a cura di Cornelio Galas
Con perfetta sincronia, mentre da una parte si svolgeva la Conferenza Atlantica, dall’altra al Congresso si scatenava una battaglia non da poco conto sull’estensione del Selective Service. Fu per Roosevelt uno dei momenti più critici i tutto il corso della guerra e ne uscì per il classico “rotto della cuffia”.
La legge sul Selective Service prevedeva che l’esercito non potesse arruolare più di 900.000 uomini all’anno e solo per: “istruzione o servizio, a meno che il Congresso non dichiarasse la sicurezza nazionale in pericolo dando al Presidente la facoltà di estendere il servizio ai fini e nell’interesse della difesa nazionale”!.
La proclamazione di: “illimitata emergenza nazionale”, non era stata sufficiente ad indurre il Congresso ad ammettere che la sicurezza nazionale fosse in pericolo. Anzi, i capi del Congresso avevano informato Roosevelt che sarebbe stato assai problematico raccogliere una maggioranza per estendere il Selective Service. Aveva fatto enorme presa il commovente appello delle famiglie che volevano a casa i “ragazzi”.
Ancora più grave era lo scoramento dei coscritti: non sapevano perché erano sotto le armi, brontolavano e protestavano contro le promesse di un solo anno di quell’inutile servizio militare che erano state fatte loro; peggio ancora, un gran numero di essi facevano istruzione con i manici di scopa invece dei fucili e con carretti truccati invece di carri armati, sicché l’istruzione non pareva altro che una inutile perdita di tempo. La guerra sembrava lontanissima dal suolo americano, con i Giapponesi impaniati in Cina e Hitler sempre più impegnato per spuntarla in Russia.
Nei campi diventavano sempre più frequenti le scritte murali in calce o in gesso e si potevano leggere in tutto il Paese le iniziali O.H.I.O., che non avevano nulla a che fare con lo Stato dello stesso nome, ma significavano: “In ottobre alla montagna” (over the hill in october).
Era un indizio manifesto che se i coscritti, terminato il primo anno di Selective Service, non fossero stati congedati e rimandati a casa, secondo la lettera della legge per cui erano stati arruolati, avrebbero disertato. (Molti di quelli che adesso blateravano O.H.I.O. in seguito ornarono i muri di tutti i paesi del mondo con la scritta orgogliosa: “Kilroy was here”, (qui c’erano gli Americani).
La situazione era così difficile in quell’estate 1941, che Roosevelt aveva deciso di non portare la situazione al Congresso. Si lasciava vincere ancora dalla paura della paura. Ma il segretario Stimson e il generale Marshall furono d’altro avviso.
Essi sapevano che ciò poteva significare – cito le parole di Marshall – “la disintegrazione dell’esercito”: significava cioè che si sarebbe dovuto ricominciare tutto da capo e alla luce degli avvenimenti successivi ci si rizzano i capelli a pensare quali né sarebbero state le conseguenze.
Hopkins la vedeva esattamente come Stimson e Marshall, in cinque giorni di intenso lavoro preparò il suo primo rapporto biennale, in cui raccontava arditamente di abolire tutte “le restrizioni legali” che “impossibilitavano l’esercito a raggiungere una forza di immediato ed utile impiego, per tutte le misure difensive che si rendessero necessarie”.
Seppe difendere la sua causa con tanta precisione e abilità e soprattutto con tali dati di fatto incontrovertibili che, nonostante la canea degli isolazionisti e le numerose accuse di “guerrafondaio” che dovette incassare, riuscì a procurarsi l’appoggio dei più importanti organi della stampa e degli elementi meno timidi del Congresso.
Lo stesso Roosevelt fu costretto ad accettare il rischio di una battaglia e non si esagera affatto dicendo che fu proprio una delle battaglie decisive della guerra. Gli Americano non lo dovrebbero dimenticare, per il loro stesso bene. E fu vinta, si noti, alla Camera dei Rappresentanti, per un solo voto di maggioranza.
Fu il 12 agosto, giorno di chiusura della Conferenza atlantica. La notizia del voto giunse sul ponte dell’Augusta e del Prince of Wales con la potenza di una bomba nemica.
Qualche giorno dopo, il commentatore americano della radio londinese, trasmetteva questo tipico soliloquio dell’inglese qualunque: “Gli Americani sono un popolo curioso. Non li riesco a capire. Un giorno annunciano che garantiscono a tutti pace e libertà e l’altro ti decidono per un solo voto di maggioranza, se devono o meno avere un esercito”.
Il senatore Burton K. Wheeler fece da parte sua una dichiarazione che ebbe un’enorme risonanza all’estero, sia tra gli amici che tra i nemici:
Il voto dimostra chiaramente che il Governo non può aspettarsi dal Congresso una decisione che comporti una dichiarazione di guerra. Esso ammonisce il Dipartimento della Guerra che il Congresso non approva la malafede dei suoi disegni.
Ed ammonisce ancora che il Congresso non prende sul serio gli appelli del Governo, quando ci grida che la cosiddetta emergenza oggi è maggiore di un anno fa.
Il New York Times diceva nel suo editoriale:
Il risultato ci dimostra che ciascuna delle misure qui sotto indicate fu adottata solo perché il Presidente ricevette l’appoggio di una grande maggioranza del suo partito. Non una di esse sarebbe oggi legge, se la decisione fosse stata lasciata ai repubblicani.
Ecco il resto dei voti parziali repubblicani, per ogni singola legge:
- Revisione dell’embargo sulle armi:
Senato: 8 favorevoli; 15 contrari;
Camera: 21 favorevoli; 143 contrari.
- Approvazione della legge affitti e prestiti:
Senato: 10 favorevoli; 17 contrari;
Camera: 24 favorevoli; 135 contrari.
- Adozione del Selective Service:
Senato; 7 favorevoli; 10 contrari;
Camera; 46 favorevoli; 88 contrari.
- Proroga del periodo d’istruzione:
Senato: 7 favorevoli; 15 contrari;
Camera: 21 favorevoli; 133 contrari.
I repubblicani insomma hanno sempre dimostrato di opporsi al Congresso alle misure raccomandate dal Presidente, dal segretario di Stato o dal capo di Stato maggiore dell’Esercito.
