a cura di Cornelio Galas
Fonte: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Politiche. Titolo Tesi: “La campagna di Russia (C.S.I.R.- A.R.M.I.R. 1941-1943) nella memorialistica italiana del dopoguerra”. Anno accademico 1999-2000.
Solidarietà
Prima ancora che si manifestasse un vero e proprio spirito di solidarietà tra commilitoni, si manifestò quello che può essere definito “l’istinto del gregge”, quella sorta cioè di inconscia paura per una situazione che sfuggiva totalmente al controllo, e che spingeva i soldati a radunarsi tra loro. Questo era tra l’altro l’istinto che fungeva da collante tra le varie e distinte individualità della colonna, e che la rendeva il punto di riferimento per tutti.
Una tale forma istintiva di aggregazione di fronte ad un pericolo, o all’incertezza, costituisce certamente una delle caratteristiche della natura umana: l’individuo cerca nella comunione con i suoi simili quella sicurezza che la situazione circostante non riesce ad infondergli. Primo Levi sottolinea come un simile atteggiamento mentale si manifestasse anche tra i deportati nei campi di concentramento.
All’avvicinarsi delle armate sovietiche i campi di prigionia dovettero essere abbandonati, ed a quel punto fu necessario prendere una decisione tra il partire con la gran massa dei prigionieri sani od il restare nel lager con i malati: in entrambi i casi non si sapeva quale potesse essere la propria sorte e quale fosse la scelta migliore.
“I due ragazzi ungheresi presero a parlare concitatamente fra di loro. Erano in avanzata convalescenza, ma molto deperiti. Si capiva che avevano paura di restare con i malati, deliberavano di partire coi sani. Non si trattava di un ragionamento: è probabile che anche io, se non mi fossi sentito così debole, avrei seguito l’istinto del gregge; il terrore è eminentemente contagioso, e l’individuo atterrito cerca in primo luogo la fuga […] ciò che dominava le nostre menti era la sensazione paralizzante di essere totalmente inermi e in mano alla sorte […] Noi restammo nei nostri giacigli, soli con le nostre malattie, e con la nostra inerzia più forte della paura”.
L’istinto di radunarsi con i compagni, di seguire la corrente, corrispondeva anche ad una interpretazione più razionale della situazione, con la valutazione dei vantaggi, materiali e morali, che potevano derivare dalla condivisione delle difficoltà con i compagni. All’idea del gruppo veniva associata quella di salvezza, mentre alla solitudine si associava inevitabilmente la morte.
In questo caso non si trattava più di ritrovarsi in una condizione di solitudine all’interno comunque della massa, ma di stringere un legame resistente e solidale con alcuni compagni contrapponendo la forza del gruppo a quella dell’ambiente. La forza dell’intima comunione con l’altro produceva i suoi effetti non solamente sul piano delle possibilità operative, ma anche, e sopratutto, dal punto di vista psicologico.
Quando la volontà cominciava a cedere sotto i colpi incessanti della fatica, della fame, dell’orrore, la presenza di un compagno accanto, pronto a farsi carico del proprio momento di debolezza poteva fare la differenza tra la vita e la morte. La necessità di una tale solidità di rapporti all’interno del gruppo, piccolo o grande che fosse, faceva sì che la si ricercasse innanzitutto tra coloro con i quali già si aveva una relazione consolidata dal tempo e quindi maggiormente in grado di resistere alle difficoltà imposte dagli eventi: parenti, amici, commilitoni di lunga data.
“Eravamo tre amici carissimi […] Giurammo reciproca assistenza, in ogni momento; questo solenne impegno non venne mai meno. Ognuno ebbe momenti difficili…In quei giorni conoscemmo davvero che cosa era la steppa russa: là, da soli, uno dietro l’altro, in mezzo a un mare di neve, sferzati dal gelido vento […] Ognuno di noi tre incontrò ore di avvilimento, di sfiducia, di imprecazioni, ma sempre l’amico vicino riportò la fede, la volontà, la determinazione di proseguire sulla via della salvezza”.
Dalla lettura delle memorie dei reduci traspare la presenza di tre momenti principali nei quali si concretizza il rapporto con l’altro e con la massa: l’istinto del gregge, nel quale l’uomo, spinto dalla paura, ricerca, più che la solidarietà con il compagno, l’unione individuale con la massa; la forza del gruppo istituzionale, intesa come ricerca della solidità che scaturisce dall’essere parte di un’unità militare organizzata a prescindere dalle sue dimensioni; la solidarietà del legame intimo, intendendo in questo caso la ricerca di un sostegno basato su di un rapporto personale anzichè istituzionale, e quindi più importante sotto l’aspetto psicologico.
