ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 22

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Politiche. Titolo Tesi: “La campagna di Russia (C.S.I.R.- A.R.M.I.R. 1941-1943) nella memorialistica italiana del dopoguerra”. Anno accademico 1999-2000.

La ritirata con l’alleato

Durante l’evolversi della campagna di Russia i rapporti con i tedeschi erano stati difficili, ma nonostante contrasti a volte anche forti, era stato possibile mantenere una sorta di convivenza che aveva permesso il proseguire della comune avanzata. Con il ripiegamento seguente il crollo del fronte sul Don, il distacco che si era prodotto tra le due nazionalità divenne incolmabile.

Durante la disastrosa ritirata i reparti appartenenti a tutte le nazioni alleate, oltre a dover subire e controbattere agli attacchi feroci dell’esercito e dei partigiani sovietici schierati di fronte e alle spalle, dovettero misurarsi con una natura crudele ed ostile, in condizioni di estrema precarietà. Le lunghe marce, di giorno e di notte, per centinaia di chilometri e con temperature rigidissime provocarono più perdite dei combattimenti con il nemico.

L’impossibilità di riposarsi e di trovare del cibo se non nelle isbe dei contadini sempre insufficienti alle necessità delle lunghe colonne in marcia. La mancanza di medicinali e mezzi di trasporto per medicare e trasportare i feriti più gravi, che dovevano essere quindi abbandonati al loro amaro destino di prigionia o di morte. In queste condizioni i vincoli di solidarietà e fratellanza tra nazionalità, gruppi ed anche singoli individui potevano facilmente lasciare il posto agli istinti egoistici propri della sopravvivenza.

“Ora che le tre divisioni alpine, la divisione di fanteria, i reparti tedeschi, ungheresi e rumeni s’erano fusi in un’unica colonna, circa centomila uomini si affaticavano in un corteo lungo forse trenta chilometri, enorme complesso di forze umane già in vario modo minate dalla fame, dal gelo, dai combattimenti, dalla stanchezza… Ma sulla steppa calò la notte fonda, spaventosa di gelo e di tenebre; e gli uomini a poco a poco si sentirono estranei a tutto fuorché alla sofferenza propria”.

Se il confronto con situazioni estreme può spingere gli individui ad esasperare i propri comportamenti e la propria natura, dalla memorialistica italiana scaturisce l’unanime condanna del comportamento ingiustificatamente egoista e restio alla collaborazione dell’alleato nazista durante la ritirata. Nonostante venga riconosciuto l’innegabile apporto fornito dai reparti tedeschi, ancora perfettamente attrezzati, per riuscire a superare i continui blocchi organizzati dall’esercito sovietico, i sopravvissuti al calvario della ritirata non esitano ad accusare i tedeschi di aver contribuito ad acuire le sofferenze dei soldati italiani.

Alla fine dell’epopea con grande difficoltà era ancora possibile parlare di alleanza con il “camerata” tedesco, ma gli alleati di ieri erano divenuti, nella coscienza collettiva dei superstiti, i nemici di domani. Valgano, quale premessa all’analisi del comportamento tedesco durante la ritirata, le amare considerazioni di Terzi Ottobono, quando, oramai in salvo, si trovò nuovamente di fronte ai presunti alleati:

“E’ l’incontro di due eserciti che non si conoscono e che si odiano, che non hanno nulla in comune pur essendo alleati… I tedeschi, che pur avrebbero potuto difenderci… ci hanno abbandonato al nostro destino tragico, rendendo inevitabile il nostro massacro… Siamo tutti affamati… Mi faccio forza e mi avvicino a un carrista vestito di nero che sta affettando una grossa pagnotta militare per chiedergliene un pezzo.

Questi, dopo avermi squadrato dall’alto in basso, con molta flemma e col massimo disprezzo, mi risponde: – Fur einen Russen, ja; fur einen Italiener, nein! – (per un russo sì, per un italiano no)… Se avessi la rivoltella, gli sparerei, ma non posso far altro che rispondergli – sei un porco! – questa volta in buon tedesco, e ritornare furibondo dai compagni, con le lacrime agli occhi e le mani vuote. Questi sono i nostri alleati di oggi… Prepotenti, convinti di poterci trattare come gente inferiore”.

