TRENTINO, DAL 1945 ALLA NUOVA AUTONOMIA – 1

a cura di Cornelio Galas

Dopo aver analizzato il periodo del cosiddetto “Rebalton” (dopo l’8 settembre 1943), della Resistenza, della Liberazione, cerchiamo ora di capire la situazione del Trentino subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. E come è cambiata (o meno) nei decenni successivvi. Cominciamo oggi con i “processi” ai fascisti. Poi parleremo delle iniziative giudiziare anche contro i partigiani, degli albori dell’autonomia del Trentino Alto Adige, della ricostruzione, del “terrorismo” in Alto Adige e delle altre principali “tappe” storiche.

25 aprile, la Liberazione

25 aprile 1945, la Liberazione

Alcuni dei processi tenutisi a Trento riguardarono anche importanti esponenti del fascismo trentino. Nel settembre 1945, Italo Lunelli comparve dinnanzi ai giudici della CAS di Trento in relazione a ben tre diversi capi d’imputazione. Il primo, risalente al periodo successivo all’armistizio italiano, lo accusava d’aver favorito i disegni politici del nemico (art. 58). In qualità di tenente colonnello degli alpini, Lunelli si era reso disponibile «quale ufficiale di collegamento dell’Ambasciata italiana di Berlino con quel comando principale delle SS tedesche».

Gli altri reati risalivano invece al Ventennio. Nel giugno 1931, aveva guidato e organizzato «le squadre fasciste che con atti di violenza e di devastazione invasero e occuparono» gli oratori Rosmini e S. Maria «col proposito di trasformarli in sedi dell’Opera nazionale balilla». Sin dal gennaio 1925, inoltre, aveva tenuto «a Trento e in altre regioni d’Italia discorsi e conferenze di propaganda, pubblicato articoli di giornali e libri di esaltazione del Partito, del Duce e della guerra, spalla a spalla con la Germania, contribuendo così con atti rilevanti a mantenere in vigore fino al momento del crollo [il] regime fascista».

Italo Lunelli

Italo Lunelli

Lunelli negò ogni addebito dichiarando di aver assunto una posizione critica verso la dittatura a partire dalla fine degli anni trenta, in corrispondenza dell’alleanza italo-tedesca. Catturato e internato dai tedeschi in Germania dopo l’armistizio, assunse un atteggiamento anti-tedesco invitando gli ufficiali italiani a non aderire alla RSI.

Nonostante avesse rifiutato di svolgere qualsiasi attività di propaganda all’interno dei campi d’internamento, l’ambasciata della RSI a Berlino decise di farlo rientrare in patria decisa a sfruttarne le competenze politiche. Nel corso del processo, la Corte escluse che avesse svolto qualche funzione effettiva a favore della Repubblica sociale. Il documento tedesco che lo assegnava quale ufficiale di collegamento tra l’ambasciata italiana e il Comando SS di Berlino era «valevole dal 23 ottobre 1943 al 31 ottobre 1943».

Italo Lunell

Italo Lunell

Otto giorni di servizio erano troppo pochi per dichiarare la colpevolezza di Lunelli. Una volta rimpatriato, Lunelli si ritirò a vita privata «piantando in asso e Ambasciata e tedeschi» e astenendosi da qualsiasi attività di propaganda o di collaborazionismo. Per ciò che riguardava la sua partecipazione all’assalto degli oratori roveretani del giugno 1931, la Corte osservò di non avere a disposizione prove sufficienti a stabilirne un’effettiva responsabilità. Solo in relazione al terzo capo d’imputazione, rilevò l’esistenza di elementi validi e certi che ne giustificassero la condanna.

Aveva ricoperto numerose e importanti cariche politiche e si era arruolato volontario allo scoppio della guerra. I giudici ritennero che Lunelli fosse stato in effetti un paladino dell’alleanza nazifascista.

Busto in onore di Italo Lunelli

Busto in onore di Italo Lunelli

Il testo scritto nel 1942, Pagine della nostra fede, costituiva «una estesa e vibrante apologia del fascismo» che veniva rappresentato «come fenomeno squisitamente italiano e profondamente nazionale […], in antitesi colle false democrazie inglese e nord-americana […], destinate alla decadenza, e con la superficiale e demagogica sedicente democrazia francese». Le pagine scritte da Lunelli costituivano «un’esaltazione frenetica del Duce» che riassumeva «in sé le virtù, la grandezza, il genio della stirpe». La Corte smentì decisamente le sue dichiarazioni di contrarietà all’alleanza con la Germania.

Non è accettabile – secondo lo storico Lorenzo Gardumi – l’assunto che il Lunelli abbia ritenuto essere l’alleanza con la Germania dannosa e pericolosa per l’Italia. Il predetto libro Pagine della nostra fede è tutto un inno alla civiltà tedesca, al nazional-socialismo, ad Hitler, un’esaltazione dell’alleanza tra le due nazioni che fianco a fianco raggiungeranno le loro mete. Ed è perciò che il libro fu tradotto in tedesco dal noto scrittore Alfred Bock e la prefazione doveva essere fatta da von Mackensen (August von Mackensen – Leipnitz, 6 dicembre 1849-Burghorn, 8 novembre 1945, Feldmaresciallo dell’esercito tedesco).

August von Mackensen in tenuta da ussaro della morte in una fotografia del 1915.

August von Mackensen in tenuta da ussaro della morte in una fotografia del 1915.

