ALTO ADIGE, LE DUE RESISTENZE

a cura di Cornelio Galas

Andrea Di MIchele

Andrea Di MIchele

“Le due Resistenze in Alto Adige”: si tratta di uno studio molto interessante di Andrea Di Michele (1968) storico e archivista presso l’Archivio provinciale di Bolzano. Di Michele, che ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia contemporanea all’Università di Torino, è autore di notevoli pubblicazioni: L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo (2003, finalista del Premio ANCI Storia 2004).
Ha collaborato alla cura di diverse opere collettanee, tra cui: Legionari. Un sudtirolese alla guerra di Spagna 1936-1939, pubblicato anche in Spagna con il titolo Italianos de Mussolini en la guerra de España 1936-1939 (2007); La memoria dei fascismi/Faschismen im Gedächtnis (“Storia e regione/Geschichte und Region 2004/2); 1992. Fine di un conflitto. Dieci anni dalla chiusura della questione sudtirolese (2003). Allego anche tre video, con testimonianze e approfondimento su questo argomento. Che diventerà poi, nel dopoguerra, la famosa “questione altoatesina”.

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“Quando, nel settembre 1943, le province di Bolzano, Trento e Belluno furono costituite in Zona d’operazione delle Prealpi, in Alto Adige – scrive Di Michele – la società era profondamente divisa. I motivi di tali divisioni sono da ricercarsi nei profondissimi mutamenti del quadro politico e sociale verificatisi nei venticinque anni precedenti: il passaggio del Sudtirolo all’Italia; il regime fascista con la sua politica di snazionalizzazione della minoranza tedesca e di immigrazione di una nuova comunità italiana; l’accordo dell’ottobre 1939 tra Italia e Germania per il trasferimento degli abitanti di lingua tedesca e ladina; il conseguente impianto su tutto il territorio provinciale di una poderosa macchina amministrativa e propagandistica nazista.

Il Gauleiter del Tirolo-Voralberg Franz Hofer, insieme ad ufficiali nazisti, visita il campo di accoglienza degli optanti sudtirolesi ad Innsbrück. Alla sua destra il Volksgruppenführer Peter Hofer (Slg. Popp/Zeughaus Innsbrück)

Il Gauleiter del Tirolo-Voralberg Franz Hofer, insieme ad ufficiali nazisti, visita il campo di accoglienza degli optanti sudtirolesi ad Innsbrück. Alla sua destra il Volksgruppenführer Peter Hofer (Slg. Popp/Zeughaus Innsbrück)

Le profonde faglie che attraversavano il corpo sociale erano numerose, di varia natura e di diversa profondità. La più rilevante era quella tra le due componenti linguistiche maggioritarie, la tedesca e l’italiana. Ma non era l’unica. A fianco ad essa vi era quella che divideva le diverse componenti sociali della nuova comunità italiana e quella, assai profonda, che separava i sudtirolesi che avevano optato per il Reich da coloro che avevano deciso di rimanere al di qua del Brennero.

Immagini di un opuscolo informativo (dicembre 1940) sulle scuole superiori per "Volksdeutschen" di Rufach e Achern, preceduto sul frontespizio dalle parole del Führer "Un unico sangue circola in un unico Impero (B. Widmann, Bz)

Immagini di un opuscolo informativo (dicembre 1940) sulle scuole superiori per “Volksdeutschen” di Rufach e Achern, preceduto sul frontespizio dalle parole del Führer “Un unico sangue circola in un unico Impero (B. Widmann, Bz)

A ciò si aggiungeva la molteplicità di atteggiamenti e di comportamenti che si erano andati manifestando all’interno della società, come risposta ad una situazione difficile e confusa, caratterizzata dalla guerra e dal passaggio di mano tra regime fascista e dittatura nazista. Si andava da chi si opponeva al nazismo in quanto dittatura, a chi lo faceva in quanto autorità anti-italiana, da chi si riconosceva ideologicamente nei nuovi padroni del territorio, a chi li salutava favorevolmente in quanto sostenitori dei diritti linguistici e culturali della componente tedesca ecc.

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Per comprendere le peculiarità e le debolezze della Resistenza, al singolare, e delle Resistenze, al plurale, in provincia di Bolzano, è necessario partire proprio dalle differenti lacerazioni presenti nel corpo sociale.
La più grave e la più profonda era sicuramente quella etnica e fu quella che giustifica il parlare di due Resistenze in Alto Adige. La Resistenza italiana e quella tedesca, entrambe estremamente deboli all’interno delle rispettive comunità, tra il 1943 e il 1945 si mossero una a fianco all’altra quasi senza incontrarsi.

Nazismo e fascismo, insieme nello stesso simbolo

Nazismo e fascismo, insieme nello stesso simbolo

Come si vedrà ci fu un momento, nell’autunno 1944, in cui si svilupparono contatti e ci furono incontri, ma subito apparve assai arduo superare lo scoglio rappresentato dalle diverse soluzioni che le due Resistenze si prefiggevano in riferimento alla sistemazione territoriale post- bellica della provincia di Bolzano.
Se la Resistenza italiana voleva che fosse garantito il mantenimento dell’Alto Adige allo Stato italiano, quella tedesca chiedeva che al popolo sudtirolese venisse concesso il diritto all’autodeterminazione.

