ARMIR, IL DRAMMA DELLA RITIRATA – 14

a cura di Cornelio Galas

Fonte: Giorgio Rochat, “La campagna di Russia 1941-1943 – Rassegna Bibliografica”

E’ interessante, credo, mettere a confronto tutto quanto è stato scritto, divulgato, sulla tragica, nefasta, campagna di Russia della seconda guerra mondiale. Propongo al riguardo un’analisi attenta, puntigliosa, scevra da qualsiasi interferenza ideologica: quella di Giorgio Rochat,  (Pavia, 1936) accademico, storico e saggista italiano.

GIORGIO ROCHAT

La partecipazione italiana alla campagna di Russia fu iniziativa personale di Mussolini e di Ciano, dovuta a ragioni di prestigio ed a preoccupazioni per il futuro assetto post-bellico : il desiderio di rendere all’amico Hitler l’aiuto prestato dalle truppe tedesche in Africa Settentrionale (restituzione piuttosto formale, dato il diverso peso delle forze in campo), l’esigenza di essere presenti sul teatro della lotta antibolscevica e di partecipare ad una vittoria che si immaginava pronta e colossale, il tentativo di crearsi meriti e pegni per la determinazione delle sfere d’influenza.

A questa iniziativa furono contrari Hitler ed i comandi militari italiani, che giustamente la giudicavano una dispersione di forze, ma entrambe le resistenze furono puramente formali e nel luglio 1941 fu iniziato il trasporto ferroviario del Corpo di spedizione italiano in Russia (CSIR) su tre divisioni scelte e rinforzate al comando del gen. Messe. Queste truppe dovettero lottare in un primo tempo soprattutto contro ostacoli logistici, sostenendo poi con successo nell’inverno alcuni attacchi sovietici, violenti ma territorialmente limitati.

Contro ogni logica militare, nel 1942 furono inviate in Russia altre 6 divisioni (poi diventate 7), dando origine all’ARMIR (Armata italiana in Russia o 8a armata), comandata dal gen. Gariboldi, che, dopo alcuni duri combattimenti estivi, assunse in autunno la difesa di un settore di 270 km. sul Don, con uno schieramento debolissimo e privo di riserve (in ottemperanza ai piani tedeschi, che sottovalutavano le possibilità russe).

A metà dicembre una possente offensiva sovietica travolse il fronte, costringendo 6 divisioni ad una disastrosa ritirata; a metà gennaio anche le divisioni alpine dovettero ripiegare e furono praticamente distrutte. Nella battaglia l’ARMlR perse 85.000 uomini tra morti e dispersi e 30.000 feriti e congelati, cioè gran parte delle truppe combattenti; cessava quindi di esistere come grande unità, per rientrare in Italia in primavera.

Solo poco più di 12.000 prigionieri, su un totale di circa 50.000 uomini caduti in mano ai russi, rimpatriarono nel 1945-46, dando esca ad una violenta campagna anticomunista e parallelamente a dure accuse ai comandi militari italiani per il crollo dell’armata italiana sul Don.

E’ appunto all’entità del disastro, alle accuse ed alle polemiche del dopoguerra che si deve la rapida pubblicazione di una relazione ufficiale sulla campagna (sia pure in veste provvisoria): entro due anni dalla fine del conflitto apparvero due volumi dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’esercito, cui si aggiunse autorevolmente un volume del maresciallo Messe, relativo alle operazioni dal luglio 1941 all’ottobre 1942.

Si consideri che, a distanza di 20 anni dalla fine del conflitto, l’Ufficio Storico non ha ancora completato la serie di volumi sulla guerra in Africa Settentrionale e neppure iniziato quella sulla guerra alla Grecia e l’occupazione balcanica, e che tra i comandanti italiani il solo Messe ha sentito il bisogno di scrivere la storia delle operazioni da lui dirette: e la documentazione di cui disponiamo apparirà subito eccezionale, almeno in confronto a quella esistente per gli altri fronti italiani.

Un primo volumetto di 70 pagine vide la luce nel settembre 1946: L’8a armata, italiana nella seconda battaglia difensiva sul Don, cioè nei combattimenti dell’inverno 1942-43, un’opera affrettata ed incompleta, condotta solo sulle relazioni degli ufficiali superstiti, ovviamente apologetiche. Non fu valorizzata la documentazione proveniente dai più alti comandi, nè si cercò di integrare le relazioni esistenti con l’interrogatorio sistematico dei reduci; infine, come in tutte le opere successive, furono ignorate le fonti russe e tedesche.

La narrazione è quindi lacunosa: basti ricordare che viene descritto il ripiegamento della divisione Tridentina, ma non si parla delle vicende delle altre divisione del Corpo d’armata alpino che in nota e col condizionale, perchè il grosso di queste unità venne catturato dai russi. Tuttavia, non l’insufficienza della documentazione è il difetto principale dell’opera, bensì la mancata analisi delle cause della rotta.

