a cura di Cornelio Galas
“Il tecnico altoatesino Richard Klement, il meccanico bolzanino Helmut Gregor: apparentemente semplici cittadini emigrati in Argentina dopo le devastazioni della seconda guerra mondiale. Ma questi nomi ne celano altri ben più noti: Adolf Eichmann e Josef Mengele.
Sono solo due delle migliaia di nazisti che dopo la sconfitta, attraverso l’Alto Adige e il porto di Genova, riuscirono a raggiungere terre più sicure come Spagna, Sudamerica, Medio Oriente. Eichmann e Mengele si erano avvalsi per la loro fuga oltreoceano nel 1950 di documenti rilasciati loro in Alto Adige dopo aver assunto una nuova identità. Perché il prototipo del “burocrate dello sterminio” e l”‘angelo della morte” del lager di Auschwitz-Birkenau cambiarono identità proprio in Alto Adige?
Ben presto si sarebbe visto che Eichmann e Mengele non erano eccezioni isolate, che anche altri nazisti e criminali di guerra avevano scelto l’Alto Adige come via di fuga e che alcuni di loro avevano ottenuto qui nuovi documenti di identità. Vi sono molte ragioni che spiegano perché l’Alto Adige divenne il principale nascondiglio dei nazisti. Non esisteva regione in Europa che potesse reggere il confronto con questa terra”.
Parte da queste considerazioni lo studio di Gerald Steinacher (University of Nebraska – Lincoln) che fa luce sulle “coperture” avute da tanti criminali nazisti in Alto Adige. Sì, proprio dove si è trovato poi, gran parte del tesoro trafugato dalla Banca d’Italia, come abbiamo visto nelle puntate sulla caccia all’oro nazista.
Ma procediamo con ordine. Nelle settimane che precedettero la fine del conflitto, nel 1945, l’Alto Adige divenne per fascisti e nazisti, collaboratori e criminali nazisti di tutta Europa una delle ultime aree verso cui ripiegare. A fine aprile 1945 il Terzo Reich – se si prescinde da Boemia e Moravia e dallo Schleswig-Holstein – si era praticamente ristretto all’arco alpino di Austria occidentale e Alto Adige.
Fuggire nella propagandata “fortezza delle Alpi” significava sottrarsi un’ultima volta alle armate degli alleati e l’Alto Adige, “terra di nessuno” fra Germania e Italia, era una meta particolarmente ambita. Il motivo di ciò risiedeva non da ultimo nella sua prossimità alla Svizzera e, di conseguenza, nella possibilità di riparare in un paese neutrale. Fin dalle ultime settimane di guerra trovarono rifugio fra i monti dell’Alto Adige anche membri delle alte sfere dell’esercito tedesco e importanti gerarchi nazisti.
Nell’aprile 1945 vi giunsero, in fuga dai bombardamenti, le famiglie dei gerarchi nazisti che vivevano sull’Obersalzberg nei pressi di Berchtesgaden, fra cui quella del Reichsleiter Martin Bormann, membro della direzione generale del partito nazionalsocialista, che non avevano ragione di temere di essere tradite dalla popolazione filotedesca, oppressa per decenni dal fascismo italiano.
A Selva di val Gardena trovarono rifugio anche la moglie e la figlia del capo supremo delle SS Heinrich Himmler. L’ufficiale della Wehrmacht Edmund Theil descrive nelle sue memorie come avesse portato di nascosto da Innsbruck in Alto Adige la famiglia del Gauleiter del Tirolo Franz Hofer:
“Degli amici altoatesini riuscirono a portare oltre frontiera i figli ad uno ad uno. [ … ] Quando tutti e otto i figli di Hofer ebbero raggiunto l’Alto Adige in questo modo, mi recai con una motocicletta, una vecchia Guzzi che perdeva colpi, alla “frontiera verde” fra il Tirolo settentrionale e quello meridionale, attesi la moglie di Franz Hofer, che degli amici dovevano accompagnare al nostro punto di ritrovo, la feci accomodare sul sedile posteriore e la portai a Bressanone dai suoi figli, dove fu accolta dall’ex responsabile nazista della città vescovile, un macellaio della Hartwiggasse”.