Questi tre momenti non erano distinti tra loro, non corrispondevano a fasi evolutive delle dinamiche relazionali, per le quali si passava progressivamente dall’una all’altra, ma erano invece presenti e caratterizzavano, contemporaneamente o in alternanza, le relazioni dei soldati in ritirata. Questo non significa che atteggiamenti di solidarietà e generosità nei confronti dei compagni fossero presenti solamente all’interno del gruppo, qualunque esso fosse, o tra membri del gruppo.
Numerose sono le testimonianze di episodi nei quali, anche tra perfetti sconosciuti, ci furono soldati che rischiarono la loro vita per la salvezza o i bisogni di qualcun’altro, e questi episodi acquistano ancora maggior valore proprio per la situazione nella quale si manifestarono. Si è già detto dell’ intensità degli sforzi psico-fisici e della loro influenza sulle possibilità di portare aiuto agli altri, allo stesso modo l’abitudine all’orrore, che spinge all’indifferenza nei confronti delle sofferenze altrui, rendeva sempre più difficile il manifestarsi di sentimenti pietistici.
“Fui abbandonato in mezzo alla steppa, piuttosto discosto da dove stavano defluendo le truppe italiane. Mi vidi perduto […] Quando tentai di risollevarmi, ebbi come la sensazione di essere mutilato alle gambe: al di sotto del ginocchio non le sentivo più […] Nonostante tutto ero ancora disperatamente legato alla vita… Il miracolo della fraternità si ripeteva: mi raccolsero come un bambino sperduto, accollandosi nuovamente un fardello che io pensavo avrebbe intralciato i loro movimenti e insidiato forse la loro stessa sopravvivenza”.
Nella ritirata episodi e sentimenti, anche in contrasto tra loro, si manifestavano e si susseguivano in continua alternanza, in questo senso anche la pietà e la generosità non mancavano di alternarsi con l’egoismo e l’indifferenza. Strettamente legato, pure se all’opposto, con il concetto di gruppo e di dinamiche relazionali con l’altro, è il tema della solitudine.
Nelle memorie il rapporto con la solitudine sofferta durante i giorni della ritirata si concretizza sotto due aspetti principali e, anche in questo caso, in contrasto tra loro: la paura e la ricerca della solitudine. La paura di restare soli, di non poter contare sull’aiuto di nessuno, è strettamente legata all’importanza e alla necessità dell’inserimento nel gruppo ai fini della propria salvezza e del proprio equilibrio mentale.
Quando la solitudine non costituiva una scelta volontaria e consapevole, la scomparsa di quell’ancora di salvezza costituita dal gruppo poteva avere effetti disastrosi non solo sulle possibilità fisiche, ma anche, e sopratutto, sulle capacità di resistenza mentale all’ambiente circostante.
“Quel senso di solitudine che sa di ostilità, che ti tronca le energie fisiche e morali, e vedi la morte in ogni dove, la senti che segue i tuoi passi […] E senti la vanità di tante cose: la inutilità di aver fatto progetti, di aver ricorso alla volontà per affrontare rischi e pericoli ed al coraggio per vincerli… ed ecco che un pugno di neve ti contrasta, ti arresta, ti potrebbe vincere, e tu devi necessariamente concludere che poco vali, che nulla sei in mano al destino, di faccia alle imponenti forze della natura, di fronte al mistero della vita e della morte”.
Ecco che proprio dalla conoscenza e dalla paura dei mortali effetti che la solitudine provocava sulla volontà di opporsi ad una realtà così feroce ed opprimente, che scaturisce la consapevolezza della forza prodotta dalla comunione con l’altro. Il ritrovarsi improvvisamente da soli a lottare per la propria salvezza metteva radicalmente a nudo tutte le debolezze e tutte le incertezze che la presenza dei compagni di sventura era riuscita a sopire dentro l’animo.
Altra importante considerazione sulla paura della solitudine scaturisce dalla constatazione che, quando questa non costituiva una scelta, era spesso dovuta ad una menomazione del fisico come una ferita od un improvviso calo di energie. In questo caso alla solitudine si aggiungeva la consapevolezza che senza l’aiuto di un compagno la morte sarebbe stata inevitabile, rendendo così la propria situazione ancora più angosciosa e tormentata.
