2ª GUERRA MONDIALE, SEGRETI AMERICANI – 1

a cura di Cornelio Galas

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Comincio subito con la biografia di Harry Llloyd Hopkins, un uomo che troveremo tante volte nel libro di Robert E. Sherwood.

Harry Lloyd Hopkins (Sioux City, 17 agosto 1890 – New York, 29 gennaio 1946), consigliere ed uomo di fiducia del presidente Franklin Delano Roosevelt, fu uno dei principali promotori del New Deal.

Nel 1933 diresse la Federal Emergency Relief Administration e dal 1935 la Work Projects Administration, due organismi che avviarono la realizzazione del New Deal nel campo del lavoro e della programmazione economica. Dal 1938 al 1940 fu ministro del Commercio e poi dal 1941 amministratore della Legge Affitti e Prestiti.

Durante la II guerra mondiale convinse il presidente a privilegiare la lotta alla Germania nazista rispetto a quella nel Pacifico. Fu inviato in Unione Sovietica nel 1941 e il suo viaggio rappresentò il primo approccio tra i due alleati, in vista dell’ammissione dell’Unione Sovietica ai benefici della Legge Affitti e Prestiti.

Nell’aprile 1942, insieme a George Marshall, Hopkins compì un viaggio a Londra per presentare a Winston Churchill un primo progetto di apertura di un secondo fronte in Europa, il provvedimento sul quale Stalin insisteva fin dall’inizio dei rapporti tra gli alleati.

Harry Lloyd Hopkins

Harry Lloyd Hopkins

Nel luglio 1942 Hopkins e Marshall compirono una nuova missione in Gran Bretagna accompagnati dall’ammiraglio Ernest King.

Nel corso dell’incontro gli americani confermarono la necessità del loro impegno militare nello scacchiere del Pacifico, ma Churchill ottenne che l’operazione Torch (sbarchi nell’Africa settentrionale francese) fosse programmata a breve termine, mentre l’apertura di un secondo fronte in Europa fu rinviata ad altri tempi.

Tra il 14 e il 24 gennaio 1943 partecipò alla conferenza di Casablanca, dove venne deciso il principio della resa incondizionata e la continuazione delle operazioni del Mediterraneo con l’invasione dell’Italia.

Nel novembre-dicembre 1943 partecipò alla conferenza di Teheran ed a quella del Cairo e successivamente, quando la sua salute era ormai diventata malferma, alla conferenza di Jalta (4-12 febbraio 1945). La sua ultima missione importante fu un viaggio a Mosca nel giugno 1945, dopo la morte di Roosevelt, per preparare la conferenza di Potsdam.

Per qualche mese fu anche collaboratore del presidente Harry Truman: negli ultimi mesi riuscì tuttavia a raggiungere con Stalin alcuni accordi basilari per il funzionamento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Si dimise per motivi di salute nel luglio 1945 e morì a New York pochi mesi dopo, il 29 gennaio 1946.

E veniamo ai “segreti della Casa Bianca” durante la seconda guerra mondiale. Cominciando proprio da Hopkins.

Durante gli anni che fu ospite della Casa Bianca, Harry Hopkins venne generalmente considerato come un personaggio sinistro, un basso intrigante, qualcosa come un miscuglio – con alcune caratteristiche, tipiche del suo paese natale, lo Iowa – di Machiavelli e di Rasputin.

Non gli erano ostili soltanto quanti odiavano Roosevelt; moltissimi tra gli amici e collaboratori più leali che questi contò, persino nel suo Gabinetto, ebbero in profonda antipatia Hopkins e deplorarono l’influenza e l’autorità eccezionali che egli detenne.

Era senz’altro uno dei punti deboli della politica rooseveltiana, un bersaglio che si prestava ad attacchi d’ogni specie che colpivano lo stesso Presidente, tanto che erano in molti a chiedersi perché mai non se lo togliesse di torno.

Ma quegli che negli anni di guerra doveva diventare l’aiutante del Presidente – e di cui il generale e più tardi segretario di Stato George C. Marshall ebbe a dire: “egli rese a questo paese un servizio che non potrà mai essere apprezzato neanche in modo approssimativo” – fu in gran parte una creazione dello stesso Roosevelt.

Harry Lloyd Hopkins con Roosevelt

Harry Lloyd Hopkins con Roosevelt

Fu lui che deliberatamente lo allevò all’arte e alla scienza della politica e della guerra, fu lui che gli attribuì un potere di decisione illimitato e lo fece soltanto perché gli piaceva, se ne fidava, ne aveva bisogno.

