ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 17

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Università degli Studi di Roma “La Sapienza” Facoltà di Scienze Politiche. Titolo Tesi: “La campagna di Russia (C.S.I.R.- A.R.M.I.R. 1941-1943) nella memorialistica italiana del dopoguerra”. Anno accademico 1999-2000.

Dai testi della memorialistica sulla campagna di Russia emergono una serie di considerazioni autori sulle dinamiche relazionali e comportamentali che si verificano all’interno dell’istituzione esercito: considerazioni che meritano di essere analizzate più approfonditamente.

Anche se un esercito non è un’organizzazione militare indipendente, ma è raccordata all’ordinamento istituzionale dello Stato, in maniera assimilabile alle altre amministrazioni statali, esso ha costituito storicamente anche un’istituzione avente una propria peculiare forza vitale e proprie regole di condotta che lo Stato di diritto ha piuttosto riconosciuto che imposto.

Una delle caratteristiche basilari e quindi irrinunciabili di un esercito è senza dubbio lo spirito di corpo, la compattezza di intenti e sentimenti tra coloro che ne fanno parte. L’importanza che riveste tale aspetto per la solidità dell’istituzione esercito è deducibile anche dalla cura con la quale esso viene stimolato dagli istruttori già durante l’addestramento o durante il servizio di leva.

Un gruppo, quale è un esercito, è un soggetto plasmabile e costruibile, e diviene uno strumento tramite il quale si ottiene da una parte una maggiore efficacia rispetto al singolo, dall’altra un’influenza sui comportamenti individuali che si concretizza in un conformismo suscitato dal gruppo stesso nelle credenze e nei comportamenti.

Questo è dovuto ad esigenze specifiche e fondamentali che l’ordinamento militare deve necessariamente essere in grado di soddisfare, quali l’immediata esecuzione degli ordini e il mantenimento di un’elevata coesione nell’organismo, per evitare pericolosi sbandamenti nelle condizioni di estrema tensione dovuti ad una guerra.

L’esercito, come molte altre istituzioni autoritarie, viene rappresentato come una grande e nuova famiglia in cui i vertici rappresentano i genitori e la base costituisce la prole di cui i genitori si occupano e si prendono cura. Non è un caso che spesso i comandanti dei quali i soldati avevano stima venissero appellati con soprannomi tipo “papà”, “nonno” o similari, proprio a sottolineare come fosse radicata e strutturata questa tipologia familiare di rapporti all’interno dell’esercito.

“Conobbi il comandante: il colonnello Caretto mi accolse nel suo solito felice sistema. Mi fece entrare nella famiglia. Credo che da subito lo chiamai – papà Caretto –.

Ed entrai nell’ambiente! Bersaglieri, bersaglieri, bersaglieri. Ragazzi simpatici, svelti e sempre sicuri come a casa loro. Se avessi chiesto a qualcuno cosa faceva da borghese sicuramente mi avrebbe risposto – il bersagliere – ”.

Il fatto che i rapporti, gerarchici e non solo, all’interno dell’esercito assumessero anche le caratteristiche di un legame familiare rispondeva ad una serie di esigenze ben individuate: innanzitutto in un tale sistema all’autorità propria e formale del grado era opportuno si aggiungesse quella meno formale ma forse più intimamente sentita dell’autorità “paterna”.

La gerarchia militare diviene “personalizzata”, gli stessi rapporti tra gli uffici sono spesso rapporti tra persone, è come se esistessero due tipi di gerarchie: una di grado e una prettamente umana. La personalizzazione dei rapporti all’interno dell’esercito fa sì che le organizzazioni militari siano sostanzialmente autoritarie. E’ proprio per questo che la famiglia esercito è caratterizzata da questa struttura unitaria e verticale, con la definizione di precisi responsabili ai vari livelli.

E’ venuto il generale Messe con il suo aiutante… Gli riferiamo con sincerità che stiamo male, non ce la facciamo più. La fame ci strapazza, i pidocchi ci succhiano il sangue. Il generale si è spogliato del suo grado e ci ha scoperto un cuore di padre. I suoi occhi ci guardavano gonfi di lagrime… Egli è con noi, non contro di noi, è anch’egli contro la guerra”.