Deriva dal motivato che “il Lunelli ha contribuito fino all’ultimo a tenere in vigore il regime fascista. E lo ha fatto con atti rilevanti. E più che mai fu atto rilevante il predetto libro Pagine della nostra fede […]. Le stesse gerarchie lo ritennero rilevante se fu edito dal Partito e per esso dalla scuola di mistica fascista”.

La CAS di Trento condannò Lunelli a 12 anni di reclusione, ridotti a dieci per la concessione delle attenuanti generiche in virtù della «buona fede» dell’imputato. Lo assolse dalle restanti imputazioni per non aver commesso il fatto e per insufficienza di prove.

La Corte trentina dimostrava di non comprendere fino in fondo le reali responsabilità degli ex fascisti. Lunelli non si era macchiato di gravi crimini, non aveva guidato rastrellamenti, non aveva seviziato né torturato partigiani, non aveva collaborato con l’invasore tedesco. Forse non aveva neppure guidato i giovani fascisti alla devastazione degli oratori.

Durante le grandi manovre del 1935: Mussolini e gerarchi fascisti a Cles

Durante le grandi manovre del 1935: Mussolini e gerarchi fascisti a Cles

Nonostante questo, Lunelli non solo si era avvantaggiato della posizione ricoperta nel Partito fascista, ma ne aveva propagandato la dottrina, il mito del duce e sostenuto pubblicamente l’alleanza con la Germania di Hitler. Era stato uno dei protagonisti della politica del Ventennio in provincia e a Roma.

Le distruzioni, le atrocità, le macerie materiali e morali prodotte dalla guerra e dalla dittatura rappresentavano il risultato diretto dell’attività esaltata e frenetica di figure politiche come quella di Lunelli. Erano personaggi come lui che dovevano essere giudicati, puniti severamente e allontanati al più presto da quella società che, a detta degli esponenti antifascisti, andava ricostruita e «rieducata» al più presto possibile. Il 30 ottobre 1946, la Corte di cassazione di Roma dichiarò estinto il reato in virtù del DP d’amnistia del 22 giugno 1946. Lunelli non scontò alcuna pena rientrando impunito nella società.

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Nell’ambito di questo fascismo per così dire «intellettuale», la Sezione speciale della CAO di Trento giudicò anche Carlo Piaget (Milano, 27 novembre 1905. Residente a Trento, commerciante). L’ex vice segretario del fascio di Trento, già direttore del giornale Credere, obbedire, combattere, comparve sul banco degli imputati in virtù dell’art. 3 DLL 27 luglio 1944, n. 159, per avere «contribuito con atti rilevanti a mantenere in vigore il regime».

Dell’intero procedimento a suo carico è rimasta solo la sentenza, emessa nel luglio 1946. Tuttavia, il fascicolo contiene una dichiarazione sottoscritta dal tenente colonnello De Finis. L’ufficiale dei carabinieri intervenne a favore dell’imputato dichiarando che, pur avendo diretto il giornale propagandistico fascista, dopo l’8 settembre non si era occupato in alcuna maniera di questioni politiche e aveva rifiutato l’offerta, fattagli dal prefetto Foschi, di riprendere un posto di direzione politica. Anche in questo caso, essendo intervenuta l’amnistia del giugno precedente, la Sezione speciale dichiarò estinto il reato.

“Attività di ribelli”: lettera del tenente colonnello dei Carabinieri Michele de Finis al Comandante della Gendarmeria, all’Ufficio Leva e al Capo della Provincia. Scrive de Finis: “Per notizia, comunicasi che il 30 settembre scorso, i giovani delle classi 1922 e 1923 del comune di Casteltesino non si sono presentati a visita presso quell’Ufficio Leva, poiché, a quanto consta, le relative cartoline precetto, in numero di 30, sono state ritirate a suo tempo dai ribelli presso l’Ufficio Postale di quel comune

“Attività di ribelli”: lettera del tenente colonnello dei Carabinieri Michele de Finis al Comandante della Gendarmeria, all’Ufficio Leva e al Capo della Provincia. Scrive de Finis: “Per notizia, comunicasi che il 30 settembre scorso, i giovani delle classi 1922 e 1923 del comune di Casteltesino non si sono presentati a visita presso quell’Ufficio Leva, poiché, a quanto consta, le relative cartoline precetto, in numero di 30, sono state ritirate a suo tempo dai ribelli presso l’Ufficio Postale di quel comune

Nessuno dei principali esponenti del fascismo trentino fu condannato a qualche pena detentiva. Anzi alcuni, come Ettore Tolomei, non furono nemmeno chiamati a rispondere della loro attività politico-ideologica. La maggior parte dei procedimenti fu archiviata ancora in corso d’istruttoria. Il decreto d’amnistia promulgato nel giugno 1946 fu applicato retroattivamente e giunse a comprendere i processi a carico dei «detenuti in attesa di giudizio». Guido Larcher, nell’agosto 1946, fu giudicato per avere «nella sua qualità di squadrista, di ufficiale della MVSN e di senatore del Regno, mediante propaganda, soprusi e atti di violenza, contribuito a mantenere in vigore il regime fascista».

A sua difesa, l’ex gerarca dichiarò di non aver svolto alcuna attività politica all’indomani dell’8 settembre 1943, disinteressandosi del PFR e rifiutandosi di collaborare con l’invasore tedesco. Nel corso dell’istruttoria, numerosi testimoni affermarono di averlo visto durante alcune delle principali azioni squadristiche condotte nella periferia della provincia, a Cembra, nel 1924, e a Lavarone, nel febbraio 1926. L’applicazione del decreto d’amnistia giunse a salvare l’imputato da qualsiasi condanna.