Una sola, la maggiore, viene messa in luce: l’errore strategico dei comandi tedeschi, che imposero uno schieramento troppo debole ed esteso. Ma la relazione dell’Ufficio Storico sorvola sull’operato dei comandi italiani, nel periodo della preparazione ed in quello dei combattimenti: viene così sottratto al giudizio storico una parte fondamentale degli avvenimenti, per la fretta con cui fu compiuta la stesura dell’opera e per un malinteso senso dell’onore militare e della tradizione.

Lo stesso silenzio copre troppi momenti della ritirata; è noto (e lo troveremo nella memorialistica) che molti reparti si sbandarono nelle marce disperate per sfuggire ai russi, ma ciò compare solo di sfuggita nella relazione ufficiale, che è invece pronta a bollare ripetutamente il comportamento egoistico dei reparti tedeschi, i quali, di prepotenza in prepotenza, giunsero fino ad usare le armi contro gli alleati italiani.

Il volume fornisce cifre generali sulle perdite, ma evita di dare informazioni troppo precise: per es. le perdite delle singole divisioni non sono rapportate alla loro consistenza alla vigilia dell’offensiva, nè la cifra globale di 222.000 soldati e 7000 ufficiali in Russia viene suddivisa tra unità combattenti e servizi. Manca persino un elenco delle unità dell’ARMIR che scenda sotto la divisione!

Più completo il volume dedicato nel 1947 a Le operazioni del CSIR e dell’ARMIR dal giugno 1941 all’ottobre 1942, ma ugualmente reticente
su vari problemi. In questo periodo le truppe italiane non conobbero insuccessi e le relazioni consegnate agli archivi sono numerose e complete, quindi il racconto è più dettagliato ed in complesso soddisfacente per lo meno per quanto riguarda le operazioni; mancano però sempre statistiche analitiche, un elenco delle unità italiane, cifre sull’armamento dei reparti italiani e dati sull’efficacia delle armi, come pure informazioni sulle retrovie italiane, dallo1 svolgimento dei servizi alla lotta antipartigiana.

Il generale Italo Gariboldi con il generale Giovanni Messe, Edda Ciano e autorità militari italiane e tedesche tra cui il generale Richard Ruoff consegna la medaglie al valore alla bandiera di un reparto del C.S.I.R. nell’estate 1942

I tedeschi vengono accusati di gravi inadempienze nella consegna dei rifornimenti pattuiti e nella messa a disposizione dei treni per il collegamento con l’Italia, e di avere tentato di sfruttare i reparti italiani senza tener conto della loro inferiore disponibilità di mezzi; ma naturalmente l’esito positivo delle operazioni non permette che affiorino forti motivi di dissenso.

Ugualmente assente un inquadramento dell’invio del CSIR nella condotta italiana della guerra. In conclusione, entrambi i volumi dell’Ufficio Storico trattano solo la condotta delle operazioni, sulla base esclusivamente delle relazioni dei comandi responsabili e con lacune notevoli per il periodo più drammatico, ed evitano un esame critico della partecipazione italiana e della rotta sul Don, rigettando sui tedeschi accuse che, per quanto giustificate, vengono esageratamente sottolineate dal silenzio sulle responsabilità dei comandi italiani.

Anche il volume del maresciallo Messe comprende essenzialmente la narrazione delle operazioni delle sue truppe (prima il CSIR, poi il XXXV° Corpo d’armata, dal luglio 1941 all’ottobre 1942), ma le inquadra nella sua molteplice attività di comandante. Le difficoltà logistiche, l’insufficienza deH’armamento e dell’equipaggiamento, lo scarso aiuto avuto dai comandi italiani e tedeschi, non vengono taciuti, perché valgano a far risaltare la bravura delle truppe e dei quadri; inoltre il maresciallo tratta anche problemi come la sicurezza delle retrovie, la sorte dei prigionieri russi, il morale degli uomini e l’infelice metodo di avvicendamento.

Il generale Giovanni Messe e il generale Mario Tirelli ai caposaldi nel giugno 1942

Messe non sottovaluta il nemico, sa farsi rispettare dai tedeschi e manifesta scarsa considerazione per i comandi di Roma e Gariboldi; non teme di prendere posizione e di dire verità spiacevoli, coperto dalla sua buona reputazione militare. Il tono è ovviamente (ma discretamente) apologetico, il che urta meno nelle memorie di un comandante che nella relazione di un Ufficio Storico; un giudizio politico è accuratamente evitato.

In conclusione il libro è buono e soprattutto fortunato: lasciando la Russia alla vigilia dell’offensiva russa, Messe ha evitato di vedere poste alla prova più dura la sua abilità di comandante (il che non può certo essergli imputato) e la sua serietà di scrittore; infatti le contraddizioni ed i pericoli della partecipazione italiana, presenti sin dall’inizio, vennero alla luce solo con l’offensiva sovietica dell’inverno 1942-43 e quindi possono essere lasciati in sordina nel volume in esame.

Questi tre volumi costituiscono la base di ogni studio sulla campagna di Russia; in particolare hanno fornito a tutti gli autori posteriori la descrizione delle operazioni ed un’impostazione antitedesca della narrazione, che ritroviamo specialmente in quelli più vicini agli ambienti militari (Tosti, Scala, Corselli, Faldella).