Bisogna poi considerare come la sensazione di trovarsi in una grande famiglia sviluppa il senso di appartenenza, rendendo ancora più stretti i vincoli della gerarchia. In questo senso il sentire i propri compagni, i propri superiori, il proprio reparto alla stessa stregua di un nucleo familiare non poteva che rendere ancora più stretti i vincoli già presenti e rappresentati dalla gerarchia.

Il tradimento, la vigliaccheria, il rifiuto di sacrificarsi per il prossimo divenivano in tal modo una colpa doppiamente sentita: da una parte nei confronti dell’istituzione esercito, dall’altra, e cosa ancor più grave, nei confronti della solidarietà familiare.

“L’unità del plotone e della squadra in modo particolare si era formata mirabilmente, si rideva e si scherzava, non sentivamo più timore nei confronti dei sottufficiali e degli ufficiali. Eravamo una famiglia che divideva fatiche e disagi in collaborazione fraterna. Un sardo dei dintorni di Cagliari, era l’unico a non voler partecipare alla nostra familiarità. Staccato, taciturno, sempre pronto a piccole ribalderie ed a schivare fatiche, mangiava da solo e dormiva da solo”.

Accanto ad una solidarietà basata sul rispetto e sul riconoscimento del valore dei propri compagni, che si potrebbe definire quindi spontanea, esistevano però anche degli aspetti più formalizzati, anche di tipo estetico.

Per poter essere efficiente l’organismo militare deve far ricorso a particolari valori anche simbolici, come l’onore, il dovere, lo spirito di sacrificio e quello di corpo. La trasmissione di tali valori simbolici e tradizionali tende a conseguire una forte coesione interna.

L’importanza che riveste la presenza dello spirito di corpo all’interno di un esercito è deducibile anche da alcuni aspetti formali ed estetici che alcuni autori non mancano di sottolineare.

“Un altro coefficiente era senza dubbio costituito dallo spirito di corpo che ci imbeveva rendendoci tra noi solidali e che, bene o male e a torto o a ragione, ci infondeva un sentimento di superiorità.

Al motto – alpin fa grado – credevamo più o meno un pò tutti, così come un pò tutti, sia pure scherzosamente, dicevamo – buffa – invece che fanteria.

Riflettevo talvolta alla interpretazione machiavellica che si può dare del cosiddetto – spirito do corpo – e dei segni (penne, piumetti, mostrine) che visibilmente lo sostanziavano; ma evitavo, quasi per paura, di spingere troppo a fondo l’analisi e di trarne le conseguenze”.

La presenza di questi aspetti esteriori che, come dice l’autore, sostanziano lo spirito di corpo non sono casuali, ma corrisponde ad una logica precisa volta alla creazione di uno spirito solidale tra i soldati da parte dell’istituzione esercito, e tale obiettivo viene raggiunto tramite l’imposizione esplicita o implicita di norme di comportamento.

Le motivazioni che spingono all’utilizzo di artifizi estetici e che l’autore
dichiara di non voler analizzare a fondo sono invece considerate in altri testi analizzati.

“Ciò rientra nel comune fenomeno proprio di quegli eserciti che, non combattendo per la libertà, debbono ricorrere a degli artifizi per stimolare la pigra coscienza delle masse; artifizi e non altro sono difatti lo spirito di corpo, le tradizioni d’arma, le decorazioni e simili cose”.

Dall’analisi delle memorie traspare infatti come lo spirito di corpo si manifesti in realtà non tanto in relazione all’esercito in generale o alla patria o all’ideale fascista, ma più strettamente all’interno della propria unità, del proprio reparto.

Quando non si è intimamente convinti delle finalità che si stanno perseguendo si sviluppa un senso di appartenenza indirizzato non più alla difesa di una causa e di un ideale, ma alle entità più vicine e familiari, nel caso specifico le piccole unità ed i reparti di appartenenza.

Si manifestavano così una serie di contrapposizioni interne fra gruppi, reparti ed unità differenti ma appartenenti allo stesso esercito. La resistenza alla totale integrazione tra i diversi gruppi all’interno dell’organismo esercito non è motivata esclusivamente dalla volontà di mantenere il proprio potere e la propria autonomia, ma deriva più direttamente proprio da quei valori simbolici utilizzati per la creazione della coesione interna e dalla volontà di valorizzare le proprie peculiarità rispetto agli altri.