Un assistente sociale del Cornbelt, che considerava il denaro (il proprio come l’altrui) qualcosa da spendere il più rapidamente possibile, riformatore volutamente angoloso e spesso intollerante e privo di tatto quale era, Hopkins differì profondamente da Roosevelt per nascita, educazione e contegno.

Ma v’erano in lui qualità, comprese alcune delle meno apprezzabili che Roosevelt ammirava e che lo attraevano, forse anche perché erano così diverse dalle sue. Una delle migliori valutazioni di questo rapporto d’amicizia è quella scritta nel 1938 dall’acuto Raymond Clapper:

“Molti tra i newdealers avevano seccato Roosevelt con la serietà del loro zelo. Hopkins non lo fece mai. Egli sapeva istintivamente quando era il momento di chiedere, quando di starsene quieto, di insistere o di battere in ritirata, quando di rivolgersi direttamente a Roosevelt o quando arrivarci per vie traverse… Sveglio, acuto, furbo, ardito e comportandosi con un’aria un po’ diabolica. Hopkins era senz’altro destinato ad essere il favorito di Roosevelt”.

Clapper scriveva questo negli anni del New Deal, quando Hopkins nutriva per sé grandi ambizioni politiche. La sua condizione mutò totalmente durante la guerra, quando ogni velleità di carattere personale venne ad essere distrutta dalla grave malattia.

Un insigne europeo, che li conobbe per la prima volta tutti e due – Roosevelt e Hopkins – in quegli anni, ebbe tuttavia a darmi di quella relazione un ritratto che combaciava quasi esattamente con quello di Clapper. “Hopkins – mi disse quel osservatore – ha una sensibilità direi quasi “femminile” nell’intuire gli umori del Presidente. Sembra sappia con esattezza quando è che Roosevelt desidera sbrigare gli affari di Stato e quando desidera evadere dalle enormi responsabilità della presidenza”.

(Pur consentendo, debbo aggiungere che non comprendo perché una tale sensibilità debba essere qualificata per “femminile”: conosco donne che hanno il dono dell’inopportunità proprio quanto qualsiasi altro uomo).

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Un aneddoto significativo su come Roosevelt considerasse Hopkins mi venne narrato da Wendell Willkie, che non era certo fra i più ferventi ammiratori dei due. Bisogna ricordare che, dopo la sconfitta elettorale del novembre 1940, Willkie dimostrò di accettare quel verdetto da buon cittadino e con senso sportivo, aiutando Roosevelt nella sua politica estera.

Ritenne di potergli giovare visitando l’Inghilterra mentre questa combattendo da sola contro la macchina di guerra hitleriana che appariva allora imbattibile, veniva sottoposta notte e giorno ai più furiosi bombardamenti aerei che potessero essere sferrati dai nazisti. Roosevelt, acconsentendo subito alla proposta di Willkie, lo invitò alla Casa Bianca il 19 gennaio 1941, la vigilia del suo terzo insediamento, che era il primo nella storia d’America.

Hopkins si trovava allora in Inghilterra, dove era andato per farsi un’idea dell’eccezionale personalità di Winston Churchill e riferirne quindi a Roosevelt; questi ebbe quindi a dire a Willkie che all’arrivo a Londra Hopkins l’avrebbe certo visto, eventualità che non entusiasmò punto Willkie, il quale aveva per lui un’antipatia cordiale e un disprezzo quali non aveva per nessun altro dei membri del Governo che aveva appena finito di combattere con tanta asprezza.

Harry Lloyd Hopkins con Stalin

Harry Lloyd Hopkins con Stalin

Pose anzi a Roosevelt una precisa domanda: “Ma perché vi tenete tanto vicino Hopkins? Non c’è dubbio che vi rendiate conto di come la gente abbia sfiducia in lui e deplori la sua influenza”. Stando a Willkie, ecco quale fu la risposta di Roosevelt: “Capisco che vi meravigliate che abbia bisogno di avere vicino codesto mezzo uomo”. (L’espressione “mezzo uomo” alludeva all’estrema magrezza di Hopkins). “Ma può darsi che un giorno vi troviate voi ad occupare questo posto di Presidente degli Stati Uniti.

