ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 24

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Politiche. Titolo Tesi: “La campagna di Russia (C.S.I.R.- A.R.M.I.R. 1941-1943) nella memorialistica italiana del dopoguerra”. Anno accademico 1999-2000.

La ritirata

Le vicende vissute durante la ritirata costituiscono senza dubbio la parte che maggiormente si è impressa nella memoria collettiva dei reduci dalla campagna di Russia. In tutti i testi presi in considerazione i ricordi di quei tragici momenti trovano un largo spazio. In realtà il ripiegamento delle unità italiane schierate lungo il Don non avvenne unitariamente per tutti, ma si svolse in tempi differenti e tramite diversi itinerari a seconda della dislocazione delle truppe in questione.

Il fronte sud iniziò la sua ritirata sotto la pressione degli attacchi sovietici già dal 17 dicembre 1942, e si divise in due blocchi: la colonna a nord, costituita dalle divisioni Torino, Ravenna e da aliquote della Celere e della Cosseria, che si concluse con l’assedio di Certkovo dal 25 dicembre 1942 al 15 gennaio 1943, e quella a sud, costituita dalla divisione Sforzesca più aliquote della Pasubio e della Celere.

Il fronte nord invece, costituito dal Corpo d’Armata Alpino (Tridentina, Julia, Cuneense) e dalla divisione Vicenza, iniziò la ritirata solamente il 17 gennaio, dopo aver invano tentato di tamponare le falle per un intero mese. Le tre colonne maggiori della ritirata percorsero quindi differenti percorsi in differenti periodi, ma questo non incide che parzialmente sulla omogeneità delle vicende vissute, che accomunano tutti gli autori e tutte le esperienze.

D’altronde, come si vedrà più avanti, quelle vissute durante la ritirata sono esperienze che, seppur inserite in un contesto collettivo, restano strettamente individuali. Erano sufficienti poche centinaia di metri di distacco all’interno di una stessa colonna in marcia, o poche ore di distanza, perché cambiasse completamente lo scenario degli accadimenti.

Per questo motivo è assai difficile, sulla base delle memorie, comporre una ricostruzione storica dei giorni della ritirata, che peraltro esula dagli intenti di questa analisi. Quello che invece colpisce sono le reazioni dei singoli individui di fronte alla lotta estrema per la sopravvivenza e alle scelte che questa impone loro.

La dissoluzione dell’uomo

La maggior parte dei soldati che iniziarono la ritirata erano reduci da giorni di aspri combattimenti e da mesi di privazioni che avevano decisamente logorato il fisico e la mente. Ben presto quindi quello che era cominciato come un organico ripiegamento di unità ancora compatte si trasformò in una disfatta nella quale una moltitudine di individui si mescolava confusamente nella ricerca disperata di una via di fuga.

Le unità di retrovia abbandonarono in fretta i depositi, gli ospedali e gli uffici; a queste si aggiungevano sempre più rapidamente la massa di soldati che provenivano dal fronte, anch’essa ansiosa di allontanarsi il più velocemente possibile dal nemico. I pochi mezzi di trasporto che ancora non erano stati usati per la fuga venivano presi letteralmente d’assalto da parte di questa moltitudine in preda al panico.

Se qualcuno trovava un automezzo, o rimediava un passaggio si guardava bene dal farne partecipi i compagni: la stanchezza, la fame, e la percezione di una tragedia imminente stavano insinuando negli animi dei soldati l’egoistica determinazione a sopravvivere ad ogni costo. Il reparto non contava più: si cercavano gli amici, i paesani, ci si accaparrava un posto su una slitta, su un camion, con la forza bruta o magari pagando un pedaggio con i pochi viveri che ci si era portati dietro.

Per gli ufficiali era difficile mantenere la propria autorevolezza, e in ogni individuo la volontà non riusciva più a dominare l’istinto, che anelava solamente a raggiungere, senza badare ai dettami della ragione, senza attardarsi, il territorio amico.