Rifiutano questa interpretazione solo gli autori dichiaratamente volti a giustificare il fascismo e l’alleanza con la Germania nazista. Nel capitolo della polemica storia del Canevari (La guerra italiana, Roma, Tosi, 1948) vengono infatti rovesciate quasi tutte le tesi finora rilevate: così l’invio del CSIR e dell’ARMIR trova una giustificazione politica (l’ipoteca italiana sui Balcani) ed un’attenuante strategica (la Russia era pur sempre il teatro di guerra decisivo).

L’equipaggiamento invernale viene magnificato, la dotazione di automezzi spacciata per superiore a quella delle divisioni tedesche, l’impiego in pianura degli alpini diventa un’utile trovata, perché il someggio avrebbe garantito loro la massima mobilità anche nella neve (sic); l’armamento era ottimo, insufficiente solo quello anticarro, il che però non ebbe importanza perché lo sfondamento russo fu effettuato dalle fanterie (altra affermazione testuale).

In conclusione, le divisioni italiane erano pienamente attrezzate per la guerra d’inverno : fu l’errata impostazione strategica dei tedeschi a causare la rotta. Ma qui il Canevari rovescia le sue posizioni e passa da un’esaltazione sfacciata delle forze italiane ad accuse durissime; così Gariboldi viene criticato per non aver preso alcuna precauzione per un ripiegamento, per essersi logorato in una difesa statica, per avere dato gli ordini di sganciamento troppo tardi e per non aver saputo condurre una ritirata manovrata.

Le splendide divisioni sono ora accusate di essersi sbandate senza resistenza: calcolando 80.000 prigionieri su 85.000 morti e dispersi, il Canevari suggerisce che sul Don non ci furono combattimenti, nè vere difficoltà nella ritirata, ma solo panico, fuga disperata e resa in massa.

Naturalmente le accuse dell’Ufficio Storico ai tedeschi diventano solo una manovra per coprire le responsabilità dei comandi italiani : i tedeschi si portarono lealmente, ma se anche tentarono di mettere le mani su autocarri e magazzini dell’ARMIR, fecero bene, perché li avrebbero impiegati certamente meglio che non gli italiani. Così la rivalutazione del nazi-fascismo porta logicamente ad una totale condanna degli italiani, uomini e comandi.

Altre ricostruzioni di estrema destra sono invece più misurate: respingono le accuse ai tedeschi (pur addebitando loro, come è inevitabile, le cause strategiche della ritirata), ammettono varie deficienze nell’armamento, nell’equipaggiamento e nella condotta di truppe e comandi, ma non portano’ a fondo queste critiche, preferendo insistere sul carattere  onorevole della sconfitta, cioè sul buon comportamento delle truppe.

Queste opere non si distinguono quindi da quelle più vicine all’Ufficio Storico che per una diversa valutazione del significato politico della partecipazione italiana, della guerra in genere e del comportamento dei tedeschi. Nel 1950-51 fu pubblicata in fascicoli periodici poi raccolti in due volumi l’opera più ampia e seria sul nostro tema: La campagna di Russia di Aldo Valori, volume che si può considerare una dei migliori e più tipici esempi della produzione storiografica sulla guerra.

Aldo Valori

Il Valori, autore della più viva storia della prima guerra mondiale, fu uno dei maggiori critici militari del fascismo, dalle origini alla fine del regime, continuando nel secondo dopoguerra a collaborare a iniziative editoriali di impronta nostalgica.

Sarebbe però troppo semplice accusare di fascismo il suo volume sulla campagna di Russia, anche se una valutazione positiva della guerra mussoliniana è implicita (più nei silenzi che nelle dichiarazioni): la posizione del Valori è quella degli studiosi di parte militare o comunque vicini agli ambienti militari, che, dopo la parentesi fascista ritornano al tradizionale rifiuto della politica, illudendosi di poter tracciare una storia puramente militare delle operazioni, dell’eroismo dei soldati e delle capacità dei quadri.

Questa impostazione ammette critiche tecniche, spesso condotte con indipendenza di giudizio e sicurezza di analisi, purché si compongano in un più ampio giudizio positivo sull’esercito e la tradizione militare. Su un piano politico, l’approvazione della politica estera fascista viene controbilanciata dalla denuncia delle pericolose ingerenze mussoliniane nella preparazione e nella condotta della guerra: la richiesta di una politica estera forte ed il rifiuto di un controllo politico sono del resto motivi costanti degli ambienti militari.

Su un piano tecnico, la constatazione degli errori dei comandi, delle deficienze di materiali, dei cedimenti delle truppe, viene sempre riscattata dall’esaltazione del sacrificio dei soldati.

Il Valori è chiarissimo:
« …. a errori e colpe di comandi abbiamo accennato senza tuttavia insistervi perché lo scopo della nostra pubblicazione non è essenzialmente critico né polemico, ma solo di esaltazione del valore dei combattenti, tanto più meritevole quanto meno favorito dalla necessaria preparazione e dall’abilità di condotta ».