Il comando del Corpo d'armata dall'interno del cortile. Dalla finestra centrale dell'ultimo piano si gettò Manci

Il comando del Corpo d’armata di Bolzano dall’interno del cortile. Dalla finestra centrale dell’ultimo piano si gettò Manci

Se ancora nel 1944 la centralità della lotta al nazismo lasciava immaginare una collaborazione tra le due Resistenze, a partire dall’inizio del 1945, la prospettiva ormai prossima della fine della guerra portava al centro dell’attenzione proprio la questione che divideva, e cioè le sorti del territorio altoatesino.Ma le divisioni erano anche altre e passavano all’interno dei due gruppi linguistici maggioritari.
La loro comprensione risulta fondamentale per comprendere la debolezza delle due Resistenze e i diversi comportamenti riscontrabili all’interno delle due comunità.

Partiamo dagli italiani. Al momento della caduta del fascismo e alla vigilia del biennio contrassegnato dall’Alpenvorland e dal conseguente ribaltamento dei rapporti di forza tra i gruppi etnici italiano e tedesco, la comunità italiana appariva tutt’altro che priva di differenziazioni interne.

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Le distinzioni di ordine sociale, culturale, politico, nonché l’estrema varietà delle provenienze geografiche facevano di quella comunità qualcosa di assai composito e disomogeneo. Alla prima, significativa ondata di italiani giunti nel corso degli anni venti per rivestire incarichi nella pubblica amministrazione, nell’esercito, nella scuola, nel commercio e nelle professioni, era seguita nella seconda metà degli anni trenta la fase immigratoria legata alla costituzione della zona industriale di Bolzano.

Copertina di un fascicolo del Tribunale Speciale riguardante i procedimenti contro i partigiani del Basso Sarca arrestati durante la notte del 28 giugno 1944: Gastone Franchetti, Giuseppe Porpora, Giuseppe Ferrandi, Luigi Lubich, Giorgio Tosi

Copertina di un fascicolo del Tribunale Speciale riguardante i procedimenti contro i partigiani del Basso Sarca arrestati durante la notte del 28 giugno 1944: Gastone Franchetti, Giuseppe Porpora, Giuseppe Ferrandi, Luigi Lubich, Giorgio Tosi

Se i primi – secondo di Michele – si possono classificare in larga parte come appartenenti alle classi medie, gravitanti soprattutto attorno all’impiego pubblico e in parte debitori verso il regime per le opportunità di promozione sociale di cui avevano goduto, i secondi costituivano una numerosa ma atipica classe operaia, composta soprattutto da ex contadini scappati dalle campagne venete, fuggiti da condizioni di estrema miseria, privi di qualsiasi coscienza politica e ammassati nei nuovi quartieri operai delle cosiddette Semirurali.

La zona industriale di Bolzano negli anni Quaranta

La zona industriale di Bolzano negli anni Quaranta

La stessa conformazione urbana della «nuova Bolzano» metteva in luce la divisione sociale degli italiani, rigorosamente divisi tra quartieri operai costruiti «al risparmio», situati nei pressi della zona industriale e privi di collegamenti con il resto della città, e confortevoli quartieri borghesi eretti a ridosso del centro storico.
All’interno della componente operaia, però, vi era una minoranza di operai specializzati e di tecnici provenienti dalle case madri lombarde e piemontesi dei grandi stabilimenti della zona industriale di Bolzano, come la Lancia, le Acciaierie, la Magnesio.

Immagine aerea di un bombardamento su Bolzano: la zona industriale (Univ of Keele/GB, ARch. Prov. Bz)

Immagine aerea di un bombardamento su Bolzano: la zona industriale (Univ of Keele/GB,  Prov. Bz)

Costoro, che mantennero sempre i contatti con i loro compagni milanesi o torinesi, erano simpatizzanti o partecipavano attivamente al movimento antifascista e avevano un livello culturale e una consapevolezza politica assai superiori rispetto agli operai generici. Fu proprio all’interno di questa ristretta élite operaia che si sviluppò la Resistenza bolzanina.

Il gruppo linguistico italiano, dunque, oltre a scontare il proprio limitato peso numerico, doveva fare i conti con la frammentazione interna determinata dalla propria disomogeneità sociale, prima di tutto, ma anche culturale, politica e di origine geografica. Se a ciò si aggiunge l’assai limitato radica- mento degli italiani sul territorio, soprattutto al di fuori dei centri maggiori e di Bolzano in particolare, si comprende contro quali invalicabili ostacoli fosse destinata a scontrarsi qualsiasi ipotesi di dar vita ad un attivo e radicato movimento resistenziale italiano in Alto Adige.