“Ormai era l’ora del si salvi chi può. I soldati ch’erano a piedi cercavano di trovare scampo su qualche automezzo; quelli che già vi erano si rifiutavano di accoglierli […] Diversi automezzi volendo sorpassare investivano quegli uomini e li facevano ruzzolare per poi schiacciarli sotto le ruote. Un automezzo tedesco procedeva affiancato a noi e portava a bordo soltanto due militari […] Tre italiani e un rumeno tentarono di attaccarvisi, ma i due tedeschi, col calcio del fucile, si diedero a percuotere quelle mani che cercavano scampo disperatamente: uno, gridando di dolore, si staccò, cadde e fu schiacciato da un camion che sopraggiungeva.

A tal vista il rumeno tentò di imbracciare il moschetto per fare giustizia, ma anch’egli venne travolto e schiacciato […] Soldati che correvano all’impazzata con la morte alle spalle, per trovare uno scampo, ed invece di venire aiutati per quella solidarietà che generano le disgrazie collettive, si vedevano allontanati, ricacciati, percossi dai compagni […] E questo, purtroppo, e duole dirlo, è avvenuto anche fra italiani e italiani: cameratismo, collaborazione, comunità di vita, li vidi miseramente finire e sommergere nella neve”.

Solo poche unità riuscirono a mantenere a lungo la loro compattezza e il loro equipaggiamento, e fu principalmente grazie ai sacrifici di queste che le colonne in ritirata riuscirono a superare i continui sbarramenti preposti dai russi; per gli altri, gli sbandati, le uniche cose da salvare erano le coperte per ripararsi dal freddo e i pochi viveri che erano riusciti a racimolare prima e durante la fuga. In fondo il nemico principale contro il quale bisognava cominciare a difendersi non era più l’esercito sovietico, bensì l’ambiente circostante e le fatiche imposte dalla ritirata estenuante.

Rapidamente il peso delle condizioni ambientali prese il posto del peso del materiale, e tutto ciò che non veniva ritenuto idoneo alla sopravvivenza, o che era troppo pesante, veniva abbandonato sulla neve: scatole di munizioni, armamento di ogni tipo, zaini e giberne erano diventate un peso ingombrante e inutile.

Anche Catalani Alfredo Luciano racconta della confusione che regnava nei pressi di Popowka all’inizio della ritirata:

“Erano i fanti della Divisione Ravenna, disarmati e laceri, con facce selvagge ed incattivite da sei giorni di combattimenti e di privazioni. Giungevano a Popowka per forza d’inerzia […] non speravano di salvarsi e lasciavano intendere che avrebbero accettato la prigionia senza reagire […] Migliaia di uomini stavano riempiendo a poco a poco la conca di Popowka, i gruppi si allungavano tra i girasoli, vagavano in su e giù come greggi insoddisfatti della pastura e cominciavano già a perdere il contatto con i propri comandanti, a disgregare i reparti, a confondersi tra loro”.

Le energie dei soldati andavano velocemente esaurendosi, sia perché la loro resistenza era stata fiaccata già dai combattimenti nelle trincee lungo il Don, sia perché la fame e la fatica delle marce cominciavano a far sentire il loro peso, sopratutto durante i primi giorni del ripiegamento quando si doveva far perdere le proprie tracce al nemico e i soldati erano costretti a camminare giorno e notte senza riguardi nei confronti del clima.

“Erano morti per la stanchezza: il riposo di due giorni non aveva consentito al loro cuore, sfiancato, di recuperare un minimo di vitalità […] Il loro aspetto rivelava la morte miserabile della fame e della fatica […] Giacevano ai margini delle strade davanti alle isbe, marmorizzati dal gelo. Quelle macabre sculture divennero una componente naturale del paesaggio”.