Quest’opera di esaltazione è però fatta con serietà: il Valori ha saputo egregiamente valersi della collaborazione di molti reduci dalla Russia (consultando per esempio 16 generali e 21 ufficiali superiori) e di una tale copia di relazioni ufficiali che è certo (anche se non è detto nel testo) che l’Ufficio Storico gli ha aperto i suoi archivi (purtroppo il Valori non indica quasi mai la fonte delle sue informazioni e dei suoi documenti); inoltre la pubblicazione in fascicoli successivi dell’opera ha permesso a vari reduci di inviare contributi integrativi, riportati in appendice ai capitoli successivi.

L ’opera ha insomma una base documentaria tale che può a buon diritto essere considerata la vera relazione ufficiale sulla campagna di Russia e comunque lo studio più completo. L’autore biasima la partecipazione italiana, ha un atteggiamento non viziato da pregiudizi verso russi e tedeschi, documenta le deficienze di armamento ed equipaggiamento, non rinuncia a trattare episodi poco gloriosi ed a notare le incertezze dei comandi, talora gli errori più netti.

Praticamente ogni problema suscitato viene trattato; particolarmente curata la descrizione dei combattimenti. Sempre nell’ambito di questa impostazione si muovono i non molti contributi di valore dedicati a singoli momenti od unità della campagna, tra i quali ricordiamo l’ottimo libro dell’Odasso sul Corpo d’armata alpino, l’articolo del Guercio sulla divisione Celere nel dicembre 1942, gli studi ufficiosi del Santoro sul concorso dell’aviazione, un nuovo contributo di dati e cifre dell’Ufficio Storico ed infine lo studio esemplare per ricchezza di notizie e documentazione contenuto nell’ultimo volume della Storia dell’artiglieria italiana del gen. Montù.

Nell’ambito di un breve studio bibliografico non possiamo che accennare ad alcuni problemi, sia pure tra i maggiori, che ci sembrano insufficientemente approfonditi: la responsabilità della partecipazione italiana alla guerra russo-tedesca, il grado di efficienza delle truppe italiane e gli sforzi compiuti dai comandi per colmare le deficienze, la responsabilità del comando dell’ARMIR nella rotta dell’inverno 1942-43.

Passeremo poi in rassegna la memorialistica, assai abbondante, che non è tutta inquadrabile senza difficoltà nella versione ufficiale. Abbiamo visto che tutti gli autori concordano nel ritenere un errore la partecipazione italiana, per lo meno da un punto di vista militare, addebitandola però al potere politico e solo saltuariamente lamentando che i capi militari non avessero il potere di impedire questo grave logorio di forze.

Parimenti tutti criticano l’invio in Russia di tre divisioni alpine (se era giustificato mandare truppe scelte, particolarmente quando il contingente italiano aveva le ridotte dimensioni del CSIR, pericolosissimo era privarsi del fiore delle truppe alpine, che giustamente Hitler apprezzava e chiedeva) e specialmente il loro impiego in pianura, dove andavano sprecate le loro caratteristiche ed il loro armamento aveva efficienza ancora inferiore rispetto a quello già esiguo delle divisioni di fanteria (si pensi alla portata ridotta degli obici da montagna someggiati, ex-austroungarici ed ex-francesi).

Queste divisioni erano state concesse per l’impiego nel Caucaso, meglio valeva ritirarle che impiegarle sul Don, scrive il Valori: ma quando ne venne ordinato l’approntamento (inverno 1941-42) i tedeschi erano vicini al Caucaso solo nei sogni di Hitler. Non sappiamo quindi se sia peggiore accusa per i capi militari italiani (che qui non crediamo si possa parlare ancora di responsabilità di Mussolini) l’aver veramente creduto a quanto dicevano, buttando allo sbaraglio le più belle divisioni alpine su una promessa vaga ed improbabile (senza contare che tutti gli sforzi per mantenere sotto unico comando le truppe italiane in Russia naufragavano nel momento in cui gli alpini erano destinati al Caucaso ed i fanti inviati sul Don), oppure l’aver coscientemente impiegato in pianura queste divisioni, fidando che con il loro sperimentato valore (cioè col sangue) avrebbero colmato ogni inferiorità tecnica e combattuto come e meglio di unità di fanteria, dimostrando così quella faciloneria e quel disprezzo per le vite dei soldati che troppe battaglie italiane attestano. Ma su questo punto le versioni ufficiali sorvolano.

Con uguale leggerezza fu impostato il problema della dipendenza delle truppe italiane dai comandi tedeschi e quello della funzione che dovevano svolgere sul campo di battaglia. Il Valori attesta che tutto fu lasciato nel vago, cioè al comandante ed alle circostanze, e le truppe italiane furono impiegate come più conveniva ai tedeschi (data anche la loro inferiorità in mezzi ed armi).

Dopodiché sembra eccessiva l’insistenza dell’Ufficio Storico sulle responsabilità dei tedeschi nella rotta dell’ARMIR, che non fu trattata peggio della 6a armata di Paulus; pretendere di partecipare alla campagna senza condividerne le sconfitte ci sembra illusorio e se i reparti tedeschi inquadrati nell’ARMIR in genere uscirono dalla sacca in condizioni migliori, la causa prima fu quasi sempre la superiorità della loro organizzazione (dall’equipaggiamento invernale ai mezzi di trasporto idonei al clima).