Quando vi ci troverete, guardate a quella porte sapendo che in pratica non entra nessuno che non abbia qualcosa da chiedere. Imparerete quanto si sia desolatamente soli a questo posto e scoprirete allora che si ha bisogno di qualcuno come Harry Hopkins il quale non domanda altro che di servire”.

Roosevelt non era solito parlare dell’isolamento del suo alto ufficio. Anzi, parlava sempre di ore “magnifiche”, “belle” o “allegre”. Ma la sua solitudine era una realtà. Egli era per sua natura un uomo socievole, che preferiva la conversazione alle letture e allo scrivere. Come chiunque altro, desiderava ogni tanto uscire dal suo guscio, ma gli altri non glielo permettevano.

Anche quando si giocava a poker, mentre si mischiavano le carte, un membro del Gabinetto era capace di interloquire: “a proposito, signor Presidente, quei tali dell’ufficio del Bilancio stanno prendendo un atteggiamento che ritengo pericolosamente miope riguardo al nostro programma; e sono sicuro se ne esaminaste i particolari converreste con me… “.

Harry Lloyd Hopkins

Harry Lloyd Hopkins

Roosevelt guardò quindi con crescente diffidenza i collaboratori, chiudendosi sempre più in sé. Quando era arbitro di scegliersi la compagnia, preferiva quella di vecchi amici o parenti che no avevano nulla a che vedere con il Governo e con i quali poteva parlare dei giorni trascorsi a Hyde Park e degli innumerevoli progetti per il futuro, quando si sarebbe ritirato a vita privata.

È significativo che nell’ultimo viaggio a Warm Springs, estremo tentativo di riposare un po’, suoi unici compagni, a parte gli addetti alla sua persona, furono due cugine della sua generazione. Margaret Suckley e Laura Delano, oltre al suo cane, Fala. È vero che in quegli ultimi anni si stabilì un legame particolare tra Roosevelt e Hopkins, dovuto al fatto che tutti e due avevano lottato faccia a faccia con la morte e che tutti e due vivevano in prestito su questa terra.

Ma Hopkins era salito alla sua posizione di favorito assai prima di incontrarsi la prima volta con la morte e molto prima che si potesse parlare di lui come di uno che avesse varcato la soglia presidenziale senza chiedere nulla.

Al tempo della F.E.R.A. e della W.P.A. non esitò affatto a valersi dell’intima amicizia col Presidente, per proteggere i propri interessi e quelli degli uffici nei quali avesse parte. Incontrai la prima volta Hopkins una domenica a Long Island ai primi di settembre del 1938 sotto il tetto ospitale di Herbert e Margaret Swope. Tenevo allora un diario (che tralasciai di aggiornare regolarmente nel giugno 1940, proprio quando avrei dovuto incominciarlo) sul quale scrissi : “Lunga conversazione a colazione con Harry Hopkins, l’amministratore della W.P.A., uomo furbissimo e leggermente inquietante”.

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Fu tutto quanto scrissi, ma ricordo che la conversazione di Hopkins fu molto piacevole rivelando egli una notevole conoscenza e un certo entusiasmo per il teatro. Era evidentemente orgoglioso di quel che la W.P.A. aveva fatto per i teatri di Stato e per le arti e credo che avesse tutte le ragioni per esserlo. Ma non mi riuscì completamente simpatico.

Si serviva di frasi del genere: “Dovremo calpestare questi bastardi”, e simili. Non è che dissentissi sulla sostanza, ma l’idea di calpestare non mi andava giù. Provavo la diffidenza tipica degli Americani, per uno che si trova a dover fare “le cose più grandi di lui”. Circa un anno dopo, quando venne atterrato e colpito da una tremenda malattia, venni a conoscerlo molto meglio ed ebbi per lui un’amicizia che influenzerà tutto quello che scriverò su di lui, del che, non penso di dovermi scusare.

Quando, dopo la morte di Roosevelt, il Presidente Truman diede ad Hopkins la medaglia del Distinguished Service, la motivazione del Dipartimento alla Guerra parlava della “acuta comprensione” e sta ad indicare la penetrante acutezza del suo spirito e quella spinta instancabile e continua che l’animava.

Negli anni che precedettero Pearl Harbour e in quelli di guerra che seguirono, Hopkins si propose il compito, facendosene una religione, di scoprire la vera volontà di Roosevelt, adoperandosi quindi, perché nulla, né le forze di questa terra né quelle dell’inferno, neanche le eventuali esitazione dello stesso Roosevelt, avessero ad impedirne il compimento.

