi in caccia, uno di noi ha menato un mulo, io una mucca che abbiamo ucciso il giorno dopo. Così diversi nella colonna hanno potuto approfittarne. Ricordo che verso la fine della ritirata abbiamo traversato una ferrovia e poco dopo è stata finita, almeno gli attacchi più grossi.

Permettetemi di accennarvi uno tra i tanti casi che ho vissuto. Un giorno, non lontano da Nikolajewka, eravamo fermi fuori dell’abitato. Un tratto della nostra colonna si trovava vicino a dei pagliai. Noi per scaldarsi un po’ e sciogliere un po’ di neve per bere, abbiamo acceso dei fuochi intorno.

Il fuoco è divampato in cima ad un pagliaio, un momento dopo una grande fiamma è caduta sopra ad un alpino e gli ha bruciato interamente la faccia ed è rimasto cieco, e con le braccia tese in avanti si è messo a gridare e piangere chiamando: “Mamma!”. Si è appoggiato sulle spalle di un altro alpino e diceva sono l’alpino tale, del tale reggimento, abito nel tale paese, se arrivi in Italia, gli diceva, avverti mia mamma che sono rimasto qui bruciato.

Aiutante di battaglia Santo Vincenzo De Paoli
Battaglione Val Cismon, 9^ Reggimento Alpini

Ci trovavamo a Podgornoje in distaccamento, comandato dal tenente Lino Bellini, di Ardesie. La forza era di un centinaio di uomini e circa novanta quadrupedi, quasi tutti muli, ed aveva una quarantina di slitte. Dipendeva dal locale comando tedesco che in particolare eseguiva le operazioni di scarico dei materiali giunti al terminale ferroviario distante circa 1 km.

Aveva inoltre il compito di tenere sgombra la strada principale che portava a Rossosch, servendosi, per questo, di tutte le donne del villaggio che, al mattino presto, si radunavano davanti alla isba del comando; lo starosta o un poliziotto ne faceva regolarmente l’appello. Nell’occupare le isbe per la sistemazione degli uomini e due capannoni per i quadrupedi, lo starosta diede ordine di sgombero totale da parte dei civili; in due di queste isbe sgomberate rimasero (con il nostro consenso) due vecchiette che, piangendo, avevano chiesto di rimanere: gli alpini le trattarono con signorilità e con devozione filiale.

I giorni 15 e 16 gennaio i tedeschi fecero saltare tutta la linea ferroviaria e il 17 consegnarono al distaccamento una busta chiusa con l’ordine di aprirla il giorno 18 mattina. Verso mezzogiorno del 17, constatato che gli alleati erano partiti tutti, con il tenente si aprì la busta dove c’era scritto di raggiungere il proprio reparto. Poco tempo dopo tutte le slitte erano pronte e si partiva per Ssaprina dove si credeva ci fosse il Battaglione Cismon.

Dopo circa due ore di marcia s’incontrò una macchina militare e, fermatala per chiedere la località dove si trovava il comando del Cismon, si ebbe la risposta da un ufficiale superiore alpino: “Alleggerite la colonna e puntate verso Nowo Karkowka”. Invertita la marcia, dopo aver alleggerito le slitte, in poco più di un’ora si arrivò alla sussistenza di Ssergejewka.

Visto che stavano incendiandola spargendo attorno bidoni di benzina, si caricarono molte slitte di ogni ben di Dio e si ripartì. Anziché proseguire per Rossosch che degli sbandati asserivano già in possesso dei russi, si prese la direzione verso Postojalyi. La “carovana”, chiamiamola così, sovente doveva fermarsi perché la pista era occupata in particolare da automezzi che poi si bloccarono quasi tutti prima di arrivare a Postojalyi, perché non poterono superare la lunga e forte salita gelata.

Giunti al mattino a Postojalyi (mi sembra il giorno 20) la colonna fu bloccata perché la pista era ostruita da altre slitte e dopo qualche ora arrivarono parecchi carri armati enormi che portarono lo scompiglio e la morte nella colonna. Messomi a riparo di una isba, vicinissima alla pista, sparai qualche colpo mirando ai soldati che sparavano seduti sopra i carri armati con le gambe penzoloni.