Questa era, ad esempio, la condizione dei feriti che venivano trasportati con gli slittini trainati dai muli, alla totale mercé degli avvenimenti, e che dovevano essere abbandonati quando in sovrannumero rispetto alle possibilità di trasporto. Questi non potevano partecipare alla quotidiana lotta per la sopravvivenza cadenzata dalla ricerca del cibo, dell’acqua e dalla competizione per il possesso delle isbe: la loro sopravvivenza era completamente nelle mani dei loro compagni, un tale senso di impotenza non poteva che acuire la paura della solitudine.
“Sopra una montagnola di rifiuti coperti di neve, si dimenavano due uomini. Uno resosi conto che io l’osservavo, mi gridò con voce angosciata: – Signor tenente! Non abbandonatemi signor tenente! – . Mi avvicinai. Aveva le gambe rotte per un colpo di mortaio; era, disse, in quello stato già da qualche ora […] Soldati passavano radi e frettolosi lungo la strada, e non si accorgevano, o non si curavano di loro. Intorno a quei due c’era soltanto solitudine: la stessa solitudine glaciale che da qui si vedeva perdersi nelle nebbie lontane. Tutti i fratelli vicini non c’erano”.
La solitudine poteva però essere anche una scelta. Anche i gruppi di uomini che decidevano di compiere la ritirata in maniera autonoma, senza prendere più ordini da nessuno, facevano in fin dei conti, anche se non proprio individualmente, una scelta di solitudine rispetto alle unità più grandi e rispetto alla colonna. Poteva addirittura verificarsi una sorta di terrore per la massa inerte, per una moltitudine che era però incapace di determinare le proprie scelte, e che subiva passivamente le conseguenze degli avvenimenti.
In questo caso la solitudine diveniva una scelta di ribellione e di vitalità, rispetto all’inerzia e alla rassegnazione fatalistica della massa che poteva anche intorpidire e annientare le facoltà reattive dei singoli individui. Si trattava di una reazione prodotta dall’istinto di sopravvivenza che si sentiva minacciato dalla passività nella quale lentamente si sprofondava, e trasformava la scelta della solitudine dalla forma dell’abietta impotenza a quella dell’aristocratica esaltazione individuale.
“Sentii un rumore di gente che si preparava a partire. Non trovai più nessuno della mia compagnia ne del battaglione. Nel buio persi anche Bodei e rimasi solo […] Era ancora notte e c’era un gran trambusto per il paese. I feriti gemevano sulla neve e nelle isbe. Ma io, ormai, non pensavo più a niente […]
Ero arido come un sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente. Non mi curavo di cercare i miei compagni […] Più niente mi faceva impressione; più niente mi commuoveva […] Avrei fatta la battaglia per mio conto; personalmente; isolato; da isba a isba, da orto a orto; senza ascoltare i comandi, senza darne, libero di tutto, come per una caccia in montagna; da solo”.
Egoismo
Uno degli aspetti più inquietanti, tra quelli prodotti dalla lotta dell’uomo contro l’ambiente, è la competizione e l’indifferenza che si produce nell’animo umano nei confronti degli altri individui. Il continuo confronto, sempre più aspro con il passare del tempo, con gli orrori e le atrocità che si manifestavano all’interno della colonna in ritirata, ebbe presto come conseguenza una sorta di modificazione nella percezione della pietà e della sofferenza altrui.
Gli uomini, affaticati e scoraggiati, divenivano sempre più sordi e distanti dai bisogni degli altri, tutti protesi all’incessante e crudele lotta per la salvezza individuale. In questo caso l’indifferenza e l’abitudine all’orrore non derivava da una scelta consapevole e volontaria, ma si configurava piuttosto come una reazione provocata dalla necessità di non lasciarsi travolgere mentalmente dalla situazione circostante.
Il lasciarsi sopraffare dalle emozioni poteva indebolire la reattività, poteva far vacillare la forza di volontà, trasportando l’individuo verso una rassegnazione ed un fatalismo riguardo le proprie possibilità di salvezza, che costituivano il presupposto del disfacimento delle capacità di reazione.