Finché la situazione militare rimase favorevole e si avanzava con grandi sforzi, ma in maniera costante, i tedeschi non ebbero modo di manifestare apertamente la loro scarsa considerazione nei confronti degli alleati minori. Quando però, nel dicembre del 1942, l’esercito sovietico iniziò la sua travolgente offensiva invernale che doveva concludersi solamente tre anni dopo a Berlino, le cose cambiarono notevolmente.

La prima manifestazione concreta di quello che doveva essere l’atteggiamento tedesco durante la ritirata, gli italiani la ebbero quando ancora erano schierati sulla linea del Don. I ripetuti e violenti assalti dell’armata rossa cominciarono a far scricchiolare in maniera preoccupante il sistema difensivo alleato e sarebbe stato necessario, per scongiurare il tracollo definitivo, organizzare un ripiegamento organizzato dei reparti oramai estremamente provati.

Le autorità militari tedesche invece già cominciavano a preservare le loro unità a scapito dei vicini alleati. Già durante gli scontri iniziali, quando si configurava la possibilità di una
rottura del fronte, i comandi tedeschi erano reticenti ad impegnare concretamente le loro forze per accorrere in aiuto degli alleati, adducendo a scusante le più disparate ed implausibili motivazioni.

Quando poi la pressione divenne insostenibile, senza alcuna considerazione delle difficoltà che avrebbero causato e senza alcun preavviso, le unità tedesche si sganciarono dal combattimento, lasciando sulle spalle dei “sacrificabili” alleati tutto il peso della resistenza al nemico.

“Erano i tedeschi che si preparavano a ritirarsi. Una rabbia sorda ci prese. Se essi con i loro automezzi avrebbero potuto sganciarsi, non lo avremmo potuto certamente fare noi che eravamo a piedi. Saremmo stati circondati, sopraffatti, trucidati… Da quella notte i tedeschi cessarono per noi di essere quei semidei della guerra che ci erano sempre apparsi. Cominciavamo a conoscerli troppo bene, ormai, ed a capirne la mentalità…

Erano combattenti di gruppo, incapaci della reazione individuale, dell’azione spontanea, senza ordini, senza obbiettivi ben predeterminati. Nel momento in cui il combattente diventava l’uomo solo davanti al nemico, perché il gruppo, l’organizzazione, non esistevano più, perché il meccanismo si era rotto, l’egoismo individuale prevaleva sopra ogni altra cosa”.

Anche la maniera con la quale venne realizzato l’inaspettato ripiegamento è esplicativa dell’incuranza della sorte alla quale venivano abbandonati gli italiani. Innanzitutto i reparti tedeschi, peraltro già sufficientemente attrezzati, erano stati riforniti, a differenza degli italiani, con il carburante necessario ai loro mezzi di trasporto e disponevano inoltre di una scorta di viveri sufficiente.

Gli italiani, che già disponevano di una scarsa mobilità a causa della carenza di automezzi e dell’assenza di mezzi corazzati, furono invece costretti già all’inizio della ritirata ad abbandonare camion, macchine e artiglierie da traino, diminuendo notevolmente il proprio potenziale bellico e le proprie risorse di equipaggiamenti. Quando poi i tedeschi non ritennero più sufficienti le loro risorse, non esitarono ad appropriarsi, anche con l’uso della forza e delle minacce, degli scarsi mezzi e della poca benzina in dotazione agli italiani.

Tale comportamento, oltre ad essere stato rilevato dagli autori delle memorie analizzate, trova conferma in un ordine emanato dai comandi italiani che invitava ad opporre una ferrea resistenza, anche con l’uso delle armi, di fronte ai tentativi dell’alleato di appropriarsi del materiale italiano.

“Vidi soldati tedeschi, guidati da ufficiali, che travasavano in taniche la benzina di quei pochi autocarri italiani che erano arrivati sin lì. Nemmeno le autoambulanze, cariche di feriti, furono risparmiate: la benzina – dissero – serviva per i mezzi corazzati… che avrebbero potuto consentirci di uscire dalla sacca.