Ettore Tolomei

Ettore Tolomei

Su Ettore Tolomei vanno aggiunte alcune note biografiche.  Nato a Rovereto il 16 agosto 1865 e morto a Roma il  25 maggio 1952, fu giornalista, politico e senatore del Regno d’Italia. Nel 1906, fondò la rivista Archivio per l’Alto Adige, pubblicazione diretta a dimostrare l’italianità della  regione  e dunque la necessità di porre il confine al Brennero. Irredentista radicale, comprese anche l’importanza strategica dell’Alto Adige e l’opportunità di avanzare il confine italiano fino allo spartiacque alpino.

La pubblicazione, che alla zona dava il nome del dipartimento napoleonico di cui all’inizio dell’Ottocento faceva parte Bolzano, fu subito sequestrata. Sempre nel 1906 cominciò la stesura del Prontuario dei nomi locali dell’Alto Adige, pubblicato nel 1916. La toponomastica italiana dell’Alto Adige non fu quindi il prodotto della politica fascista, ma il fascismo s’incaricò di realizzare il programma tolomeiano.

La carta geografica di Tolomei che fissa i confini dell’Italia al Brennero

La carta geografica di Tolomei che fissa i confini dell’Italia al Brennero

Fervente interventista, nel 1915 si arruolò nell’esercito italiano. Nel 1918, s’insediò a Bolzano dove gli fu affidato il Commissariato alla lingua e alla cultura per l’Alto Adige. Il 15 luglio 1923 rese pubblico il suo programma di assimilazione e italianizzazione del territorio già tirolese con la rieducazione politica-culturale degli abitanti di lingua tedesca (Programma di Tolomei). Da questo punto di vista, può essere considerato come l’ideologo del fascismo in Trentino-Alto Adige.

Nel 1923, fu nominato senatore per i suoi meriti culturali e patriottici. Durante la seconda guerra mondiale si ritirò dalla politica, ma, arrestato dai tedeschi, fu deportato prima a Dachau e poi in Turingia da dove ritornò a guerra finita. Si spense a Roma il 25 maggio 1952.

Al centro, Tolomei, nel corso di una sfilata fascista

Al centro, Tolomei, nel corso di una sfilata fascista

Se le «alte sfere» intellettuali e politiche del fascismo trentino riuscirono a superare indenni i procedimenti giudiziari, anche gli esecutori materiali delle azioni squadristiche realizzate durante il Ventennio furono in grado di evitare la sanzione penale della «giustizia antifascista».

Responsabili di violenze e devastazioni avvenute nel corso della dittatura come Leonida Scanagatta, Mario Verdiani o Leopoldo Libardoni furono tutti graziati in virtù dell’amnistia del giugno 1946. Il giudizio riguardante i crimini e le violenze compiute da squadristi nel periodo compreso tra il 1922 e il 1943 era passato alla competenza di corti d’assise e tribunali ordinari fin dal febbraio 1946, al momento della soppressione dell’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo.

L'arrivo a Trento, in piazza Dante, dei fascisti convenuti per il loro primo congresso, l'8 ottobre 1921

L’arrivo a Trento, in piazza Dante, dei fascisti convenuti per il loro primo congresso, l’8 ottobre 1921

Con la RSI e la guerra civile l’uso della violenza raggiunse l’apice. Essa di fatto rappresentò, all’interno dei confini della Repubblica sociale e non solo, «la norma per il controllo dell’ordine pubblico e per le diverse forze di polizia incaricate di tutelarlo»286. Il ricorso a pratiche violente, brutali e umilianti era stato tuttavia usuale nel corso dell’intera dittatura.

«La violenza», secondo Massimiliano Griner, fu «profondamente intrinseca al fascismo delle origini», talmente connaturata all’ideologia da diventarne la caratteristica essenziale, la sua ‹quintessenza”. Non colpì unica ente i militanti dei partiti d’opposizione, ma coinvolse anche singoli cittadini”.

Dopo aver "marciato" su Bolzano provocando i noti fatti dell'ottobre del 1922, i fascisti sfilano per le vie di Trento nel tentativo di intimidire la popolazione e di farsi credere più forti

Dopo aver “marciato” su Bolzano provocando i noti fatti dell’ottobre del 1922, i fascisti sfilano per le vie di Trento nel tentativo di intimidire la popolazione e di farsi credere più forti

Domenico Azzolini, nell’ottobre 1926, irruppe accompagnato da una «squadra fascista armata» nel negozio di Mario Fontanari costringendolo «ad esporre subito la bandiera per il mancato attentato a Benito Mussolini compiendo il fatto, quindi, per motivi fascisti e valendosi della situazione politica creata dal fascismo». Sempre a Trento, nell’ottobre 1940, Renato Gozzaldi, capogruppo rionale del fascio, costrinse Livio Somadossi a inghiottire olio di ricino. La brutale azione delle squadracce fasciste non riguardò solo i principali centri urbani della provincia, ma s’irradiò nelle zone periferiche.

A Taio, il 7 ottobre 1923, Enrico Emer aggredì per «motivi fascisti» Luigi Bergamo colpendolo alla testa con un manganello. Qualche mese dopo, nel maggio 1924, assieme ad Achille Bosetti e Augusto Barbacovi, costrinse Augusto Inama con minacce e violenze a recarsi dal segretario politico del fascio di Taio a «bere l’olio di ricino».