Dopo i materiali abbandonati di continuo, lungo la colonna, cominciarono quindi a fare la loro comparsa anche i corpi congelati dei soldati che non erano riusciti a vincere la fatica e che avevano ceduto di schianto. Gli uomini camminavano seguendo il flusso della colonna, tutti gli sforzi erano tesi a non perdere contatto, a non farsi lasciare indietro dai propri compagni; la colonna in marcia si allungava, sino a raggiungere le sembianze di un serpente, lungo anche qualche chilometro, che risaltava nel bianco delle distese innevate, e che lasciava come triste testimonianza del suo passaggio parti del suo stesso corpo.

“La colonna, folle fuggente mostro partorito dall’inverno e dalla steppa, non udiva il lamento degli uomini ma solo la sferzante voce del vento; perdeva membra d’uomini lungo il cammino ma proseguiva implacabile, frenetica, rimescolando razze e dolori… e disseminando uomini vivi nella neve, insensibile agli ultimi richiami che ogni caduto levava ai fratelli sordi e pazzi di gelo […]

Il cadavere a infinite riprese rotolava, strisciava, veniva gettato al lato e là rimaneva a gelare finché altre zampe lo riagganciavano nel giuoco diabolico […] Così il moto incessante della colonna faceva proseguire orribilmente anche ai cadaveri la marcia interrotta, come la corrente del fiume fa sostare e ad un tratto
nuovamente riprende e trascina i relitti”.

I soldati in marcia procedevano con lentezza e fatica, la neve farinosa della steppa russa, del tutto simile alla sabbia, faceva affondare i piedi, richiedendo uno sforzo per ogni passo, quando poi si sollevava il vento, questa penetrava dappertutto, nelle scarpe, sotto i vestiti, con le sue punte ghiacciate. Gli uomini protetti malamente contro un clima così duro furono costretti a sforzi al di sopra delle loro possibilità, e divennero ben presto incapaci di qualsiasi altra azione che non fosse il camminare.

Sempre più spesso i soldati si lasciavano andare sulla neve bianca, attraente, si fermavano per qualche minuto, solo per riposare un poco, ma poi erano vinti dalla fatica, la sensazione del freddo spariva, anzi sembrava quasi che la neve fosse morbida, soffice, come un materasso, sembrava possibile appoggiarvisi senza danno, ed a quel punto era difficile riuscire a rialzarsi, occorreva uno sforzo di volontà che non tutti erano in grado di compiere. Morivano così, senza sofferenza, anzi con la felice sensazione di un sonno ristoratore.

I racconti sulla seduzione della morte bianca, per assideramento, sono assai frequenti nelle memorie dei reduci alla ritirata.

“Poi quando meno me l’aspettavo, la stanchezza mi piegò le ginocchia e crollai giù, accasciato sulla neve, cadendo, credo, in un sonno profondo. Ma quasi subito una voce mi risvegliò, era quella di un tedesco […] Era la prima volta, in quei giorni disperati, che coglievo nella voce di un tedesco un barlume di umanità: cercai di alzarmi, ma mi accorsi con terrore che il mio corpo si era rattrappito; manteneva, una volta issatomi a fatica su due piedi, la stessa posizione che aveva assunto quando mi ero messo a sedere.

Pochi minuti erano bastati per trasformarmi in un essere deforme e grottesco […] Ero diventato una statua di ghiaccio, in cui soltanto gli occhi erano mobili, condannati però a vedere soltanto quel metro quadro di neve che mi faceva da piedistallo. Ora la pietà degli altri, se pur vi fosse stata, sarebbe valsa a ben poco: ero già rassegnato a morire e il trapasso sarebbe stato, alla fine, un gradito compenso alle mie sofferenze”.

Catalani fu fortunato a trovare due soldati che ancora avevano la forza di prestare aiuto ad un compagno, e, nonostante le sue proteste per l’inutilità del loro gesto, riuscirono a trarlo in salvo. Ma per molti la morte giunse in questo modo, a terra, con il corpo che ormai non rispondeva più alla volontà e negli occhi l’immagine della colonna che proseguiva inesorabile la sua marcia.