La dirigenza delle SS in Italia nel 1944. Da sinistra, in prima fila, gli Ss-Brigadeführer Paul Zimmermann e Willy Tensfeld, l'Ss-Obergruppenführer Karl Wolff, il Gruppenführer Erwin Rosener. In seconda fila, sempre da sinistra, gli Ss-Brigadeführer Karl Brunner (comandante della polizia in provincia di Bolzano), Jürgen v. Kamptz, Wilhelm Harster e l'Ss-Standartenführer Harro With (Phil Nix)

La dirigenza delle SS in Italia nel 1944. Da sinistra, in prima fila, gli Ss-Brigadeführer Paul Zimmermann e Willy Tensfeld, l’Ss-Obergruppenführer Karl Wolff, il Gruppenführer Erwin Rosener. In seconda fila, sempre da sinistra, gli Ss-Brigadeführer Karl Brunner (comandante della polizia in provincia di Bolzano), Jürgen v. Kamptz, Wilhelm Harster e l’Ss-Standartenführer Harro With

L’unico legame forte che univa gli italiani dell’Alto Adige era un legame «in negativo», ed era determinato dal comune sentimento di timore che il nuovo dominatore nazista conducesse alla loro persecuzione, all’abbandono delle loro case e al loro ritorno, in una situazione di estrema incertezza, alle regioni di origine. Era un legame di tipo «nazionale», espressione del gruppo linguistico che nel giro di pochi giorni si era trasformato da dominatore in dominato.

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Fu probabilmente anche (ma non solo) a causa di tali timori che la notizia della caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 non provocò tra gli italiani, come invece accadde in molte città della penisola, diffuse manifestazioni di giubilo accompagnate dalla sistematica distruzione di simboli del regime e del suo duce. Azioni iconoclaste e scontri furono alquanto circoscritti ed essenzialmente limitati alla zona industriale di Bolzano.

La disomogeneità della comunità italiana si espresse anche attraverso le differenti azioni politiche sviluppatesi al suo interno nei due anni dell’Alpenvorland.
Senza considerare l’ampio fronte di chi si limitò ad attendere l’esito degli eventi, la seppur numericamente limitata comunità italiana diede corpo a tre diverse risposte: la costituzione di un movimento fascista clandestino; la nascita di un movimento resistenziale di chiara impronta nazionalistica; l’istituzione del Comitato di liberazione nazionale.

Il blocco dei prigionieri "pericolosi" nel Lager di Bolzano

Il blocco dei prigionieri “pericolosi” nel Lager di Bolzano

Fin dall’inverno 1943 prese forma un movimento fascista clandestino, che si prefisse di mantenere contatti con il governo di Salò per informarlo della politica annessionistica di Hofer, di spingere Mussolini a compiere passi ufficiali nei confronti di Berlino a garanzia della sorte delle due zone di operazioni, di ottenere il permesso di costituire una «Brigata Nera Alpina» dove arruolare gli italiani dell’Alto Adige e del Trentino.
I rapporti inviati dagli informatori che facevano capo a questo gruppo clandestino (il Commissario supremo aveva proibito la ricostituzione del partito fascista in Alto Adige) rappresentano un resoconto preciso quanto preoccupato dei provvedimenti che segnavano sostanzialmente la fine dell’autorità italiana sul territorio, moltiplicando i motivi di paura e frustrazione della popolazione italiana.

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Tra questi vi erano la chiusura di scuole, la rimozione di personale pubblico italiano, l’eliminazione di targhe, scritte e monumenti italiani ecc.In una posizione per certi versi intermedia tra fascismo clandestino e movimento resistenziale si collocò un gruppo giovanile che si definiva apolitico, ma che presentava accesissimi tratti nazionalistici e una chiara impronta conservatrice. Fondato da Gino Beccaro nell’ottobre 1943 col nome di «Associazione giovanile italiana alto atesina», circa un anno dopo prese il nome di «Azzurra Stella Alpina», per assumere infine quello di «Brigata Giovane Italia».

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Nel suo programma originario poneva tra i suoi doveri quello di assicurare «unità indissolubile fra tutti gli Italiani di qualsiasi ceto, mestiere, condizione», nonché di garantire la «difesa della Patria, Famiglia e Religione contro qualsiasi nemico di qualunque razza esso sia».
Tra i suoi scopi vi era quello della «cacciata del bastardo tedesco da queste terre assegnateci da Dio, conquistate col sangue, e pagate in denaro sonante», accompagnata dalla «propaganda massi- ma d’italianità per l’Alto Adige». Fondamento dell’Associazione era il«pilastro apolitico» e l’impegno ad evitare qualsiasi divisione interna su base politica che potesse pregiudicare l’obiettivo della «fraternità assoluta fra noi tutti italiani».

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Nell’estate 1944, in un fascicoletto distribuito clandestinamente intitolato «Vetta d’Italia», le finalità dell’organizzazione vennero esplicitate al meglio:«Italiani, noi tutti che abitiamo nelle terre di confine, nelle terre che oltre ad essere state segnate dalla natura sono state conquistate col sangue e pagate in denaro sonante, non dobbiamo lasciarci trascinare da una o dall’altra ideologia politica, non è oggi il momento di discutere se questa o quell’altra dottrina è la migliore o la peggiore, dobbiamo nel modo più indissolubile legarci e formare un blocco unico per combattere e difendere la nostra terra, i nostri confini di cui già, in parte con giustificazioni puerili, il tedesco si è appropriato.