Gli antifascisti all'opera nell'ex piazza del Littorio, che viene ribattezzata col nome di Giacomo Matteotti

Gli antifascisti all’opera nell’ex piazza del Littorio, che viene ribattezzata col nome di Giacomo Matteotti

Nel luglio 1946, il Tribunale di Trento giudicò ben dieci persone. Antonio Colomba, Severino Viviani, Leone Valentini, Bruno Marchiori, Ferruccio Salvaterra, Luigi Osele, Giuseppe Dell’Orsola, Giovanni Zaffutto e Vittorio Anzelini erano tutti imputati per reati di natura politica compiuti sotto il regime. Il gruppo di fascisti, guidato dal segretario politico di Tione, Carlo Armani, si rese responsabile di numerosi soprusi, violenze e minacce d’invio al confino.

Gran parte degli episodi contestati furono seguiti da pesanti somministrazioni di olio di ricino a danno di alcuni cittadini di Villa Rendena in un arco di tempo compreso tra il maggio 1926 e il luglio 1937305. Una parte delle denunce a carico di questi ex fascisti era giunta ad Ivo Monauni ancora nell’agosto 1945.

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L’esponente azionista non aveva perso tempo e aveva trasmesso la documentazione alla commissione giustizia di Trento affinché procedesse immediatamente«c ontro questi Signori che oggi ostentano grande disprezzo per la giustizia antifascista».

  • Leonida Scanagatta. Rovereto, 1899-1980. Industriale. Volontario nella prima guerra mondiale, aderì al fascismo partecipando a numerose azioni squadristiche, nell’ottobre 1922 a Bolzano e a Verona. Probabilmente, tra il 1924 e il 1926, quale segretario del fascio di Rovereto organizzò spedizioni squadristiche a Rovereto, Nomi e Vallunga. Nominato amministratore nel Comune di Rovereto (1925-1930), nel corso degli anni trenta non occupò significative cariche di partito, ma continuò a ricoprire incarichi amministrativi in numerosi enti, sia a livello locale che provinciale. Allo scoppio del secondo conflitto, fu richiamato nell’esercito come ufficiale degli alpini partecipando alle operazioni sul fronte greco-albanese e orientale (1940-1943). Dopo l’armistizio del settembre 1943, aderì alla RSI prestando servizio nel Battaglione alpini Bassano prima a Novara e poi in Germania per l’addestramento. Le sue condizioni di salute lo tennero lontano dai combattimenti. Ricoverato all’ospedale militare di Torino nel luglio 1944, ottenne un lungo periodo di inabilità completa. Nell’immediato dopoguerra la Sezione istruttoria della CAO di Trento, nel luglio 1946, dichiarò di non doversi procedere in quanto i reati a lui ascritti erano estinti per amnistia.
  • Mario Verdiani. Imputato «per avere in Trento ai primi di aprile 1924 promosso e organizzato la spedizione fascista contro la sede del giornale Il Nuovo trentino, compiendo devastazioni», la Sezione istruttoria, nel luglio 1946, giudicò di non doversi procedere in quanto il reato era estinto per amnistia.
  • Leopoldo Libardoni. Levico, 26 maggio 1897. Imputato «per essersi nel 1926 e 1927, in Trento, e avvalendosi della situazione politica creata dal fascismo, insinuato nelle fila del partito comunista denunziando poi alcune persone che svolgevano attività contraria al partito fascista, provocandone il loro arresto e il conseguente loro deferimento al Tribunale speciale […] per la difesa dello Stato». La Sezione istruttoria della CAO di Trento, sempre nel luglio 1946, giudicò estinto il reato.
  • Domenico Azzolini. S. Margherita di Ala, 30 ottobre 1885. Residente a Trento.
  • Renato Gozzaldi. Cortina d’Ampezzo, 7 ottobre 1904. Condannato a sei mesi di reclusione, il Tribunale penale di Trento ordinò la sospensione condizionale della pena per il termine di cinque anni.
  • Enrico Emer. Taio, 14 agosto 1889. Contadino.
  • Achille Bosetti. Taio, 7 agosto 1887. Mediatore.
  • Antonio Colomba. Castellamare Golfo, 6 settembre 1904. Residente in provincia di Varese, già segretario comunale di Villa Rendena.
  • Severino Viviani. Verdasina, 23 maggio 1898. Ex direttore della Famiglia cooperativa e segretario politico del fascio di Villa Rendena.
  • Bruno Marchiori. Saone, 20 maggio 1905. Insegnante, già ispettore fascista di zona.
  • Luigi Osele. Trento, 20 agosto 1910. Ragioniere.
  • Giuseppe Dell’Orsola. Pergine, 30 maggio 1907. Insegnante.
Davanti al palazzo della Provincia, i fascisti trentini posano per la foto-ricordo in occasione della venuta di Starace a Trento

Davanti al palazzo della Provincia, i fascisti trentini posano per la foto-ricordo in occasione della venuta di Starace a Trento

Le prove della colpevolezza dei fascisti di Tione vennero dalle testimonianze di alcuni giovani colpiti dalla violenza squadristica. Nell’agosto 1945, Ferdinando Gallazzini era appena rientrato a Villa Rendena, reduce dalla guerra di liberazione combattuta con gli eserciti alleati. La lettera di Ferdinando era l’ennesima e amara constatazione dell’inefficienza e del fallimento degli organismi giudiziari incaricati di perseguire i delitti fascisti. La speranza di «trovare tutto regolato» con la condanna definitiva di coloro che gli «avevano fatto danno per essere antifascista» rimase delusa.