Detti carri non si curarono di noi (effettivamente nessuno di noi aveva armi anticarro) e dopo aver letteralmente schiacciato parecchie slitte e quadrupedi, proseguirono nella direzione della colonna stessa. Passato lo spavento e scomparsi i carri armati russi, arrivai a racimolare una ventina di alpini, e, lasciata la pista principale, mi avviai verso una collina a fianco. Fuori dalla pista si sprofondava nella neve fino al ginocchio e dopo circa mezz’ora ci fermammo nascondendoci a riposare dove c’era un po’ di vegetazione.

Tanto per cercare di sollevare il morale e incoraggiare gli alpini chiesi se c’era qualcuno che sapesse recitare il rosario. Un veneto disse che suo padre faceva il sacrista. Mi misi in testa, a battere la pista per il primo tratto di strada, e dissi: “Se recitiamo il rosario completo la Santa Madonna ci farà arrivare sul colle e saremo fuori dal tiro nemico”. Fatti poco più di cento metri lasciai passare avanti il secondo che a sua volta (quando avrebbe avuto il fiatone) avrebbe ceduto il passo al terzo e così via.

Arrivato al 3^ o al 4^ mistero il “celebrante” ripeté più volte “si contempla…” senza ricordarsi chi si contemplava; si sentiva solo l’ansimare del lento ma faticoso cammino quando con tono austero e quasi arrabbiato si udì una bestemmia. “Porco…, contempla quel che ti voi, ma va avanti col rosario.”

Dopo un giorno completo (giorno e notte) di cammino arrivammo in un piccolo villaggio e dopo qualche ora di riposo e aver mangiato parecchie patate, unica risorsa abbondante che avevano tutti i russi, ripartimmo avvicinandoci alla pista principale che a detta delle donne locali portava a Karkow. A noi interessava poter prendere la direzione inversa a quella che avevamo fatto all’arrivo dall’Italia. Partimmo in una dozzina. Prima di arrivare a Nikolajewka, dopo qualche giorno di cammino ero rimasto con 7 uomini.

Voglio ricordare un fatto che non ho mai notato sui vari libri riguardanti la campagna di Russia che ho letto. Gli ultimi giorni ch’ero al distaccamento di Podgornoje, gli aerei russi che passavano di sera (si diceva che rifornissero i partigiani nelle retrovie) lasciavano cadere dei manifestini grandi poco più di una cartolina, lievemente colorati dove c’era scritto da una parte in italiano e dall’altra in russo.

La sintesi era questa: “Soldati del Corpo d’Armata Alpino: sappiamo che non siete i soldati di Mussolini e che avete trattato bene le nostre famiglie nella Bielorussia; ormai avete perso la guerra e per voi non c’è più nessuna speranza; presentatevi al primo ufficiale nostro che troverete nella ritirata con il volantino firmato: sarete trattati come cittadini russi”.

A Karkow, poiché avevo con me i buoni ed i timbri, requisita per qualche ora una autocarretta (con le buone maniere convinsi l’autista a fare un noleggio) andai al comando tedesco dicendo che a 50 km circa marciavano una settantina di alpini della Julia ma che avevano fame e senza viveri; non si poteva sapere quando sarebbero arrivati. Mi chiesero subito il buono e timbratolo regolarmente per settanta persone mi caricarono l’autocarretta di ogni ben di Dio: lasciammo a terra, all’ingresso del magazzino, coperto con dei sacchi, quasi tutto il pane nero dicendo che saremmo ritornati a caricarlo e partimmo: naturalmente se nessuno l’ha preso sarà ancora là.

Alla periferia della città ci ricoverammo in una bella casetta abitata da un professore, dalla moglie e da una figlia che suonava bene il piano e ci fermammo qualche giorno. La stessa signorina, penso per contraccambiare le nostre cortesie e anche tutti i viveri che le lasciammo, usciva due volte al giorno in cerca di notizie e, in qualche maniera, ci informava sull’avanzata dei russi e sulla difesa della città che i tedeschi stavano allestendo.

Fu appunto mentre eravamo in detta casa che estrassi un volantino (ne portavo diversi) e lo feci tradurre dal professore: il contenuto in russo era identico a quello italiano ma la frase “sarete trattati come cittadini russi”, nella scritta in russo diceva “sarete considerati cittadini russi”.

 

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