Un dirigente della Banca del Reich, Maximilian Bernhuber, fautore dell”‘arianizzazione” dei beni degli ebrei, si nascose a sua volta in un maso altoatesino. Nell’agosto 1945 venne arrestato in val Pusteria dai carabinieri e quindi accusato dalla giustizia italiana di vari reati. Da Roma Bernhuber aveva trasferito le riserve auree dell’Italia in Alto Adige già nell’autunno 1943 e le aveva messe al sicuro nell’antica fortificazione di Fortezza.
Le unità speciali americane rimasero di stucco – lo abbiamo visto in precedenti servizi – quando nel maggio 1945 entrarono nella “fortezza d’oro”. Nel maggio 1947 fu catturato in Alto Adige lo Sturmbannfilhrer delle SS Alois Schintlholzer. Nativo di Innsbruck e famoso pugile, Schintlholzer aveva aderito già nel 1932 alla NSDAP, il partito nazista, ed era un esponente di punta dei nazionalsocialisti tirolesi.
La sua brutalità gli aveva facilitato una rapida carriera nelle SS: durante il pogrom di Innsbruck nel novembre 1938 si trovava alla testa di un commando della morte. In qualità di collaboratore della Gestapo in Italia aveva partecipato a diverse rappresaglie contro partigiani e civili. Nel corso di una di queste azioni fu dato alle fiamme l’intero paese di Caviola e furono trucidate quaranta persone. Ma quando la fine del Terzo Reich appariva ormai scontata, Schintlholzer iniziò a prepararsi per il dopoguerra.
Nel gennaio 1945 chiese ai suoi superiori il permesso di accompagnare i suoi figli in Alto Adige e nell’aprile 1945 si nascose a sua volta a Merano. La maggior parte dei fuggiaschi nazisti catturati in Alto Adige si arrese senza difendersi ma alcuni di loro opposero resistenza. Mario Carità, a capo della cosiddetta “banda Carità” – una unità a servizio delle SS e della polizia di Firenze e Padova, che aveva tratto origine da ex unità fasciste – si ritirò in Alto Adige con un piccolo bottino, frutto di saccheggi.
Nel maggio 1945 fu ucciso in uno scontro a fuoco con le forze dell’esercito americano a Castelrotto. A dispetto di quanto affermato dalla sua amante, gravemente ferita, secondo cui i figli del comandante fascista non si trovavano in Alto Adige, due figlie di Carità furono rintracciate nell’hotel Bad Ratzes di Siusi.
Finita la guerra, anche alcuni camerati di Carità si nascosero a Merano. Valide ragioni, del resto, spiegavano la fuga in Alto Adige del comandante delle SS. Molti sudtirolesi, infatti, simpatizzarono e collaborarono con la sua famigerata unità. Fra costoro c’era il gardenese Dominik Moroder, optante per la Germania, che frequentò nel 1940 la scuola per leader nazisti di Sonthofen e nel 1943 quella di Hohenwerfen, dove poté approfondire la sua “visione del mondo” grazie a un rigoroso programma di corsi.
Tale addestramento aveva lo scopo di prepararlo a ricoprire in futuro posizioni dirigenziali nel previsto nuovo territorio di insediamento sudtirolese. In veste di responsabile organizzativo e successivamente di responsabile del gruppo locale di St. Ulrich (Ortisei), egli faceva parte dello “zoccolo duro” del nazionalsocialismo nella sua terra natia.
Dopo l’occupazione tedesca dell’Italia, nell’autunno 1943 fu assegnato al comando SS di Firenze a “Villa Triste”. Moroder ed altri sudtirolesi collaboravano con il gruppo di Carità per combattere partigiani e formazioni della resistenza nell’alta Italia. Coloro che alla fine della guerra trovarono un nascondiglio per il loro capo a Siusi furono forse uomini delle SS sudtirolesi. Successivamente Moroder emigrò in Argentina, dove fu accolto da altre camicie brune sudtirolesi.