Il cappellano D’Auria, di fronte al triste spettacolo di altri soldati italiani uccisi in un agguato sovietico, esprime il suo dolore verso i compagni sottolineando però come il legame fosse più forte nei confronti del reparto che in relazione alla nazionalità.

“Tutti italiani, erano, certo, tutti italiani, quei mezzi, e…..quegli uomini: i nostri, e gli altri, anche…Ma…i mezzi, gli uomini del nostro battaglione, li sentivamo, ed erano, più nostri: erano i mezzi e gli uomini del nostro XXX, erano i nostri mezzi, gli uomini nostri!”.

Non era un vincolo di conoscenza personale che comportava una differenza nel grado di percezione del dolore per la morte di altri compagni, spesso sconosciuti quanto quelli di altri reparti. Era invece una sorta di lutto familiare per un parente sconosciuto ma pur sempre parente, solo che in questo caso la grande famiglia non era costituita dalla patria o dalla fede politica, ma dal reparto in senso stretto.

A questo proposito si manifestava una ambivalenza da parte degli organi direttivi dell’esercito. Se da una parte infatti, come già detto in precedenza, la trasformazione dell’esercito in una grande famiglia era un obiettivo ben definito e perseguito con costanza, dall’altra veniva stimolata la competitività reciproca tra i differenti reparti, con l’evidente finalità di migliorarne il rendimento operativo.

Una scelta di questo tipo aveva come contropartita la conseguenza di incrinare la solidarietà generale all’interno dell’istituzione in favore di un grado maggiore cameratismo all’interno dei gruppi più ristretti. Si manifestavano così sentimenti di auto esaltazione delle differenti armi che spesso andavano a discapito dell’omogeneità comune.

Gli alpini ad esempio sentivano fortemente la loro appartenenza, e non si preoccupavano di farla pesare nei confronti degli altri.

“Non ero alpino, facevo parte della gloriosa divisione Cosseria; sì c’eravamo anche noi della – buffa – , anche se tutti ci ignoravano…” e continua l’autore descrivendo l’incontro con un alpino “Arrivati vicino, vidi uno spilungone su due zoccoli di legno e non appena gli ebbi chiesto di che reparto fosse, mi rispose: – sono alpino della Julia –, e soggiunse: – voi pezzi di fessi li avete lasciati passare, ora qui ci siamo noi! –. Assicuro che mi fece male l’insulto”.

Anche i bersaglieri non erano da meno degli alpini in fatto di auto considerazione, al punto che era stata coniata l’espressione “bersaglierismo” proprio per indicare quello spiccato senso di appartenenza al corpo che spesso era più sentito dell’identità nazionale e politica stessa.

“Ogni Alpino vede nell’altro Alpino un fratello, non un altro militare sconosciuto, e questo è anche uno dei motivi per cui gli Alpini valgono di più”.

Un esempio interessante della competitività interna tra differenti reparti è la vicenda della divisione Sforzesca. Questa divisione fu costretta, nell’agosto del 1943, dopo diversi giorni di furiosi e soverchianti attacchi dell’esercito sovietico ad una precipitosa ritirata, che gli costò l’appellativo spregiativo di cikai, che in russo significa scappa, fuggi.

La sua sconfitta anzichè produrre la solidarietà propria del cameratismo militare, la fece divenire oggetto di scherno e derisione anche tra i suoi connazionali.

“Mi sistemano tra alcuni ufficiali della Sforzesca, feriti. Un collega degli alpini mi dice che nessuno saluta gli ufficiali inferiori e superiori della – Cikai – . Negli ospedali ho sempre incontrato qualche ufficiale della Sforzesca, e mai li ho guardati con disprezzo”.

Un altro elemento che contribuiva a differenziare e disarticolare l’omogeneità tra i differenti reparti dell’esercito italiano in Russia è costituito certamente dalle identità regionali con cui venivano composte le diverse unità: le divisioni si distinguevano non solo per i nominativi, i numeri ordinativi ed i colori delle mostrine, ma sopratutto per le loro provenienze regionali.

Che questa sia una esigenza che costituisca un elemento che aumenti il coefficiente di coesione all’interno delle singole unità è un dato certo e assodato dall’esperienza militare. Ma è altrettanto vero che questo poteva comportare il manifestarsi di pregiudizi e rivalità campanilistiche che non potevano giovare all’unità del contingente italiano.

