ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 29

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Ministero della Difesa

Abbiamo già parlato del ruolo della Guardia di Finanza nella Campagna di Russia della seconda guerra mondiale. Oggi vediamo invece quello dei carabinieri, soprattutto sul fronte del Don.

L’Operazione Barbarossa, decisa da Hitler nell’estate del 1941, rappresentò la svolta cruciale della Seconda guerra mondiale. La pesante sconfitta delle forze dell’Asse nelle steppe dell’Unione Sovietica rappresentò un’autentica tragedia. «La ritirata dal Don al Donez fu, per ben 400 chilometri, un calvario seminato dai cadaveri dei soldati italiani, uccisi dai russi o dal freddo o morti per sfinimento», racconta Giorgio Maiocchi (Carabinieri, Due secoli di storia italiana).

Il bilancio della spedizione italiana in Russia si chiuderà col sacrificio di 100mila uomini, corrispondenti alla perdita del 60 per cento degli ufficiali e del 50 per cento della truppa. La tragedia dell’Armir coinvolse anche l’Arma. Nella campagna di Russia i carabinieri erano presenti con un battaglione, una compagnia, 45 sezioni e 8 squadriglie e condivisero in pieno la tragedia della ritirata.

«Normalmente», precisa Maiocchi, «presso ogni grande unità i carabinieri fornivano un comando, retto da un capitano, due sezioni motorizzate, rette da un ufficiale subalterno, sette-otto sottufficiali e una sessantina di militari (con autovetture e motocicli Benelli 250 e Spa 38), un nucleo postale per le scorte e i controlli, tre nuclei reggimentali. I carabinieri diedero ancora una volta prova della loro capacità, della loro coesione, della loro abnegazione in circostanze eccezionali anche nell’eccezionalità della guerra».

Maiocchi cita alcune testimonianze sull’eroismo dei carabinieri. Il capitano Carmelo Biundo comandava le sezioni carabinieri della Pasubio. La divisione incominciava la ritirata da Mikhailov il 19 dicembre del 1942.

«A pochi chilometri da Werchanjakowaki, però, venivamo fatti segno ad un nutrito fuoco di carri armati avversari e da un intenso fuoco di mitraglia che portò lo scompiglio nella colonna. Molti autocarri venivano gravemente colpiti. Non rimaneva che ripiegare. Tale decisione veniva presa automaticamente da tutti i conducenti di automezzi rimasti efficienti.

In detta circostanza perdetti completamente di vista il secondo autocarro che trasportava i miei carabinieri insieme al sottotenente Puoti. Non seppi più nulla di loro, né alcuno dei militari usciti dall’accerchiamento mi seppe darne più notizia, e devo quindi dedurre che siano tutti caduti i prigionieri».

L’allora sottotenente dei carabinieri Attilio Boldoni, comandante della 66a sezione (Livorno) della divisione, ricordò il calvario della Torino, «iniziato bruscamente col trasferimento da Popwka ad Arbusov, durante il quale anche le sezioni 66a e 56a dei carabinieri devono impegnarsi a fondo, e assai duramente, per contenere il nemico, sempre più imbaldanzito e dilagante.

L’aspro combattimento di retroguardia, sostenuto da reparti scelti della divisione, si svolge sulle alture della riva sinistra del Tichaja ed impone ai difensori gravissime perdite ma consente al grosso della colonna di sfilare protetto. La disparità delle forze è spaventosa, schiacciante.

I carabinieri sono fermamente decisi ad affrontare qualsiasi pericolo, ad accettare in silenzio qualunque sacrificio, con imperturbato e disciplinato fervore. Intanto, alla sera dello stesso giorno 21 dicembre, la colonna principale, decimata e stremata, di quella che già fu l’invitta divisione Torino riesce a trascinarsi fino alla conca di Arbusov, la “Valle della Morte”».

«Quivi già stazionavano alcuni elementi germanici dello stesso XXIX corpo d’armata, i quali, sebbene in perfette condizioni di efficienza – perché regolarmente vettovagliati con rancio caldo –, avevano avuto il compito, assai meno gravoso, d’aprire la marcia alla colonna. Mentre sopraggiungono gli ultimi superstiti delle durissime azioni ritardatrici affidati al fior fiore della Torino, la posizione viene ad un tratto investita dal nemico e serrata, in breve evolvere di tempo, in una micidiale morsa di ferro e di fuoco.