È impossibile trascurare l’influsso di una politica di partito di fronte a voti così tenacemente ostili come questi.
Crisi o non crisi, i repubblicani combattono ancora oggi Roosevelt al Congresso, per partito preso e per provocare una situazione tale da volgere a proprio favore, qualora si verifichi, quella tanto attesa “reazione”, sulla quale hanno fondato tutte le loro speranze politiche.
Per gli Inglesi, dato il diverso orientamento della loro politica parlamentare, non fu tanto preoccupante il voto contrario dei repubblicani al Congresso, quanto il gran numero di membri dello stesso partito di maggioranza del Presidente che gli votarono contro in un momento così critico.
Una votazione simile alla Camera dei Comuni sarebbe stata indice di “mancanza di fiducia” ed avrebbe provocato la caduta del Gabinetto. Beaverbrook, lasciando Argentia, si reco a Washington con Harriman, per decidere la Conferenza di Mosca, ma soprattutto, su istruzione di Churchill, per sondare l’opinione pubblica americana.
La sua relazione fu molto scoraggiante. Egli dichiarò ed aveva pienamente ragione, che non c’era la minima possibilità di una entrata in guerra degli Stati Uniti, a meno che non fossero direttamente spinti all’intervento da un attacco contro il loro stesso territorio; e ciò non rientrava nell’ordine delle probabilità, finché fosse continuata la resistenza inglese e russa.
Le ripercussioni delle parole del senatore Wheeler furono quindi enormi ed il prestigio di Roosevelt subì un fiero colpo. L’eterna domanda che ci si faceva era sempre più carica di malignità: quando gli Stati Uniti avrebbero abbandonato il ruolo dell’amico per entrare loro stessi in gioco invece di continuare a tenere bordone? Churchill, avuto sentore di questo nuovo clima, credette opportuno tenere un discorso alla radio, dicendo:
Ci si domanda se gli Stati Uniti siano vicini alla guerra. Non c’è che un uomo che possa rispondere a questa domanda. Se Hitler non ha ancora dichiarato la guerra agli Stati Uniti, non è certo per amore delle istituzioni americane o perché non ne abbia il pretesto.
Egli ha distrutto una mezza dozzina di nazioni per molto meno.
Churchill, qui come altrove, reputava e non era il solo fra tutti i governanti di quel tempo, che fosse Hitler ad avere in mano la chiave della situazione e a sapere l’ora in cui avrebbe attaccato gli Stati Uniti. La possibilità che a compiere quest’atto di incredibile follia fosse il Giappone, non era neanche pensabile, dopo che gli Stati Uniti erano stati così solleciti nel “salvare la faccia”.
Verso la fine di agosto, capitò anche a me di andare in Inghilterra per studiare le forme della politica di guerra inglese, cioè, l’organizzazione della propaganda. Prima di partire cenando con il Presidente ed Hopkins, mi sentii dire: “Non potresti scegliere un momento migliore per avere la più fredda delle accoglienze.
Durante la mia permanenza Churchill inviò ad Hopkins un lungo cablogramma, in cui, dopo aver trattato i più vari argomenti, scriveva: “Oggi ho visto Mr. Sherwood”.
Fu la mia sola e unica comparsa nella loro storica corrispondenza. Era stata una semplice visita di cortesia. Aveva ricevuto dalla Casa Bianca una comunicazione che gli chiedeva di accordarmi qualche minuto (e furono quindici per l’esattezza).
Mi disse di non credere che i Tedeschi avrebbero occupato Mosca prima dell’inverno e tributò un alto elogio I suoi occhi si riempirono di lacrime parlandone. Churchill, che è il tipo del perfetto inglese, che la regola dice flemmatico e compassato, è invece uno degli uomini più apertamente emotivi che io abbia conosciuto, mentre Roosevelt, l’americano sentimentale, sapeva reprimere a tal punto i moti del cuore, che era difficile sapere di quali emozioni fosse dominato o se pur fosse capace di provarne.
Nella giornata dedicata al lavoro, Roosevelt fece un breve ma vigoroso discorso, che il New York Times commentò così nel suo editoriale:
Noi non abbiamo ancora preso né dichiarato di prendere alcuna parte diretta in una guerra guerreggiata. Ma abbiamo preso una posizione che prima o poi ci costringerà a combattere, se la nostra politica attuale non si dimostra sufficiente a sconfiggere Hitler.
È una posizione dalla quale non possiamo più indietreggiare. Una posizione da cui l’enorme maggioranza degli Americani non desidera più ritrarsi.
Ed Hopkins, parlando della preparazione di quel discorso scrisse:
Il Presidente disse che il discorso doveva essere una sferzata contro Hitler. A me sembrava che le copie preparate non corrispondessero affatto al desiderio del Presidente.
Lo stesso Roosevelt sviluppò il periodo a pagina 2, relativo alla Marina, ma moderò il tono di un periodo del tutto simile che si riferiva all’Esercito. Il Presidente è pienamente convinto, per quanto riguarda la Marina, che essa possa senz’altro dominare i mari insieme a quella britannica, finché questa è a galla, ma se la flotta inglese venisse distrutta, la nostra da sola non potrebbe sostenere tutto il peso.
Il Presidente si preoccupò pure notevolmente dell’altro periodo, che s’inizia con le parole: “Avverto solennemente”.
Eccolo per intero:
Avverto solennemente tutti coloro che pensano che Hitler sia stato bloccato o fermato, che essi scherzano con il fuoco.
Quando in una guerra sembra che il nemico si muova con maggiore lentezza, è il vero momento di lottare con duplicata lena e rinnovata energia per stroncarlo e far cessare per sempre la minaccia che pesa sul mondo, deponendo ogni intenzione di compromesso con le forze del male.
Tornava a galla l’eterna preoccupazione di Roosevelt di una pace negoziata. Tre giorni dopo questo discorso un sommergibile tedesco lanciò due siluri, pur senza colpirlo, contro il cacciatorpediniere americano Greer, a sud della Groenlandia e una settimana dopo Roosevelt radiodiffuse un nuovo messaggio che ordinava alla Marina di: “sparare appena avvistato”.