“Nella sacca non passava momento senza che succedesse qualcosa di indimenticabile e stupefacente […] La pena e la pietà per coloro che andavano via via mancando lungo la strada o in qualche scontro o che non ripartivano da un’isba, erano minime; e venivano cancellate da sempre nuovi orrendi eventi, o emozioni, o spaventi […] Ma la scarsa pietà che provavo nei riguardi del prossimo bilanciava con la ugualmente scarsa pietà che sentivo per me stesso. La vita mi premeva, si capisce; ma sempre di meno ad ogni ora che passava”.
Le energie fisiche erano di fondamentale importanza per la sopravvivenza, ma non meno lo erano quelle psichiche. La sorte dei soldati che perdevano la volontà di andare avanti ad ogni costo era segnata in partenza se non si riusciva a recuperarla: la morte si trasformava con facilità in una liberazione attraente. Riuscire a difendersi dall’insidia delle emozioni diveniva pertanto importante quanto il trovare del cibo o il riparo accogliente di un’isba, e l’unico sistema per difendersi dalle emozioni era quello di cancellarle, o quantomeno ridurle al minimo.
Mano a mano che si riducevano le energie fisiche e psichiche, si riduceva di conseguenza la disponibilità a lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle sofferenze altrui. Questo progressivo degrado del livello di solidarietà tra gli uomini che erano in marcia lungo la colonna comportava una serie di conseguenze, tutt’altro che positive, che si riflettevano nei rapporti tra individui e tra gruppi. Si manifestava un indebolimento della moralità nei comportamenti reciproci, ed inoltre cominciava ad emergere una vera e propria ostilità nei confronti del prossimo.
Dalla lettura delle memorie emergono spesso, tra gli episodi che si verificarono durante la ritirata, comportamenti che sono inspiegabili se estrapolati dalla realtà del contesto e nettamente in contrasto con il cameratismo e la fratellanza che si riscontravano prima della ritirata anche in situazioni altrettanto estreme.
“Si iniziava per me una esperienza nuova: io che avevo sempre cercato nei miei soldati il calore di una amicizia che trascendesse il rapporto gerarchico e ne avevo ricevuto in cambio, specie nei duri scontri dell’estate, una solidarietà incondizionata, mi ritrovavo adesso al fianco di uomini sconosciuti, che indossavano, sì, la mia stessa divisa ed erano pur gente della mia terra, ma che sentivo lontani, quasi ostili. La lotta per la sopravvivenza stava dando i suoi frutti velenosi”.
Sempre sulla spinta verso l’indifferenza, Corti Eugenio:
“Basta darsi da fare per aiutare gli altri… Non era più una ritirata, la nostra: era un insieme di tentativi disperati per sfuggire al massacro che si era già portato via la maggior parte di noi… Finii, dopo ponderata riflessione, col decidere che mi sarei risparmiato il più possibile, per salvare almeno me stesso […] Certamente l’egoismo vinse, quella notte, tanto che me ne rimase poi a lungo il ricordo”.
L’indifferenza, che poteva sfociare facilmente in aggressività nei confronti dell’altro, era una delle conseguenze della competizione per il consumo delle scarsissime risorse alimentari e di quelle logistiche, come le isbe o gli automezzi. La confidenza sempre più stretta con la morte e le sofferenze, sia proprie che altrui, non faceva che aumentare il livello di disfattismo e di noncuranza sia per i compagni che per la sorte comune.
Anche se le condizioni della ritirata furono incredibilmente dure ed imparagonabili con altre esperienze vissute precedentemente, i soldati italiani avevano però già attraversato in altre occasioni momenti di estrema difficoltà, senza che questo avesse comportato una repentina dissoluzione dei legami personali e istituzionali tra di loro.
Durante la ritirata non furono però solamente le condizioni ambientali ad operare in favore dello sbandamento sia personale che collettivo, ma si assistette ad un vero e proprio crollo di tutto l’apparato istituzionale ed organizzativo dell’esercito, che costituiva la necessaria e fondamentale premessa per tutte le forme di solidarietà al suo interno. C’era un legame strettissimo tra lo sfaldamento della struttura militare e quello dei legami individuali e collettivi.
“A volte pretendevo perfino di giustificare il mio egoismo […] In realtà all’indifferenza verso gli orrori in cui eravamo immersi, veniva associandosi dentro di noi, e quasi formando un tutt’uno, l’indifferenza verso la voce del dovere”.