Hopkins non commise mai l’errore del colonnello Edward M. House, che lo portò al fatale urto con Wilson, di credere di conoscere il pensiero del Presidente meglio del Presidente stesso. Roosevelt poteva spedirlo in missione dovunque, dal Ministro della Guerra a Downing Street ed essere assolutamente certo che non avrebbe mai pronunciato una parola decisiva basandosi su una sua interpretazione personale degli scopi e delle direttive del Capo.

Hopkins no era tipo da avventurarsi in un territorio di cui prima Roosevelt non avesse fatto i rilievi. Quando nel 1941 si recò per la prima volta a Mosca, un mese dopo l’attacco hitleriano all’Unione Sovietica, Roosevelt inviò a Stalin questo dispaccio: “Vi chiedo di trattarlo con la stessa fiducia con cui parlereste con me in persona”.

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Allora Roosevelt non aveva avuto ancora alcun contatto diretto con Stalin, ma questi lo prese in parola e parlò con Hopkins con una sincerità che non aveva mai dimostrato a nessun altro emissario del mondo democratico durante la guerra. Quel che v’è di notevole in questo primo contatto con Stalin, è che Hopkins non era munito di alcuna istruzione scritta su quel che dovesse dire o fare.

Il Presidente poteva fidarsi di lui e lo fece senza riserve. Roosevelt soleva dire: “Harry è un ambasciatore perfetto, ai miei fini. Egli ignora perfino il significato della parola protocollo. Appena vede spuntare un ramoscello di burocrazia, tira fuori le sue vecchie forbici da giardiniere e lo taglia via. E quando parla con qualche dignitario straniero sa come prendercisi per dondolare sulla sedia, mettere i piedi sul tavolo e dire: Ah sii!”.

Fu quella capacità di battere ogni record di velocità di venire al nocciolo delle questioni, ad aprire ad Hopkins il cuore di Winston Churchill, che disse di lui: “Ho preso parte a numerose conferenze dove convennero venti o anche più eminenti governanti. Quando la discussione divagava e non si riusciva a portarla in carreggiata, era allora che Harry Hopkins trovava il modo di porre la domanda inesorabile: “senza dubbio signor Presidente, è questo il punto che dobbiamo risolvere. Lo vogliamo affrontare o no?”. Veniva sempre affrontato e, affrontandolo lo si risolveva”.

Una volta Churchill, Roosevelt e Hopkins facevano colazione insieme nello studio ovale della Casa Bianca. Stavano vagliando prima i maggiori problemi da discutersi nella seduta ufficiale che si sarebbe tenuta ne pomeriggio. Come al solito, tanto Roosevelt quanto Churchill divagavano. (Churchill era capace di rifare la battaglia di Blenheim o Hoechstaedt che dir si voglia e Roosevelt anche la tattica di John Paul Jones quando il Bonhomme Richard sconfisse il Seraphis).

Compito di Hopkins erra di ricondurre a terra quei voli della fantasia, per affrontare argomenti più attuali. Una volta che lo fece, Churchill con il suo solito modo brusco, gli si voltò per dirgli: “Harry! Finita la guerra il Governo di Sua Maestà vi darà una ricompensa conferendovi un titolo di nobiltà”.

Hopkins osservò acidamente che l’appartenenza alla Camera dei Lord non era una ricompensa che gli facesse gioia. Ma Churchill continuò imperterrito: “Abbiamo già scelto anche il titolo . Vi chiameremo “Lord Nocciolo della Questione”.

Hopkins aveva ben poco dell’ampiezza di vedute di Roosevelt o di Churchill ed era quasi totalmente sprovvisto del loro senso storico. Guardava ai risultati immediati, piuttosto che a quelli a lunga scadenza. Era un realizzatore piuttosto che un progettista. Era abituato a dividere le sue conoscenze in due gruppi: i “parlatori” ed i “realizzatori” e si metteva con orgoglio nella seconda categoria.

Quando Roosevelt prendeva in esame un argomento, la sua mente spaziava in lungo e in largo, mettendolo in relazione con il presente, con il passato e con il futuro. Hopkins esaminando lo stesso argomento, andava invece, dritto al nocciolo agendo quindi, senza ulteriori divagazioni. Da questo punto di vista, Hopkins fu di grande utilità per Roosevelt, ma questi era essenziale per l’altro.