L’impressione che produsse la morte bianca in coloro cui ebbero ad assistervi, o che la rischiarono, è legata ad una serie di considerazioni di carattere psicologico. Innanzitutto questa è il frutto della disperazione scaturita dall’ambiente circostante che produceva un fatalismo ed una rassegnazione nei confronti di una realtà crudele che sembrava non lasciare nessuna possibilità di salvezza.

Quando nell’animo degli individui la consapevolezza dell’inutilità dei propri sforzi superava la volontà dell’istinto di sopravvivenza, oramai unica risorsa energetica disponibile, diveniva insostenibile il peso della fatica e ci si lasciava andare ad una morte quasi consapevole. La morte in questo senso rappresentava una sorta di liberazione, di fuga, dalle sofferenze immani che si stavano vivendo, un rifugio nel quale trovare finalmente la pace a lungo sognata.

Coloro che assistevano a questi episodi avevano chiaramente la percezione di tale senso liberatorio della morte, e questa lucida visione provocava differenti, ma anche coesistenti, stati d’animo. Da una parte la disperazione per i compagni, spesso gli amici, che, sordi a qualsiasi richiamo, si lasciavano morire così, senza lottare per la propria vita, dall’altra, e questo era un aspetto ancora più inquietante, si provava una sorta di invidia per coloro che erano riusciti a vincere la spinta alla sopravvivenza ed avevano trovato finalmente la pace.

“Sono decine, centinaia di cadaveri che fanno ala al nostro passaggio. Per la morte bianca è giunta l’ora della vendemmia. I corpi degli alpini morti di stanchezza e di gelo giacciono nelle pose più strane: seduti, accovacciati, supini. Li guardiamo appena e invidiamo la loro fine, vorremmo essere come loro, al di là di ogni tormenta, nel sonno che non ha più risvegli. Dormire: ecco ciò che chiede il corpo, ecco il primo passo verso la morte bianca. Quanti hanno ceduto alla tentazione e non sono più tornati”.

“Mi martellavano nella mente, e nell’animo, e nel cuore, le disperanti parole di quel comunicato tedesco: – ….cercando disperatamente una via di scampo, che….non sarà loro concessa – . E allora?! E allora… eccoli là….beati quelli che l’hanno finita, mi veniva… eccoli là… E mi veniva di invidiare quelli che si trovavano disseminati – cadaveri – lungo le piste e le strade che percorrevamo: finiti, per sfinimento… che poi si erano buttati giù… a riposare… a dormire… su quella neve bianca… e non sentivano più niente… e non vedevano più niente… e non soffrivano più niente… Riposavano… per sempre”.

La guerra ha tra le sue caratteristiche quella di inserire coloro che ne sono coinvolti in un contesto di orrori e brutalità quotidiano, in grado di far vacillare anche le menti più resistenti e più salde. Gli individui, posti di fronte all’eccezionalità di tali spettacoli, rimangono inizialmente turbati nel passaggio da una vita pacifica e strutturata su determinati valori morali, ad una nella quale sofferenza, dolore e morte costituiscono l’ordinarietà.

L’inevitabile reazione emozionale che si produce allora nella mente dell’uomo è quella dell’abitudine e dell’indifferenza di fronte all’orrore quotidiano. Tale indifferenza corrisponde ad una naturale risposta emotiva che ha la funzione di salvaguardare l’integrità psichica dell’individuo, che rimarrebbe altrimenti profondamente scossa dal continuo confronto con una realtà così terribile e dolorosa. Questa sorta di inconscia autodifesa ha però la contropartita di rendere sempre più difficile la separazione tra l’eccezionale e l’ordinario.