Sotto l’aspetto psicologico e comportamentale si verificò una situazione simile a quella creatasi in Italia dopo l’otto settembre. Anche in quel caso l’improvviso crollo dell’autorità e degli apparati direttivi ed organizzativi lasciò i singoli individui spaesati e confusi sulle scelte da prendere e sulle azioni da compiere. Allo sbandamento istituzionale corrispose uno sbandamento individuale, nel quale diveniva moralmente giustificata e praticamente possibile qualsiasi libera scelta: ci fu chi scelse di abbandonare tutto e ritornarsene a casa e chi scelse di rimanere fedele ad una delle due parti, chi continuò a combattere e chi depose le armi, chi si sentì tradito e chi liberato.
In questo senso anche i soldati che si ritrovarono nelle colonne in ritirata percepirono lo stato di abbandono nel quale improvvisamente venivano a trovarsi, e reagivano di conseguenza, legittimando le loro scelte individuali e reagendo con ostilità a coloro che ne richiedevano il sacrificio in nome di un qualcosa che non sentivano più. Il rispetto e la disciplina nei confronti degli ufficiali e dell’autorità in genere passa il suo fondamento dalla forma istituzionale a quella personale, non si ubbidisce più per il dovere formale, ma solamente se si riconosce il valore di colui che comanda.
“Piegato in due, le braccia penzoloni, mi trascino. Mi attacco a un mulo , poi anche così non ce la faccio più. Rallento, mi attacco a una slitta. Il padrone, uno sbandato italiano, si gira di scatto, bestemmia, mi urla di staccarmi. Mi attacco ancora: quello afferra il moschetto, si alza per colpirmi. Mi scosto, lui mi grida: – Stavolta siamo tutti uguali, è naja anche per gli ufficiali (Con il termine naja nel gergo militare si indicano tutte le fatiche ed i sacrifici straordinari ed usuali che la vita militare comporta).-. Trovo ancora la forza di gridare – porco! – , gli rifilo due manate sul muso. Non ne posso più. Rallento ma non mi fermo. Vado avanti non so come”.
La scelta di vivere la ritirata in maniera individuale trovava quindi agli occhi di chi la intraprendeva, la sua premessa nella difficoltà e durezza dell’ambiente circostante, e la sua giustificazione morale nello sfaldamento del concetto di gruppo istituzionale e nello stato di colpevole abbandono nel quale si sentivano i soldati.
La tragedia dei feriti
Le terribili vicissitudini che ebbero a soffrire i feriti sono già state affrontate in precedenza, ma occorre ritornare sul loro ruolo anche in questa parte, considerato che intorno alla loro figura ruotano alcune delle tematiche che sono state finora affrontate: la sottomissione crudele alle leggi della sopravvivenza, l’abitudine e l’indifferenza all’orrore, la disperazione dell’abbandono e della solitudine.
Per i feriti era impossibile qualsiasi scelta autonoma, ed erano forzatamente costretti a rimettersi nelle mani di coloro che ne avevano cura; viaggiavano ammassati sulle slitte, uno sull’altro, esposti, data l’immobilità, alle mortali insidie del gelo. Per far loro posto ben presto dalle slitte vennero scaricati tutti i generi non strettamente utili ai fini della ritirata, ma nonostante questo le possibilità divennero in breve tempo largamente insufficienti.
A questo punto divenne necessario operare una drastica scelta che coinvolgeva intimamente e direttamente sia coloro che dovevano prenderla sia coloro che dovevano subirla: abbandonare nei villaggi i feriti più gravi ed intrasportabili rimettendo la loro sorte alla pietà dei contadini prima, e dell’esercito sovietico poi. La durezza di una tale scelta, spesso imposta dalle necessità della sopravvivenza collettiva, era espressa dalle reazioni dei feriti abbandonati.
“Arrivai a Kantemirowka, completamente deserta ormai, ma non ancora occupata dalle truppe russe. Percorsi quasi incredulo il desolato centro della cittadina che già conoscevo e, avvicinandomi ad un grosso edificio, proprio sulla strada principale, mi accorsi che tremende grida uscivano da quel luogo, qualche soldato si trascinava senza gambe per la strada; altri senza gli occhi camminavano a tentoni imprecando; urla e lamenti facevano accapponare la pelle: tutti mi chiamavano, tutti mi volevano; erano impazziti dal dolore e dalla paura di essere stati abbandonati.