Hopkins descrisse così la preparazione di questo nuovo messaggio:
La genesi del discorso va ricercata il primo di luglio, quando il Presidente ordinò i primi servizi di pattugliamento nell’Atlantico settentrionale, allo scopo di segnalare la presenza di qualche sommergibile o di qualche nave da corsa nelle acque fra l’America del Nord e l’Islanda.
Il Presidente poi decise prima, che io partissi per l’Inghilterra, di intensificare questo servizio per proteggere e scortare tutte le navi di tutte le bandiere.
A quel tempo, fine luglio, il segretario Stimson faceva pressione sul Presidente per deciderlo a rendere nota al pubblico la natura di questo nuovo servizio di scorta. E il Presidente accettò.
Durante la conferenza di agosto tra Roosevelt e Churchill, il Presidente ripeté di essere disposto a parlare ai primi di settembre del nuovo orientamento. Ma pensava che non fosse opportuno dir parola prima che il servizio d scorta non fosse davvero effettivo e che tutte le navi mercantili non fossero sotto la protezione della nostra Marina.
Non aveva fissato nessuna data per questo discorso, pur avendone discusso spesso con me, al ritorno dalla conferenza. Ma, dopo l’attacco contro il Greer, si decise a non porre più tempo in mezzo.
Il 5 settembre aveva ospiti a pranzo, Cordell, Hull e me e ci mise la corrente della decisione, fissando il discorso per la sera del lunedì seguente.
Hull parlò allora ampiamente della nostra posizione generale e spiegò con parole molto dure la politica degli Stati Uniti e le ragioni determinanti di questo servizio di scorta.
Il Presidente si compiacque delle dichiarazioni di Hull e gli chiese di dettare quanto aveva detto per farne avere copia alla Casa Bianca nel tardo pomeriggio, ma poiché il Presidente stava preparandosi per partire per Hyde Park, chiese di nuovo a Hull di comunicargliene copia per telegrafo e di consegnare l’altra copia a me. Io ero stanco e malato e avevo deciso di restare a Washington.
Mi arrivò il progetto di Hull e invece di essere il vigoroso e forte promemoria che aveva esposto verbalmente al Presidente, era un documento piuttosto fiacco, che non corrispondeva certo alla esigenze dell’azione che raccomandava. Anzi, mancava perfino un accenno alla possibilità di una azione.
Rosenman ed io ci ponemmo quindi all’opera per preparare il discorso e io dettai i periodi proposti al Presidente come conclusione. A cominciare da pagina 5 della copia dattiloscritta, con il periodo: “Quando vedete un serpente a sonagli”, la sostanza del discorso non si discostava punto da quella che io stesso avevo manifestata al Presidente.
Il periodo che cominciava con l’esortazione: “Non cerchiamo il pelo nell’uovo”, tutti i cenni storici e il periodo: “Facciamo che questo monito sia chiaro”, dell’ultima pagina, furono aggiunti dal Presidente.
Riuscii a parlare con il Presidente per telefono, durante il Week end (fu il sabato in cui gli morì la madre) ed egli mi disse subito che il progetto di Hull era assolutamente inadeguato.
Gli disse, che Sam ed io stavamo lavorando alla conclusione del discorso per dargli un certo piglio e ci chiese di andarlo a prendere a New York, dopo il funerale, per tornare con lui il mercoledì sera e dare forma definitiva al discorso.
Egli stesso aveva dettato qualche appunto che ci era stato inviato, ma nessuno si riferiva alla chiusa del discorso.
Andai a New York, salii sul treno alla 138A strada e lavorai tutto il pomeriggio al discorso. Rosenman ed io avevamo un nostro progetto che presentammo al Presidente, il quale aggiunse solo poche righe. In treno mettemmo giù una nuova copia e alle 8,45 della sera il Presidente invitò Hull, Stimson, Knox e me per leggerci la bozza del discorso appena terminato.
Esso piacque molto a tutti. Knox raccomandò di togliere al discorso ogni nota faceta e di dargli un tono molto serio. Altri fecero e proposero delle lievi correzioni, ma era chiaro che il tono generale era piaciuto assai. I discorso doveva essere pronunciato il giorno dopo.
Quella notte io misi al corrente il giudice Rosenman degli emendamenti suggeriti, la maggior parte dei quali serviva a mettere i punti sulle i per dare rilievo al fatto che noi ci disponessimo a fare servizio di scorta alle navi straniere.
Il giudice Rosenman si mise subito al lavoro per stendere una nuova copia del discorso, secondo le raccomandazioni ricevute.
Il mattino dopo la portammo al Presidente, in camera da letto ed egli ne corresse una nuova copia per poterla leggere ai leaders del Congresso alle 10,00. Mi disse che questi non avevano avuto molte obbiezioni da fargli e l’avevano ritenuto generalmente buono, salvo Joe Martin, repubblicano e isolazionista.
La mattina del martedì ebbi un appuntamento con il Presidente, Hull e l’ambasciatore sovietico su questioni di tutt’altra natura, ma, dopo la riunione, Hull mi trattenne un momento per dirmi, come mi aveva già detto prima, che il discorso era troppo forte e che si togliesse ogni accenno all’ordine di sparare per primi o di sparare comunque.
Fu per me una sorpresa, poiché Hull fino allora aveva pienamente approvato il discorso. In molte altre occasioni però, negli ultimi sei mesi, Hull aveva parlato con molta decisione in privato e poi, quando si dovevano mettere le cose per iscritto, tendeva a moderarsi e diluirsi alquanto. Mi dava l’impressione che non se la sentisse di sopportare le conseguenze di aperto contrasto con Hitler.
Più tardi seppi dal Presidente che Hull aveva sostenuto a spada tratta anche con lui la necessità di togliere dal discorso tutti i passi che ne costituivano la spina dorsale. Ma il discorso non venne ritoccato.
In un capitolo precedente, ho detto che Hopkins era completamente all’oscuro di quanto si compiva negli ambienti del Politburo d Mosca. Si può aggiungere che era spesso all’oscuro anche di quanto avveniva nei più intimi recessi del Dipartimento di Stato.