Anche Erich Priebke trovò riparo in Alto Adige: lo Sturmbannfohrer delle SS era un ufficiale della Gestapo a Roma e com’è noto nel marzo 1944 fu corresponsabile della strage delle Fosse Ardeatine in cui vennero fucilati per rappresaglia 335 ostaggi. Alla fine della guerra Priebke si nascose in Alto Adige, al pari del suo più stretto collaboratore, Karl Hass. Nel dicembre 1946 Priebke era a Vipiteno, dove dal 1943 vivevano sua moglie Alice e i due figli.
In un primo tempo visse nel timore di essere perseguito dalla giustizia, “ma lì”, ricordò cinquanta anni dopo in occasione del suo processo, “nessuno mi ha mai cercato”. Priebke fu aiutato nella ricerca di un’abitazione da ex camerati delle SS sudtirolesi e fu “ribattezzato”. La popolazione dell’Alto Adige continuò ad essere ben disposta verso “i tedeschi” (germanici) anche dopo il 1945.
I soldati e i fuggiaschi in difficoltà dopo la fine della guerra venivano aiutati volentieri e difficilmente venivano consegnati alle autorità italiane o alleate. La transizione dal caos dell’immediato dopoguerra a una certa normalizzazione durò anni.
Nel dicembre 1945 gli alleati si ritirarono dalle province di confine del Nord-Italia, fra cui l’Alto Adige, che meno di un anno dopo la fine delle ostilità si trovò così ad essere uno dei pochissimi territori di lingua tedesca dell’ex dominio nazista in Europa libero dal diretto controllo di un governo militare alleato.
Tenuto conto di queste circostanze, per molti membri delle alte sfere delle SS, oltre che per tanti funzionari più piccoli, non era difficile sparire nelle montagne e far perdere le loro tracce per anni. Alla fine della guerra costoro si nascosero in particolare nella città termale di Merano, trovando rifugio, per lo più sotto falso nome, in case private, ospedali, sanatori, nei masi e nelle malghe circostanti.
Nel maggio 1945 fu arrestato a Merano, da ufficiali americani, il personale dell’ambasciata germanica retta dal plenipotenziario del Reich in Italia, Rudolf Rahn, e dall’ex capo dell’Ufficio personale del ministero degli Affari esteri, Hans Schroder. Merano rappresentava un rifugio sicuro per i diplomatici nazisti. Nell’aprile 1945 vi giunse anche Dietrich von Jagow, ex ambasciatore tedesco in Ungheria, insieme a un gruppo di diplomatici tedeschi provenienti dall’Ungheria.
In tutta evidenza costoro si erano rifugiati in Alto Adige al seguito del barone Gabor di Kemeny, ministro degli Esteri ungherese nel governo fascista di Szàlasi. Poco prima dell’arrivo delle truppe americane von Jagow si suicidò in una camera d’albergo. Nell’aprile 1945 Merano fu inondata da dozzine di francesi del regime di Vichy.
Fra costoro si trovavano i più noti collaborazionisti francesi: il primo ministro Pierre Laval, il ministro della Propaganda Jean Luchaire, i capi del partito Marcel Déat e Marcel Bucard, i principali collaboratori di Jacques Doriot, il comandante di forze paramilitari André Besson-Rapp e il comandante della milizia e ministro della polizia di Vichy, Joseph Darnand.
Alcuni furono arrestati dagli americani, altri riuscirono a far perdere le loro tracce. Nell’aprile 1945 presero alloggio nell’albergo meranese Castel Rundegg perfino dei diplomatici giapponesi. Il particolare ruolo avuto da Merano come roccaforte nazista – Eldorado dei collaborazionisti – era noto a molti negli anni del dopoguerra. I giornali dell’epoca scrivevano: “Merano, è noto a tutti, è una specie di “Eldorado” per i pezzi grossi e meno grossi compromessi nelle vicende successive al 1943”.
L’ltalia era diventata un porto di mare per decine di migliaia di “relitti” della guerra. Nel 1947 il quotidiano Alto Adige così scriveva: “Tra le regioni maggiormente sature è da porsi in primo luogo l’Alto Adige ed in particolare Merano, ove la massa concentrata e solo in parte censita [di ex nazisti e collaborazionisti] è davvero notevole”. Molti, in un primo tempo, rimasero appartati e vissero delle risorse accumulate negli anni del dominio nazifascista.