Quando per autodifesa si raggiunge l’abitudine all’orrore, e quando tale stato si protrae per un lungo periodo di tempo, c’è il rischio che la realtà circostante venga percepita, inconsciamente, non più come una dolorosa parentesi, ma come un’immutabile e permanente stato di cose.

“Un odio infinito faceva maledire quel mostruoso regno di gelo e la forza vitale che ancora costringeva a percorrerlo impedendo di lasciarsi cadere sulla neve e farla finita con l’inaccettabile patire. La morte stessa aveva un suo richiamo tranquillante, tanto da apparire gradevole e amica, poiché era riposo”.

“Valeva la pena di fare tanti sacrifici, per poi rimanere morto in mezzo a quella maledetta palude gelata…o non era meglio lasciarsi andare senza voler insistere tanto contro una Natura selvaggia… La realtà l’avevo lì davanti agli occhi: disperazione e nulla più. Eppure volevo vivere; chissà perché?”

Durante la ritirata la durezza dell’ambiente circostante, il quotidiano confronto con un orrore aldilà delle parole, raggiunsero dei livelli difficilmente sopportabili; a questo si aggiungeva uno stato di logoramento degli individui provocato dalla fatica, dalla fame, dalla sete che era in grado di abbattere anche gli uomini più resistenti sia sotto l’aspetto fisico che psicologico. In questo stato di cose era facile che si manifestasse, negli animi dei soldati, il crollo della speranza di salvezza, la convinzione della vanità dei loro sforzi: se non si riusciva a reagire si stava già cominciando lentamente a morire.

Si operava come un’inversione per cui alla realtà, sporca, corrotta e dolorosa, si contrapponeva una morte intesa come pulita, liberatoria, senza dolore e senza sofferenze, e per questo ancora più attraente.

Anche Gambetti Fidia non sa spiegare con le parole da dove traesse la forza per non lasciarsi andare:

“Qui, con la faccia nella neve, vien voglia di abbandonarsi, di prendere una posizione comoda per dormire. Addormentarsi e non pensare più a nulla. Soltanto il peso morto delle giberne che puntano come pietre nello stomaco e i crampi della fame simili a una mano crudele che frughi nelle viscere senza pietà, impediscono ancora di lasciarsi andare. C’è anche qualcosa d’altro, forse, ma è troppo difficile da spiegare”.

Era come tornare al concetto antico della morte. Lo storico francese Philippe Ariès nel suo celebre libro “Storia della morte in Occidente” ha rilevato come ci sia stato un cambiamento nella rappresentazione della morte nel corso dei secoli. Dalla fine dell’ottocento in poi la morte, come anche la malattia, è divenuta un fatto pauroso, da nascondere, da vivere in maniera solitaria e riservata, al punto che non se ne osa pronunciarne il nome.

Nei secoli precedenti invece la morte non aveva una connotazione così negativa, ma veniva accettata come una componente stessa della vita con molta più naturalezza e familiarità, la morte era vicina e indifferente, al punto che Ariès la definisce: morte addomesticata, in contrapposizione alla morte proibita del ventesimo secolo.

“La morte era una cosa semplicissima. Quando Lancillotto, ferito, sperduto, si accorge, nel bosco deserto, di aver – perduto perfino il potere del suo corpo – , crede di essere in punto di morte. Allora cosa fa? …Si spoglia delle armi, si sdraia tranquillamente per terra: dovrebbe essere nel suo letto”.

La morte serena, quasi felice, presupponeva da una parte la coscienza della fine incipiente, dall’altra la possibilità di adempiere al rituale del coricarsi in attesa del suo arrivo. La stessa cosa avveniva nelle steppe gelide della Russia: il soldato ormai fiaccato nello spirito e nel fisico, sentiva le energie vitali che lentamente lo abbandonavano fino a rendergli il corpo indifferente ai comandi del cervello.