Bolzano, via Talvera, probabilmente nel pomeriggio del 3 maggio: partigiani e civili festeggiano la Liberazione (Miori/Demarchi, Bz)

Bolzano, via Talvera, probabilmente nel pomeriggio del 3 maggio: partigiani e civili festeggiano la Liberazione (Miori/Demarchi, Bz)

Quale può essere allora il vessillo sotto cui tutti possiamo accorrere? Il tricolore – Soltanto in veste apolitica, soltanto in veste nazionalista tutte le più disparate dottrine politiche possono fondersi e formare un granitico blocco il cui legame difficilmente potrà spezzarsi».

Scopo dell’Associazione era dunque quello di dar vita ad un blocco nazionale che fosse in grado dapprima di difendere le posizioni del gruppo linguistico italiano di fronte alle mutate condizioni determinate dall’occupazione tedesca, e in seguito, una volta che la prospettiva della fine della guerra andava facendosi concreta, di lavorare per il mantenimento della provincia di Bolzano all’Italia. Per un certo periodo l’organizzazione tentò di mantenersi in una impossibile posizione di equidistanza tra partito fascista repubblicano e CLN.

Volantino a colori diffuso dai fascisti in Valsugana

Volantino a colori diffuso dai fascisti in Valsugana

Allo scopo di reperire armi prese contatti sia con il CLNAI milanese che con la X MAS, dalla quale ottenne verso la fine della guerra l’invio di un piccolo quantitativo di armamenti.Alla vigilia dell’insurrezione generale, l’«Azzurra Stella Alpina» si costituì in brigata autonoma «Giovane Italia» e fu inquadrata all’interno del CLN, partecipando attivamente agli scontri del 3 maggio.

Brennero, maggio 1945. Militari americani

Brennero, maggio 1945. Militari americani

Era ormai divenuto impossibile oscillare tra i due contendenti italiani (i fascisti e gli antifascisti) e così, sempre in nome della difesa dell’italianità dell’Alto Adige, la formazione di stampo nazionalista si schierò apertamente con la Resistenza del CLN, dando ulteriore vigore alle posizioni già presenti nel locale Comitato di liberazione nazionale, che ponevano l’accento sulla difesa del confine del Brennero.Il CLN bolzanino si costituì all’inizio del 1944, con un profilo che non poteva che essere urbano ed operaio, data la strutturazione sociale della comunità italiana dell’Alto Adige.

Il "Bollettino Ufficiale" del commissario supremo per la "Zona d'operazioni delle Prealpi". Seguendo l'indice, al primo posto troviamo il decreto di chiusura della Casa Editrice del quotidiano "Il Brennero", mentre al punto 3) troviamo la nomina dell'avv. Adolfo de Bertolini a Commissario prefettizio di Trento. Interessante anche la disposizione sulla nuova nomenclatura di vie e piazze

Il “Bollettino Ufficiale” del commissario supremo per la “Zona d’operazioni delle Prealpi”. Seguendo l’indice, al primo posto troviamo il decreto di chiusura della Casa Editrice del quotidiano “Il Brennero”, mentre al punto 3) troviamo la nomina dell’avv. Adolfo de Bertolini a Commissario prefettizio di Trento. Interessante anche la disposizione sulla nuova nomenclatura di vie e piazze

Alla guida del primo CLN di Bolzano, che sarebbe stato completamente distrutto alla fine del 1944 dall’azione repressiva delle autorità di polizia naziste, si pose fin dall’inizio Manlio Longon, dirigente dello stabilimento Magnesio ed aderente al Partito d’Azione.

Da un punto di vista sociale, all’interno del CLN era prevalente la componente impiegatizia e dirigenziale della Bolzano italiana, tanto che esso faticò a porre sotto controllo alcune cellule indipendenti di ispirazione comunista che si erano costituite all’interno delle fabbriche della zona industriale e che continuarono a tenere contatti autonomi con Milano e Torino grazie ai trasporti di materiale e di merci che regolarmente si tenevano con gli stabilimenti centrali.Per i motivi sopra ricordati, l’azione militare delle formazioni che facevano capo al CLN e di altri gruppi autonomi fu decisamente limitata.

Val d'Isarco, agosto-settembre 1943. Panzer germanici discesi dal Brennero (p. priv.)

Val d’Isarco, agosto-settembre 1943. Panzer germanici discesi dal Brennero (p. priv.)

Al controllo poliziesco delle autorità germaniche e a quello svolto dalla popolazione locale di lingua tedesca si aggiungeva quello degli aderenti al partito fascista repubblicano, che, secondo una relazione redatta dai comandi del CLN, pur se clandestino, disponeva a Bolzano di «circa 500 iscritti che lautamente pagano ogni informazione sul movimento antifascista»3. Tutto ciò impediva, nonostante la presenza di circa 7.000 operai, di dar vita a formazioni capaci di scendere sul terreno della lotta armata.

Manlio Longon

Manlio Longon

L’azione delle formazioni partigiane si espresse, in ordine di rilevanza, nelle seguenti direzioni: attività di propaganda e diffusione di informazioni e di materiale clandestino soprattutto all’interno degli stabilimenti industriali; mantenimento di contatti con i CLN di Milano, Trento e Padova; invio di volontari alle formazioni partigiane delle province vicine (soprattutto del Trentino e del Bellunese); assistenza, utilizzando la rete delle fabbriche, ai militari sbandati, a qualche partigiano sfuggito ai rastrellamenti e agli internati del campo di concentramento di Bolzano; sostegno alle missioni alleate; sabotaggio di linee ferroviarie, elettriche e telefoniche.