Poteva sembrare un ragionamento logico, ma non lo era per noi, quando ci accorgemmo che lo stesso trattamento non era stato praticato nei riguardi delle loro autoambulanze e dei loro autocarri. Fu un atto di pirateria, e non l’ultimo, che mise a nudo la prepotenza, la mancanza di ogni scrupolo da parte dei nostri alleati”.

Non solamente venivano rubati mezzi e materiali, ma per i soldati italiani non era neanche possibile essere accolti sui camion e sulle slitte dei tedeschi, neanche quando si trattava di feriti, neanche quando c’era posto. I feriti e i congelati italiani venivano scaricati e gettati sulla banchina, dagli ultimi convogli ferroviari che riuscivano a partire prima che la sacca si chiudesse alle loro spalle, per far posto a truppe perfettamente integre dell’esercito tedesco.

Quando, durante la ritirata, qualche soldato italiano oramai allo stremo provava anche solamente ad appoggiarsi ad una slitta per lasciarsi trascinare immediatamente veniva respinto con sdegno e incuranza. Oltre ai mezzi di trasporto anche i viveri non venivano divisi con i “camerati” italiani. Per la verità la mancanza di cibo riguardò anche i tedeschi, anche loro dovettero affaccendarsi nella quotidiana, e spesso vana, ricerca di qualcosa da mangiare nelle misere isbe che si incontravano lungo il cammino.

Quando però le colonne in ritirata cominciarono ad avvicinarsi alle posizioni che erano ancora tenute dai tedeschi, l’efficiente organizzazione nazista riuscì, tramite rifornimento aereo, a far giungere dei rifornimenti alle truppe in fuga.

“Nel pomeriggio comparve nel cielo un aereo tedesco… Conteneva viveri che vennero distribuiti fra le truppe germaniche, gli incappucciati fanti tedeschi camminavano frammisti agli italiani masticando cioccolata e lardo affumicato. Gli italiani guardavano con occhi dilatati, qualcuno non resisteva al desiderio, ammiccava, indicava il cibo e stendeva la mano. – Nein – rispondevano seccamente quelli… – strangolatevi carogne! – imprecavano i delusi deglutendo convulsamente e portando neve alla bocca”.

Certamente la fame era tanta, e l’egoismo connaturato all’istinto di sopravvivenza poteva spingere verso un comportamento poco solidale con il prossimo; episodi del genere potevano capitare anche tra italiani. Gli istinti sollecitati dalle durissime privazioni potevano condurre a comportamenti aggressivi nei confronti del prossimo, e spesso a situazioni di grande tensione.

“Col paracadute, un aereo alleato ha lanciato un grosso cilindro di ferro, pieno di generi di conforto… Tutti accorriamo affamati verso questa manna inattesa. Gli italiani, arrivano per primi, cominciano ad aprire il cilindro per prenderne il contenuto. Correndo, sopraggiungono però soldati tedeschi, guidati da un ufficiale che, urlando, prende per il bavero un soldato italiano, estrae la pistola e gliela punta alla tempia. Tutto questo mentre una cinquantina di soldati si spingono, si urtano, si strappano l’un l’altro di mano i viveri”.

Per fortuna del soldato in questione fu possibile riportare alla ragione l’ufficiale tedesco, ma situazioni simili non sempre si conclusero senza che si passasse alle vie di fatto. Gli episodi che però gli autori delle memorie giudicano più disonorevoli per l’alleato tedesco sono quelli che riguardano il comportamento nei confronti dei feriti, e la lotta per l’accaparramento delle isbe. Se la situazione nella quale si trovavano i soldati in ritirata poteva essere definita tragica, ancora di più lo era per coloro che erano stati feriti in combattimento o che accusavano stati avanzati di congelamento.

I medicinali e gli attrezzi chirurgici erano finiti o erano stati abbandonati, insieme al materiale “superfluo”, nei camion privi di benzina o nei depositi abbandonati frettolosamente. Ben presto sulle slitte, prima cariche di rifornimenti, si andarono accumulando i corpi sfiniti di chi non era più in grado di camminare. Decine di corpi ammassati l’uno sull’altro in pochissimo spazio, esposti, data l’immobilità, al rischio di mortali assideramenti, legati per la sopravvivenza all’altruismo di qualche anima caritatevole.