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Nonostante la sua accanita devozione al dovere e la sua salute sempre malferma, Hopkins era amante della vita così da comportarsi spesso come il giovanotto uscito di fresco dalla scuola di Grinnel (Iowa) e che si trovava libero nella grande città. Gli piacevano le corse e le relative scommesse (due dollari la posta), i teatri e i locali notturni, amava la compagnia degli eleganti, della bella gente, degli intelligenti, dei tipi allegri e dei tenutari di bar come Sherman Billingsley, Jack e Charlie, e Toots Shor.

Si compiaceva fino quasi a gloriarsene, quando la stampa avversaria lo accusava di essere un giocatore. Si sentiva tutto affascinato, quando glielo dicevano. Il medico del Presidente, ammiraglio Ross J. McIntire, ebbe a dire una volta: “Il nostro compito più difficile è di vietare a Hopkins di sentirsi troppo bene. Quando crede di aver riacquistato la salute, se ne va a spasso per la città, dopo di che va a finire alla clinica Majo”.

Hopkins non beveva forte, non ce l’avrebbe fatta fisicamente, ma qualunque cosa bevesse era sempre troppo per lui. Roosevelt considerava le piccole originalità del suo strano amico con divertimento non scevro da profonda preoccupazione. Il suo atteggiamento era quello di un generale indulgente verso un figlio scapestrato le cui scappatelle, benché perdonabili, dovessero essere severamente razionate.

Ecco un biglietto scritto di suo pugno, in data 21 maggio 1939, durante uno dei periodi in cui Hopkins era costretto a letto dal male che lo minava:

Caro Harry,

bravo! Il Ministro dice che sei aumentato di due libbre. 2 libbre = 2 $. Continuate ad aumentare e mettete il premio sul vostro libretto. Ma non potete aumentare più di cinquanta libbre perché Paparino non dispone di più di cinquanta dollari.

Sempre vostro

F.D.R.

Appuntati alla lettera c’erano due biglietti da un dollaro. Vi si trovavano ancora otto anni dopo. Il patrimonio di Hopkins non era molto più ricco di così. Ecco un’altra lettera del 18 maggio 1944, quando Hopkins si trovava all’ospedale Ashford:

Caro Harry,

è magnifico apprendere come andiate migliorando a White Sulphur Springs ed ho ricevuto una carissima lettera dal dottor Anfrew B. Rivers, scritta per la maggior parte in termini medici, ma che tuttavia mi sono fatto tradurre!

Le due cose essenziali che ne ho ricavato sono: primo, che è bene mettere il vostro sistema idraulico e di fognatura in grado di funzionare; in secondo luogo (e ciò è autorevolmente confermato da altre fonti) che non dovete vivere come un invalido, ma comportarvi tuttavia secondo il buon senso.

Anch’io che sono vecchio più di cent’anni di voi, sono venuto alla conclusione di ridurre il bere a mezzo cocktail per sera e basta, neanche un cicchetto in più, tanto per gradire. Ho anche ridotto le sigarette da venti-trenta a cinque-sei al giorno. Fortunatamente sono ancora pessime, ma ci si può adattare.

Il succo di tutto questo è per invitarvi a restare assente almeno sino alla metà di giugno. Non intendo che torniate prima di quella data. Se ritornaste prima, perdereste ogni popolarità a Washington, tranne che presso Cissy Patterson che desidera ammazzarvi al più presto come fa con me.

I miei progetti – dato che non ho finito ancora le mie cure – sono di restarmene qui tre giorni alla settimana e di passare gli altri quattro ad Hyde Park, Shangri-la o sul Potomac. Per la fine estate, mola roba bolle in pentola, ma non so ancora che cosa ne salterà fuori né quando.

Sono stato benissimo da Bernie (Baruch); dormendo dodici ore su ventiquattro, standomene al sole, mai perdendo la calma e decidendo che il mondo andasse a farsi impiccare. Il guaio è che non ci è andato.

Nel mio portacarte c’è una montagna di corrispondenza, ma la maggior parte si è già sbrigata da sola. Vado ad Hyde Park dove mi tratterrò fino a martedì o mercoledì. Tante care cose a tutti e due. Dite a Louise di ricorrere al vecchio spillone, se non vi comportate bene!

Affettuosamente

F.D.R.

Franklin Delano Roosevelt

Franklin Delano Roosevelt

È da notare che questa lettera venne scritta due settimane prima dello sbarco alleato in Normandia, quando Roosevelt stava per affrontare un’enorme responsabilità. Egli si rendeva ben conto che il tentativo di invadere la “fortezza europea” era quanto mai rischioso e poteva fallire facendo della manica quel “fiume di sangue” spesso profetato da Churchill.