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Al CLN di Longon va riconosciuto il merito di aver cercato il dialogo con gli esponenti sudtirolesi che si ponevano su chiare posizioni antinaziste. Longon ebbe alcuni colloqui con l’imprenditore sudtirolese Erich Amonn, autorevole esponente dei Dableiber e che nel dopoguerra sarebbe stato fondatore e presidente della Südtiroler Volkspartei.

I contatti non condussero a nulla di concreto, poiché ad allontanare le parti già aleggiava il problema della futura destinazione della provincia di Bolzano e l’ipotesi dell’autodeterminazione. Il tentativo di dialogo fu comunque significativo, specie alla luce di quanto sarebbe avvenuto dopo, con la profonda divisione tra gli esponenti delle due Resistenze «etniche».

Erich Amonn

Erich Amonn

Conscio della peculiare situazione altoatesina, dei torti subiti dalla locale popolazione di lingua tedesca e delle profonde spaccature determinatesi nel corpo sociale a seguito del trauma delle opzioni, Longon si dimostrò capace di distinguere all’interno della comunità sudtirolese tra aderenti ed oppositori al regime nazista, senza compiere la drastica e semplificatrice equazione tedesco=nazista.

Come vedremo, il suo fu purtroppo un atteg- giamento isolato all’interno del movimento resistenziale italiano, destinato a scomparire con l’assassinio di Longon avvenuto il 31 dicembre 1944 in una cella del Corpo d’Armata di Bolzano. Nei giorni precedenti, insieme a Longon, pressoché l’intera rete del CLN bolzanino era finita nelle mani dei nazisti. Tutti subirono torture e l’internamento nel lager di Bolzano, mentre sette capi cellula, trasferiti a Mauthausen, non avrebbero più visto la via del ritorno.

 La vedova di Manlio Longon con le due figliolette durante la cerimonia


La vedova di Manlio Longon con le due figliolette

La distruzione del CLN di Longon segnò sostanzialmente la fine di ogni tentativo di dialogo tra le due Resistenze. Nei mesi successivi, quando ormai la guerra volgeva al termine, le due parti si mostrarono sempre più interessate alle sorti del confine del Brennero, quella italiana intenzionata alla sua conservazione, quella tedesca ad un ridisegno che consentisse il ricongiungimento della popolazione di lingua tedesca a sud e a nord del Brennero.

Tale cambiamento è in parte riconducibile al diverso profilo delle personalità che animarono la Resistenza italiana – Manlio Longon prima e Bruno De Angelis poi – e in parte al mutamento della situazione generale, prima caratterizzata dall’urgenza della lotta al nazismo, poi, a guerra praticamente finita, dalle preoccupazioni riguardo alle sorti della provincia di Bolzano. Nei primi mesi del 1945 divenne per tutti assai più difficile di prima immaginare una sincera collaborazione con chi propugnava soluzioni opposte alla questione della destinazione dell’Alto Adige.

De Angelis col governatore alleato McBratney

De Angelis col governatore alleato McBratney

Solamente alla vigilia della Liberazione il CLNAI milanese assegnò ad un proprio uomo, Bruno De Angelis, il compito di ricostituire in Alto Adige una nuova struttura resistenziale dopo l’annientamento del primo CLN. De Angelis – che sarebbe stato il primo prefetto dell’Alto Adige, dal maggio al 31 dicembre 1945 – apparteneva alle Fiamme Verdi, ovvero all’organizzazione militare dei partigiani cattolici, lavorava per alcune imprese industriali lombarde e proprio la sua attività lavorativa durante gli anni di guerra lo aveva condotto spesso a Merano, dove poteva vantare ottimi contatti con l’alta società.

Bolzano, 9 settembre 1943. Un carro armato nella piazza antistante l'edificio del Corpo d'Armata di Bolzano. Sulla facciata sono visibili i segni lasciati da un colpo sparato per convincere alla resa il generale Alessandro Gloria (p. priv. Acherer, Brixen)

Bolzano, 9 settembre 1943. Un carro armato nella piazza antistante l’edificio del Corpo d’Armata di Bolzano. Sulla facciata sono visibili i segni lasciati da un colpo sparato per convincere alla resa il generale Alessandro Gloria (p. priv. Acherer, Brixen)

È con De Angelis che avvenne l’inquadramento nel CLN dei resistenti nazionalisti della «Giovane Italia», nonché l’infiltrazione nelle formazioni partigiane di ex fascisti desiderosi di ricrearsi una verginità politica. Ciò si inseriva nello sforzo di dare forza numerica ad un’organizzazione militare che, secondo le stesse dichiarazioni di De Angelis, doveva porsi come obiettivo principale quello di assumere i poteri al momento dell’ormai prossima resa tedesca.