In queste condizioni il tasso di mortalità tra i soldati feriti gravemente era altissimo, ciononostante diveniva sempre più difficile far fronte alle necessità del trasporto per tutti. Sempre più spesso i feriti gravi dovevano essere abbandonati alle cure dei civili russi nei villaggi che le colonne in ritirata incontravano. I tedeschi non avevano alcuna considerazione per i soldati italiani feriti, le loro esigenze, per quanto urgenti, passavano in secondo piano rispetto a quelle, sicuramente di minore importanza, dei soldati germanici.

“L’uomo colpito alla schiena mi stringeva con la mano un avambraccio, e gridava di continuo – non mi lasciate, signor tenente, non mi lasciate. Se voi mi abbandonate, sono un uomo morto -… Nell’unica stanzetta riscaldata dell’infermeria italiana c’era un solo letto, su cui contavo di coricare il ferito. Su di esso però stavano ora sdraiati due o tre soldati tedeschi. Li invitai con le buone a lasciar libero il posto: niente. Cercai di impormi gridando: ancora niente.

Allora ne afferrai con ambo le mani uno per un polso, lo tirai in piedi e lo spinsi contro il muro. Poi passai a un altro… ma estrasse dalla cintola una bomba a mano munita di manico, e la sollevò sul mio capo a mo di clava. Portai la mano alla pistola. Gli altri tedeschi presenti portarono la mano alle loro armi… Gli uomini che erano con me cercarono di svignarsela. Solo uno mi stava vicino, e mi sussurrava di venir via: – Signor tenente, voi non sapete che brutta gente sono i tedeschi! – … Accomodai infine il ferito alla schiena su una panca nella seconda stanza della casetta: molto inospitale, perché invece di porte e finestre aveva grossi squarci nel muro”.

L’isba era un bene prezioso durante la ritirata, si poteva anche restare digiuni per giorni, ma non si poteva pernottare all’addiaccio senza rischiare di morire per assideramento. Per i tedeschi il fatto che dei feriti italiani potessero costringerli a cercare un’altra sistemazione era inconcepibile, il loro egoismo poteva portarli a considerare i feriti alla stessa stregua dei morti: un inutile peso.

“Mi è capitato di vedere un altro episodio assai disgustoso: militari tedeschi, in fila, si passano l’un l’altro dei nostri soldati, feriti o congelati, come sacchi di segatura, buttandoli poi sulla neve, per potere stare più comodi e larghi nelle isbe. Mentre fanno ciò, alcune sentinelle puntano il mitra su di noi, per timore di una nostra reazione a difesa dei feriti”.

Le isbe non erano mai sufficienti ad accogliere la grande massa di uomini allo stremo. Quando la colonna si avvicinava ad un villaggio si vedevano gli uomini, isolati o a gruppi, affrettare il passo per portarsi davanti, le slitte si scontravano nel tentativo di tagliarsi la strada a vicenda per precedersi. Ogni individuo vedeva nel suo vicino un antagonista, un pericoloso concorrente nella lotta per la conquista di un posto al caldo, di qualche ora di sonno.

Ma le colonne erano lunghe chilometri, e spesso le isbe rigurgitavano di soldati giunti lì ore prima. Cominciava allora la frenetica ricerca di un piccolo spazio, mentre coloro che già si trovavano all’interno s’affannavano a dimostrare l’impossibilità di accogliere qualcun’altro. I disperati sfondavano allora le porte o le finestre e si gettavano sui corpi di coloro che erano già dentro, presto uno spazio di pochi metri quadrati veniva occupato da decine di uomini accatastati l’uno sull’altro.

Alcuni si arrendevano presto e cominciavano ad accendere dei fuochi accanto ai quali avrebbero passato in piedi un’altra notte insonne, ai feriti rimasti sulle slitte venivano aggiunte delle coperte e della paglia, spesso inutili con temperature di trenta o quaranta gradi sotto zero. Altri però non riuscivano a sopportare di vedere la salvezza ad un passo, dietro ad una porta, ma di restarne tuttavia esclusi.