Ai primi di settembre, Hopkins scrisse a Brendan Bracken, che era stato nominato Ministro delle Informazioni nel Gabinetto britannico, lamentandosi: “del concertato attacco bifronte della stampa britannica contro di noi, perché, primo, non vogliamo combattere e, secondo, siamo ancora troppo lenti a mandare i nostri aiuti. Certo al stampa non è molto bene informata su questo punto, eppure presumo che abbia qualche buona ragione per accendersi tanto”.
Hopkins ne sapeva abbastanza ormai per essere convinto che, in tempo di guerra, quando la stampa britannica seguiva pressoché unanime un determinato atteggiamento, era perché il Governo aveva ispirato. Perciò continuava:
Noi incontriamo parecchie difficoltà nell’opinione pubblica americana, specie riguardo le Russia. Il popolo americano non è propenso a recarle aiuti. Vi si oppongono tutti i cattolici, tutti i nazisti, tutti gli italiani e una gran parte della popolazione, la quale crede Stalin una minaccia per il mondo. Io penso che tutto andrà bene fino alla fine …
Un colpo molto serio alle trattative anglo-americane e in particolar modo alla parte che vi aveva Hopkins, fu la morte di Arthur Purvis, perito in un tragico incidente di volo su un apparecchio della R.A.F. che faceva servizio fra la Scozia e Terranova.
Come rappresentante del Comitato inglese per i rifornimenti, Purvis, che era canadese, aveva acquistato una così chiara conoscenza della complessa situazione ed una tale esperienza dei singolari metodi di Hopkins nel condurre gli affari diplomatici, che con poche parole potevano intendersi e risolvere problemi che altrimenti avrebbero richiesto ore ed ore di faticose e forse, di aspre discussioni.
Hopkins insisté presso gli amici inglesi, perché si riconoscesse a Purvis qualche riconoscimento postumo dell’alta opera da lui prestata, ma non so se ciò sia stato fatto.
Non molti giorni dopo il discorso in cui Churchill aveva individuato in Hitler l’uomo che aveva in mano la chiave dell’intervento americano, Hopkins ricevette dal Primo ministro uno dei messaggi più scorati che egli,, di solito così fiducioso ed esuberante, abbia fatto pervenire alla Casa Bianca.
Ricordava che il Gabinetto britannico era molto preoccupato delle ripetute assicurazioni di Roosevelt che la Conferenza Atlantica non aveva portato gli Stati Uniti “più vicino alla guerra”, che non c’erano stati “impegni segreti”, ecc. ecc.
Ognuna di queste dichiarazioni spegneva ad uno ad uno tutti gli ardori e le speranze che Churchill aveva saputo suscitare dopo il ritorno da Argentia. L’effetto propagandistico della Conferenza Atlantica svaniva come neve al sole.
Le preoccupazioni del Gabinetto si sarebbero ripercosse presto sul Parlamento e poi sul popolo e sulla massa; e, aggiungeva Churchill: “non so cosa accadrà se l’Inghilterra dovesse combattere ancora da sola nel 1942”.
Egli faceva notare che attualmente c’erano ben trenta U-Boot sulla linea tra l’Irlanda del Nord e l’Islanda, e che nei soli due ultimi giorni gli Inglesi avevano perso più di 50.000 tonnellate di naviglio.
Hitler si teneva lontano dal 26° meridiano, posto da Roosevelt a frontiera dell’Emisfero occidentale (ciò prima degli attacchi tedeschi ai cacciatorpediniere americani) e c’erano quindi, poche probabilità per uno di quegli “incidenti” che costringessero gli Stati Uniti ad entrare in guerra.
Churchill chiudeva, infine, chiedendo a Hopkins se se la sentisse di esprimere qualche speranza per il futuro. Io non ho potuto trovare fra le carte di Hopkins nessuna lettera che rispondesse direttamente al messaggio del Primo ministro. Ma trovai questa nota, allegata al messaggio:
Ho parlato al Presidente di questo cablogramma. Tutto quello che se ne può ricavare è che Churchill è assai depresso e se la rifà con noi in questo modo.
Ho detto però al Presidente che non solo Churchill, ma tutti i membri del Gabinetto britannico con i qual ho parlato credevano che prima o poi l’America sarebbe entrata in guerra: se ora si dovevano convincere che questo non sarebbe mai avvenuto, potevano passare un brutto quarto d’ora e Churchill stesso lasciarsi influenzare dai pacifisti inglesi.
Ma né Roosevelt né Hopkins potevano fare qualcosa per ovviare a tale situazione, se non aumentare la quantità degli aiuti “di ogni genere fuorché una guerra”, (e se riandiamo a quei giorni, non possiamo fare a meno di concludere che quella parola “fuorché”, riceveva una interpretazione molto elastica).
A sua volta, la demoralizzazione di Churchill fu di breve durata, perché, non più di due giorni dopo il precedente messaggio, giungeva al Presidente un suo esultante rapporto sugli sviluppi favorevoli della situazione in Persia e la possibilità di stringere per quella via più intimi contatti con la Russia.
Chiedeva contemporaneamente nuovi aiuti per trasportare due nuove divisioni britanniche di 40.000 uomini nel Medio Oriente. Ciò significava prestare i più grossi trasporti allora in servizio negli Stati Uniti, compresi i bastimenti militarizzati del tipo Manhattan, Washington e America (ribattezzati durante la guerra Wakefild, Mount Vernon e West Point).
Churchill nel nuovo cablogramma diceva: “È perfettamente vero che il prestito di quei piroscafi impedirebbe il trasporto di grandi forze statunitensi n Europa o in Africa, ma, come sapete, io non ho mai chiesto ciò, né lo chiederò, per quanto mi risulta, se proprio non succede qualcosa di imprevedibile”.
Hopkins diede subito conto del messaggio ricevuto agli ammiragli Stark e Land. Il 6 settembre, Hopkins notava:
Il Presidente ha tenuto ieri pomeriggio alle 4 una conferenza con l’ammiraglio Stark e l’ammiraglio King, comandante della flotta dell’Atlantico, gli ammiragli Ingersoll, Land e me.