A quel punto si accasciava sul manto nevoso, soffice e attraente, proprio come dovrebbe essere un letto di morte, e così si lasciava morire. Un’altro aspetto che contribuiva a rendere attraente la morte era, oltre all’assenza di dolore, l’assenza della decomposizione. Sempre Ariès definisce la decomposizione come: “il segno del fallimento dell’uomo”; insieme al corpo, che scompare mescolandosi con la natura, è come se si assistesse all’annientamento della personalità.

Il congelamento del corpo invece lascia intatta la propria fisicità, che si armonizza con la natura, anziché scomparire in essa, dando l’impressione che, come il corpo, anche la personalità si sia addormentata. Se la morte poteva quindi essere interpretata come una liberazione dalla dolorosa realtà circostante, ci sono anche altri aspetti che possono essere assimilabili ad un tale atteggiamento psicologico: la pazzia e il suicidio.

“Si continuava a marciare. Sulla neve. Ma io ora camminavo sul selciato di una bella strada illuminata da grandi lampade elettriche. La strada luccicava; io vi guardavo riflessa la mia figura. Al termine della strada splendeva una magnifica fontana con un gioco di zampilli luminosi, variamente colorati; intorno tanti palazzi con le insegne accese. Alle mie orecchie arrivava il rumore familiare dei tram e degli autobus.

Udivo anche il brusio della folla. Camminavo verso la stazione ferroviaria per prendere il treno. Avevo un gran desiderio di salire perché ero stanco […] Ancora pochi minuti e mi sarei disteso sui soffici cuscini di un vagone riscaldato. Quel treno mi avrebbe riportato a casa. Camminavo con lena. Ma non riuscivo ad avanzare. Una forza misteriosa faceva scorrere in direzione contraria la strada sotto i miei piedi”.

Queste visioni, a metà tra l’allucinazione ed il sogno, cominciarono a divenire frequenti tra i soldati provati dalla ritirata; naturalmente la forzata assenza di riposo poteva condurre gli individui ad uno stato di sonno pur senza necessariamente dormire, di semicoscienza. Da questo alla pazzia vera e propria il passo era breve: nelle memorie ricorrono con frequenza episodi di soldati che presi da raptus uccidevano i propri compagni per poi scappare urlando nella steppa da soli, o soldati che improvvisamente si denudavano dei loro vestiti e, pronunciando frasi sconnesse, si avventuravano solitari verso una morte certa.

“Un canto sguaiato e senza senso usciva dalla bocca di un alpino che fuori dalle file saltava a grandi balzi sulla neve minacciando con un fucile spianato i compagni in marcia. Uno ne uscì affrontandolo, l’alpino folle fece fuoco con grande allegrezza e l’altro cadde riverso sulla neve. Un secondo nel frattempo era uscito dalla corrente, riuscì ad avvicinarsi alle spalle del pazzo e da retro gli sparò una revolverata nella testa”.

Era quasi come se la mente, incapace di sostenere il peso di tanta fatica e sofferenza, si rifugiasse in un’altra realtà, composta da lei stessa, nella quale trovare quel riposo e quella serenità divenuta ormai esigenza improrogabile. E d’altronde le stesse immagini che ricorrevano alla mente in quei momenti erano indirizzate in tal senso. Erano visioni che si rifacevano alla memoria di casa, dei propri familiari, delle proprie passate abitudini, oppure ad ambientazioni fiabesche, con paesaggi naturali rasserenanti e rassicuranti. Le conseguenze di queste fughe della mente dall’orrore insopportabile della realtà circostante erano però spesso fatali.