“Un secondo soldato, un meridionale, avendo sentito parlare del pane, cominciò a seguirci a distanza saltellando, e intanto gridava al primo: – Camerata, un pò di pane….camerata un pò di pane….– . Valorzi e io scuotemmo la testa con uno sguardo d’intesa, a significare: – I soliti meridionali! -.

La trita polemica fra settentrionali e meridionali era infatti presente anche al fronte russo, dove anzi si era rinfocolata da quando reclute meridionali avevano dato l’avvicendamento in linea a fanterie settentrionali. Sebbene noi settentrionali non potessimo certo gloriarci di noi stessi, giudicavamo in modo più che mai negativo i meridionali”.

Fronte e retrovie

Se le differenze regionali ed il forte senso di appartenenza ai diversi reparti poteva costituire un elemento disgregante per l’omogeneità dell’apparato esercito, ancora più marcata appare, nei testi presi in esame, la contrapposizione tra prima e seconda linea del fronte, tra i combattenti e coloro che erano adibiti ai vari servizi delle retrovie.

Gli eserciti sono caratterizzati dall’esistenza di due branche differenti e con compiti precisi: da un lato le forze e le unità destinate al combattimento, e dall’altro l’amministrazione, destinata al supporto logistico e amministrativo, agli approvvigionamenti, alle infrastrutture, alla gestione del personale, all’organizzazione dei reparti di trasporto, d’intendenza e di sanità.

Nella memorialistica analizzata compaiono con frequenza considerazioni sulla bassa moralità del comportamento tenuto da coloro che vivevano nelle retrovie. Coloro che operavano nei servizi di sussistenza e nella logistica, raramente a stretto contatto con il nemico, venivano considerati dai soldati della prima linea come degli imboscati, come dei soldati privi di valore e di coraggio, e quindi di minor prestigio rispetto ai primi.

Una tale sensazione di soggezione dovevano effettivamente provarla anche coloro che facevano parte dei reparti di sussistenza che non mancavano mai, nell’incontro con i combattenti, di rimarcare come la loro condizione di “imboscati” non dipendesse da loro, e che avrebbero dato qualsiasi cosa per poter provare il loro valore.

“Lo afferro per un braccio, glielo stringo da fargli male: lo trascino fuori. – Disgraziato imboscato,– gli grido in faccia, – te ne freghi di un collega che arriva ferito dal fronte, tu che sei qui a sbafare ed a far niente tutto il giorno…Si risente, mi dice: – Tu mi dai dell’imboscato, ed io vorrei essere in linea….– . – No, – gli rispondo, – non farlo il cambio, cocco bello: potresti sbagliarla e non portare più la pelle a casa –”.

La contrapposizione, basata su di un giudizio di valore, tra prima e seconda linea portava alla conclusione che esistessero nella realtà dei
fatti due eserciti, divisi e differenti, all’interno dello stesso contingente
italiano. Da una parte coloro che rischiavano la vita in prima persona e
che dovevano sopportare tutto il peso delle difficoltà legate ad una guerra, dall’altra gli imboscati che conducevano una vita tutto sommato tranquilla e piacevole, senza privazioni, e ben difesi dai primi.

“Radio Fante, maligna come sempre, comunicò che a quelli del comando avevano dato una bottiglia di cognac in due, un panettone Motta da un quarto, tre pacchetti di sigarette Tre Stelle e una scatoletta di marmellata Cirio. – Siamo due eserciti: i ricchi e i poveri – dice Baffone”.

Questa differenziazione negativa tra combattenti ed imboscati era naturalmente il frutto di un pregiudizio basato sulle competenze meno gravose e, sopratutto, meno rischiose, che dovevano essere svolte da coloro che operavano nelle retrovie. Dai racconti dei reduci però traspare in maniera innegabile che tali supposizioni sulla bassa moralità del comportamento di molti tra coloro che erano nella sussistenza trovavano frequentemente un riscontro nella realtà dei fatti.

Quando accadeva ai soldati di provare sulla loro pelle la colpevole inefficienza dei servizi e degli ospedali, le ruberie che venivano commesse ai loro danni e alle loro spalle, la presenza di veri e propri commerci con i rifornimenti destinati al fronte e che finivano invece sul mercato nero, la differenza di trattamento in termini di cibo e materiale a disposizione tra loro e le retrovie, la contrapposizione assumeva i contorni di un vero e proprio odio che al momento della ritirata si trasformò in sentimento di rivalsa.