Ma quando i soldi finirono, solo pochi riuscirono a trovare un lavoro e reinserirsi nella società civile. Diversi di loro, stranieri illegali, scivolarono in giri criminali e cominciarono a guadagnarsi la vita con lo sfruttamento della prostituzione, lo spaccio di droga, il contrabbando di valuta e di “merce umana” e la falsificazione di banconote.
“Sono assai spesso stranieri che non hanno troppo da perdere e che impegnano poco di sé e della propria reputazione”, osservava la stampa locale. Nel maggio 1947 il quotidiano Alto Adige pubblicò un articolo dai toni alquanto rassegnati:
“Il nostro giornale ha scritto fino alla noia che l’Alto Adige, nel dopoguerra, è stato l’Eldorado dei nazi-fascisti, che costà trovarono in ogni tempo larga, compiacente ospitalità. Ora, se pure la mala genia si è un po’ diradata, i casi di criminali di guerra e collaboratori dei fascisti e dei tedeschi comodamente installati a Bolzano, sono ancora numerosi”.
La moglie e il figlio di Josef Mengele si stabilirono a loro volta a Merano nel 1962. Mengele affidò la sua famiglia a persone di Merano che in passato lo avevano aiutato a fuggire. Il fratello di Josef, Alois, aprì nel 1969 a Merano una filiale dell’azienda familiare di Günzburg che produceva macchine agricole.
La nascita della filiale meranese “Mengele e Steiner Srl” rappresentava evidentemente una garanzia finanziaria per Martha Mengele e il figlio di primo letto Karl Heinz. Anche nel dopoguerra nelle località altoatesine era dato osservare un rapporto estremamente disinvolto con ex alti gerarchi nazisti.
Dopo il 1945 Karl Wolff, l’ex comandante supremo delle SS e della polizia in Italia, trascorse le sue vacanze per anni nel comune altoatesino di Appiano, nei pressi di Bolzano. A San Michele-Appiano fu perfino festeggiato e onorato dall’ufficio del turismo locale per la sua fedeltà alla località turistica.
Se a guerra conclusa era praticamente impossibile fuggire oltreoceano, a partire dal 1946 la situazione evolse rapidamente. Il modo più semplice e rapido per imbarcarsi per le Americhe provenendo dall’Europa centrale era attraverso il porto di Genova, transitando per l’Alto Adige. E tale fu l’itinerario scelto dalla maggior parte dei membri delle SS e dei nazisti in fuga.
Esistevano a dire il vero anche altre vie di fuga, ad esempio i due crocevia di Svizzera e Spagna, che migliaia di criminali nazisti riuscirono a raggiungere fra il 1943 e il 1947. Tuttavia, a partire dal 1946 l’Italia divenne la via di fuga più frequentata, a causa delle rapide vie di collegamento tra l’Europa centro-orientale e i porti di Genova e Trieste.
L’Italia era dunque una tappa obbligata per tutti coloro che volevano emigrare oltreoceano. La Germania e l’Austria erano controllate dalle quattro potenze alleate, la Jugoslavia era governata dai comunisti di Tito. Rispetto alle vie che attraversavano questi Paesi, quella che passava per l’Italia era più breve e presentava molti meno ostacoli burocratici.
L’ltalia quindi divenne rapidamente il crocevia di un ingente flusso di profughi e una via di fuga relativamente sicura anche per i criminali di guerra. Al termine della guerra in Italia c’erano centinaia di migliaia di profughi e deportati dall’Europa centro-orientale, il cui destino non è stato finora oggetto di ricerche esaustive.
Il desiderio di fuga non accomunava solo nazisti e criminali di guerra braccati dalle forze dell’ordine dei governi democratici ma anche profughi provenienti dai territori orientali del Reich, collaborazionisti e anticomunisti dei Paesi europei occupati dall’ Armata Rossa, disertori, prigionieri di guerra, lavoratori coatti, deportati, soldati e, per finire, reduci dei campi di concentramento e di sterminio.