Terribile l’episodio accaduto al colonnello Jannelli e narrato da Fusco. Il colonnello, ormai allo stremo delle forze, era finalmente riuscito a trovare un passaggio su di un mezzo tedesco:

“ Ma proprio in quel momento, di fianco al semovente, affiorò un’ombra grande e grossa, agitatissima, gesticolante. – Colonnello Jannelli! – tuonò una voce. – Come si permette di motorizzarsi, mentre i suoi soldati vanno a piedi! E’ questo l’esempio che lei sa dare ai nostri uomini? […] – Mi scusi signor generale – prese a balbettare […] L’anziano ufficiale non si era mai sentito così goffo, così a disagio. Il gigante lo ascoltava con le mani puntate sui fianchi. Poi, di colpo, si mise a rider.

Torcendosi, sussultando dalla testa ai piedi, reggendosi la pancia, Jannelli stava lì, piantato nella neve, sbalordito. Finché l’altro, strappandosi di testa il colbacco peloso, urlò a squarciagola: – Jannelli, vecchio mio, guardami bene! Macché generale e colonnello! Mi riconosci? Sono il caporale di cucina! -. Il colosso impazzito si strappò d’addosso il pellicciotto, i vestiti, le maglie.

Gettò lontano gli scarponi, cantando. Restò tutto nudo, nei tentacoli della tormenta. Salutò militarmente impalato, sull’attenti, serissimo. Quindi fece dietrofront, spiccò la corsa. Si allontanò dalla strada. Sparì nell’ignoto. Un’ora dopo, a Romankovo, raggomitolato nell’angolo di un’isba, il tenente colonnello Jannelli voltò la faccia verso il muro e si mise a piangere”.

“Ad un tratto tutto il mondo intorno a me cambiò. Mi ritrovai di colpo nel salone di un albergo svizzero d’alta montagna…In quel salone però faceva straordinariamente freddo. Chiamavo gli inservienti e domandavo perché non fosse riscaldato ed essi si trasfiguravano in soldati, e mi rispondevano di non saperlo […] Rimasi alquanto in forse, se sdraiarmi sul lucido pavimento del salone e addormentarmi lì. Se avessi preso questa decisione, sarei stato uno dei tanti che si coricavano nella neve, e non di raro, nel giro di qualche ora si trasformavano in blocchi di ghiaccio”.

La volontà di estraniarsi dalla ferocia dell’ambiente circostante si poteva concretizzare anche nella drammatica e cosciente decisione di togliersi la vita; non pochi furono gli uomini che, persa ormai ogni speranza di salvezza, sceglievano di porre volontariamente fine a quel calvario. Il suicidio è l’espressione tragicamente più esemplificativa del meccanismo mentale che rende la morte attraente. Anche questo è naturalmente il frutto della pesantezza imposta dall’ambiente circostante, ma, a differenza di coloro che si abbandonavano sulla neve stremati dalla fatica, il suicidio presuppone una sia pur condizionata scelta razionale.

La volontà in questo caso opera una fredda analisi della situazione nella quale si vive e delle speranze di venirne fuori, e alla fine decide che la morte è preferibile rispetto alla sofferenza che si sta patendo. In questo caso la scelta è resa ancora più dolorosa dal fatto che per porre fine alla propria vita è necessario trovare la forza di compiere un’ azione, e non è sufficiente, come nella morte bianca, cessare di opporre resistenza e abbandonarsi all’ambiente.

Quando mancava la forza per compiere quell’ultimo disperato gesto di salvezza, si poteva giungere ad implorare la pietà del compagno.

“Incontriamo ad una svolta del bosco un soldato ungherese che piange, grida, allarga le braccia. – Che cosa dice? – chiedo. Nessuno mi risponde o forse non ho parlato. L’ungherese ha il ginocchio destro spaccato in due. Dalla orribile ferita spunta un osso rossastro. – Uccidetemi – dice – abbiate pietà di me, uccidetemi -. La colonna procede in silenzio. Vedo un tedesco chinarsi, frugare nella slitta al proprio fianco. Tira fuori una pistola e a passi lenti si avvicina all’uomo implorante. Il tedesco dice qualche parola al soldato dal ginocchio rotto, gli stringe la mano e gli spara in fronte”.