I fascisti che lo avevano perseguitato erano ancora ai loro posti così come il segretario politico Viviani che, «dopo due giorni di prigione», era stato «scarcerato». Le vicende raccontate nella sua dichiarazione risalivano alla sera del primo maggio 1937 quando, assieme ad alcuni compaesani, Ferdinando aveva imprudentemente celebrato la ricorrenza della festa del lavoro. Pochi giorni dopo, una spedizione punitiva organizzata dal gruppo di fascisti di Tione, «sotto la minaccia di rivoltelle e manganelli», fermò tre dei quattro giovani colpevoli. Condotti al Municipio di Villa Rendena, furono costretti con la forza a ingurgitare «un quarto di litro di olio di ricino».

Villa Rendena

Villa Rendena

Temendo il peggio, Ferdinando già nei giorni precedenti si era allontanato dal paese ma fu costretto a rientrare «per evitare noie ai […] familiari». Subì così la stessa sorte dei suoi compagni. A distanza di qualche settimana, il 25 maggio, tutti e quattro furono arrestati dai carabinieri di Tione e incarcerati per «66 giorni». Denunciati alla Commissione per il confino e condotti a Trento, nell’agosto 1937 furono condannati «a due anni di ammonizione, sotto la continua severa sorveglianza e interdizione dai diritti civili».

La commissione, presieduta dal prefetto Francesco Felice, era composta dal questore Alessandro Feliciangeli, dal procuratore Lucio Emilio Mucci, dal console della MVSN Mario Gidoni e dal comandante dei carabinieri Michele De Finis. Due anni di ammonizione rispetto ad una condanna al confino o ad una lunga detenzione in carcere potrebbero sembrare una pena tutto sommato «esigua» e «mite».

I fascisti in piazza Dante

I fascisti in piazza Dante a Trento

Tuttavia, se si pensa al «reato» di cui si erano macchiati i quattro giovani rendenesi, essa era assolutamente sproporzionata. Le conseguenze furono immediate non solo per quello che riguardava la vita quotidiana dei giovani condannati, ma anche per le ricadute che provocava all’interno delle loro famiglie. L’azione repressiva fascista, diretta a sedare sul nascere qualsiasi comportamento contrario e antagonista, magari solo goliardico, non si preoccupava certo dei drammatici riflessi che la punizione inferta produceva.

“Certo codesta Commissione [di giustizia] saprà il tormento di tale condanna, non potersi mai  muovere dal paese senza recarci in Municipio onde ottenere il permesso, perfino di recarsi a dieci minuti dal paese ed essere oggetto di scherno e derisione da tutte le autorità fasciste; senza poter mai chiedere qualunque cosa senza sentirsi ripetere che eravamo condannati politici, come se fossimo stati peggio dei più perversi delinquenti.

Immagini finalizzate a dimostrare il rinnovato consenso, nell'esercito e nell'opinione pubblica italiana, a Mussolini e all'alleanza con la Germania. Nello stesso giorno di quest'edizione (15 settembre 1943) il duce, appena liberato e trasportato a Monaco, proclama un nuovo governo fascista. Nelle didascalie si legge: "Non si è giunti al risultato che avrebbe voluto un governo traditore. Reggimenti fascisti marciano fianco a fianco coi loro camerati tedeschi, per dare il loro contributo alla vittoria finale ... italiani nel Reich uniti sotto le bandiere del governo nazionale fascista" (Völkischer Beobachter, 15 settembre 1943)

Immagini finalizzate a dimostrare il rinnovato consenso, nell’esercito e nell’opinione pubblica italiana, a Mussolini e all’alleanza con la Germania. Nello stesso giorno di quest’edizione (15 settembre 1943) il duce, appena liberato e trasportato a Monaco, proclama un nuovo governo fascista. Nelle didascalie si legge: “Non si è giunti al risultato che avrebbe voluto un governo traditore. Reggimenti fascisti marciano fianco a fianco coi loro camerati tedeschi, per dare il loro contributo alla vittoria finale … italiani nel Reich uniti sotto le bandiere del governo nazionale fascista” (Völkischer Beobachter, 15 settembre 1943)

Anzi la mia mamma venne chiamata in Municipio e venne minacciata di essere internata, perché si era fatta sentire a dire che avevano agito da furfanti […]. La mamma mia, già sofferente di cuore, per le minacce e per il dolore di vederci in prigione, e poi nel vedere che io ero segnato a dito quale un furfante, dopo [poco] tempo morì; si può dire quasi dal dolore”.

  • Ferdinando Gallazzini. Villa Rendena, 27 giugno 1910. Chiamato alle armi nel 1942, fu fatto prigioniero in Sicilia ed inviato in un campo di concentramento algerino. Una volta liberato, era stato aggregato alle truppe angloamericane con cui aveva risalito la penisola terminando il servizio militare a Livorno.

Nell’estate del 1938, Ferdinando, assieme ad altri due compagni, fu condannato ad altri tre mesi e 18 giorni perché «contravventori all’ordinanza di ammonizione e nuovamente imprigionati». Tornato dal conflitto, il giovane trovò quindi i persecutori di una volta «ai loro posti, anzi forse essendosi arricchiti in tempo di guerra, mentre noi passavamo gli anni nel dolore e nell’umiliazione».

La visibilità dei fascisti rimasti impuniti rappresentava la principale fonte di risentimento per gli ex perseguitati dal fascismo. Per di più, all’ingiustizia delle umiliazioni e delle sofferenze subite sotto il regime si sommava probabilmente un altro aspetto, meno evidente ma non meno importante. La constatazione cioè che quei fascisti che avevano imperversato impunemente a Villa Rendena durante la dittatura erano gli stessi che, imboscati nel corso del conflitto, erano riusciti a trarne addirittura profitto.