Si stabilì di mandare dei trasporti sufficienti per 20.000 uomini e si incaricò l’ammiraglio Stark di consultarsi con l’ammiraglio Little e l’ammiraglio Land, con Sir Arthur Salter, circa i particolari.
Gli ammiragli parvero accettare favorevolmente il programma. Una delle più importanti decisioni fu che i trasporti di truppe dovesse battere bandiera americana e mantenere gli equipaggi attualmente imbarcati.
Si decise però di non farli scortare da cacciatorpediniere americani, perché la cosa era giudicata imprudente, dato che si doveva trasportare soldati inglesi.
I preparativi continuarono, ma al principio di ottobre Roosevelt fu di nuovo impegnato al Congresso per un decreto che portasse ulteriori emendamenti alla legge di neutralità, permettendo di armare le navi mercantili americane.
Roosevelt telegrafò quindi a Churchill che, con suo profondo rammarico, doveva risollevare la questione dell’impiego di navi americane per il trasporto di truppe inglesi nel vicino Oriente. “Lo faccio con piena fiducia in una vostra favorevole comprensione dell’intero problema e della mia schietta dichiarazione”.
Aveva discusso con i maggiorenti del Congresso le proprie richieste per nuovi provvedimenti di legge che consentivano di armare le navi mercantili americane, avviandole direttamente ai porti britannici. Era giunto alla conclusione che non potesse correre il rischio di incidenti in Atlantico finché i provvedimenti non fossero approvati.
Pertanto, faceva due proposte. Come prima alternativa suggeriva alla Marina inglese di trasferire un numero sufficiente di ufficiali e uomini per sei trasporti che avrebbero potuto fare il carico e partire da porti canadesi sotto bandiera britannica, secondo le disposizioni degli affitti e prestiti.
La seconda alternativa era di imbarcare le truppe inglesi ad Halifax, da dove, con equipaggi americani, le navi avrebbero navigato in acque dell’Emisfero occidentale, dirigendo quindi per l’Atlantico meridionale e poi fare rotta per il Capo di Nuova Speranza, evitando le zone più pericolose.
Delle due alternative preferiva la prima. Churchill rispose di comprendere perfettamente la posizione del Presidente, ma di preferire senz’altro la seconda delle due alternative, di trasferire le truppe inglesi ad Halifax per compiere li il trasbordo su navi americane.
E così fu. Dopo Pearl Harbour, quelle navi furono dirottate dal Medio Oriente per trasportare truppe nell’Oceano Indiano, nel tentativo di difendere Singapore. Le navi sfuggirono in tempo alla cattura, ma le truppe trasportate caddero in mano dei Giapponesi.
La salute di Hopkins tornò ad essere precaria nell’autunno del 1941. Bisognava studiare nuovi e più vasti dettagli per gli affitti e prestiti. L’Ufficio della produzione con i suoi due capi (Knudsen e Hillman), era stato sostituito con piena soddisfazione di tutti, dall’Ufficio assegnazioni per gli aiuti più urgenti presieduto dal Vice-Presidente Wallace, con Donald Nelson come direttore esecutivo e un comitato di cui faceva parte anche Hopkins. Egli decise allora di lasciare l’incarico di amministratore degli affitti e prestiti, chiamando un altro al suo posto.
La scelta cadde su Edward Stettinius junior. Stettinius ha descritto come venne convocato alla Casa Bianca. Trovò Hopkins a letto con la solita pigna di carte sparsi per le coperte e nascoste sotto i guanciali. La conversazione fu spiccia:
Hopkins. Ed, il Presidente vuole che tu prenda l’amministrazione del programma Affitti e Prestiti. La cosa più importante oggi è che questi affitti e prestiti camminano con una certa speditezza.
Siamo stati su fino a tardi la scorsa notte per discutere la cosa e il Presidente crede che tu sia l’uomo adatto.
Stettinius. Io sono qui a Washington per servire il Presidente in tutto quello che posso fare. Se vuole che io vada agli Affitti e Prestiti, sono pronto e farò del mio meglio.
Passarono quindi a discutere di problemi di organizzazione e di regolamento e infine Stettinius chiese: “Non c’è altro sull’argomento? O il Presidente desidera parlarmi prima?”
Hopkins. Niente altro, a meno che ti non voglia ottenere conferma da lui. Per quel che riguarda il Presidente, sei già nominato, Ed.
Questo stralcio è un bell’esempio della posizione più unica che rara un cui si trovava Hopkins alla Casa Bianca. Lo si vede passare ad altri con tutta calma e serenità un titolo ed un incarico di enorme importanza come quello – proprio a Washington dove non solo si fa a pugni per mantenere le cariche, ma non si dorme di notte a furia di fare calcoli per cercare il modo di usurpare il potere e le funzioni dei colleghi.
Però Hopkins sapeva che il “la” agli affitti e prestiti sarebbe venuto ancora dalla Casa Bianca e che il Presidente lo avrebbe pur sempre considerato come l’alto patrono di essi. Stettinius era un suo amico e avrebbero potuto lavorare benissimo insieme, come infatti avvenne.
Pur essendosi liberato del suo peso maggiore degli affitti e prestiti, Hopkins continuò ad essere oppresso da crucci e responsabilità e il suo carattere personale ne soffrì. Egli lesse una dichiarazione pubblica di un generale sull’impreparazione dell’Esercito e la passò al Presidente con questo nota:
Penso che tutte queste dichiarazioni comincino a farci troppo danno. Sono troppi quelli che esitano a seguirci perché sanno o credono di sapere, che l’Esercito non è pronto per combattere.
Non vedo perché si dovrebbe permettere ancora agli ufficiali dell’esercito di fare simili dichiarazioni.
Per dimostrare poi la sua imparzialità rispetto alle varie armi, inviò anche quest’altra nota in margine a un ritaglio di giornale che portava le dichiarazioni di un ammiraglio:
Non sono malato al punto che leggere un discorso come questo non mi faccia stare paggio. Yarnell deve aver preso un grosso abbaglio sulla questione di Creta e ha reso una grave ingiustizia alla Royal Air Force.