Bolzano, 9 settembre 1943. Truppe tedesche motorizzate raggiungono il quartiere di Rencio/Rentsch e sono salutate con entusiasmo dalla popolazione accorsa sulle strade

Bolzano, 9 settembre 1943. Truppe tedesche motorizzate raggiungono il quartiere di Rencio/Rentsch e sono salutate con entusiasmo dalla popolazione accorsa sulle strade

Al momento dell’arrivo dei liberatori americani, De Angelis voleva accreditarsi come il capo di una rete organizzata di formazioni militari relativamente numerose, che avrebbero dovuto mostrarsi capaci di assumere il controllo del territorio, dopo aver dato un qualche contributo alla cacciata dei nazisti. Il fatto di riuscire ad assumere formalmente il governo della provincia in nome delle autorità italiane al momento della resa tedesca, veniva visto come decisivo per garantire il mantenimento dell’Alto Adige in mani italiane.

Franz Hofer parla agli Schützen in occasione del "Kreisschiessen" a Brunico, maggio 1944 (Slg. Wassermann/Niederdorf)

Franz Hofer parla agli Schützen in occasione del “Kreisschiessen” a Brunico, maggio 1944 (Slg. Wassermann/Niederdorf)

L’interesse di De Angelis non era solo di tipo nazionale, ma anche di carattere economico: i suoi strettissimi legami con il mondo industriale lombardo lo portavano a rappresentare gli interessi di quelle forze economiche fortemente interessate all’«oro bianco» (l’energia idroelettrica) prodotta in Alto Adige.
È in quest’ottica che si inseriscono le fitte trattative di De Angelis con i comandi germanici, che gli consentirono di assumere il 3 maggio, poco prima dell’arrivo degli alleati, i poteri militari e civili sulla provincia. Le aspirazioni di De Angelis ebbero verosimilmente un qualche ruolo anche nei sanguinosi quanto inutili scontri tra truppe tedesche in ritirata da una parte e partigiani e civili dall’altra che si ebbero a Merano il 30 aprile e a Bolzano il 3 maggio e che causarono rispettivamente 9 e 45 morti.

Hitler riceve il saluto delle organizzazioni giovanili naziste austriache sino ad allora ... illegali

Hitler riceve il saluto delle organizzazioni giovanili naziste austriache sino ad allora … illegali

Ma in quelle drammatiche vicende, probabilmente un peso maggiore ebbero altri due fattori, ovvero la mancanza di coordinamento tra le diverse formazioni partigiane e lo stato di disordine con cui andava svolgendosi la disordinata ritirata dell’esercito tedesco verso nord. Passiamo ora alla componente di lingua tedesca.

I fatti dell’8 settembre 1943, l’immediata occupazione nazista e l’avvento del «regno di Hofer» furono vissuti dalla maggioranza della popolazione tedesca come un momento di liberazione dopo vent’anni di dittatura fascista, la fine dell’inferiorità politica, sociale, amministrativa, culturale della minoranza sudtirolese, il preludio del distacco formale e definitivo dal giogo italiano.

"Crepa, Sudtirolo !": con questa incisiva immagine (di una pubblicazione socialdemocratica austriaca dei primi anni Trenta) veniva stigmatizzata la convergenza politica che sin dall'inizio il partito nazionalsocialista aveva cercato con il fascismo italiano, sacrificando così la sorte dei sudtirolesi

“Crepa, Sudtirolo !”: con questa incisiva immagine (di una pubblicazione socialdemocratica austriaca dei primi anni Trenta) veniva stigmatizzata la convergenza politica che sin dall’inizio il partito nazionalsocialista aveva cercato con il fascismo italiano, sacrificando così la sorte dei sudtirolesi

Ma durante i mesi dell’Alpenvorland, anche la comunità di lingua tedesca, come quella italiana, era tutt’altro che priva di differenziazioni interne, anche se indubbiamente prevaleva un sentimento di favore nei confronti del nuovo regime. La divisione tra Optanten e Dableiber, tra coloro che nel 1939 avevano scelto la Germania nazista e quelli che invece avevano preferito la Heimat, andò approfondendosi.

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Le autorità naziste e i sudtirolesi inquadrati nelle organizzazioni nazionalsocialiste sorte in provincia di Bolzano già nel 1940 a seguito degli accordi sulle opzioni (ADO, Arbeitsgemeinschaft der Optan- ten für Deutschland), presero immediatamente a dare la caccia ai dirigenti dei Dableiber. Alcuni tra questi dovettero scappare (Michael Gamper a Firenze), altri finirono in campi di concentramento (Friedl Volgger, Rudolf Posch), altri furono allontanati dal Sudtirolo (Josef Raffeiner fu confinato a Innsbruck).

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Da Berlino e da Innsbruck dovettero addirittura giungere inviti alla moderazione nei confronti dei più fanatici degli Optanten, intenzionati ad arrivare ad una vera e propria resa dei conti con i Dableiber, colpevoli di aver tradito il Volk tedesco preferendo l’Italia al Führer. Se l’esiguità del movimento resistenziale espressione della popolazione italiana si spiega con l’assenza del necessario retroterra sul territorio da parte di quella comunità, numericamente limitata, immigrata di recente e concentrata nelle città, per quanto riguarda la componente tedesca essa subì in primo luogo la pressione del controllo capillare esercitato dalle autorità naziste coadiuvate da elementi locali.