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Tra le righe della lettera scritta da Ferdinando, è possibile percepire una sete di giustizia che andava oltre la «semplice» resa dei conti politica. Forse i giovani, reduci dal secondo conflitto mondiale, desideravano che gli ex gerarchi del paese pagassero anche per quella guerra che avevano esaltato e propagandato, ma alla quale avevano solo assistito come spettatori. L’inefficace punizione dei soprusi fascisti rappresentava senza dubbio un elemento di malcontento reale.

Sebbene le «bastonature» e la «somministrazione di olio di ricino» avessero rappresentato forme di violenza usuali, quasi normali, durante la dittatura, le modalità di prevaricazione e gli abusi assunsero occasionalmente tratti più ambigui.

Il "covo" degli Arditi nella prima sede del fascio a Trento. Per ora sulla parete c'è solo il ritratto del re

Il “covo” degli Arditi nella prima sede del fascio a Trento. Per ora sulla parete c’è solo il ritratto del re

Il fascismo che dilagò e s’instaurò nella periferia era fatto di minacce, pressioni costanti dallo stile spesso malavitoso che nascondevano magari contese di natura economica e sociale. Perdere un’attività o un posto di lavoro era un evento molto frequente. Luigi Valentini, nel giugno 1945, descrisse i soprusi sofferti.

Nel 1921, per essersi «esternato in espressioni contrarie» al fascio di Fucine in val di Sole fu obbligato ad abbandonare il posto di direttore della Famiglia cooperativa locale. I veri motivi che lo spinsero a licenziarsi andavano ricondotti alle pressioni esercitate dai «fascisti negozianti di alimentari circonvicini» che probabilmente non gradivano la sua presenza come dirigente e sfruttarono la situazione prodotta dal fascismo per eliminarlo. L’«ostinazione» di Luigi gli costò molto cara.

Tione

Tione

Nel 1922, quale segretario comunale di Villa Rendena, si rifiutò di esporre il vessillo nazionale in occasione dell’anniversario della marcia su Roma e fu denunciato alla Pretura di Tione. L’anno successivo, nell’agosto 1923, durante una festa a Vigo Rendena, intonò e suonò, accompagnato da numerosi giovani del paese, Bandiera rossa e l’Internazionale. Subito giunsero i «componenti della sezione fascista di Tione […] con camions, armati di manganelli ed olio di ricino».

Luigi e gli altri furono condannati dal pretore di Tione ad una pena pecuniaria solo «per eccesso di ebbrietà». Più passavano i mesi e più il fascismo anche in zona si rafforzava e così, nel novembre 1923, «in seguito alle ripetute pressioni fasciste», Luigi dovette lasciare l’incarico di segretario comunale. Ritrovatosi senza lavoro e continuamente minacciato, decise di emigrare in Argentina dove ebbe inizio una vera e propria iniziazione politica.

José Francisco Uriburu

José Francisco Uriburu

“Se colà soffersi nei primi tempi fisicamente e moralmente vissi soddisfattissimo poiché ovunque mi trovai […] ho potuto leggere e pensare liberamente ed attuare implacabilmente una propaganda antifascista senza limiti in ogni settore, specialmente tra elementi italiani. Nel 1930 sono stato uno dei promotori dell’Alleanza antifascista italiana in Argentina […]. Nel 1931, nel tempo della rivoluzione e della dittatura del generale Uriburu […] mi affigliai al partito comunista argentino”.

  • José Francisco Uriburu (Salta, 1868-Parigi, 1932). Generale e uomo politico argentino. Il 6 settembre 1930 capeggiò l’insurrezione militare e popolare che, con l’appoggio parziale degli studenti, depose il presidente Irigoyen, radicale, e assunse la presidenza del governo de facto. Sciolse il congresso e dichiarò lo stato d’assedio. Tentò di risolvere il grave deficit finanziario del paese, ma vide scemare l’appoggio popolare sia per i numerosi arresti, sia soprattutto per i progetti di riforma costituzionale, che destarono anche l’opposizione dell’esercito. Cedette i poteri nel febbraio 1932.

Venire a contatto con lavoratori politicizzati e con le rispettive rappresentanze politiche e sindacali avviava un processo di educazione e di presa di coscienza «politico-ideologica» di se stessi e del contesto sociale d’origine.

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Secondo Fabrizio Rasera, vicende come quella di Luigi Valentini costituiscono ancora adesso «un […] capitolo da scrivere […] che ha per protagonisti gli emigranti, gli esuli, i fuoriusciti. Emigrazione per lavoro ed emigrazione politica sono ovviamente due fenomeni distinti, ma non privi di relazione».

Nel caso rendenese, si può dire che l’emigrazione rappresentò la via d’uscita obbligata dalle persecuzioni fasciste. Trasferirsi in altri Paesi, soprattutto se democratici, spesso rappresentava un pericolo per il regime. Rientrato in Italia, Luigi fu costantemente sorvegliato dalle autorità di pubblica sicurezza e più volte minacciato da esponenti fascisti. Un primo sfogo liberatorio si ebbe nei momenti successivi alla caduta del regime.

13 maggio 1945 - zona di Bolzano - V armata. Al centro internati di Bolzano, organizzato dal Comitato di Liberazione italiano, questo italiano legge per la prima volta dopo un anno un giornale libero, mentre attende di essere riportato a casa

13 maggio 1945 – zona di Bolzano – V armata. Al centro internati di Bolzano, organizzato dal Comitato di Liberazione italiano, questo italiano legge per la prima volta dopo un anno un giornale libero, mentre attende di essere riportato a casa

Il 27 luglio 1943, assieme ad altri giovani di Villa Rendena, Luigi distrusse «le iscrizioni murali, i simboli e gli stemmi del fascismo lungo la strada principale del paese nonostante le minacce dei fascisti locali secondo cui il regime sarebbe ritornato più forte di prima».