Pretendere che Gariboldi riuscisse a farsi rispettare dai comandi tedeschi (che facevano capo direttamente ad Hitler) significava dimenticare che a tanto non era riuscito nemmeno in Africa Settentrionale con Rommel, nominalmente suo subordinato; e lamentare le inadempienze germaniche nella fornitura dei materiali pattuiti, significa trascurare che la negativa esperienza del CSIR, chiaramente espressa da Messe, era stata dimenticata al momento di inviare l’ARMIR.

Del resto non si può studiare la partecipazione italiana alla guerra russo-tedesca senza approfondire la sua motivazione politica. E invece la storiografia ufficiale la riduce a capriccio di Mussolini. Per alcuni autori la presenza sul fronte russo di una scelta rappresentanza italiana (le tre divisioni del CSIR) rappresentava una necessità per il prestigio italiano: è questa in particolare la posizione di Messe, che nel 1942 chiese un potenziamento qualitativo del CSIR con reparti motorizzati e truppe fresche, ma si oppose all’invio di altre divisioni.

In questa prospettiva l’invio di due nuovi corpi d’armata, deciso da Mussolini, non ha evidentemente spiegazione logica: ma non è forse più giusto vedere la partecipazione italiana come un nuovo episodio della rivalità che contrapponeva Mussolini ad Hitler, espressa nella formula «la guerra parallela» e nei colpi di testa come l’aggressione alla Grecia?

Se questa nostra ipotesi è esatta, è inutile discutere se e fino a quale punto la partecipazione italiani fosse giustificabile: è chiaro che da un punto di vista militare l’invio del CSIR come dell’ARMIR rappresentava una pericolosa dispersione di forze (e tanto più grave è l’acquiescenza degli Stati Maggiori), mentre per chi non arretri dinanzi ad un giudizio politico della guerra fascista, Francia, Libia, Grecia, Russia diventano logici sviluppi della convinzione mussoliniana che all’Italia spettasse strappare la sua parte di bottino più dalle fauci dell’amico già vittorioso che da quelle del nemico.

I rischi militari della partecipazione alla campagna di Russia diventano quindi trascurabili dinanzi alla necessità di figurare dinanzi ad Hitler più che la Slovacchia, come disse Mussolini. La storiografia ufficiale sorvola pure sul carattere antibolscevico che la partecipazione italiana ebbe per la propaganda del tempo: infatti agli italiani ed alle truppe l’invio delle divisioni del CSIR e dell’ARMIR fu presentato come il culmine della lotta ventennale del fascismo contro il comunismo.

Chi sfoglia le opere dedicate nel 1942-43 alla guerra di Russia constata accanto ai consueti temi della letteratura di guerra la presenza di temi anticomunisti del livello più rozzo, che vanno dalla descrizione in tono di superiorità delle misere condizioni di vita e di sviluppo intellettuale della popolazione russa alla riaffermazione del carattere di crociata ideale della guerra in corso.

Un opuscolo di un ufficiale superiore dei reduce dal fronte russo pubblica foto di bimbi smunti per la fame come illustrazione degli effetti del regime sovietico, un altro ufficiale rimpatriato inveisce contro gli ebrei addetti alla pulizia delle stazioni tedesche e polacche (visione che in molte memorie pubblicate nel dopoguerra viene invece presentata come un primo choc per ufficiali e soldati, una prima penosa impressione).

E poi altri opuscoli ufficiali: uno dello Stato Maggiore che si rivolge ai soldati scampati alla rotta sul Don e li invita a diffondere in Italia la loro esperienza della miseria bolscevica e la loro fede nella vittoria, un altro dello Scala che raduna tutti i luoghi comuni della propaganda per annunciare la prossima vittoria di Stalingrado, salvo poi ad aggiungere nelle ultime pagine, scritte nel marzo 1943, che la vittoria è temporaneamente sfumata.

Anche nel noto volume di don Gnocchi, Cristo con gli alpini, è accolto il tema della crociata, del lavacro-cruento e redentore della guerra, con una fusione di motivi patriottici e clericali: gli alpini buoni e semplici muoiono per la grandezza d’Italia ed il ritorno dell’infelice popolo russo alla fede cattolica.

Non ci sembra però che questo antibolscevismo abbia avuto parte nelle decisioni di Mussolini e quindi si  può legittimamente tralasciarlo parlando delle cause politiche dell’intervento italiano in Russia; e la memorialistica testimonia che questa propaganda non ebbe grande presa sulle truppe, che combatterono senza odio.

Non è però giusto dimenticare questi miti, questo clima diffuso anche tra i comandi, perchè concorsero ad alimentare la faciloneria, la sottovalutazione del nemico (nelle opere cui abbiamo accennato, i russi sono presentati secondo due modelli fissi: bambinoni primitivi e ingenui, facile preda della propaganda comunista e poi della bontà italiana, oppure selvaggi combattenti, fanatizzati e brutali).