“Ma questa volta si muoveranno anche loro. Diavolo se si muoveranno! Questo pensavo mentre li guardavo affaccendarsi attorno alle loro macchine che portavano le scartoffie o i bagagli dei loro ufficiali o chissà che diavolo. Alle spalle si levavano le fiamme e il fumo degli incendi e si udiva sempre più vicino il rumore delle cannonate. 

Disincantatevi, imboscati, è giunta l’ora anche per voi di lasciare le ragazze delle isbe, le macchine da scrivere e tutti gli altri accidenti che il diavolo se li pigli. Imparerete a sparare con il fucile, venite con noi se volete; per noi, ne abbiamo abbastanza. Pensavo questo, e questo pensiero mi metteva energia”.

Il rancore che scaturiva dalla presa di coscienza della dissoluzione morale presente nelle retrovie dipendeva dalla percezione di sentirsi traditi. Proprio perchè l’esercito era considerato come una grande famiglia coloro che vivevano le difficoltà e le privazioni quotidiane del fronte ritenevano che queste fossero condivise da tutti in egual misura.

La caratteristica fondamentale dell’esercito di costituire un gruppo “corporato” avrebbe dovuto esaltare la natura fortemente coesa delle sue unità che sono in possesso degli stessi diritti nei confronti delle risorse materiali a disposizione del gruppo stesso, e sono investite degli stessi doveri nei riguardi delle altre unità.

La scoperta che coloro che meno rischiavano e da cui meno dipendevano le sorti della guerra non solo vivevano meglio dei soldati, ma addirittura la loro passiva ingordigia era in parte la causa delle difficoltà vissute in prima linea, non poteva che acuire il senso del tradimento e inasprire il desiderio di rivalsa.

Il confronto e la condanna del comportamento nelle retrovie, nelle memorie, si concentra essenzialmente su tre tematiche differenti ma legate tra loro: lo stile di vita e le ruberie commesse dalla sussistenza ai danni del materiale destinato alla prima linea, il malcostume presente negli ospedali e il confronto tra il vitto destinato ai combattenti e quello riservato alle retrovie.

Lo stile di vita

Uno degli aspetti più spiacevoli denunciati dagli autori delle memorie a carico di coloro che avrebbero dovuto occuparsi del sostentamento delle truppe al fronte e del corretto funzionamento dei rifornimenti è senza dubbio lo stile di vita, poco rigoroso e poco rispettoso delle sofferenze patite al fronte, che si conduceva nelle retrovie assieme alla sottrazione di parte del materiale che spesso finiva per alimentare il commercio clandestino.

La prima differenza tra la vita al fronte e quella in seconda linea che colpisce gli autori delle memorie è l’esasperata burocratizzazione che caratterizzava lo svolgersi delle attività logistiche in confronto all’immediatezza e all’estemporaneità della vita al fronte.

Allo schema tendenzialmente rigido dell’assetto delle amministrazioni civili avrebbe dovuto far riscontro una prassi organizzativa più elastica e maggiormente flessibile, assolutamente più adatta alle necessità di coloro che invece facevano parte dei reparti operativi del contingente italiano.

“Soltanto comandi uffici e piantoni spuntavano fuori ad ogni pretesto: gente ben nutrita e molto sicura di se, talvolta arrogante, che sembrava concepire la guerra come una faccenda di bolli e di firme e credeva fermamente in una prossima vittoria perché leggeva i giornali”.

La contrapposizione interna al contingente italiano tra appartenenti alla prima e alla seconda linea nasceva e si sviluppava proprio intorno al differente modo di vivere ed intendere la guerra. Mentre i soldati al fronte erano stati costretti dalla situazione ad abbandonare tutte le forme ed i costumi propri della vita civile, nelle retrovie, dove sicuramente minore era il peso delle difficoltà, si cercava di ricreare lo stile di vita vissuto in patria.

Grande parte dell’amministrazione continuava a comportarsi come se si trovasse a svolgere la quotidiana routine burocratica in tempo di pace,in tutto simile quindi alle altre amministrazioni dello Stato, anche se i suoi funzionari erano dei militari, e come tali responsabili delle esigenze della parte operativa dell’istituzione di cui facevano parte, cioè i soldati combattenti.