Inoltre, diverse organizzazioni clandestine ebraiche approfittarono della situazione per portare molti sopravvissuti all’Olocausto in Palestina, nonostante il blocco marittimo deciso dalla Gran Bretagna. E, anche per loro, il punto di partenza per una navigazione dalle molte incognite era l’Italia. Sul solo territorio dell’Austria risorta si stima ci fossero, nella primavera del 1945, 1,5 milioni di stranieri.
Le massicce dimensioni del fenomeno rendevano impossibili i controlli; inoltre le autorità italiane avevano poco o punto interesse a trattenere a lungo persone indesiderate. I membri delle SS e i criminali di guerra si mimetizzavano nella massa dei profughi. Il pericolo di essere scoperti si riduceva di mese in mese. Il 31 dicembre 1945 venne sciolto il governo militare alleato in Italia e la negligenza nei controlli aumentò ulteriormente.
Nel 1947, siglato il Trattato di pace fra gli alleati e l’Italia, i controlli da parte degli anglo-americani cessarono del tutto. Le autorità italiane non riuscivano a fronteggiare la situazione, le condizioni di sicurezza erano desolanti. Le vie di fuga erano note: nel caso di Josef Schwammberger, il comandante del campo di lavoro di Przemy’sl, la direzione federale della polizia di Innsbruck comunicò nel 1945 che probabilmente il ricercato, “al pari di un’alta percentuale di ex SS in fuga, era fuggito in Sudamerica (Argentina) via Bolzano-Genova”.
Il confine del Brennero e le locali condizioni politiche e sociali acquistarono così un’importanza particolare: proprio in Alto Adige molti membri delle SS e criminali di guerra trovavano condizioni a dir poco ideali. L’Alto Adige era la prima tappa in territorio italiano per coloro che passavano il confine illegalmente.
In particolare i profughi e i fuggiaschi di lingua tedesca erano accolti per lo più con gentilezza da chi viveva nelle vallate alpine dell’ Alto Adige. Karl Schedereit, nato nel 1925 e soldato delle Waffen-SS, assunse alla fine della guerra un’identità fittizia, quella del caporale della Wehrmacht Robert Karrasch.
Al termine del conflitto riuscì a fuggire dal campo di prigionia in cui era rinchiuso e si diresse verso l’Alto Adige con la speranza di raggiungere Genova e imbarcarsi per l’Argentina. Voleva lasciarsi alle spalle l’Europa sconfitta, la sua Heimat ormai inglobata dalla Polonia e cominciare una nuova vita. Valicato il Passo Resia riparò a Merano e da lì proseguì per Roma, dove grazie all’aiuto di terzi riuscì a ottenere i documenti necessari per il viaggio. Ma alla fine cambiò idea, decise di non emigrare e di restare in Alto Adige.
Karrasch, che in Austria era mal visto in quanto “Reichsdeutsche” e rischiava continuamente di essere arrestato, in Alto Adige, proprio perché tedesco, poteva contare sulla solidarietà della popolazione autoctona. Di ciò non vi è miglior testimonianza del modo in cui Schedereit alias Karrasch ha valicato il Passo Resia.
Ecco il racconto di questo importante momento della sua autobiografia:
“Giunto a Resia, località a ridosso del confine, Karrasch passò davanti a una caserma dei carabinieri, da cui filtrava luce all’esterno e si udiva un brusio di voci, e proseguì nella notte fino al paese di Curon Venosta di cui si scorgevano le luci in lontananza. L’osteria era piena di uomini vestiti di scuro, assiepati attorno al bancone di legno.
Portavano tutti un cappello in testa e bevevano vino rosso, fumavano sigarette e pipe. Karrasch si mise in cerca di un sorriso rassicurante.”Il mio accento mi tradirà”, pensò. L’oste, un tipo incanutito dall’aria gentile, gli andò incontro tenendo in mano un bicchiere di vino per lui: “Ha superato il confine, eh? Non abbia paura, giovanotto, qui di italiani non ce ne sono, siamo tutti tedeschi. Salute!”