Del resto, l’entità del disastro venne nascosta dal governo fascista e solo nel 1944 un opuscolo pubblicato nella R.S.I. ammetteva la sconfitta e le gravi perdite, tentando però di sdrammatizzare il quadro ed assolvendo autorità italiane e tedesche. Ma nel 1942-43 un volume come quello di Tomaselli, Battaglia sul Don, che raccoglie una serie di corrispondenze dal novembre 1942 al gennaio 1943, spicca per sincerità e crudezza, mentre, dinanzi alla memorialistica posteriore, la descrizione della vita, dei combattimenti e della ritirata appare molto attenuata, con l’eliminazione dei motivi più drammatici e dei riferimenti all’entità delle perdite.

La versione tradizionale quindi rinuncia a dare un giudizio politico sulla guerra mussoliniana (sarebbe più giusto dire che in certe opere è sottinteso un giudizio positivo) e ad approfondire le responsabilità delle maggiori autorità militari. Quest’ultimo motivo si ripresenta chiaramente nel secondo ordine di problemi che ora affrontiamo, relativi all’efficienza delle forze italiane.

Le deficienze della preparazione militare italiana sono ormai talmente note e riconosciute, che è inutile ritornarvi sopra in questo breve studio. Le divisioni italiane in Russia avevano un armamento antiquato, erano sprovviste di carri armati e pezzi anticarro efficienti e disponevano di pochi automezzi; l’equipaggiamento invernale dei soldati era penosamente insufficiente e fu causa di innumerevoli perdite, durante il combattimento e la ritirata.

Non tutte queste deficienze possono essere imputate ai comandi italiani, che anzi dotarono il CSIR di reparti anticarro, mortai e motociclisti oltre l’organico e l’ARMIR delle migliori artiglierie di medio calibro esistenti; la mancanza di carri armati ed armi automatiche, di radio ed autocarri tormentava tutto l’esercito, dalla Russia all’Africa.

Quindi una ricerca di responsabilità va estesa al campo politico, a tutta la preparazione militare italiana e cioè ad un settore di studi che non può rientrare nelle monografie dedicate ad una campagna. E difatti i nostri autori, molto fermi nella denuncia delle deficienze dell’armamento ed equipaggiamento delle truppe italiane, non tentano di approfondire la ricerca delle cause di questa situazione (tranne in alcune opere: qualche cenno alle responsabilità del regime fascista); ma dalla descrizione dell’inferiorità materiale essi traggono solo nuovo slancio ad esaltare il valore dei soldati, che con armi antiquate seppero tenere il loro posto con onore.

Chi ha presente la pubblicazione del Valori può capire la sua minuziosa indicazione di deficienze che tornano a maggior gloria degli uomini che seppero farvi fronte, ma anche la sua rinuncia a coordinare queste deficienze, a sceverare quelle che hanno origini troppo lontane da quelle che possono attribuirsi con molta precisione ad un comando o ad una tradizione militare.

La memorialistica ci ricorda quale fu il prezzo di questa inferiorità tecnica: un prezzo troppo alto perchè ci si possa contentare di monumenti ai caduti ed assoluzioni ai vivi. E’ noto che i tedeschi non preventivarono nel 1941 la protrazione della guerra fino all’inverno, che affrontarono in condizioni di equipaggiamento disastrose, mentre il CSIR ricevette per tempo oltre all’equipaggiamento invernale normale un congruo numero di cappotti foderati di pelliccia e di indumenti di lana, tanto da poter affrontare l’inverno in condizioni sopportabili (ma si trattò di un inverno trascorso senza spostamenti, con le truppe acquartierate nei villaggi russi).

Però i tedeschi seppero nel corso del 1942 approntare un equipaggiamento invernale adeguato, prendendo a modello quello russo, mentre l’ARMIR non potè nemmeno contare sull’abbondanza di materiali che il CSIR aveva conosciuto. Nulla fu fatto in due anni di guerra per dotare i reparti di calzature adatte: i soldati italiani erano gli unici a sfoggiare scarponcelli chiodati (gli stessi in distribuzione alle truppe in Africa) in un clima in cui il ghiaccio si formava immediatamente tra i chiodi delle suole.

Nulla fu fatto per sostituire le pellicce (ingombranti e poco igieniche) con tute imbottite del genere di quelle russe. Nulla fu fatto per dotare le armi automatiche di un lubrificante che non temesse il gelo: le mitragliatrici sparavano solo se tenute nei rifugi oppure avvolte in coperte e scaldate con elmetti di brace.

Gli automezzi erano gli stessi in uso in Africa, mancavano spazzaneve e mezzi cingolati, i muli non sopportavano il freddo e la neve alta. E il nostro elenco potrebbe continuare: l’esperienza del CSIR non ebbe alcuna conseguenza, le divisioni italiane partirono per la Russia con lo stesso equipaggiamento che aveva procurato 2000 congelati in dieci giorni del giugno 1940 sulle Alpi.

Si ha l’impressione che lo Stato Maggiore dell’esercito fosse una macchina molto ben funzionante per i problemi conosciuti, ma completamente disarmata dinanzi a problemi nuovi e non previsti dai regolamenti come un inverno di guerra in Russia.