Ma Roosevelt non era il tipo da lasciarsi ossessionare dalla paura. Dire che nei momenti più tragici della guerra egli sembrasse di una leggerezza spensierata, sarebbe raffigurarlo cinico e spietato e non era né l’uno né l’altro. Ma aveva la facoltà, che mai riuscii a spiegarmi, di gettarsi dietro le spalle le preoccupazioni, pur gravi che fossero.

Per dirla con le parole del suo amico Morris Ernst: “il suo buon umore e la sua gaiezza gli derivano dal fatto che egli si distingueva dagli altri uomini in quella che è la loro misura comune, la paura della morte”. Ciò fu più che mai evidente al tempo di Pearl Harbour e fu questa qualità a renderlo capace di sopravvivere finché al vittoria non fu in vista.

Una volta che Hopkins, Samuel I. Rosenman ed io stavamo lavorando con lui, Roosevelt dettò un periodo da inserire in un discorso, dicendo che i problemi in corso gli procuravano “notti insonni”, al che uno di noi protestò : “signor Presidente, per adesso potrebbe passare, ma gli storici futuri non mancheranno di scoprire che appena poggiate la testa sul cuscino siete bell’e addormentato e non vi ridestate se non sono passate almeno otto ore”.

Roosevelt rise e soppresse l’accenno alle notti insonni. Nonostante le loro differenze di carattere e di educazione, Roosevelt e Hopkins si somigliavano in un punto importante: erano tutti e due privi di ogni vanità. Le loro doti prevalenti erano: fiducia a tutta prova, coraggio e buon umore.

Frances Perkins ha scritto di Roosevelt che era “l’uomo più complicato che avesse mai conosciuto”. Morgenthau, dal canto suo, ha scritto che “è difficilissimo descriverlo… abbattuto e allegro al tempo stesso, leggero quanto serio, sfuggente quanto schietto… un uomo dagli atteggiamenti sconcertanti per la loro complessità”.

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Miss Perkins e Morgenthau, appartennero al Gabinetto di Roosevelt e lo conobbero molto prima e molto più a fondo di me, ma lo praticai abbastanza, specie in ore in cui era “fuori servizio” e si lasciava andare, per poter approvare le loro affermazioni sulla sua complessità. Scrittore di professione, cercavo di studiarlo continuamente, per sondare il suo intimo, ben velato dietro una vernice che riusciva divertente, attraente e cordialissima. Ma non mi riuscii mai di capire veramente cosa gli nascondesse.

Il suo temperamento, non soltanto era estremamente complesso, ma addirittura contraddittorio: poteva riuscire aspro come dolce, alle volte si dimostrava vendicativo sino alla meschinità, altre volte manifestava nella forma più elevata lo spirito cristiano del perdono e della carità. Poteva essere spietato nella sua politica, ma difendeva amici e collaboratori che gli erano politicamente fedeli e primo fra tutti Harry Hopkins, con lo stesso slancio con cui si buttava a difendere cause che consiglieri avveduti gli descrivevano come un suicidio politico.

Poteva sembrare profondamente cinico, quanto mai realistico, privo di illusioni, mentre la sua fede religiosa era la forza più misteriosa e potente che lo muovesse. Benché fosse piuttosto liberale e progressista tanto da meritare l’accusa di: “traditore della propria classe”, o d’essere “quel rosso della Casa Bianca”, era in fondo un uomo profondamente all’antica, incurabilmente nostalgico dei tempi del “tiro a quattro” che tanto derideva in pubblico.

Gli piaceva circondarsi di pace e di armonia e (come tanti altri) preferiva che gli dessero ragione: tuttavia gli uomini che scelse per le principali cariche del Ministero e degli enti del New Deal e della guerra erano particolarmente violenti, attaccabrighe e recalcitranti. Gli piaceva passare ai propri occhi per un uomo pratico, con i piedi sulla terra, realistico per istinto (soleva spesso dire: “Winston, lo zio Joe ed io ci troviamo bene inseme perché siamo tutti realisti”), tuttavia il suo idealismo non stava meno sulle nuvole di quello di Woodrow Willson.