La pazzia alimentata dagli stenti prendeva allora il sopravvento e silenziosamente conficcavano la baionetta nel corpo del soldato più vicino all’uscio, lo gettavano a stramazzare sulla neve e ne prendevano rapidamente il posto. Altri ancora, di fronte all’ennesimo rifiuto, arrivarono al punto di dare fuoco all’isba piena di soldati. La lotta per la conquista di una isba costituisce uno degli aspetti più spietatamente crudeli della ritirata, individui e gruppi si trovavano in una competizione nella quale la vittoria dell’uno poteva segnare la morte dell’altro.

Quando poi gli antagonisti appartenevano a nazionalità differenti allora più facilmente esplodevano violenti conflitti di mentalità e di razza, tra individui esasperati dalla fatica, dalla fame, dal gelo e dal miraggio di un riposo ristoratore.

“Ce la dovemmo conquistare, quell’isba. C’erano dentro, a dormire, scandalosamente larghi e al caldo, ben cinque tedeschi. Che non volevano saperne di farci un pò di posto. Al nostro ripetuto e insistente bussare, non risposero… Insistemmo… – Nein… nicht… – c’erano loro – otto dissero – e basta! E invece per noi non bastava. Proprio per niente. Diedi ordine a due soldati di procedere a furia di spallate… poi, dentro, ce la saremmo vista, con quegli orchi crucchi…

In mezzo alla stanza, moschetto imbracciato puntato contro di noi, c’era, piantato sembrava, un tedesco; mentre altri quattro addossati alle pareti, dormivano, o fingevano di dormire, porcamente… Un pò senza riflettere, un pò con la furia che mi montava dentro… andai difilato dal tedesco… guardandolo dritto e fermo negli occhi; gli alzai la canna, puntata, fino a poggiargliela sulla spalla… lo lasciai là mezzo inebetito, lui, tra lo stupore della mia sicurezza non precisamente cosciente…Ci buttammo subito a dormire, belli larghi distesi”.

Non sempre i soldati italiani riuscivano però ad imporsi sulla tracotante determinazione dei tedeschi. Sopratutto quando non si trattava di reparti ancora organizzati, ma di feriti o sbandati senza armamenti e senza la compattezza solidale di un gruppo, era difficile far rispettare i propri diritti.

La lotta per le isbe coinvolgeva anche gli stessi italiani tra loro. Egisto Corradi ricorda un episodio:“ Eravamo diventati lupi”. L’ex tenente Giuseppe Prisco, poi avvocato a Milano e vice presidente dell’Inter, ricorda che la notte del 24 gennaio, a Nikitovka, perse il contatto con i suoi.

“Tutte le isbe erano chiuse e sbarrate –, racconta Prisco. Avanti di isba in isba, – Bussavo e gridavo e nessuno mi rispondeva – Chi siete?-, -Vestone- rispondevano, ma non aprivano, – non c’è il tenente tale o il tenente tal altro?-, -No!- e non aprivano. Prisco fece alfine il nome di un altro ufficiale amico, il tenente Nelson Cenci. C’era, lo chiamarono senza aprire. Cenci domandò dall’interno: -Chi sei?-, – Sono Prisco, apri!-, – sei solo?- domandò Cenci, -sono solo-, rispose Prisco. Cenci aprì allora la porta dell’isba e Prisco entrò. Ma soltanto perché era solo. – E Cenci-, dirà Giuseppe Prisco, -era un uomo straordinariamente generoso”.

“Adesso capisco perché sono schierati in riga, questi tedeschi della malora: sono organizzati in tutto, questi porci. Stanno buttando fuori dalle isbe i soldati italiani: se li passano come sacchi, anche i feriti, anche i congelati, proprio tutti, sghignazzando. Porci, porci, cani vigliacchi: questi i campioni della civiltà!”.

L’immagine dei tedeschi e del loro comportamento durante la campagna di Russia, per come emerge dalle memorie dei reduci, non è certamente lusinghiera. Anche se le relazioni tra alleati non erano state buone fin dall’inizio, sull’unanime giudizio negativo degli autori pesano decisamente gli incresciosi episodi che si verificarono durante i giorni della comune ritirata.

Le tragiche condizioni nelle quali si ritrovarono per giorni le unità di entrambi gli eserciti erano però talmente estreme che la brutalità e l’egoismo non derivavano esclusivamente da antagonismi nazionali, ma penetravano con facilità negli animi dei singoli individui e potevano rivolgersi contro chiunque.