Mi sembra che i nostri ufficiali di marina farebbero molto meglio ad occuparsi un po’ di più dei propri compiti, invece di criticare gli Inglesi.
Roosevelt non prendeva sul serio queste sporadiche manifestazioni di malumore. Aveva un temperamento più costante di quello di Hopkins. Se non fosse stato così non avrebbe potuto vivere tanto a lungo.
Roosevelt sapeva distendere completamente i nervi, sia parlando del passato, sia dell’avvenire, soprattutto se si trattava del suo. Poteva passare liete ore di ricordi, riandando ai giorni di Hyde Park o di Campobello, prima della prima guerra mondiale; o ingolfandosi nei più minuziosi particolari di quel che avrebbe fatto quando si fosse ritirato a vita privata.
Ed erano progetti che abbracciavano i più diversi e svariati campi di attività, andando dalla fondazione di un foglio nazionale di nuovo genere fino alla creazione di qualche nuovo collegio e persino di un nuovo tipo di chiosco per i panini imbottiti.
In mezzo alle crescenti incertezze ed ai pericoli sempre più urgenti, nell’avvicinarsi del giorno di Pearl Harbour, Roosevelt passò molta parte dl tempo a far progetti per la costruzione di una riserva di pesca, dove potersi ritirare con Hopkins.
Aveva già scelto il posto. Ed una volta scrisse ad Hopkins: “per avere una carta grande della zona di Long Key, Fla., e dell’isola di Key, circa tre miglia a sud-ovest della località e proprio sul lato nord del Viadotto, a mezza strada tra Key West e il continente, lungo il Trestle”.
Nelle sue annotazioni Hopkins dice: “Avevamo fatto dei gran progetti per ottenere un campo di pesca nell’estremo Sud ad uso del Presidente quando avesse lasciato la Casa Bianca. Aveva posto gli occhi sull’isola di Key già da molti anni. Gli era stata offerta fin dal 1924 per 15.000 dollari, ma pensa di poterla avere a più buon mercato, poiché il luogo è molto tempestoso”.
Roosevelt fece anche il disegno della casa che vi avrebbe fatto costruire, per resistere alle tempeste. Doveva essere affrancata da enormi cavi ad ancoraggio di cemento nel terreno. Hopkins prese contatti con l’amico Julius F. Stone junior, avvocato di Key West e già funzionario della W.P.A. nella Florida, che conosceva come specialista in meteorologia, perché visitasse il canale di Key e fatti gli opportuni rilievi sapesse dirgli qualcosa di preciso.
Stone trovò che il canale avrebbe potuto comprarsi per 3.500 dollari, ma l’isola era stata così battuta da un uragano che la maggior parte di essa era quasi sommersa dall’alta marea. Il costo approssimativo delle opera d’argine e di terrapieno si sarebbe aggirato sui 18.000 dollari.
Per lui era senz’altro preferibile comprare sul continente. Roosevelt ed Hopkins continuarono a parlare dell’isola di Key fino all’attacco giapponese e non se ne dimenticarono nemmeno dopo. Sono sicuro che il Presidente sognò di costruire quella casa fino al momento della morte, per aspettare poi un uragano e dimostrare a tutti che era una cosa fattibile.
In un capitolo precedente, ho espresso la mia meraviglia perché si avevano così poche interruzioni telefoniche o dispacci quando il Presidente era nel suo studio a lavorare o a riposare. Ciò era dovuto soprattutto al gran daffare che si davano i suoi funzionari e segretari privati della Casa Bianca, da Grace Tully a Louise Hackmeister e Russel McMullin che correvano al telefono giorno e notte, oltre, s’intende, i suoi tre uscieri.
Durante gli anni di guerra non si contavano le chiamate con precedenza assoluta e le comunicazioni chieste da ufficiali e funzionari su questioni ed argomenti d’ogni genere, ma sempre urgentissimi, come se l’esistenza della Repubblica e la sua libertà dipendessero da un immediato intervento del Presidente per soddisfare le richieste da cui erano tormentati in quel particolare momento.
Comunque, i segretari sapevano quali comunicazioni erano da prendere sul serio e quali non avevano affatto carattere d’urgenza come credevano gli informatori e ne scartavano il novantanove per cento, così da non disturbare il Presidente quando voleva starsene quieto a raccontare aneddoti o a riscontrare i francobolli della sua collezione.
Non credo però che ci sia mai stato un periodo di tempo in cui fu più assalito, mattino, giorno e sera, che nelle settimane di estrema tensione dell’autunno 1941. Egli si sentiva invincibilmente sospinto in una direzione da coloro che propugnavano un’azione di forza, di cui Stimson e Morgenthau erano i maggiori esponenti, mentre era tirato dall’altra da altri, convinti invece che la nostra salvezza stesse in una politica di estrema cautela.
In più Churchill lo tempestava di messaggi ed ora, anche di chiamate telefoniche dal centralino di quell’alloggio a prova di bomba in cui era stato obbligato a rifugiarsi, sotto Great Georg Street. (Nel centralino c’erano due orologi, uno che segnava l’ora di Londra, l’altro quella di Washington).
Alla fine di settembre Roosevelt dovette pensare seriamente se fosse o mono il caso di presentare al Congresso una nuova interpellanza, correndo il rischi di un verdetto sfavorevole. Era assediato da tutti i dilemmi e i timori dei pericoli cui si poteva esporre, secondo l’una o l’altra decisione. Il Dipartimento della Guerra era decisamente favorevole ad un attacco frontale contro gli isolazionisti.
Quello della Marina era più tentennante. Hull chiese all’ammiraglio Stark di esprimere il suo parere in positivo e il relativo promemoria del capo delle operazioni navali fu per Roosevelt molto soddisfacente. Era un’analisi di tutti i vantaggi e gli svantaggi che potevano derivare da un’azione diretta. Non è nemmeno necessario riportarlo tutto; la parte più importante era la seguente:
Una dichiarazione di guerra degli Stati Uniti alla Germania, non preceduta da ultimatum di questa agli Stati Uniti, potrebbe indurre il Giappone ad entrare attivamente in guerra.