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Ciò contribuisce a spiegare il carattere minoritario anche della Resistenza sudtirolese, che ebbe due anime, una borghese, liberale, cittadina, l’altra contadina e popolare, entrambe unite dall’impronta cattolica e conservatrice ed entrambe assai distanti da un punto di vista politico, sociale e culturale dagli operai che animavano la Resistenza italiana. Non era dunque soltanto l’elemento etnico ad allontanare gli attivisti antinazisti dei due gruppi linguistici, ma anche un’altra serie di fattori che sarebbe sbagliato sottovalutare.

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Fu essenzialmente dal seno dei Dableiber che sorse il movimento di resi- stenza sudtirolese. Già nel novembre 1939 le forze contrarie all’opzione per la Germania avevano dato vita all’Andreas-Hofer-Bund, espressione di gruppi cattolici in cui forte si manteneva il patriottismo tirolese-asburgico, che vedevano nel Reich nazista con la sua impronta prussiana, protestante e razzista l’esatto contrario dei valori in cui essi si riconoscevano.

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Fino al settembre 1943 l’Andreas-Hofer-Bund, guidato da Friedl Volgger, si dedicò essenzialmente ad azioni di propaganda antinazista volte a frenare l’espatrio della popolazione. Con l’istituzione dell’Alpenvorland, cui seguì un’ondata di arresti e di internamenti a carico di molti aderenti all’Andreas-Hofer- Bund, questo divenne una vera e propria organizzazione politica e militare clandestina, paragonabile alle bande partigiane di parte italiana.

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Ciò si verificò sotto la guida di Hans Egarter, che riuscì a stringere rapporti con il movimento resistenziale attivo nel Tirolo del Nord e nel Vorarlberg e con le missioni alleate presenti in Svizzera. Il gruppo di Egarter andò formandosi raccogliendo disertori e renitenti, originari in larga parte della val Passiria, della val Badia e della valle Aurina e fu attivo soprattutto in val Passiria, dove operò azioni di rappresaglia nei confronti dei nazisti locali e anche agguati alla Werhmacht, in primo luogo a difesa delle famiglie dei disertori, spesso arrestate e tenute in ostaggio.

 Hans Egarter (1909 - 1966), a capo dell'Andreas Hofer-Bund


Hans Egarter (1909 – 1966), a capo dell’Andreas Hofer-Bund

Il ruolo resistenziale dell’Andreas-Hofer-Bund fu formalmente riconosciuto dagli alleati al termine della guerra, quando fino alla fine del 1945 ad esso fu affidato il compito di dare la caccia a nazisti e fascisti rifugiatisi in provincia di Bolzano. Ma soprattutto, a 300 uomini del gruppo Egarter gli americani vollero assegnare il brevetto Alexander, un riconoscimento spet- tante ai partigiani che si erano distinti nella lotta per la liberazione dell’Italia.

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L’onorificenza fu però rifiutata dal gruppo Egarter, perché accettarla avrebbe significato disconoscere l’esistenza di un movimento resistenziale che non aveva avuto nulla a che fare con la resistenza nazionale e che si proponeva il ritorno del Sudtirolo alla madrepatria austriaca. A loro avviso ciò avrebbe rappresentato la negazione del diritto all’autodecisione per il Sudtirolo, che l’Andreas-Hofer-Bund riteneva di avere conquistato sul campo attraverso la resistenza attiva al nazismo.

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L’aspetto religioso della Resistenza sudtirolese è assai importante e va ricondotto all’influente ruolo della Chiesa nella società locale. A differenza dei vertici ecclesiastici, in occasione delle opzioni il basso clero si schierò in larghissima maggioranza a sostegno dei Dableiber e su posizioni chiara- mente antinaziste e contrarie al paganesimo razzista del regime di Hitler.

Non è un caso che fu proprio a partire da motivazioni religiose che ma- turarono alcune delle pagine più alte dell’opposizione al nazismo, tra cui quella di Josef Mayr-Nusser.Mayr-Nusser, presidente dei giovani di Azione cattolica dei decanati tedeschi della Diocesi di Trento, attivo dal 1939 nelle file dei Dableiber e tra i fondatori dell’Andreas-Hofer-Bund, nel settembre 1944 venne arruolato nelle SS e inviato nella Prussia occidentale.

Rifiutatosi di prestare il giura- mento delle SS per motivi religiosi, fu dapprima detenuto a Danzica e poi destinato all’internamento nel campo di concentramento di Dachau. Nel febbraio 1945, durante il viaggio di trasferimento, morì di stenti.

Un altro importante caso di resistenza passiva o di testimonianza è quello del Polizeiregiment Brixen, l’ultimo dei quattro reggimenti di polizia nei quali furono arruolati i sudtirolesi. Costituito nell’ottobre 1944, il Polizeiregiment Brixen a fine febbraio 1945 alla presenza del Gauleiter Hofer rifiutò in blocco il giuramento e per questo fu inviato come «carne da macello» in Alta Slesia a combattere contro l’Armata Rossa. Molti degli appartenenti al reggimento erano Dableiber e alcuni erano in contatto con l’Andreas-Hofer-Bund.