Probabilmente, la sua maggiore contraddizione fu che, con tutta la sua complessità, raggiunse una grande semplicità che lo renderà, credo, molto meno misterioso per i biografi di quanto sia stato e tuttora rimanga Lincoln. Roosevelt ha scritto di se in modo così chiaro, con le parole e con i fatti, che tutti possono leggerlo e capirlo. Per quanto fossero complicate le forze che lo spinsero all’azione, il risultato è facile da intendere dai suoi concittadini, come dal resto del mondo.

Nel primo discorso di insediamento a governatore di New York, parlando del programma di legislazione sociale avviato dal suo predecessore Alfred E. Smith, disse:

Mi oppongo a che tale spirito di responsabilità civica nei confronti dello Stato o degli individui che ha posto New York all’avanguardia del progresso venga qualificato come “umanitarismo”. Si tratta di ben altro: è il riconoscimento che la nostra civiltà non può durare a meno che non ci rendiamo singolarmente conto che non possiamo isolarci dal resto del mondo e che abbiamo verso di questo una responsabilità personale.

È vero alla lettera che l’uomo e la donna “che bastino a se stessi” siano una specie estinta al pari dell’uomo dell’età della pietra. Senza l’aiuto di migliaia di altre persone, ognuno di noi morirebbe, nudo e affamato.

Pensate al pane sulla tavola, ai vestiti che indossate, agli agi che danno il piacere di vivere: quanti uomini hanno lavorato in campi assolati, in oscure miniere, al soffio bruciante degli altiforni e tra telai e ruote di innumerevoli fabbriche, perché potessimo usufruire e godere di quegli oggetti?

Nel leggere queste parole bisogna ricordare che vennero pronunciate nel gennaio del 1929, quasi un anno prima del crollo economico, quattro anni prima dell’ascesa di Hitler al potere, più di dieci anni prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, dodici anni prima degli “affitti e prestiti”.

Franklin Delano Roosevelt

Franklin Delano Roosevelt

Tuttavia, coloro che le udirono avrebbero potuto prevedere principi e direttive dell’uomo che per quattro anni avrebbe ricopertola carica di governatore e per dodici quella di Presidente. Quelle parole quando furono pronunciate erano estremamente radicali: il parlare di interdipendenza tra gli uomini era ritenuto “bolscevismo”, al tempo della prosperità sotto la presidenza di Coolidge, dell’individualismo più accanito, del “ciascuno per sé”, quando l’atteggiamento americano verso il resto del mondo poteva riassumersi in questa straordinaria domanda senza risposta: “Si sono fatti prestare i quattrini, nevvero?”.

Quando si confrontino le parole pronunciate da Roosevelt all’insediamento di Albany con quelle dell’insediamento a Washington ci si sorprende dell’altrui sorpresa per quanto egli fece da Presidente degli Stati Uniti. È vero che questo è l’insegnamento del “senno di poi”, ma tutta la storia non è fatta di altro.

Quando il 10 maggio 1940, Roosevelt accolse alla casa Bianca Hopkins, questi era ancora di nome il segretario al Commercio, carica alle cui funzioni assolveva quasi esclusivamente per telefono. Era sotto ogni aspetto un uomo fisicamente finito che poteva trascinarsi per qualche anno di relativa inattività oppure crollare da un momento all’altro. Non soltanto per lo stato di salute poteva apparire di nessuna utilità al Presidente nei compiti senza riscontro della guerra, anche perché era assolutamente ignorante di questioni militari .

Non aveva mai preso in mano un fucile, né da marinaio aveva mai partecipato all’assemblea. Nella prima guerra mondiale era stato riformato e la sua esperienza si limitava al lavoro svolto con la Croce Rossa nelle regioni meridionali.

Inoltre pacifista come ogni “newdealer”, era incline all’isolazionismo. Tuttavia sta di fatto che dal 1940 Roosevelt lo trasformò in un collaboratore bellico, proprio come un industriale di Chicago. Albert J. Brovning, trasformò la sua fabbrica di carta da parati in una di bombe incendiarie.

Hopkins era uno dei tanti Americani i quali credevano che la difesa nazionale consistesse precisamente in questo: se una flotta nemica si avvicina alle nostre coste, noi schieravamo la nostra flotta (sempre non seconda a nessuna), come una squadra di calcio che difendesse la propria porta prima che si fosse imparato il modo di scavalcare i terzini.