Questo sarebbe, senza discussione, uno svantaggio perché gli Stati Uniti si vedrebbero impegnati su due fronti: cosa che si può anche accettare, se imposta dalle circostanze, ma che si deve evitare finché è possibile.
Potrei aggiungere che per riuscire nell’intento non c’è altra via che continuare nella politica forte contro un’aggressione giapponese …
Da lungo tempo ho la convinzione che la Germania non può essere sconfitta, se gli Stati Uniti non entrano in guerra con tutte le loro risorse per compiere un grande sforzo militare e navale, secondo le esigenze strategiche.
Sarebbe opportuno entrare in guerra in una situazione in cui la Germania sia essa lo Stato aggressore, nel qual caso potrebbe anche darsi che il Giappone rimanga neutrale. Credo comunque che gli Stati Uniti dovrebbero entrare in guerra al più presto, anche nel caso che si debbano accettare le ostilità con il Giappone …
Posso aggiungere, da ultimo, che nei due anni scorsi, ho avuto modo di convincermi che il nostro Paese non lascerà mai cadere la Gran Bretagna; e che, pur d’impedirlo, sarebbe pronto ad entrare in guerra. Come ho detto sopra, pertanto, ho sempre creduto e dichiarato spesso che più presto entreremo in guerra, meglio sarà …
Non ho fatto cenno qui ha quanto ho già avuto spesso occasione di dire e cioè che è assai improbabile che la Germania ci dichiari guerra prima di sentirsi veramente pronta. Hitler prenderà la sua decisione a mente fredda, quando e se, crederà che gli convenga e non prima di allora.
Ché egli potrebbe trovare fin d’ora una quantità di validi pretesti per dichiararci una guerra, se ne avesse l’intenzione. Ha ormai invaso troppi paesi senza che avesse una valida scusa per farlo; tranne, beninteso, quella di servire i propri fini. Quando sarà pronto ci attaccherà, ma non prima.
Il 9 ottobre Roosevelt presentò al Congresso una richiesta di nuovi emendamenti alla legge di neutralità, per ottenere di armare le navi mercantili americane ed il riconoscimento del diritto di commercio nelle zone di guerra. Ciò portò a nuovi aspri dibattiti sul colle del Campidoglio.
La posizione di Roosevelt era assai indebolita dal gennaio precedente, quando era stata varata la legge affitti e prestiti. I dibattiti erano stati vivi più che mai e proprio nel momento in cui i Tedeschi si spingevano verso Mosca su un fronte di 375 chilometri e a Tokyo il gabinetto “moderato” di Konoye rassegnava le dimissioni per essere sostituito da quello prettamente militarista del generale Tojo.
Come se ciò non bastasse i Tedeschi spargevano il primo sangue americano nella battaglia dell’Atlantico: il 17 ottobre, a circa 350 miglia a sud-ovest dell’Islanda, un sommergibile tedesco aveva silurato il cacciatorpediniere americano Kearny ed erano morti undici uomini dell’equipaggio.
La nave riuscì a rifugiarsi nel porto di Reykjavik. Il popolo americano considerò la cosa come un incidente di ordinaria amministrazione, poiché gli uomini delle nostre forze armate – della Marina o dell’Esercito, senza distinzione, ma soprattutto la fanteria di Marina – erano sempre stati considerati mercenari che si arruolavano volontariamente, come i poliziotti o i pompieri, per compiere dei servizi rischiosi.
Era una disgrazia quando uno di essi ci lasciava la pelle facendo il suo dovere o in una delle tante rivoluzioni dell’America Centrale o nel naufragio di un sommergibile e nell’affondamento di una nave, come la cannoniera Panay, ma faceva parte dei rischi del mestiere.
Non si riusciva a identificare nel soldato o nel marinaio di mestiere, il cittadino americano comunemente inteso. Nel caso dei “coscritti”, la cosa era differente. Essi erano i “nostri ragazzi” che dovevano essere tenuti ad ogni costo lontani dal pericolo. E poiché nella Marina non c’erano ancora coscritti, gli attacchi di Hitler non sollevarono alcuna indignazione; ma quel che è più strano ancora non ci fu nemmeno molta indignazione contro lo stesso Roosevelt, per avere esposto al pericolo le nostre navi.
Gli Americani erano in attesa, senza sapere di che, in uno stato di apparente apatia, simile a quella da cui si era lasciato vincere il popolo inglese durante il periodo della “strana guerra”, in attesa di una nuova Dunkerque che li spingesse a prendere posizione e ad agire con prontezza.
Questo stesso fatto, il ricordo della loro pericolosa soddisfazione prima della caduta della Francia, rendeva ora difficile agli Inglesi il comprendere la beata fiducia degli Americani che “la guerra non li dovesse toccare”.
Esso qui alcune righe della cronaca del Washington Times Herald che ci possono far capire molto bene la stranezza di quei giorni:
La notte scorsa il Governo è stato posto in minoranza nella votazione della sua richiesta di mezzi legali per combattere la nuova forma di propaganda antibellicista delineatasi dopo il siluramento del cacciatorpediniere Kearny, che è costato la vita di molti ufficiali e uomini dell’equipaggio.
Questo nuovo metodo ha preso la forma di messaggi ingiuriosi contro le famiglie e i parenti stessi degli uomini che perirono nell’affondamento del Kearny.
La famiglia di George Alexander Calvert junior, cannoniere del Kearny, che è stato dato per disperso, ha ricevuto addirittura un disegno con uno Zio Sam crocifisso sulla “croce dell’oro” e ai lati la Giustizia e la Libertà, appese ad altrettante croci, più altri messaggi scritti a matita.
Questi portavano scritto: “Il vostro caro figlio è stato mandato alla morte dall’imbecille e criminale capo del nostro Governo” e furono ricevuti dai Calvert non molto tempo dopo che i giornali riportarono la notizia dell’angoscia provata dalla madre per la perdita del figliolo.
Un altro messaggio era un disegno che raffigurava l’impiccagione dello Zio Sam compiuta da due personaggi, con la scritta “F.D.R”> e “Anch’io! W. W.”, i quali tiravano il laccio mentre era abbracciato da altri pupazzi che raffiguravano Carter Glass, Bernard Baruch, Dotty Tom Tom, Frank Knox, Harry Hopkins, La Guardia, Pepper, Henry L. Stimson e altri.