Dio, Dio mio quale orrore! […] Mi avvicinai ad uno di essi che ancora era vicino alla porta di entrata, era completamente senza gambe. Fu un lampo, mi afferrò per la giacca, mi arrivò alla gola, non voleva che io mi salvassi senza di lui. Soffocavo. Altri si avvicinavano e imprecavano contro di me, bestemmiavano e urlavano; solo qualcuno mi pregava […] La voce mi tremava, forse capivano che avevo paura di loro e tra le loro urla cercai di allontanarmi da quel triste luogo, correndo quasi, tappandomi le orecchie per non sentire”.
Alcuni accettavano con amara e rassegnata serenità il loro destino, consci del fatto che tutto il possibile era stato fatto, per molti altri però l’abbandono veniva considerato alla stessa stregua di un tradimento; allo stesso modo si sentivano molti tra coloro che la scelta la dovevano compiere, sentivano di star tradendo la fiducia e le speranze dei compagni di sempre.
L’orrore quotidiano stava comunque già insinuando negli animi degli uomini quel senso di indifferenza nei confronti di avvenimenti e dolori che non li coinvolgessero in maniera diretta. I feriti e gli sfiancati erano i primi a fare le spese di un tale diffuso sentimento, dato che la loro vita dipendeva invece in maniera diretta dalla solidarietà e dalla pietà degli altri.
La testimonianza del sergente motorista Luigi Beretta:
“Quando qualche soldato non era più in grado di continuare il percorso lo si abbandonava in qualche casa di contadini. Non era cattiveria, ma eravamo talmente sfiniti che anche un minimo peso, quale quello della pistola, mi sembrava pesasse un quintale. Quanti compagni di sventura vidi abbandonare nelle case russe, consci di essere fatti prigionieri, perché sfiniti o febbricitanti. Malgrado l’incitamento dei più forti e coraggiosi, non volevano sentir ragione, ci salutavano con dolore, convinti della loro sorte”.
“Ad un tratto ne vedemmo alcuni, allineati uno accanto all’altro, in ginocchio e con le braccia protese verso di noi. Ci supplicavano, piangendo, in ogni dialetto d’Italia: ufficiali e soldati, divenuti uguali sulla soglia della morte, affidavano a noi, che passavamo facendo quasi finta di non vederli, il ricordo della loro tragedia.
Mi rammento di uno che si era tappezzato il davanti del cappotto di santini multicolori e ci mostrava a mani giunte una foto raffigurante un gruppo di famiglia; altri tentavano di consegnarci biglietti, scritti lì per lì, perché li recapitassimo ai loro cari. Ma la pietà era morta in noi e a spronarci ad un più feroce egoismo si alzò dal costone l’hurra selvaggio dei russi che venivano all’assalto”.
Indifferenza e pietà si alternavano negli animi di coloro che erano costretti a vivere tali esperienze, creando un dissidio interno che lasciava il segno. Dalle memorie emerge una sorta di senso di colpa che i reduci provano nei confronti di coloro che non sono tornati, come se, in un certo senso, si fosse immeritevoli di esser sopravvissuti quando tanti altri compagni sono caduti.
Considerazioni sulle scelte e sulle azioni compiute istintivamente e sotto il condizionamento delle circostanze, provocano quando riconsiderate a distanza di tempo profonde ed amare riflessioni su quello che poteva esser fatto e che non si è avuta la forza di compiere. Anche contemporaneamente allo svolgersi degli eventi il lacerante contrasto interno tra pietà ed indifferenza contribuiva a rendere ancora più pesante il logorante stress emotivo di quei giorni.
Eugenio Corti si era attardato in un villaggio con i suoi uomini, ed aveva perso il contatto con il grosso della colonna, che era partita in anticipo, con tutte le conseguenze negative del caso. Iniziava allora una frenetica e disperata marcia notturna alla ricerca delle tracce e della strada che gli altri avevano da tempo intrapreso.
“Incappammo prima in uno, poi in altri soldati italiani incapaci di proseguire, accasciati al margine di una larga pista di neve battuta. Eravamo capitati sulla strada della colonna! Non solo, ma la colonna non era lontana! […] Nel mio cuore la pena per quei poveri esseri che lì a terra lottavano inutilmente contro la morte, venne soffocata da una frenetica esultanza per ciò che la loro presenza significava… Intanto seguitavamo a camminare. E col pensiero ognuno di noi tornava di continuo agli uomini rimasti nella valletta. Ma nessuno ne parlava”.