Migliaia di ufficiali e soldati erano quotidianamente indaffarati nelle procedure burocratiche, spesso tanto rigide quanto inutili, del tutto convinti che le loro occupazioni fossero indispensabili ai fini bellici.

Molti di questi ufficiali davano l’idea di essere partiti per la Russia alla caccia di facili e prestigiose onorificenze, da sfoggiare con orgoglio al ritorno in patria, senza voler rischiare nulla e senza voler rinunciare alle comodità lasciate in Italia. Agli occhi di chi rischiava la vita e vedeva morire i suoi camerati ogni giorno, la vita di questi impettiti ed arroganti burocrati non poteva che sembrare una offesa alle loro sofferenze.

Gli “imboscati”, era questo il termine con il quale indistintamente e senza differenze per i vari servizi venivano chiamati tutti coloro che non si trovavano in unità operative al fronte.

“Come lascio l’ufficio del colonnello vedo che l’Intendenza è piena di gente, di imboscati. In ogni ufficio tre o quattro ufficialetti, tutti grassi e tutti belli: sono i figli di papà alla caccia di nastrini….Il cassiere, un giovane di Torino, ci racconta questa storia: – …Partirono dall’Italia le tradotte di vestiario, stoffa, manufatti di lana, stivali, scarpe, ecc…Nel giro di quindici giorni l’Unione Militare svuotò i magazzini vendendo tutta la merce ai civili russi, a prezzi favolosi –…Usciamo con la speranza di respirare un pò d’aria meno fetida. In giro non si vedono che ufficialetti in diagonale e stivaloni.

E sono pieni di arie i conquistatori, i figli di papà. Si vedono capitani e maggiori con straccione e sgualdrine sottobraccio…Non riesco più a stupirmi di nulla. Perfino in linea si diceva che nelle retrovie i baldi ufficiali italiani si arricchivano commerciando: si diceva che in alcune città gli ufficiali italiani vendevano tranquillamente sui mercati, al dettaglio, sigarette, viveri, equipaggiamento”.

Oltre al formalismo dell’apparato burocratico contrastava nettamente con la situazione vissuta al fronte l’alto tenore di vita e le risorse alle quali avevano accesso coloro che nella realtà ne avrebbero avuto meno bisogno. I soldati e gli ufficiali delle retrovie svolgevano lavori d’ufficio e alloggiavano nelle confortevoli strutture che un centro abitato poteva mettere a disposizione.

Potevano usufruire, prima dei combattenti, dei rifornimenti e del materiale che veniva inviato dalla medrepatria, e del quale loro si occupavano. Avevano la possibilità di svagarsi nelle strutture (cinematografi, teatri, case di tolleranza, ecc.) da loro stessi create per vincere la noia della vita di retrovia.

“ – Parlaci di Rikovo, di quello che hai fatto –. -Sono stato bene. Ci sono belle donne; ho fatto un pò la vita. Ho conosciuto una ragazza e tutti i giorni l’andavo a trovare. Dall’ospedale uscivo con un infermiere del mio paese.

Egli mi dava anche il cioccolato da portare alla ragazza. Hanno tanta roba all’ospedale! I soldati che stanno a Rikovo centro hanno il pastrano con il pelo e il vestito nuovo. Non fanno niente. Ci sono di quelli che hanno imparato a sciare –.- Noi abbiamo imparato a digiunare – dice Maragna-.

La sera poi vanno a ballare. A Rikovo vi sono sale da ballo; vi è il postribolo per quelli che non si sono fatta la fidanzata…vi è un bar, un pianoforte suonato quasi in continuazione da una ragazza. Le ragazze del postribolo sono tutte belle”.

Gli ufficiali della retrovia vivevano in una atmosfera ovattata, molto più distante dalla battaglia dei chilometri che realmente la separavano dal fronte.

“Quanto a quegli altri che stanno sulle linee per dare sicurezza ai loro ozi ed alle loro rapine, nessuno ne ricorda nemmeno l’esistenza”.

La vita scorreva placidamente come se la guerra fosse un affare che riguardasse altri, in un ambiente del tutto simile, perchè così era espressamente voluto, a quello lasciato in Italia. Nelle mense si poteva trovare ogni tipo di cibo, anche quelli più esotici, vini e liquori di ogni genere, mentre ai soldati al fronte toccavano, se fortunati, pochi cucchiai di cognac a settimana.