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I casi citati hanno in comune il rifiuto del giuramento, che rappresentava un atto di opposizione pubblica ad un regime e ad un’ideologia giudicati antireligiosi e criminali.Per concludere: le due Resistenze dell’Alto Adige furono fragili, divise e interessarono una piccolissima minoranza della popolazione.

La loro debolezza si spiega sia con la frattura che separava italiani e tedeschi, sia con le divisioni interne alle due comunità che ponevano le forze resistenziali in condizioni di minorità.Quella italiana fu inizialmente espressione di un ceto operaio isolato nella cittadella della zona industriale di Bolzano, di recente costituzione e con un debolissimo radicamento sul territorio.

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Il suo isolamento non era solo in direzione della popolazione di lingua tedesca rurale e conservatrice, ma anche verso la borghesia italiana del pubblico impiego e delle professioni, che nei confronti del regime fascista nei vent’anni precedenti aveva avuto un rapporto ben diverso da quello della classe operaia. Con l’approssimarsi della fine del conflitto, però, la Resistenza italiana conobbe l’accentuarsi del proprio carattere nazionale, finalizzato a garantire il mantenimento dell’Alto Adige all’Italia.

Ecco allora che all’interno del CLN vennero in- globate persone e formazioni dalla evidente impostazione nazionalistica e anche ex fascisti desiderosi di far dimenticare il proprio passato. Se nel resto d’Italia, specie negli apparati militari e di polizia, furono riutilizzati ex funzionari fascisti utili, nel quadro della «guerra fredda», per la lotta al comunismo, in Alto Adige qualcosa di simile avvenne nell’ambito della «guerra fredda etnica» scoppiata poco prima della fine del conflitto e che aveva quale motivo del contendere il confine del Brennero.

_gallery_touriseum_-_der_mit_dem_bart_object_10244 La nuova priorità compattò gli italiani all’interno del CLN, che da una parte sorvolò sulle differenze interne e dall’altra cercò di «monopolizzare» la resistenza al nazismo, presentata come un’esclusiva degli italiani, senza alcun cenno ai suoi limiti e ai suoi errori. In questo quadro la popolazione sudtirolese veniva generalmente rappresentata come compattamente e sinceramente vicina alle autorità naziste.

La Resistenza tedesca si basava essenzialmente sulla componente dei Dableiber ed era alimentata da un forte sentimento religioso e di attaccamento alla patria tirolese, che spingevano a rifiutare l’ideologia nazista vista come prussiana ed anticristiana. Le formazioni militari partigiane furono alimentate dal crescente numero di disertori, nonché da obiettori che avevano rifiutato il servizio militare per motivi religiosi. Si può anche dire che la resistenza tedesca si caratterizzò per il suo carattere passivo, «individualista» e volto all’autodifesa della propria comunità.

Il Gauleiter Hofer con vestito tradizionale tirolese

Il Gauleiter Hofer con vestito tradizionale tirolese

I giovani che non si presentavano alle armi, nella grande maggioranza dei casi si nascondevano sui monti più prossimi al proprio paese, limitandosi ad aspettare la fine della guerra. Le stesse formazioni dell’Andreas-Hofer-Bund interpretarono la propria attività essenzialmente come difesa delle famiglie dei disertori dalle rappresaglie di SOD ed SS e di propaganda antinazista tra gli arruolati nei Polizeiregimenter. Iniziative più impegnative erano del resto improponibili in considerazione della limitatezza numerica di tale movimento partigiano e della difficoltà ambientale nella quale esso operava.

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Il Gauleiter Hofer ad una gara di tiro a segno

Non vi fu, in altre parole, un vero e proprio passaggio dal momento della renitenza a quello della resistenza. Nell’immediato dopoguerra la neonata SVP mise al centro della propria azione politica la richiesta dell’autodeterminazione e si legittimò agli occhi degli alleati come il partito dei Dableiber e della resistenza antinazista, potendo vantare tra i suoi fondatori personalità come Amonn, Egarter, Volgger ecc. Ma ben presto a prevalere fu l’esigenza di compattare le fila sudtirolesi allo scopo di aumentare la propria forza nei confronti di Roma, presentandosi come partito di raccolta etnico, al cui interno accogliere tutte le posizioni, dai più aperti oppositori al nazismo fino a coloro che vi avevano collaborato attivamente.

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Ciò significò anche, in nome della compattezza etnica, tacere le voci degli ex resistenti in quanto scomodi testimoni di una profonda divisione che non si voleva mostrare verso l’esterno. Sia per i sudtirolesi che per gli italiani dell’Alto Adige, dunque, la «guerra fredda etnica» produsse un compattamento nazionale che finì per mettere sotto silenzio per lungo tempo le fratture interne alle due comunità, rimandando un’aperta riflessione sulle responsabilità di chi si riconobbe e/o collaborò con le due dittature e sul valore di chi invece vi si oppose attivamente o con altissimi gesti di testimonianza. Le due Resistenze, dunque, divise tra 1943 e 1945, continuarono ad esserlo nel dopoguerra, non riuscendo mai ad ottenere l’unanime riconoscimento quali elementi fondativi della democrazia sorta con la sconfitta dei fascismi.

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