Qualsiasi nave nemica fosse riuscita a superare la nostra flotta si sarebbe scontrata con le difese costiere. Hopkins aveva una certa idea dell’importanza dell’aviazione, ma sempre, per quanto riguardava gli Stati Uniti, in senso difensivo; avevamo bisogno di masse di caccia per impedire incursioni nel nostro cielo e di bombardieri per affondare le navi nemiche quando si fossero avvicinate troppo.

Ma Roosevelt lo educò alla realtà della guerra, come fece pure il generale Marshall, per il quale Hopkins nutrì un profondo rispetto e la cui nomina a capo di Stato maggiore aveva caldeggiata. Rispondeva al temperamento di Roosevelt il considerare l’attacco come la migliore difesa. Ne testimoniano la sua giustificazione delle portaerei come arma offensiva e l’appoggio che diede a tutte le misure che consentirono alla flotta di operare lontano dalle basi per periodi di tempo sempre maggiori.

Molto prima della fine della guerra le nostre navi potevano permanere nel Pacifico per un tempo indeterminato, provvedendo a distillarsi l’acqua e ricevendo per mare tutti i rifornimenti necessari di nafta e di munizioni, tutte migliorie che non furono popolari tra gli equipaggi.

Una sera – era il 15 agosto 1940 e la battaglia di Inghilterra si iniziava allora – Roosevelt e Hopkins conversavano nello studio della Casa Bianca e Roosevelt che si interessava in modo speciale alle prospettive della guerra anfibia, prese una carta della costa orientale degli Stati Uniti, segnandovi le linee costiere e spiegando che in realtà non avrebbe difeso più dell’uno o uno e mezzo per cento delle nostre coste.

Fece anche notare che il nemico avrebbe potuto sbarcare in qualsiasi punto e che pertanto, se coinvolti nella guerra, avremmo fatto molto meglio a sbarcare noi per primi sulla costa nemica, per esempio sulla costa nord-occidentale dell’Africa.

Molti generali come Dwight D. Eisenhower, che vennero a contatto con Hopkins per la prima volta nel 1941 e tutti gli altri con cui ho avuto occasione di parlarne, mi dissero la stessa cosa: conoscendolo come uno di quei “visionari” del New Deal (che era un modo per dire “pazzoidi”), erano alquanto dubbiosi sulla sua capacità di intendere problemi puramente militari, ma quando gli ebbero parlato, rimasero stupiti della sua prontezza nell’afferrare i dati essenziali di carattere strategico.

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Era questo il risultato dell’insegnamento di Roosevelt e della prontezza di Hopkins nell’apprendere; essa non dovette fargli difetto negli anni che seguirono, con il moltiplicarsi dei problemi di una guerra che toccò tutte e terre, tutti i mari e tutti i cieli e che terminò con la terrificante nascita dell’era atomica.

All’inizio di questo capitolo dissi che vi furono membri del Governo i quali deplorarono l’intimità tra Hopkins ed il Presidente. Fece eccezione il segretario alla Guerra, Stimson, un repubblicano di sempre che avrebbe dovuto essere nettamente ostile a tutte le concezioni della W.P.A. e, ligio com’era alle forme, avrebbe dovuto risentirsi dell’irregolarità dell’elevata posizione non ufficiale di Hopkins.

Nel suo diario Stimson scrisse : “Più ci penso, più credo che la presenza di Hopkins alla Casa Bianca sia un dono della Provvidenza”. Questo fu scritto il 5 maggio 1941, quando stavano per concludersi le discussioni sugli “affitti e prestiti” e Hopkins stava per occupare una posizione che nessun altro aveva ricoperto prima di lui.

Altri membri del Governo, i quali non credevano che la presenza di Hopkins alla Casa Bianca fosse un “dono della provvidenza”, dissero che esercitava un malefico influsso su Roosevelt, facendogli adottare decisioni contrarie alle sue tendenze e al suo giudizio.

In verità, lo storico di domani, questo studioso che avrà tanto lavoro da svolgere, leggendo le diverse memorie di questo nostro tempo può arrivare a chiedersi perplesso se Roosevelt abbia mai agito di sua testa, poiché tutto quanto fece di buono fu fatto su suggerimento degli autori delle memorie e tutto quello che fece di male fu dovuto ad “altre influenze”, le quali per solito stanno ad indicare Hopkins. Hopkins rideva sempre quando dicevano che egli fosse un ipnotizzatore perché questo significava che Roosevelt avrebbe dovuto essere il suo succube.

Roosevelt fu molte cose, ma questa certo non lo fu.

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