Le deficienze che abbiamo segnalato non hanno bisogno di documentazione, perchè tutte le opere (studi e memorie) lo registrano, pur senza inquadrarle adeguatamente. Passiamo ora ad un altro genere di critiche ai comandi italiani, particolarmente ai comandi in Russia, che non hanno supporto documentario e che pure non ci sembra possano passare sotto silenzio.

Non è difficile trovare nella memorialistica accuse ai comandi superiori, in parte dovute al risentimento dei combattenti per chi non condivide le loro sofferenze, in parte riconosciute sostanzialmente esatte da tutti (ne abbiamo parlato sopra), in parte, infine, senza risposta; ci sono infatti alcuni problemi non secondari della campagna di Russia che sono rimasti completamente ignorati nelle relazioni ufficiali e negli studi. Zone d’ombra che indicheremo, pur consapevoli dell’impossibilità di precisare gli appunti, per un silenzio della tradizione ufficiale forse significativo.

Anzitutto, il comando dell’ARMIR. Una testimonianza gli attribuisce 500 ufficiali, 105 dei quali per un ufficio informazioni che avrebbe dovuto averne 16 e che non pare aver avuto alcun ruolo nella campagna: ma questo comando non compare mai nella storiografia ufficiale, forse perchè non ebbe grande influsso sulle operazioni.

Sta di fatto che gli ordini ai corpi d’armata sembrano provenire sempre dal comando superiore tedesco, fedelmente trasmessi da Gariboldi; che la battaglia sul Don fu condotta senza alcuna indipendenza, nella più assoluta aderenza agli ordini di Hitler di resistenza sul posto, fino al disastro; che con gli ordini di ripiegamento, tardivi, si interruppe l’azione di comando di Gariboldi, per inefficienza delle radio e assenza di ufficiali di collegamento.

Il comando dell’ARMIR sembra stranamente imprevidente anche nei mesi che precedettero la battaglia, anche dopo l’inizio della controffensiva sovietica (metà novembre): i magazzini risultarono proiettati tanto in avanti, che caddero subito in mano ai russi, con materiali che erano stati lesinati alle truppe, (tra cui cappotti di pelliccia, che mancavano in linea).

Di più, gli autocarri ed i trattori delle truppe dovettero essere abbandonati all’inizio del ripiegamento o dopo poche ore per mancanza di carburante: particolare questo che ci sembrerebbe incredibile, se non fosse attestato da più fonti insospettabili ed anche dagli studi ufficiali, che però non ne rilevano la tragicità.

Il ripiegamento ebbe inizio dopo vari giorni di combattimento, quindi non il tempo era mancato a provvedere benzina e nafta; nè vale asserire che il carburante mancasse, perchè nelle retrovie ce n’era e più di un deposito dovette essere incendiato prima dell’arrivo dei russi; del resto i reparti tedeschi affiancati agli italiani ne avevano, anche se non in gran quantità.

Chiedere alle truppe di ripiegare a piedi, senza autocarri per viveri, armi e feriti, senza trattori per l’artiglieria che sola poteva tener lontani i carri armati nemici, sembra la dimostrazione della completa inefficienza, professionale e morale, del comando dell’ARMIR; il silenzio delle fonti ufficiali è inesplicabile e avvalla un’accusa così dura che non ammette attenuanti.

Nè è stato fornito alcun dato sulla consistenza delle retrovie: eppure si tratta di un buon terzo dell’ARMIR, cui non è dedicato una riga nè una cifra in tutte le pubblicazioni ufficiali ed ufficiose. Non sappiamo quali quantitativi di materiali avesse l’armata, come fossero impiegati i 16.700 autocarri, dove fossero distribuiti i 7000 ufficiali e quali gradi avessero, come fosse organizzato lo sfruttamento delle zone agricole concesse dai tedeschi o la repressione della guerriglia partigiana.

Su tutta l’organizzazione ed il funzionamento delle retrovie abbiamo solo testimonianze deprimenti e certo bisognose di controllo, che parlano di corruzione, traffici illeciti, carrierismi ed imboscamenti a tutti i livelli e sarebbe utile, anzi necessario, disporre di dati ed informazioni di prima mano.

Invece la storiografia ufficiale non si sofferma su questi problemi, che pure coinvolgono la responsabilità dei quadri e l’efficienza dell’organismo militare : così gravi sono le lacune, eppure non dovrebbe esser difficile colmarle, poiché gli incartamenti burocratici del comando dell’ARMIR, dell’intendenza, dei vari servizi e comandi tappa sono stati certamente salvati con i rispettivi uffici, che ripiegarono in genere senza pericoli nè disagi eccessivi.

Già abbiamo detto che invece la storiografia ufficiale è sufficientemente completa per quanto riguarda la narrazione delle operazioni, specialmente con l’opera più volte citata del Valori. Ci limiteremo quindi a rapidissime osservazioni sulla posizione che alcuni episodi hanno assunto nel quadro generale.