Alla fine della guerra, coloro che avevano sofferto a causa della dittatura attendevano giustizia. Invece, nessuno dei responsabili di queste vicende fu condannato per i crimini commessi prima della guerra e tutti furono amnistiati in virtù del condono concesso nel giugno 1946.

Il 31 ottobre 1922, dopo la marcia su Roma, viene annunciata la composizione del primo governo Mussolini

Il 31 ottobre 1922, dopo la marcia su Roma, viene annunciata la composizione del primo governo Mussolini

Quest’ultimo, infatti, estinse «tutti i crimini legati al regime fascista a partire dagli organizzatori delle squadre fasciste, passando per i delitti e le devastazioni commesse dagli squadristi». Tornarono in libertà anche i promotori della marcia su Roma del 28 ottobre 1922 e del colpo di Stato del 3 gennaio 1925 nonché coloro che avevano compiuto delitti in nome del fascismo e nel contesto della situazione creata dalla dittatura.

Il ricorso alla violenza, del resto, non era stata una prerogativa dei soli fascisti, ma aveva trovato solerti esecutori negli stessi rappresentanti delle forze dell’ordine. Nel corso del Ventennio, le forze di polizia non «avevano risparmiato sistemi violenti per estorcere informazioni o infliggere punizioni ai prigionieri politici». D’altra parte, non era un mistero che il regime e Mussolini avessero incontrato «forti simpatie all’interno degli apparati dello Stato e […] in quelli addetti alla repressione». Il ricorso a pratiche violente si rivelò drammaticamente evidente, anche in Trentino.

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Ricordo di Mario Springa a Nomi

Il 22 maggio 1937, il cadavere del giovane comunista Mario Springa (Nomi, 2 giugno 1909-Trento, 22 maggio 1937) fu ritrovato in una cella della questura di Trento «impiccato con una striscia della camicia ad una sbarra dell’inferriata […] sopra la porta della camera di sicurezza». Sul corpo, il medico legale trovò traccia di «circa 30 fra lesioni ed escoriazioni» alla testa, alle tempie, alle labbra e al collo provocate da un corpo contundente. Inoltre, la salma presentava alcune bruciature «a mezzo oggetto […] incandescente». Tutte le abrasioni «erano state prodotte ante mortem».

Catturato in seguito ad una retata disposta dalla questura di Trento, tra l’aprile e il maggio 1937, Mario era stato interrogato la sera prima del decesso dal commissario di PS Cesare Fassari e dagli agenti Ettore Marchetti e Guido Basso. Nel giugno 1937, l’autorità giudiziaria chiuse il caso archiviandolo come un semplice suicidio. Caduto il fascismo e terminata la guerra, parenti, amici e conoscenti di Mario richiesero alla commissione giustizia di Trento la riapertura delle indagini affinché si facesse chiarezza su una morte che aveva tutte le caratteristiche dell’assassinio politico.

Nomi, lavoro teatrale sulla morte di Springa

Nomi, lavoro teatrale sulla morte di Springa

A distanza di quasi dieci anni, nell’aprile 1947, la Sezione istruttoria della CAO di Trento riaprì il fascicolo Springa. Furono sentiti nuovamente i medici periti e furono acquisiti i materiali fotografici dal «servizio segnaletico della questura».

Pur tra contraddizioni, elementi dubbi, inesattezze che esclusero comunque l’ipotesi del suicidio, l’istruttoria dimostrò che Mario era «stato colpito prima di essere trascinato nella camera di sicurezza e che per simulare il suicidio [era] stato impiccato da terzi». In base ai risultati dell’inchiesta, si concluse che Mario, quando entrò nella sua cella «per l’ultima volta», era «vivo, ma ferito, esangue ed impossibilitato fisicamente e volitivamente a compiere atti di preparazione ad un suicidio».

Ricostruzione teatrale della morte di Springa

Ricostruzione teatrale della morte di Springa

Tuttavia, l’autorità giudiziaria stabilì che né Basso né Marchetti avevano alcuna responsabilità oggettiva nel pestaggio e ipotizzò che i dirigenti della questura si fossero avvalsi di «elementi che l’istruttoria non [aveva] potuto identificare». Tutti gli indizi portavano a ritenere gli eventi di «quella notte» come il risultato di un «preordinato disegno».

In preda al panico, i funzionari si adoperarono subito per insabbiare la cosa trasformando l’omicidio in suicidio. Il questore Feliciangeli e Fassari stilarono «un rapporto falso al PM [pubblico ministero]», ostacolarono «la consegna degli indumenti ai familiari perché gli indumenti» parlavano «di sevizie». «Troppi  ostacoli», «troppe mancanze», «troppe amnesie» e «reticenze» avevano contraddistinto l’omicidio Springa.

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Soprattutto, il «lungo lasso di tempo […] trascorso» impedì di individuare i colpevoli. La conseguenza era inevitabile. La Sezione istruttoria, il 9 aprile 1947, dichiarò di non doversi procedere contro Marchetti e Basso per non aver commesso il fatto, contro Fassari per insufficienza di prove. Nel marzo 1948, la Cassazione intervenne scagionando Fassari da qualsiasi accusa per non aver commesso il fatto. Se Mario era stato ucciso, era altrettanto certo che i suoi assassini erano rimasti impuniti.