Tutto questo non significa che la morte fosse nelle speranze dei soldati in ritirata, né che la sua forza di attrazione fosse percepita da tutti allo stesso modo. Si moriva sopratutto perché erano le forze fisiche che venivano lentamente consumate e spesso la volontà non era quella di assecondare il proprio corpo, ma quella di tirare ancora avanti, verso la salvezza. Tutti erano ormai giunti al limite, ogni sforzo esigeva il suo prezzo, e andava ponderato con attenzione.

Gli uomini che cadevano a terra sfiniti dalla fatica imploravano, sempre più spesso invano, l’aiuto dei compagni che passavano avanti senza prestargli attenzione. Questo era uno degli aspetti più drammatici della morte lungo la colonna in ritirata: quando non ci si rassegnava alla sconfitta del proprio corpo, quando c’era ancora la volontà di vivere nonostante tutto, e sopratutto a dispetto delle proprie possibilità, gli uomini restavano lì, accasciati nella neve, e non restava altra possibilità che pregare, implorare, commuovere, i propri compagni.

Ma questi spesso non potevano sopportare il peso di una sofferenza che non fosse la propria, e allora passavano oltre, con l’angoscia nel cuore, fino a che le richieste d’aiuto non si spegnevano nel sonno della morte.

“A due passi, un capitano tende le mani, come se chiedesse l’elemosina: trema, piange. – Salvatemi, fatelo per i miei figli, per i miei bambini, salvatemi -. Mi fa pena, fa pena anche agli altri. Migliaia gli sono passati accanto, ignorandolo […] Qui dove tutto è morte, dove basta un niente, una distorsione a un piede, una diarrea, e ci si ferma per sempre, il desiderio di vivere è immenso.

Camminare vuol dire essere ancora vivi, fermarsi vuol dire morire. A migliaia sono stesi lungo la pista, gli sfiniti, i dissanguati: non li degniamo d’uno sguardo, sono cose morte; passiamo correndo. I vivi, poiché molti sono ancora vivi, sentono la colonna che urla, che passa, che marcia verso la liberazione, e tentano di seguirci, magari strisciando”.

Camminare, procedere con qualsiasi mezzo e a costo di qualunque sacrificio: questo era l’imperativo che sentivano tutti i soldati che marciavano lungo le piste ghiacciate. Tutti gli sforzi erano tesi a questo obiettivo, riuscire a rimanere agganciato alla colonna che procedeva, a costo di grandissimi sacrifici, ma inesorabilmente; la simbiosi tra il camminare e il vivere è una riflessione che appartiene alla gran parte degli autori di cui sono stati analizzati i testi.

Nonostante lo sfinimento provocato dalla fatica e dal clima, gli uomini continuavano a marciare, un passo dopo l’’altro, finché diveniva una sorta di automatismo meccanico. La trasformazione degli individui in automi, tutti concentrati esclusivamente al procedere cadenzato della massa, sordi e incuranti dell’oblio che li circondava, contribuiva a dare alla colonna in movimento una fisionomia del tutto particolare.

Questa viene spesso descritta come un torrente, un fiume, la cui corrente inarrestabile tutto travolge e tutto trasporta, e gli uomini che la compongono, privi di qualsiasi energia in grado di dominarne l’andatura e la direzione, non sono altro che sassi, trasportati inevitabilmente dalla sua corrente. La colonna, pur composta da migliaia di individualità diverse, aveva una vita propria, assolutamente indifferente e autonoma dalla vita delle sue
componenti.

“La marcia imponeva le sue leggi ferree e non concedeva respiro… La colonna aveva un’anima propria; era un organismo che pulsava potentemente e trasmetteva per induzione il movimento alle nostre gambe. Eravamo nel vortice di questo moto, che ormai subivamo e al quale non potevamo sottrarci se non per fermarci per sempre… Mi sentii solo in quella moltitudine marciante”.

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