A far fronte alla tremenda minaccia devono essenzialmente provvedere, ancora una volta, i nostri combattenti, i quali, benché già spossati dalle vicende della giornata, affamati e ormai sprovvisti di munizioni, ritrovano ancora la forza di resistere agli attacchi, ora più vigorosi e soverchianti, dei russi. Sin dal mattino del 22 dicembre, la situazione si fa tanto insostenibile che il comando della Torino, d’intesa col comando tedesco, decide di tentare un ultimo disperato sforzo per allargare il cerchio.

Per questa prova suprema, i superstiti della Torino vengono suddivisi in piccoli gruppi, al comando dei pochi ufficiali, sottufficiali e graduati più validi, così da poter tentare l’estremo assalto in diverse direzioni convergendo, subito dopo, verso quella nella quale si fosse verificato un principio di cedimento avversario, onde sfruttarlo senza perder tempo».

Arbusov è una località situata al centro di alture che erano dominate dai russi. «Il comando della divisione è all’addiaccio, sotto il tiro incessante di tutte le armi nemiche. Il bombardamento è intensissimo. Mortai da 120, katiuscie, colpi di artiglieria di grosso calibro cadono dovunque. Si scavano buche, ci si abbarbica al terreno. Gli italiani – allo scoperto – subiscono immani perdite. Durante la notte si cerca di ricomporre i reparti. Al mattino successivo si verificano mille e mille episodi eroici, leggendari per la spontaneità con cui sono stati compiuti”.

Boldoni, che rimase ferito mentre attaccava un caposaldo nemico (e per questa azione fu decorato di Medaglia d’argento al valor militare), racconta poi «un fatto portentoso, incredibile, della cui realtà, chi scrive, pur essendone stato testimone, si sente ancora istintivamente indotto a dubitare, né riesce a parlarne se non in prima persona, come se nel rievocarlo, risorgesse in lui la suggestione di quel momento indimenticabile: tutt’a un tratto, alle nostre spalle, vediamo avanzare a cavallo un giovane che va risolutamente verso il nemico, agitando una bandiera tricolore e incitando i compagni a un estremo e supremo sforzo, di vita o di morte.

Chi è quel giovane pressoché imberbe, di cui nessuno conosce o ricorda il nome, ma che tutti riconosciamo subito come un fratello maggiore e migliore, come un esempio, una guida, un antesignano, un trascinatore? È il carabiniere Giuseppe Plado Mosca: un nome che abbiamo appreso in seguito, e che resterà inciso per sempre nei fasti più luminosi dell’Arma. Ma in quel momento il suo nome oscuro non ha importanza.

In quel momento, egli non può avere alcun nome, perché nulla di personale, di circoscritto, di anagraficamente definito è in lui. Egli è assai più che un determinato individuo, che una singola persona, che un qualsiasi mortale il cui fato stia per compiersi: è il simbolo, la personificazione sovrumana, l’ideale sublimazione dell’ultimo anelito invitto di tutti noi; o forse è un essere soprannaturale, che, invocato dalle preghiere, dalle lacrime delle nostre mamme lontane, è disceso dal cielo, a guidarci verso la salvezza».

Le parole dell’ufficiale testimoniano l’ammirazione che l’assalto isolato di quel carabiniere provocò in tutti coloro che assistettero a quel gesto di estremo eroismo. Il racconto si conclude in questo modo:

«Di fronte a tanta subitanea furia, ch’esso è ben lungi dall’aspettarsi, l’avversario, ad onta della sua schiacciante preponderanza numerica, non può fare a meno di cedere terreno, d’allentare temporaneamente la stretta, sopraffatto da una comprensibile crisi di sgomento che lo induce a ritirarsi dinanzi a noi, abbandonando nelle nostre mani gli ultimi prigionieri cattura­ti, armi, viveri e rifornimenti di vario genere.

Il fronte nemico è così respinto su tutta la linea e il raggio dell’assedio è allargato. Poco dopo, placatasi la furia di quell’improvviso e paradossale combattimento, ci accorgiamo, ad un tratto, che il cavallo del nostro salvatore, ferito e sanguinante da più parti, sta rientrando faticosamente nelle nostre linee: unica traccia rimasta del suo leggendario cavaliere, sono delle chiazze di sangue sulla groppa».

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