Come amaramente rileva Nuto Revelli le colonne erano: “come un groviglio di serpi chiuse in un tubo, file e file di uomini che si urtano, che si odiano, che non pensano che a salvare la pelle”.

Il risentimento, il feroce egoismo, l’ira improvvisa, potevano manifestarsi facilmente anche tra italiani, potevano riversarsi anche sui commilitoni con i quali si erano divise tanti momenti di gioia e di sofferenza nei mesi precedenti. Era naturale che quando invece si trattasse di estranei, con un altra divisa, questi atteggiamenti si presentassero più frequentemente e più violentemente. Questo non può giustificare che parzialmente i tedeschi, il cui comportamento non fu che l’esasperazione di una mentalità brutale già manifestatasi in precedenza, ed i cui eccessi superarono talvolta ogni limite.

Di questo ne erano consci anche alcuni tra i tedeschi, come l’ufficiale che confidò a Cristoforo Negri Moscioni, che lo aveva appena scacciato da una isba che era adibita agli italiani: “ – Lei ha ragione, signor tenente, e mi scusi. E sappia che è molto duro portare la vergogna di tutto un popolo. – Poi esce e si perde nel buio”.

La tragicità degli eventi vissuti poneva l’uomo di fronte a se stesso, alla sua spinta verso gli istinti della sopravvivenza, e non sempre l’individuo che scaturiva da questo confronto era migliore di prima. Anche tra le truppe tedesche vi furono però individui che, in tanta sofferenza, trovarono la forza per non lasciarsi andare ai più bassi istinti.

“Erano in arrivo…  due tedeschi di cui uno… si tirava dietro un minuscolo slittino. Senza speranza di essere ascoltato, lo pregai di prestarmelo. Con mia grande sorpresa egli acconsentì, non solo, ma mi aiutò a sollevare l’infermo e a porvelo sopra con la sua miserabile roba… Il tedesco mi aiutò per l’intero percorso, anzi ad un certo punto mi accennò di affrettare, indicando il poveretto: – Kaputt… kaputt… (muore….muore….) -. Mi aiutò anche a portarlo di peso dentro la casa.

Pensai che quell’uomo doveva essere un austriaco… perché un tedesco normale non si sarebbe mai comportato così. Questo pensai sul momento. Mi era infatti impossibile riflettere che, dopo tutto, anche i tedeschi possono nutrire sentimenti di umanità… perché erano proprio loro, i tedeschi, con il loro comportamento, che me lo impedivano”.

Anche Mario Bellini poté sperimentare sulla sua pelle che i tedeschi non erano tutti incapaci di dimostrare una umana solidarietà. Dopo decine di giorni l’assedio di Certkovo stava per essere infranto dalle unità italotedesche oramai allo stremo delle forze; coloro che non erano in grado di provvedere a se stessi sarebbero stati abbandonati negli ospedali della città, e Mario Bellini era tra questi. Il sergente tedesco Cuhy, con il quale Bellini aveva collaborato in quei durissimi giorni, si era affezionato all’italiano:

“Voi non dovete restare a Certkovo. Io vi aiuterò. Quando ci incolonneremo non potrò farlo, ma più avanti vi caricherò su una delle mie slitte e vi nasconderò sotto le coperte. Voi dovrete resistere fino a quel momento -. Si portò la mano sul cuore: – Vi parlo come vostro padre, dovete credermi”.

Bellini non resistette fino all’arrivo di Cuhy, cadde svenuto dopo poco tempo che era iniziata la marcia, si salvò solamente perché fu scambiato per tedesco e caricato su di una loro slitta, fu fortunato ad indossare la tuta mimetica in dotazione alla Wehrmacht.

Quando la ritirata delle diverse colonne si concluse molte cose erano definitivamente cambiate in coloro che erano riusciti a venirne fuori: le sofferenze e i dolori patiti avevano segnato profondamente il carattere. Per quanto riguarda i rapporti con l’alleato tedesco gli episodi vissuti durante la ritirata avevano prodotto da una parte una maggiore conoscenza del carattere dei tedeschi, dall’altra un insanabile distacco tra le due mentalità che aveva trasformato l’immagine del tedesco da alleato in nemico.