Le abitudini erano mantenute con feroce determinazione, guai se qualcosa avesse turbato il pacifico svolgersi della vita.

“Dopo cena fiorivano gli scoponi e il tresette; frequenti le cenette intime ed i simposi robusti. La domenica si mangiavano le tagliatelle e c’era l’antipasto ed il dolce; la coscienza era già stata messa a posto assistendo al mattino alla messa…Di sera s’attendeva che la radio comunicasse i risultati del campionato di calcio e l’ascesa del Livorno era considerata con simpatia anche se con incredulità”.

Se lo stile di vita e le comodità di cui potevano usufruire gli addetti ai servizi lasciavano stupiti e interdetti coloro che invece vivevano le difficoltà del fronte, il senso di tradimento e di colpevole e negligente abbandono, si acuiva quando si veniva a conoscenza del sistema grazie al quale quello stile di vita era stato reso possibile.

Anche se non può essere considerata una norma generalizzata numerose sono le testimonianze sulla disonestà e sulle ruberie perpetrate dalla sussistenza, tanto sui viveri quanto sui vestiari, ai danni dei rifornimenti destinati ai combattenti.

Le sottrazioni dei generi di conforto avvenivano sia per egoistica e ingorda volontà di migliorare la propria condizione, sia per alimentare il florido mercato nero grazie al quale numerosi e disonesti ufficiali stavano accumulando delle piccole fortune ai danni tanto dei combattenti quanto dei civili russi.

“Brutta gente questi sfaticati: mangiano, vivono al caldo, guadagnano, hanno la certezza di tornare sani e salvi a casa, e si lamentano e dicono che in Italia c’è gente che vive meglio. Si fanno i quattrini rubando sulle nostre razioni, commerciano: tramite gli ufficiali che rimpatriano con i treni ospedali spediscono in Italia i marchi.

Vendono le uova agli ufficiali feriti o malati, a sette lire l’una: roba da sparare. Sono gli incarichi speciali, i privilegi, il pessimo esempio dei superiori, che li riducono così: forse erano uomini normali, adesso sono lazzaroni…Se la più grave punizione a carico di un ufficiale ferito consiste nel rispedirlo al fronte, si sbagliano. Molti ufficiali, piuttosto di vivere in queste maledette retrovie, preferiscono tornare in linea al più presto. Io sono tra questi. Là almeno si soffre in molti”.

Era la mancanza di solidarietà nella quale si concretizzava il tradimento che feriva maggiormente l’animo dei combattenti. I sacrifici, le sofferenze, la morte, erano sopportate in virtù del fatto che nella grande famiglia dell’esercito tutti dovevano compiere il loro dovere se si volevano raggiungere gli obiettivi comuni.

Il senso di appartenenza era qualcosa che avrebbe dovuto portare al superamento delle esigenze individuali, al percepirsi come un “noi” il cui presupposto era lo scopo comune del gruppo. Il fare il proprio e il sentire come proprio da parte di ciascuno l’obiettivo comune implica condivisione, accomunamento, un’unione che oltrepassa i singoli e che dà vita, nella subordinazione degli interessi particolari all’interesse generale, al costituirsi di un corpo di regole morali.

La scoperta invece che proprio la grande famiglia, in questo caso intesa come la parte istituzionale e organizzativa dell’esercito che avrebbe dovuto avere il compito di sostenere coloro ai quali erano richiesti i maggiori sacrifici, era in buona parte la responsabile delle loro sofferenze, produsse un disfacimento nella solidarietà tra i diversi gruppi e un senso di sfiducia e di abbandono che spesso sfociava in aperto rancore.

“E’ sempre così il rancio? – chiede Martinuzzi. – Oggi perché ci siete voi è abbondante. Per riempire lo stomaco diamo la caccia ai gatti, qualcuno anche ai cani…–. – Questa razione me la chiami abbondante! In Italia quando ci lamentavamo, gli ufficiali rispondevano che la pasta andava ai combattenti; tutto andava ai combattenti …

-Sì, agl’imboscati del comando, a quelli che hanno la donna da sfamare e non parliamo di quelli che sono al quartier generale! –. -E quelli dicono che fanno la guerra, però non vengono a darci il cambio.– -Ci vogliono con la croce di legno sulla fossa!– – Speriamo nella rivoluzione per andare a casa.–”

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