Fra coloro che riuscirono a raggiungere l’Argentina passando per l’Italia ci fu l’ufficiale nazista Reinhard Kops, agente della sezione informazioni, spionaggio e controspionaggio nello stato maggiore di un’unità dell’esercito tedesco.Dopo la sua fuga in Alto Adige attraverso i monti venne generosamente aiutato:
“Non tardai ad accorgermi che non occorreva dare spiegazioni a queste persone. Chi all’epoca giungeva da lassù era un profugo e dunque andava aiutato. Nessuno faceva domande superflue, tutti fornivano brevi indicazioni concrete, e poi ad esempio aggiungevano: “sull’altro lato della strada, a circa 100 metri di distanza, c’è una caserma dei carabinieri. Conviene non farsi notare nel passarci davanti.”
Kops raggiunse infine Merano, dove disponeva di un indirizzo sicuro e dove, “vestito da sudtirolese”, assaporò un’ottima cena prima di giungere alla sua vera destinazione, il rifugio sicuro presso “zia Anna”. La locanda meranese gestita dall’inquietante “zia Anna” accolse e nascose più volte membri delle SS, nazisti e criminali di guerra in fuga, fra cui anche il medico austriaco delle SS Emil Gelny che in seguito riuscì a quanto pare a riparare in Siria.
Gelny era il principale responsabile del programma di eutanasia su esseri umani nelle strutture di Gugging e Mauer-Öhling in Austria. Reinhard Kops, alias Hans Maler, poteva perciò sentirsi al sicuro. Dopo aver trascorso parecchi mesi nella locanda di “zia Anna” Kops si rimise in viaggio e raggiunse Genova da dove, ottenuti i documenti necessari, salpò per Buenos Aires.
Un ex SS tedesco affermò euforico, una volta passato il confine con l’Alto Adige: “L’Italia dopo la guerra [era] la terra d’elezione per coloro che appartenevano a organizzazioni criminali. Come cambiano i tempi!”.
Non sempre, però, le cose filarono così lisce. Nell’aprile del 1947 Gerhard Bast, ex capo della Gestapo di Linz in Austria superiore, venne ucciso sul confine del Brennero fra Italia e Austria dalla guida che lo stava accompagnando. Lo Sturmbannfohrer delle SS era ricercato dagli americani che erano sulle sue tracce fin dal 1946. Perciò, nell’autunno di quell’anno, era fuggito nella parte altoatesina della val Pusteria, dove aveva trovato lavoro e alloggio come bracciante agricolo.
Il caso Bast, nonostante l’epilogo, rimane esemplificativo di come dopo il 1945 l’Alto Adige offrisse alle ex SS un riparo sicuro e l’opportunità di organizzare la propria fuga verso il Sudamerica. Queste sono le parole usate al riguardo da suo figlio Martin Pollack:
“Suppongo che sia andato in Alto Adige perché pensava che lì sarebbe stato al sicuro (non a torto) e perché la regione rappresentava, per così dire, una prima tappa per raggiungere la sua destinazione finale oltreoceano. [ … ] Dalla sua c’era anche il fatto che conosceva molto bene tante parti di quel territorio, avendoci trascorso dei brevi periodi in passato.
È probabile che conoscesse anche molta gente e che avesse amici fra gli amanti della montagna, i gestori di rifugi, eccetera. Tutta gente che avrebbe potuto dargli una mano. Naturalmente anche qualche ex nazista, ma di quelli se ne trovavano dappertutto … “.
Le guide non guardavano troppo per il sottile e non facevano distinzioni: fra i loro clienti non c’erano solo criminali tedeschi la cui destinazione ultima era il Sudamerica, ma spesso anche ebrei che, a loro volta in maniera illegale, erano diretti in Palestina. Una cinica fatalità volle che spesso lungo gli itinerari di fuga alpini le strade dei criminali nazisti ricercati si incrociassero con quelle delle loro vittime intenzionate a emigrare in Palestina.
A questo proposito, Simon Wiesenthal scrive: “Conosco una piccola locanda presso Merano, in Alto Adige, dove capitò che clandestini nazisti ed ebrei passassero insieme la notte senza sapere gli uni degli altri. Gli ebrei venivano nascosti al piano superiore e veniva detto loro di non muoversi, mentre ai nazisti, sistemati al pianterreno, veniva raccomandato di non uscire di camera”.