La mancata punizione dei responsabili di crimini compiuti durante la dittatura e in nome del regime permise a certi elementi di continuare la loro attività politica. In questo furono favoriti anche dal fatto che, alla fine del 1946, nacque una formazione politica che si rifaceva «esplicitamente» al fascismo e all’esperienza della RSI, il Movimento sociale italiano (MSI).

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A poco più di un anno dalla conclusione del conflitto, la Repubblica italiana e le «nuove istituzioni» democratiche concessero agli ex fascisti di rientrare nella legalità e nella legittimità politica. Molti ex collaborazionisti e fascisti processati nell’immediato dopoguerra poterono così rientrare nell’ambito di un partito politico riconosciuto. La loro attività rimase sotto osservazione per alcuni anni.

Nell’ottobre 1957, i carabinieri spedirono alla questura di Trento un’informativa relativa a Rizzieri Brunialti. Il soggetto era «politicamente […] iscritto all’MSI» dimostrandosi un «fervente propagandista» anche se «il suo atteggiamento nei confronti dello Stato democratico e dell’orientamento giuridico» non sembrava affatto «pericoloso». Anselmo Brugnoli era solo un simpatizzante dell’MSI.

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Nel 1951, Bruno Mendini, pur non impegnato politicamente, godeva così «ottima reputazione» da essere nominato addirittura presidente dell’Azienda autonoma di soggiorno di S. Martino di Castrozza. Il rientro impunito degli ex fascisti nella società provocò proteste e manifestazioni soprattutto in Vallagarina.

Nel febbraio 1947, una movimentata assemblea della Legione trentina suscitò l’immediata risposta dei partiti antifascisti e dell’ANPI. Nel corso dell’incontro, era emerso che «su quasi 1000 legionari, circa 800 aderirono al fascismo, e rimasero nello stesso anche dopo il delitto Matteotti e dopo l’emanazione delle leggi» che instaurarono la dittatura a partire dal 1925.

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  • Rizzieri Brunialti. Hagen, 24 gennaio 1905, residente a Trento, autista. Arruolatosi nella GNR, nel settembre 1944, si era trasferito in Trentino mettendosi a disposizione come autista della Gestapo e della gendarmeria tedesca facendo da guida nelle operazioni condotte contro partigiani e patrioti. Nel corso del processo a suo carico tenutosi il 12 luglio 1945, la Corte d’assise straordinaria di Trento, pur confermando che l’imputato era stato autista dei tedeschi, stabilì di non aver prove a sufficienza per giudicare la sua reale partecipazione «ad azioni di rastrellamento od a spedizioni punitive contro patrioti».
  • Nonostante l’imputato avesse frequentato abitualmente gli uffici della Gestapo e poliziotti tedeschi e sebbene «in complesso il suo comportamento» giustificasse «il sospetto che fosse una spia al soldo del tedesco, tuttavia, «fatti concreti, integranti il reato di collaborazionismo», non furono provati. Brunialti fu così assolto per insufficienza di prove. Che il soggetto non fosse  dei più raccomandabili, lo confermano i numerosi procedimenti penali a suo carico per furto, favoreggiamento e ricettazione nel secondo dopoguerra.

Legionari trentini accorsero volontari nelle guerre fasciste d’Africa e di Spagna, e parteciparono all’infame aggressione contro la Francia boccheggiante. Numerosi legionari ebbero posizioni prominenti nei quadri del fascismo regionale e nazionale e con esse onori e prebende.

Volontari trentini in Spagna nel 1938

Volontari trentini in Spagna nel 1938

Troviamo fra essi fascisti intransigenti, settari, reazionari, implicati in oleature e manganellature; gerarchi prepotenti e profittatori; squadristi e militi fascisti; propagandisti, scrittori, poeti, pittori esaltanti il nefasto verbo mussoliniano; informatori dell’Ovra; accesi tedescofili; marce su Roma e sciarpe littorio; federali e vicefederali; generali della milizia e senatori; consiglieri nazionali; ed infine – più immondi di tutti, perché recidivi oltre ogni limite umanamente pensabile – ufficiali delle SS, gerarchi e gregari repubblichini.

Nel maggio successivo, una messa in suffragio dei caduti della RSI spinse l’autorità giudiziaria ad emettere «12 denunce a piede libero» per «manifestazione sediziosa» a carico di militanti dell’MSI. La costituzione del partito neofascista suscitò l’immediata reazione di partigiani e organizzazioni sindacali a difesa delle libertà democratiche appena conquistate.

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In realtà, l’attività neofascista si ridusse in Trentino ad atti di vandalismo e a comportamenti provocatori. Nel marzo 1949, alcuni giovani appesero ad un albero sul Doss Trento «un drappo nero a forma di gagliardetto con in mezzo scritto XXIII marzo con ai lati disegnati in bianco due fasci littori». Pochi mesi dopo, Vicenzo R. fu fermato dai carabinieri di Cles per aver indossato il «distintivo del PNF e per aver professato chiaramente […] la sua fede nel partito fascista».

Naturalmente, come ha sottolineato Borghi per il caso trevigiano, si trattava di «episodi marginali tali da non ipotizzare una seria minaccia per le istituzioni». Tuttavia, questi casi estemporanei ponevano ulteriormente in risalto il fallimento della «giustizia antifascista» che non era stata capace di punire gli ex fascisti e di dare soddisfazione a quel desiderio di giustizia presente nella comunità.

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Il risultato più evidente erano l’arroganza e l’impudenza dei sostenitori del regime che non sembravano mostrare segni di ravvedimento sul recente passato. La «giustizia antifascista» aveva mancato il suo scopo di rieducazione morale e civile.

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