Dalla stretta convivenza, per di più in condizioni estreme, derivano negli autori delle considerazioni sulle caratteristiche peculiari dei soldati dell’esercito tedesco. Questi vengono dipinti come combattenti di sicuro valore finché inseriti in un contesto omogeneo e organizzato, la solidarietà e la compattezza del gruppo risultano per il soldato tedesco di fondamentale importanza; quando però il sostegno del gruppo viene meno emergono le debolezze del singolo, che perde tutta la sua fiducia e la sua baldanzosa sicurezza.

Anche l’aggressività, che spesso viene dimostrata dal soldato tedesco, raramente si presenta quando non è supportata dalla presenza alle sue spalle della solidarietà del gruppo: un aspetto della mentalità tedesca che permette alla boriosa tracotanza di piegarsi facilmente di fronte ad una reazione altrettanto decisa.

“Quando apersi lo sportello e afferrai per il bavero l’ufficiale vicino all’autista e gli lasciai andare una sberla secca. Il tedesco impallidì ma non disse né fece nulla… Quella notte mi parve di aver compreso uno dei lati negativi del carattere tedesco, quello di una prepotenza che cede e si piega con facilità estrema ad una maggiore prepotenza”.

Nelle testimonianze ricordate in precedenza, come in molte altre, ogni qualvolta che un tedesco si è trovato di fronte ad individui che non si lasciavano impressionare dalla sua aggressività, dopo aver manifestato un inebetito stupore (non dovevano essere molti coloro che si facevano rispettare) , si verificava l’assenza di qualsiasi tipo di reazione.

La fine della ritirata segnò anche la fine, per gli uomini che ci parteciparono, dell’alleanza con il nazismo. Non che anche prima tutti sentissero convintamente il cameratismo con l’alleato tedesco, ma da quei momenti in poi i due eserciti si sopportarono a malapena, l’indifferenza e l’antipatia si erano trasformate in odio feroce.

“Con l’animo pieno di disperazione maledico i tedeschi, tutti i tedeschi: mi auguro che la Germania perda la guerra, questa maledetta guerra. Sono prepotenti i tedeschi, tutte balle dei giornali il cameratismo. Non ci stimano, ci trattano come servi”.

E ancora, di fronte alla lettura degli ordini del giorno del Duce a ritirata conclusa:

“Come sempre, Zaccardo (maggiore, comandante del Tirano) non ha peli sulla lingua… Parla da galantuomo, dice chiaro e netto che certi ordini del giorno, con le migliaia di morti, congelati, dispersi, sono inutili. – E’ un insulto per i nostri morti parlare ancora di alleanza con i tedeschi: dopo la ritirata i tedeschi sono nostri nemici, più che nella guerra del ’15 – . Parole semplici, che commuovono… da molto tempo voleva parlare così”.

Egisto Corradi alla fine del suo libro ripercorre le tappe di alcune sue visite effettuate presso vecchi compagni d’arme. Per ultimo tiene il ricordo della visita al suo attendente, Apolloni, con il quale ricorda gli episodi della ritirata vissuta insieme ormai a distanza di vent’anni.

“Apolloni abbassa la voce: – E quell’ufficiale tedesco, si ricorda? – , – Quale ufficiale tedesco? – Apolloni mi guarda. – Quell’ufficiale tedesco che gridava raus con la pistola in mano, che voleva buttarci fuori dall’isba quella notte. Sior tenente, lei lo ga copà, non si ricorda? – No che non mi ricordo, sinceramente…- Ma chi lo ammazzò? – Apolloni mi guarda, mi pare di capire ch’egli non crede che io non ricordi…- Lei. Noi. Sì, sior tenente. Cadde giù come al cinema, avvitandosi – Non mi ricordo davvero, non mi pare di ricordarmi…

Beviamo altri due bicchieri, ci avviamo verso il cantiere ci salutiamo abbracciandoci… Salgo in automobile, m’avvio lentamente. Ripenso al tedesco. Mi fermo… Quel tedesco, mi dico. Cos’era, penso, la vita di un tedesco o di un italiano o di un russo in quei giorni? Niente. Niente….”.

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