La famiglia Calvert, che vive vicino a Gillespie, nell’Illinois, ha inviato i messaggi ai funzionari di qui, chiedendo che siano ricercati i mandanti “perché non torturino più le famiglie che hanno perduto un figlio”.
Pochi giorni dopo l’attacco al Kearny, il generale Robert Wood del comitato di “America anzitutto”, lanciò un pubblico appello al Presidente, invitandolo a presentarsi al Congresso per sapere definitivamente se gli Stati Uniti dovevano o non dovevano entrare in guerra. Era proprio la richiesta che Roosevelt si sentiva ripetere continuamente da più di sei mesi, da Stimson e dagli altri dentro e fuori del Governo.
Ma il fatto stesso che una simile richiesta venisse ora da uno dei maggiori esponenti dell’isolazionismo convinceva sempre più Roosevelt che, aderendo all’invito dei suoi consiglieri, sarebbe andato incontro a sicura sconfitta.
Il 27 ottobre, Roosevelt pronunciò il discorso per la giornata della Marina, nella grande sala da ballo dell’Hotel Mayflower a Washington. Fu senz’altro il discorso più forte che egli avesse pronunciato fino allora:
Il fuoco è cominciato – disse – e la storia ha registrato chi sparò per primo. Ma, da ultimo, chi avrà ragione sarà colui che sparerà l’ultimo colpo … Io vi dico che non abbiamo affatto l’intenzione di trangugiare questo boccone …
Oggi di fronte a questa nuova e maggiore sfida lanciataci, noi Americani sappiamo qual è il nostro compito ed abbiamo preso il nostro posto di combattimento. Siamo impavidi, pronti a difendere la nazione e la fede dei nostri padri, facendo intero quel dovere che Dio ci ha dato il potere di conoscere.
Parole coraggiose, ma che non mutarono di un “ette” la situazione. E furono accolte con scherno dai <<Signori della guerra>> a Tokyo ed a Berlino. Tre giorni dopo venne silurato un altro cacciatorpediniere, il Reuben James. Centoquindici membri dell’equipaggio, compresi tutti gli ufficiali, perirono. Le famiglie colpite piansero, ma il pubblico mostrò più interesse per la partita di calcio che si doveva disputare tra l’Esercito e il Notre Dame.
Sembrava che gli Americani avessero stabilito la tacita intesa di non lasciarsi allarmare dall’affondamento delle proprie navi, perché era stato proprio questo che li aveva condotti in guerra l’altra volta. Si suol dire che i Francesi nel 1914 fossero pronti per la guerra del 1870 e nel 1939 fossero finalmente pronti a quella del 1914.
Ma con egual verità si può affermare che nel 1941 gli Americani erano ormai disposti, anima e corpo, a tenersi fuori dalla guerra del 1917. il 7 novembre, il Senato approvò con un minimo margine di voti (50 contro 37), gli emendamenti alla legge di neutralità e una settimana dopo la Camera votava in favore con un margine proporzionalmente ancora più esiguo (212 contro 194).
In verità la situazione mondiale diventava critica e quasi disperata, più il pericolo si avvicinava a grandi passi agli Stati Uniti e più si inaspriva il sentimento isolazionistico prendendo forme addirittura aggressive, senza che Roosevelt si sentisse capace di controbatterlo. Egli aveva detto e fatto tutto ciò che si poteva “all’infuori di una guerra”. Non aveva dimenticato nulla, trucchi o illusioni. Ma il cappello dal quale aveva estratto tanti conigli, non gli serviva più: era vuoto.
Il Presidente degli Stati Uniti si trovava in balia di circostanze che non potevano venir determinate dalla sua volontà, ma dalle imprevedibili decisioni dei nemici. Non è affatto strano che egli passasse il tempo a fare progetti e calcoli sul modo di ancorare una villetta contro la violenza delle tempeste.
Dal 31 ottobre, Roosevelt e Hopkins passarono cinque giorni a Hyde Park. Dopo, Hopkins entrò in clinica nell’ospedale di Marina, dove rimase quatto settimane. L’ospedale aveva allora la sua sede a brevissima distanza dalla Casa Bianca, dove Hopkins tornava di quando in quando per cenare con il Presidente. Era sempre in contatto con Stettinius e con il generale Burns per gli affitti e prestiti e si teneva sempre al corrente della situazione generale.
Aveva più tempo d’interessarsi dei propri affari di famiglia, quando era malato e all’ospedale diede tutte le disposizioni per festeggiare il compleanno di sua figlia Diana, il 15 novembre, alla Casa Bianca. Il 24 novantanove scrisse al figlio Stefano a Hill School:
Non ho ancora saputo come se la sia cavata la tua squadra di calcio nell’ultima partita, ma spero che tu sia riuscito a prenderci parte.
Ho ricevuto le tue pagelle che mi dicono che sei debole in due materie su quattro. Mi sembra dunque che ti converrebbe applicarti un po’ di più al lavoro della scuola che all’atletica, per metterti un po’ in sesto con gli studi. Son sicuro che non sei così indietro da non poter recuperare in fretta il tempo perduto, ma bisogna studiare seriamente.
È più importante ottenere buoni voti che fare la squadra di calcio. Non hai molte speranze di entrare al collegio universitario con questi brutti voti.
Non credere che io sia contrario agli svaghi, ma ciascuno di noi oggi deve imparare a curarsi di sé e siccome tu hai una fortuna che ha al massimo un ragazzo su mille, no ci sembra proprio il caso che tu la debba sciupare, ma cerca di valertene per il meglio.
Stefano era il suo figliolo minore, che morì in combattimento due anni dopo, con la fanteria di Marina. Hopkins lasciò l’ospedale quattro giorni prima di Pearl Harbour e ritornò alla sua camera-ufficio nella Casa Bianca. Non fece mai nulla per seguire il consiglio che dava a suo figlio: “Ciascuno di noi deve imparare a curarsi di sé”.