I combattimenti del CSIR e poi del XXXV° Corpo d’armata che ne  assunse l’eredità (luglio 1941-ottobre 1942) sono ampiamente illustrati nel volume di Messe, in quello dell’Ufficio Storico e nell’opera di Valori; andrebbero però inquadrati nelle operazioni delle armate tedesche: isolando le vicende delle truppe italiane si è portati a sopravalutare quelli che furono combattimenti violenti, ma di limitata durata ed entità.

Manca purtroppo per tutto questo primo periodo la memorialistica con la sua funzione essenziale di contrappunto critico alle relazioni ufficiali, e le preziose testimonianze sullo stato d’animo delle truppe, sulle loro condizioni di vita e sulla natura dei combattimenti.

Per l’aviazione disponiamo del buon studio ufficioso del Santoro, che però tratta la storia dei gruppi aerei in Russia prescindendo quasi dalle vicende delle forze di terra: abbiamo cioè una documentazione relativamente ampia sulle vicende dell’aviazione, non però una analisi della portata e dell’efficacia della cooperazione aero-terrestre in campo tattico (cooperazione che pare esser stata fortemente ostacolata nei mesi invernali dall’incapacità del materiale di volo di affrontare le avverse condizioni climatiche: nei quindici giorni del ripiegamento del Corpo alpino non fu visto un aereo italiano, ma solo cicogne tedesche e caccia russi).

La battaglia sul fronte del Don a metà dicembre è ugualmente piuttosto nota nelle sue linee generali; assai più oscure le vicende della ritirata, poiché conosciamo solo i movimenti delle maggiori colonne.

La narrazione dell’Ufficio Storico e del Valori, basata sulle relazioni e sulle testimonianze di alti ufficiali, rivela i suoi limiti di informazione e soprattutto di obiettività dinanzi alle memorie di molti superstiti di ogni grado.

La versione ufficiale infatti non prende in considerazione episodi accertati di sbandamento morale (reparti che si disgregarono dopo poche ore di marcia, ufficiali che abbandonarono i loro uomini per fuggire più in fretta, comandi che caricarono gli automezzi di effetti personali abbandonando i feriti, soldati ridotti dalla fame e dai patimenti all’ultimo abbrutimento) oppure li riduce a manifestazioni di brutalità di una soldataglia non più inquadrata, episodi isolati di teppismo e rapina; mentre invece una ricostruzione veramente seria e sollecita di verità del ripiegamento dell’ARMIR non deve esitare dinanzi agli episodi più tristi, cercando le loro cause anche nella situazione eccezionale (esaurimento fisico degli uomini, mancanza di viveri e di assistenza ai feriti, constatata impotenza dinanzi ai mezzi corazzati russi, sfiducia nei comandi dinanzi al disordine della ritirata, ecc.) anche quando queste cause siano dovute all’inefficienza del sistema o dei comandi, invece di tacere o accusare i soldati.

Merita di rilevare che l’unico reparto autocarrato che poté sganciarsi dal nemico, il 6° reggimento bersaglieri, benché duramente provato nei giorni di battaglia sul Don, poté uscire dalla sacca combattendo, compatto, con perdite lievi ed un morale tanto alto da permetterne il ritorno al fuoco dopo un breve riposo.

Si noti che il reggimento non potè sempre muovere in autocarro per deficienza di carburante: ebbe però sempre (tranne per le ultime ore di cammino) gli automezzi sufficienti per il trasporto dei feriti e di viveri e munizioni, per la formazione di pattuglie esploranti ed il traino di pezzi da 75 capaci di tenere lontani i mezzi corazzati russi.

Non siamo cioè dinanzi ad un’unità motorizzata in tutti i suoi elementi, ma provvista soltanto di un nucleo minimo di automezzi che permise di conservare efficienza combattiva e solidità: il che fa pensare in quali diverse condizioni avrebbe potuto svolgersi la ritirata se tutte le unità italiane avessero avuto il carburante necessario per gli autocarri che avevano in dotazione.

La storiografia ufficiale preferisce invece insistere sullo spirito di corpo dei bersaglieri e sulla figura del loro comandante, cui certo fu dovuto un’alta parte del successo; ma senza gli autocarri anche il 6° reggimento si sarebbe sbandato, come altri reparti altrettanto sperimentati, i quali avrebbero potuto salvarsi con un po’ di carburante.

E’ questo il caso della 298* divisione tedesca di fanteria, che faceva parte dell’ARMIR ed era in linea tra le divisioni italiane, anche se non dovette sopportare il peso dell’offensiva sovietica: la divisione uscì dalla sacca con le sue forze, dopo combattimenti violentissimi, provata ma ancora compatta e funzionante.

La storiografia italiana insiste sempre sul comportamento dei reparti tedeschi verso gli italiani, che fu iniquo (furono negati viveri persino ai reparti che combatterono fianco a fianco con i tedeschi e fu invece prelevata la benzina italiana per i mezzi tedeschi) ma non si ferma mai ad illustrare le vicende di questa divisione di fanteria che, a differenza di quelle italiane, potè ripiegare combattendo senza sbandamenti (la divisione Torino, che pure non aveva combattuto sul Don, fu praticamente distrutta nella ritirata, compiuta in parte insieme alla 298^ divisione); eppure sarebbe interessante ricercare le cause della superiorità tedesca.

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